Sulla dichiarazione di fallimento omisso medio e su una requisitoria della Procura Generale
di Francesco De Santis, Professore ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Salerno, avvocato
Sommario: 1. La questione all’attenzione delle Sezioni Unite e l’ordinanza di rimessione – 2. La requisitoria della Procura Generale – 3. Ragion pratica… – 4. …e ragioni teoriche.
1. La questione all’attenzione delle Sezioni Unite e l’ordinanza di rimessione
È giunta alle Sezioni Unite della Suprema Corte[1] la seguente questione di massima di particolare importanza: se sia ammissibile (rectius: procedibile) l'istanza (e la successiva eventuale dichiarazione) di fallimento, introdotta ai sensi degli artt. 6 e 7 l. fall. nei confronti di un’impresa che si trova sotto concordato preventivo omologato, a prescindere dell'intervenuta risoluzione del concordato (omisso medio, appunto); e se, nell’affermativa, la dichiarazione di fallimento possa intervenire soltanto in relazione ad un'insolvenza nuova rispetto al momento dell'omologazione del concordato, o possa essere anche riferita all'inadempimento delle obbligazioni discendenti dall'esecuzione del concordato omologato, ed essere pronunziata financo prima dello spirare del termine di decadenza annuale per chiedere la risoluzione del concordato, fissato dall’art. 186, comma 3, l. fall.
Il problema non si poneva nel vigore della legge fallimentare del 1942, in quanto l’originario testo dell’art. 186 stabiliva che, con la sentenza che risolve o annulla il concordato, il tribunale dichiarava d’ufficio il fallimento. L’art. 137 (dettato in tema di concordato fallimentare, ma richiamato anche in tema di concordato preventivo) prevedeva, a sua volta, che la risoluzione non potesse essere comunque pronunziata trascorso un anno dalla scadenza dell’ultimo pagamento stabilito nel concordato.
Sul tema ebbe a pronunziarsi la Consulta, che ritenne infondata la questione di legittimità delle citate disposizioni, nella parte in cui avrebbero precluso al creditore anteriore alla proposta di concordato preventivo (ma non avvisato della proposta concordataria, né inserito nell'elenco dei creditori) di richiedere il fallimento del suo debitore, nel caso d'inadempimento del concordato, ed altresì in mancanza di risoluzione, decorso l'anno dalla scadenza dell'ultimo pagamento indicato nel piano di concordato preventivo omologato. Nell’occasione, la Corte costituzionale ebbe a dire che le norme censurate potevano essere interpretate nel senso che il concordato, anche se non risolto o annullato, non impedisce di attribuire successiva rilevanza, ai fini di cui all'art. 5 l. fall., ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura (cd. debiti anteriori), fermi gli effetti della falcidia concordataria[2].
L’odierna rimessione alle Sezioni Unite non deriva da un contrasto interno al presidio nomofilattico. L’orientamento costante della prima sezione civile della Suprema Corte (che, anzi, sul tema che ci occupa si è il più delle volte pronunziata nella corrispondente sottosezione della sesta sezione civile) è nel senso che non sussistono preclusioni alla dichiarazione di fallimento di imprese sotto concordato preventivo omologato, ove si faccia questione dell'inadempimento di debiti già sussistenti alla data del ricorso per l’ammissione al concordato, ancorché modificati in sede di omologazione, dovendosi soltanto verificare, all'epoca della decisione così sollecitata, la ricorrenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l. fall. In questo caso, la domanda di fallimento proposta dal creditore o dal pubblico ministero costituisce legittimo esercizio dell’autonoma iniziativa riconosciuta dagli artt. 6 e 7 l. fall., la quale non può essere condizionata dal precetto dell’art. 184 (che vincola al patto concordatario i creditori anteriori al ricorso per l’ammissione alla procedura minore), ed opera a prescindere dalla risoluzione del concordato preventivo (che, ai sensi dell’art. 186, non può essere pronunziata se l’inadempimento ha scarsa importanza e se non è decorso un anno dal termine fissato per l’ultimo adempimento). La previa dichiarazione di risoluzione è, invece, richiesta nell’ipotesi in cui l'istante per il fallimento faccia riferimento, ai fini della valutazione dell’insolvenza, non ai crediti nella misura ristrutturata (e dunque falcidiata), ma nella misura originaria[3].
Secondo un parallelo (e sintonico) orientamento della Corte, in sede di insinuazione al passivo, se il fallimento è stato dichiarato quando era ancora possibile la risoluzione del concordato ex art. 186 l. fall., il creditore istante non è tenuto a sopportare gli effetti “esdebitatori” previsti dall’art. 184, posto che l'attuazione del piano è resa impossibile per il sopravvenire del fallimento che, sovrapponendosi al concordato, inevitabilmente lo rende irrealizzabile (cd. principio della risoluzione “implicita” del concordato)[4].
A quanto si legge nell’ordinanza di rimessione (nella quale mi è parso di cogliere, in filigrana, qualche “dubbio” circa la tenuta sistematica dell’indirizzo dominante), le Sezioni Unite sono state investite della questione, da un lato, in relazione alle obiezioni sollevate da una parte dei commentatori[5]; e, dall’altro lato, all’affacciarsi di un orientamento di segno contrario nella giurisprudenza di merito[6].
A dare corpo al dibattito, si è aggiunto di recente l’art. 119, comma 3, del Codice della crisi e dell’insolvenza (CCII), il quale prevede che il ricorso per la risoluzione del concordato preventivo possa essere proposto, oltre che dai creditori, anche dal commissario giudiziale, e, nel comma 7 (introdotto dal d.lgs. “correttivo” 26 ottobre 2020, n. 147), che “il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”.
Su queste basi la questione è stata portata all’esame delle Sezioni Unite all’udienza del 7 dicembre 2021, in vista della quale la Procura Generale – con una requisitoria scritta (versata agli atti del giudizio sub specie di “memoria ex art. 378 c.p.c.”), fluida nella prosa e raffinata nei contenuti – ha chiesto al formante nomofilattico di confermare l’orientamento dominante, affermando che la mancata o intempestiva richiesta di risoluzione del concordato preventivo non impedisce che i soggetti legittimati ai sensi degli artt. 6 e 7 l.fall. possano chiedere che il debitore venga dichiarato fallito, se insolvente alle obbligazioni concordatarie assunte; e che, in mancanza di una pronuncia giudiziale di risoluzione, l’inadempimento dell’imprenditore in concordato debba essere ragguagliato, rispetto ai debiti anteriori, non agli importi originari, ma agli importi rivenienti dalla falcidia concordataria.
Piace a chi scrive esporre alcune brevi considerazioni sull’argomento, proprio a partire dalla condivisibile requisitoria in rassegna.
2. La requisitoria della Procura Generale
I “quesìti” di diritto sottoposti alle Sezioni Unite dall’ordinanza di rimessione appaiono piuttosto compositi, ancorché riconducibili ad una comune e sequenziale matrice interpretativa. Provo a sintetizzarli.
Ad avviso della prima sezione civile, occorre domandarsi: i) se vi è compatibilità e simmetria sistematiche di una soluzione interpretativa che preveda, da un lato, la possibilità della dichiarazione di fallimento, in pendenza di una procedura di concordato preventivo, solo al verificarsi degli eventi di cui agli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall.[7] , ma che, dall'altro lato, consenta la dichiarazione di fallimento senza che analogo effetto impeditivo discenda dall'omologazione del concordato e dall'assenza della previa risoluzione di quest'ultimo, con ciò ammettendo che il fallimento sia dichiarato omisso medio; ii) se l'ammissibilità del fallimento senza la previa risoluzione del concordato omologato rappresenti una sorta di “elusione implicita” dell’art. 186 l. fall., mercé il superamento dei limiti da esso previsti, sia sotto il profilo della legittimazione attiva (ai sensi dell’artt. 186 l. fall., sono solo i creditori che possono agire in risoluzione, mentre, ai sensi degli artt. 6 e 7, possono agire per il fallimento i creditori, il P.M. ed il debitore), e sia sotto quello dei presupposti applicativi (ossia l’inadempimento di non "scarsa importanza" ed il termine di decadenza annuale); iii) se l’ammissione del fallimento omisso medio attenui la portata del vincolo obbligatorio per i creditori, derivante dal concordato omologato alla stregua dell’artt. 184 l. fall.; iv) infine, se sia ammissibile un sistema che preveda la coesistenza di due procedure con due distinte masse, quella concordataria originaria e quella fallimentare successiva, che potrebbe includere anche i beni eventualmente non considerati nella proposta di concordato.
A fronte di tali quesìti, la Procura Generale – premesso che l’art. 119 CCII non offre dirimenti elementi interpretativi ai fini della soluzione della questione, atteso che tra la normativa dell’attuale legge fallimentare ed il codice della crisi non ricorre il necessario “ambito di continuità”, che renderebbe possibile ricavare dalle disposizioni future elementi utili alla esegesi di quelle vigenti[8] – ha offerto alla valutazione delle Sezioni Unite, tra le altre, tre importanti considerazioni di tenore esegetico.
La prima considerazione è che nessuna norma del sistema induce ad escludere che i debiti concordatari inadempiuti possano rappresentare un sintomo rivelatore del fatto che l’imprenditore, pur a seguito di un concordato preventivo omologato, sia divenuto (o sia stato accertato) insolvente nella fase di esecuzione del piano, essendosi in concreto appurato che non è in condizione di far fronte con regolarità (ossia secondo le modalità ed i tempi promessi) ai pagamenti programmati[9].
Ciò spinge a riconoscere – sotto pena di incappare in un’aporìa sistematica – sia la facoltà del debitore (il quale ammetta di non essere in grado di reggere gli obblighi concordatari) di agire in autofallimento, sia il potere-dovere del pubblico ministero di formulare istanza di fallimento ai sensi dell’art. 7 l. fall., la cui negazione sarebbe “irriducibilmente contrastante con gli interessi pubblicistici sottesi agli istituti della legge fallimentare”.
La seconda considerazione proposta dalla Procura Generale – muovendo dal consolidato principio secondo cui la domanda di fallimento non è procedibile fin a quando il tribunale non abbia provveduto sulle domande di soluzione pattizia della crisi contestualmente pendenti – evidenzia che “l’esigenza di provvedere prioritariamente sulla domanda di cui all’art. 161 l. fall. viene meno quando il concordato preventivo sia stato ammesso, approvato e poi omologato”; difatti, “quando il concordato pende ormai in fase esecutiva, l’obiettivo di favorire prioritariamente la soluzione negoziata della crisi del debitore pare inevitabilmente raggiunto”, e pertanto “la necessità del coordinamento simmetrico tra le due procedure non può essere portato alle estreme conseguenze tanto da indurre ad affermare che, pur dinanzi ad un inadempimento delle obbligazioni concordatarie, l’istanza di fallimento è improcedibile quando la risoluzione non è stata richiesta o, comunque, disposta”.
In ultimo, la circostanza che la dichiarazione di fallimento non preceduta dalla risoluzione del concordato preventivo imporrebbe la gestione coordinata di due masse (quella concordataria e quella fallimentare), non costituisce, ad avviso della Procura Generale, “ragione sufficiente per la dichiarazione di fallimento che, oltre ad avere una rilevanza pubblicistica in determinate ipotesi, produce effetti ben più ampi a carico del debitore”[10].
3. Ragion pratica…
A scanso di equivoci, premetto che è mia convinzione che – al palesarsi dell’insolvenza successivamente all’omologazione del concordato preventivo – il fallimento possa essere dichiarato anche omisso medio, su domanda da parte di uno dei soggetti legittimati.
Per cominciare, nessun dubbio pare esservi sul fatto che il fallimento omisso medio possa essere richiesto “in caso di nuova insolvenza, scaturente cioè dall’inadempimento di obbligazioni assunte successivamente al decreto di omologazione e non anche per essere state disattese le obbligazioni discendenti dalla (non) esecuzione del concordato omologato”[11].
La mia opinione (adesiva alla requisitoria della Procura generale) è, però, che il fallimento possa essere dichiarato anche in relazione all’insolvenza causata dall’inadempimento delle obbligazioni concordatarie.
Mi induce a questa convinzione, anzitutto, una ragione di ordine pratico, che è la seguente.
Si è detto che, ai sensi dell’art. 186 l. fall., la risoluzione del concordato preventivo per inadempimento, che non sia di scarsa importanza, può essere chiesta da ciascuno dei creditori concordatari, entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato. L’ultimo comma richiama l’art. 137 (che disciplina la risoluzione del concordato fallimentare e richiama a sua volta l’art. 15, in quanto compatibile), consentendo in tale guisa di radicare il giudizio di risoluzione secondo le regole del giudizio prefallimentare.
Ne deriva che alcun ostacolo processuale si frappone al creditore, il quale presenta domanda di risoluzione del concordato preventivo, di introdurre anche uno actu, ossia in cumulo originario, la domanda di fallimento unitamente a quella di risoluzione[12].
Si ammette, altresì, la possibilità di chiedere la risoluzione del concordato preventivo ante tempus (ossia prima del decorso del termine annuale di cui all’art. 186), sia pure “esclusivamente in quelle situazioni nelle quali emerga con certezza l’impossibilità di soddisfare integralmente i creditori privilegiati non oggetto di legittima falcidia e comunque di riconoscere un livello di soddisfacimento non irrisorio ai creditori chirografari”[13].
Anche in questa ipotesi, dunque, è consentito al creditore che agisce ai sensi degli artt. 186 (e, quoad rationem, 137 e 15) l. fall. di introdurre in cumulo originario la domanda di fallimento.
Stando così le cose, a me sembra incongruo che l’accertamento dell’insolvenza non possa avere riguardo anche all’incapacità di adempiere i debiti concordatari, sia pure considerati nella misura “falcidiata” portata dalla proposta omologata; e che una legittimazione speculare a quella dei creditori (non ad instare per la risoluzione per inadempimento, appartenendo tale diritto processuale – per la contraddizione che non lo consente – al solo creditore, bensì) a chiedere il fallimento possa essere negata al debitore e, soprattutto, al pubblico ministero.
Al primo, perché – meglio e prima ancora dei suoi creditori – potrebbe antivedere l’impossibilità di realizzare il pur omologato piano concordatario e di dare corso, in tutto o in parte, ai pagamenti (ancorché eventualmente falcidiati) alle scadenze pattuite[14]; al secondo, il cui potere-dovere, mosso dall’interesse pubblico, di sottoporre al giudice la valutazione dello stato d’insolvenza (ancorché permanentemente “tarata”, in assenza di risoluzione, sull’ammontare della debitoria falcidiato dalla proposta omologata) e di instare per la conseguente apertura della liquidazione concorsuale, non può essere limitato da logiche interne al rapporto tra debitore e creditori concordatari.
E difatti, volta che sia inutilmente decorso il termine annuale per chiedere la risoluzione, questi ultimi ben potrebbero, sulla base dell’inadempimento, perseguire strategie di recupero individuale del credito per via di esecuzione singolare[15]: se non si riconoscesse la piena reviviscenza della legittimazione di cui agli artt. 6 e 7 l. fall., si correrebbe il rischio – a dispetto dell’interesse pubblico – di sterilizzare sine die la condizione d’insolvenza, istituendo una sorta di “scudo” alla dichiarazione di fallimento[16].
4. …e ragioni teoriche
Ma le ragioni di carattere pratico non sarebbero, di per sé, sufficienti ad ammettere la dichiarazione di fallimento omisso medio, se non in concorso con idonee motivazioni giuridiche.
Motivazioni che, oltre che nei principi già consolidati dagli orientamenti della prima sezione civile della Suprema Corte (e nelle ragioni esposte dalla condivisibile requisitoria della Procura Generale), potrebbero altresì rinvenirsi in considerazioni di tenore processuale.
A tele fine si potrebbe prendere partito dalla previsione dell’art. 181 l. fall. (rimasta finora un po’ “in ombra” nei percorsi della giurisprudenza e nei ragionamenti degli autori), secondo cui la procedura di concordato preventivo “si chiude” con il decreto di omologazione.
Ora, è vero che la chiusura del concordato, che fa seguito alla definitività del decreto o della sentenza di omologazione, pur determinando la cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto, durante il corso della procedura, dall'art. 167, non comporta (salvo che alla data dell'omologazione il concordato sia stato già interamente eseguito) l'acquisizione in capo al debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio, che resta vincolato all'attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il commissario giudiziale, come espressamente stabilito dall'art. 185, è tenuto a sorvegliare l'adempimento, "secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto) di omologazione”[17].
Ma è altresì vero che “una volta pronunciata l'omologazione, non può più parlarsi di pendenza della procedura di concordato preventivo”[18], in quanto il patto concordatario entra nella sua fase esecutiva.
Ciò vuol dire che, processualmente parlando, non vi è alcun contrasto tra la dichiarazione di fallimento omisso medio ed il principio cd. del “coordinamento simmetrico” tra procedura maggiore e procedure minori, comunemente declinato nel senso che, in pendenza di un ricorso per concordato preventivo, ordinario o con riserva, il fallimento del debitore (su istanza del creditore o richiesta del pubblico ministero) può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. (ossia quando la procedura concordataria si chiude con un esito diverso dall’omologazione), non sussistendo una pregiudizialità tecnico-giuridica tra le due procedure, talché la dichiarazione di fallimento non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell'esito negativo del concordato preventivo[19].
E ciò sgombra il campo da un non secondario argomento (enucleato dall’ordinanza di rimessione), che potrebbe frapporsi alla dichiarazione di fallimento omisso medio.
Tale profilo processuale potrebbe essere di ausilio anche al fine di escludere che il fallimento omisso medio sia, in qualche maniera, “elusivo” delle previsioni di cui all’art. 186, ovvero attenui la portata del vincolo obbligatorio stabilito, nei confronti dei creditori anteriori, dell’artt. 184 l. fall.
Convengo certamente con la considerazione che “lo stato di crisi/insolvenza che ha dato luogo alla procedura concordataria viene rimosso dall’effetto esdebitatorio dell’omologazione, da cui deriva il ritorno in bonis dell’impresa”, ma non con la conseguenza (che da ciò si vorrebbe far derivare) per la quale “non basta il pur conclamato inadempimento a concretare un’insolvenza che soltanto la risoluzione del concordato può far rivivere. L’impresa, dunque, non può essere dichiarata fallita se non sulla scorta di una nuova insolvenza generatasi per effetto di obbligazioni contratte successivamente all’omologazione e rimaste inadempiute”[20].
E’ difatti la chiusura del procedimento concordatario, conseguita con la definitività del provvedimento di omologazione, a far sì che “proprio l'obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori, cioè anche pretermessi o successivamente accertati, costituisce in realtà la principale conseguenza della sua omologazione, così integrando una nozione di efficacia che non può che riguardare il proprio credito secondo la nuova misura definita attraverso i meccanismi negoziali e di validazione giudiziale”; ma “tale rideterminazione del credito non implica che l'inadempimento che ciononostante si verifichi alla scadenza concordataria (o al perire della possibilità di risoluzione o per effetto di decisione definitiva di rigetto della risoluzione domandata) faccia venire meno per tali soggetti la qualità di creditori, ridefinita in siffatto modo; la citata Corte cost. n. 106/2004, per vicenda anteriore alla riforma del 2005, ma ad impatto sistematico identico, ha chiarito – rigettando la questione di illegittimità circa la pretesa impossibilità di dichiarare il fallimento a concordato non risolto – che il giudice di merito, ferma l'obbligatorietà della falcidia concordataria sui crediti anteriori, dovrebbe verificare se l'inadempimento di tali crediti, da parte di soggetto qualificabile come imprenditore commerciale, era tale da potersi definire come insolvenza, ai sensi dell’art. 5 l. fall., e trarne le conseguenze di legge in ordine alla legittimità della sentenza dichiarativa di fallimento"[21].
[1] A seguito dell’ordinanza della prima sezione civile della Corte 31 marzo 2021, n. 8919.
[2] Corte cost. 2 aprile 2004, n. 106.
[3] Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632 e Cass. 17 luglio 2017, n. 17703, aventi il medesimo relatore. In senso (a mio avviso solo apparentemente) distonico rispetto a tale orientamento si muove Cass. 22 maggio 2019, n. 13850, secondo la quale i rapporti tra domanda di fallimento e concordato preventivo omologato, in fase di esecuzione dovrebbero essere declinati nel senso della procedibilità dell'istanza di fallimento solo dopo la risoluzione del concordato, “non solo perché la domanda di concordato rappresenta concettualmente un minus rispetto al concordato omologato, ma anche in considerazione del vincolo obbligatorio creato dall’art. 184, comma 1, l. fall. (non a torto descritto come proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all’art. 1372 c.c.), dell'effetto esdebitatorio dell'omologazione (cui consegue il ritorno in bonis del debitore), della specialità della disposizione di cui all'art. 186 (ivi compreso il termine di decadenza annuale) rispetto all’art. 6 l. fall., e (non ultimo) dell'interesse concreto dei creditori alla declaratoria di fallimento nella misura originaria dei crediti, piuttosto che nella misura falcidiata, che finirebbe sostanzialmente per comportare solo un incremento dei costi per l'apertura di un'ulteriore procedura concorsuale”.
[4] Cass. 22 giugno 2020, n. 12085; 17 ottobre 2018, n. 26002.
[5] Cfr., in primis, anche per i richiami alle sintoniche voci autoriali, gli scritti di S. Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in www.ilcaso.it, 6.9.2017; Id., Inadempimento del concordato preventivo: fallimento omisso medio o previa risoluzione? La parola alle Sezioni Unite, ivi, 24.4.2021.
[6] Cfr., tra le pronunzie èdite, Trib. Pistoia, 20 dicembre 2017; Trib. Campobasso, 14 febbraio 2019; Trib. Ancona, 20 giugno 2019.
[7] Orientamento, questo, ormai consolidato nella giurisprudenza a seguito delle note sentenze delle Sezioni Unite 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936.
[8] Il riferimento è al principio dettato da Cass., sez. un., 24 giugno 2020, n. 12476, secondo cui il CCII “è testo in generale non applicabile - per scelta del legislatore - alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 390, comma 1, CCII), e la pretesa di rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”. Con riferimento alla questione che ci occupa, la Procura Generale argomenta che “la disposizione contenuta nel nuovo codice della crisi pare, infatti, per la gran parte “innovativa” come si evince dal fatto che il citato articolo 119, oltre ad attribuire il potere di chiedere la risoluzione, non solo ai creditori, ma anche al Commissario giudiziale (cui spetta di formulare specifica segnalazione al Tribunale), vieta espressamente la dichiarazione di fallimento omisso medio nel caso in cui l’insolvenza sia riconducibile a debiti anteriori”.
[9] E, d’altro canto, soggiunge la Procura Generale, durante la fase di esecuzione del concordato, i creditori anteriori “sono vincolati dai tempi e modi di pagamento previsti dalla proposta, talché non sussiste il potere di agire in via esecutiva fintantoché il credito non sia divenuto esigibile rispetto a tutte le scadenze indicate nella proposta omologata”.
[10] Di più agevole contrasto appare, invero, una tesi “residuale”, sostenuta in dottrina e menzionata anche dall’ordinanza di rimessione, secondo la quale la dichiarazione del fallimento omisso medio produrrebbe l’effetto di far lievitare i costi, duplicando le spese di procedura. A questa tesi la Procura Generale replica seccamente (ed, a mio avviso, condivisibilmente) che “se la dichiarazione di fallimento costituisce l’unica modalità per tutelare le ragioni dei creditori concorsuali, nessun rilievo assume il fatto che essa generi ulteriori costi”.
[11] S. Ambrosini, op. ult. cit., p. 17.
[12] Lo spiega efficacemente M. Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca, 2014, p. 771 ss., ed ivi richiami autoriali e giurisprudenziali.
[13] S. Ambrosini, op. ult. cit., p. 18.
[14] Osserva condivisibilmente Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632, cit., che “non si comprende invero la ratio, già dal lato del debitore, per cui questi, consapevole della impossibilità di adempiere, non potrebbe far accertare la sua strutturale impossibilità di pagare le obbligazioni falcidiate, chiedendo per esse il fallimento in proprio, per insolvenza attuale, piuttosto che entrare in una situazione adempitiva del tutto discrezionale, ove gli si attribuisca la facoltà di dare corso ai pagamenti che intenda attuare e in assenza di conseguenze per quelli che, trascorso il citato anno, non intenda invece più attuare; il che val quanto dire che, tramontata la possibilità di risolvere il concordato non adempiuto, il debitore conseguirebbe una totale esdebitazione da ogni debito concordatizio e non nei limiti di cui all’art. 184 l. fall.”.
[15] Che – come spiega M. Fabiani, op. cit., p. 438 – “non deve essere necessariamente preceduta dalla risoluzione del concordato posto che ben può configurarsi un singolo inadempimento che non travolge il concordato e che, dunque, non legittima la pronunzia di risoluzione”.
[16] Rilievo, quest’ultimo, che mi pare sotteso alla citata pronunzia della Corte cost. n. 106/2004, laddove si osserva che la tesi che nega la possibilità di delibare l’insolvenza con riferimento ai debiti anteriori “è frutto di una interpretazione che privilegia un – rispettabile ma opinabile – profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente “quella” insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all’art. 5 l. fall., ai debiti esistenti al momento dell’apertura della procedura”.
[17] Cass. 10 gennaio 2018, n. 380.
[18] Così Cass. 10 febbraio 2016, n. 2695, con la duplice conseguenza che tutte le questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli creditori o dal debitore, e che attengono all'esecuzione del concordato, danno luogo a controversie che sono sottratte al potere decisionale del giudice delegato e costituiscono materia di un ordinario giudizio di cognizione, da promuoversi, da parte del creditore o di ogni altro interessato, dinanzi al giudice competente; e che l'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto con cui il tribunale, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del giudice delegato reiettivo della domanda di restituzione delle somme accantonate e destinate all'eventuale soddisfacimento dei crediti in contestazione, trattandosi di atto giudiziale esecutivo di funzioni di mera sorveglianza e controllo, privo dei connotati della decisorietà e della definitività (in quest’ultimo senso v. anche Cass. 14 giugno 2016, n. 12265).
[19] Principio enunciato dalle già più volte citate sentenze delle Sezioni Unite 15 maggio 2015, nn. 9935 e 9936.
[20] Così ancora S. Ambrosini, op. ult. cit., p. 10.
[21] Così ancora Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632, cit.