Il nostro sistema costituzionale disegna la Magistratura come potere diffuso e l'ordinamento colloca i giudici di merito come prima Istituzione per la tutela dei diritti. Una primazia che nasce dalla posizione nell'iter processuale ma che si è legittimata per i suoi contenuti fecondi che hanno trovato avallo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Per coglierne la genesi basta volgere lo sguardo a un passato non troppo risalente e in particolare agli anni '70 che furono quelli della promozione dei diritti e delle garanzie.
I giudici di merito in un contesto normativo scandito da diverse riforme come lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l'obiezione di coscienza, la riforma sanitaria, avviarono un indirizzo giurisprudenziale attuativo della Costituzione, nella innovativa consapevolezza "della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione” come espresso nella mozione finale del congresso nazionale dell'ANM di Gardone nel settembre del 1965.
Nel corso degli anni sono state numerose e in diversi settori le ipotesi di applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici di merito.
Dall'art. 2 nell'ambito dei diritti della persona al principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 comma 2, dall'art. 15 per la tutela della privacy agli artt. 17 e 18 in tema di libertà di riunione e di associazione, dall'art. 32 per la tutela del diritto alla salute all'art. 36 in materia di rapporto di lavoro si sono succeduti plurimi interventi della giurisprudenza di merito che hanno disegnato un percorso definitivamente consacrato dalla Suprema Corte, che, da ultimo, proprio in tema di retribuzione, con una recentissima decisione ha affermato che "in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.", sottolineando che "in virtù dell’integrazione del nostro ordinamento a livello europeo ed internazionale, l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale".
La concezione dello Stato moderno come titolare esclusivo delle fonti del diritto non è più attuale.
La funzione legislativa non è più monopolio dello Stato nazionale.
Accanto allo stesso esistono altre istituzioni alle quali è attribuita una funzione regolatrice, come le Regioni, le Autorità amministrative indipendenti, ma soprattutto le fonti sovranazionali.
La primazia dell'ordinamento comunitario trova fondamento, come costantemente affermato dalla Corte costituzionale, negli artt. 11 e 117 della Costituzione, per cui, nelle ipotesi di disposizioni immediatamente applicabili, l'effetto diretto del vincolo del diritto comunitario si traduce nella disapplicazione della norma interna contrastante.
L'effetto vincolante è esteso alle decisioni della Corte di giustizia in quanto integrano nel significato le possibilità applicative della norma comunitaria.
Ne viene fuori un quadro composito e articolato di fonti con le quali è chiamato a confrontarsi in prima istanza il giudice di merito che in questo contesto dinamico, anche con la possibilità della disapplicazione della norma statale, esercita una sorta di controllo diffuso di "comunitarietà" della legge nazionale.
Non va trascurato, poi, che il giudice italiano ha l'obbligo di conformarsi al diritto dell'Unione, un obbligo che discende espressamente dall'art. 2 della l. 117/1988 secondo cui, ai fini della responsabilità civile dei magistrati, rileva la violazione manifesta del diritto unionale e nella relativa valutazione deve tenersi conto dell'inosservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale o del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia.
L'indebolimento della funzione legislativa tipica dello Stato post-moderno e la frammentazione della titolarità a dettare le regole si riflettono sul rapporto tra legislazione e giurisdizione e sul ruolo del giudice, sul quale aleggia il timore che possa espandersi verso un'attività "creativa" del diritto.
Le istanze sociali trovano sempre più spesso come primo interlocutore la Magistratura, in particolare quella di merito, avamposto istituzionale per la verifica della tutelabilità di ogni nuova pretesa alla quale il legislatore per scelta o per incapacità non abbia voluto o saputo dare risposta.
Tutto ciò si traduce in nuove responsabilità per il giudice che non può farsi legislatore, ma che, a differenza di quest'ultimo, che può decidere di dare ingresso o meno alle istanze sociali assumendosene la responsabilità politica, non può rispondere con un non liquet.
La funzione giurisdizionale va esercitata in ogni caso e non può essere mai rifiutata, anche se ciò ovviamente non vuol dire che ogni domanda debba essere accolta.
Però una pretesa, anche se respinta, è comunque entrata nel circuito sociale, ponendo il tema all’attenzione della collettività.
Nell'era della globalizzazione sulla giurisdizione si riversa una grande quantità di istanze sociali con una sostanziale delega diffusa alla risoluzione dei conflitti.
È sempre più attuale il dibattito sul delicato e controverso equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario.
Tramontata l'idea del diritto chiaro e preciso e del giudice "bocca della legge", la mediazione del conflitto si sposta sempre più frequentemente dal momento della creazione della regola a quello della sua applicazione.
È evidente lo scadimento della qualità della legislazione che, per la verità, è anche dovuto al dinamismo frenetico della società attuale la cui fluidità rende difficile la sua regolamentazione con norme predeterminate, con evidenti ricadute sul margine di opinabilità interpretativa che finisce per generare incertezza e disomogeneità applicativa.
Arginare il timore di sconfinamenti interpretativi con norme più dettagliate possibili può trasformarsi in un rimedio peggiore del male in quanto una pur minuziosa regolamentazione quasi mai riesce a esaurire l'imprevedibile concreto atteggiarsi delle fattispecie e, in un singolare processo di eterogenesi dei fini, rende inevitabile per il giudice di ricercare altrove la soluzione, mentre l'adozione di norme di principio suscettibili di adattarsi elasticamente al divenire della realtà restituisce alla interpretazione la sua funzione più genuina di individuazione della regola da applicare al caso concreto.
Così i confini tra la funzione del giudice e quella del legislatore finiscono con l'apparire meno netti di quanto in passato si fosse tradizionalmente inclini a riconoscere.
L'interpretazione delle norme giuridiche da applicare compete a qualunque giudice di ogni ordine e grado.
In fondo, ogni decisione, sia del giudice di legittimità sia del giudice di merito, attua in qualche misura al tempo stesso lo jus litigatoris e lo jus costitutionis: definisce la vicenda del caso concreto ed enuncia la regola di diritto che la dirime, e questa regola costituisce "precedente" giudiziario, idoneo a definire qualsiasi altra controversia nella quale è in discussione la medesima quaestio juris.
In senso formale la nomofilachia è compito attribuito alla Corte di Cassazione che, però, nell'espletamento di questa funzione si avvale delle sollecitazioni provenienti dai giudici di merito.
Questi apportano il loro contributo attraverso l'elaborazione argomentativa in direzione di una diffusa ed efficace tutela avanzata dei diritti per spingerla sempre più in avanti e renderla maggiormente intensa, anche prospettando letture e soluzioni innovative che si trasformano in diritto vivente e che non possono non essere considerate dal Giudice di legittimità.
In questa opera non è affatto secondario l'apporto che può derivare dal dialogo mediato che i giudici nazionali intrattengono con la Corte di Giustizia, alla quale sono soprattutto i giudici di merito che si rivolgono.
Non va trascurato, poi, che il numero delle controversie che pervengono al giudice di legittimità è notevolmente inferiore a quello che investe i giudici di merito, le cui decisioni non impugnate, quindi, assumono carattere di definitività formale e di conseguente stabilità entrando nel circuito della nomofilachia diffusa anche senza il crisma della Suprema Corte.
Sotto altro profilo va osservato che l'esame di alcuni casi che involgono temi eticamente sensibili sollecitati dal divenire della comunità ha sollevato diversi problemi che hanno posto l'interrogativo se la giurisdizione di merito abbia ecceduto i limiti delle sue attribuzioni usurpando le prerogative parlamentari.
Non credo che questo possa porre in discussione il principio della divisione dei poteri, anche se non va sottovalutato il rischio di un soggettivismo giudiziario che vada al di là della doverosa attività interpretativa e si indirizzi verso una vera e propria "creazione" del diritto non già nella sua accezione fisiologica di opzione all'interno del perimetro tracciato dal legislatore ma nell'adozione di soluzioni sganciate dal dato normativo verso un vero e proprio "diritto libero" che potrebbe finire per obliterare proprio il principio costituzionale della soggezione del giudice alla legge.
Il sistema delle impugnazioni, compreso lo strumento disciplinato dall'art. 363 c.p.c., sembra costituire una remora sufficiente al timore dell'arbitrio e dell'adozione di provvedimenti abnormi dissimulati dall'impiego surrettizio dell'interpretazione adeguatrice.
Così la libertà dell'agire del giudice di merito e il suo essere protagonista nella difesa dei diritti non sconfinano nell'arbitrio ma si coniugano con la consapevolezza di essere parte di un sistema presidiato dalla garanzia costituzionale dell'autonomia e dell'indipendenza.
Questa stessa consapevolezza gli impone, però, di condividere le regole del sistema del quale fa parte e di assicurarne la coerenza, vivendo e interpretando l'autonomia e l'indipendenza come valori funzionali all'eguaglianza dei cittadini e non già come privilegio individuale: presidio che deve essere difeso senza se e senza ma da tutti in quanto pilastro della democrazia e della libertà.
L'attenzione alla controversia o al processo non deve esaurirsi nella ricerca ragionata della soluzione del caso concreto ma deve proiettarsi nel lungimirante sguardo oltre i propri confini, nella doverosa e responsabile attenzione alle ulteriori fasi processuali e, in particolare, a quella di legittimità, non già per la vanagloria che può derivare ex post dalla conferma di un provvedimento né per il timore della riforma delle decisioni vissuta come una mortificazione professionale ma che, se assecondato, determinerebbe una pericolosa china verso il conformismo.
Piero Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scrive che "per i magistrati ... il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante ... La pigrizia porta a adagiarsi nell’abitudine che vuol dire intorpidimento della curiosità critica e sclerosi della umana sensibilità:… subentra con gli anni la comoda indifferenza del burocrate ... la peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo”.
Il magistrato conformista e burocrate così efficacemente ricordato nell'opera di Calamandrei non ci appartiene ed è ben lontano dal modello costituzionale al quale costantemente ci ispiriamo.
Sine spe sine metu, quindi, per potere adempiere alla funzione di giudice non solo come mediatore del conflitto sociale, ma soprattutto, come afferma Roberto Romboli, in qualità di difensore dei diritti, per farlo con quella indipendenza che costituisce la precondizione della fiducia da parte dei cittadini, che confidano in una interpretazione del diritto libera da condizionamenti ma prevedibile e tendenzialmente stabile.
L'uniformità dell'interpretazione della legge compete alla Corte di Cassazione ma ogni giudice di merito non è una monade senza finestre di un universo.
Di questo universo fa parte e, pertanto, per assicurare efficacia ed effettività alla tutela dei diritti deve contribuire alla realizzazione di un sistema che in nome di una malintesa idea di indipendenza non sia schizofrenico e disorientante.
In un contesto nel quale il formante giurisprudenziale ha un rilievo decisivo la prevedibilità delle decisioni assume un valore enorme.
Anche la Corte EDU ritiene la prevedibilità delle decisioni e la stabilità della giurisprudenza nell'interesse della certezza del diritto e dell'ordinato sviluppo della sua giurisprudenza, anche se ciò non le impedisce di discostarsi da precedenti decisioni ove sussistano "cogenti ragioni" che lo giustificano per garantire che l'interpretazione della Convenzione rifletta i cambiamenti sociali e resti in linea con le condizioni attuali.
Eppure, la prevedibilità è stata ritenuta espressione di mero conformismo e come ostacolo all'adeguamento della giurisprudenza ai cambiamenti della società, non considerando le esigenze di certezza che assicura e il costo su diversi versanti che deriva dal cambiamento non ponderato di indirizzi giurisprudenziali.
Non c'è dubbio che una giurisprudenza statica e insensibile alle sollecitazioni che vengono dall'evoluzione della comunità non avrebbe consentito gli approdi della tutela aquiliana del credito, del danno biologico e della tutela della persona, per citarne alcuni, per cui è necessario trovare un non facile punto di equilibrio e, per dirla con Pietro Curzio, "l’ordinamento deve lasciare spazio all’evoluzione della giurisprudenza", ma "le ragioni per il cambiamento devono essere forti, consapevoli e convincenti. Devono essere in grado di prevalere sulle ragioni della stabilità, che sono a loro volta importanti e hanno implicazioni di ordine costituzionale".
Da un lato, quindi, non si possono ignorare le “ragioni della stabilità” imposte da esigenze di garanzia e dalla necessità di assicurare l’uguaglianza dei cittadini, nonché dall'obiettivo di porre ciascuno nella condizione di indirizzare la propria condotta valutandone preventivamente le eventuali conseguenze.
Dall'altro, però, si deve tenere conto anche delle "ragioni del cambiamento", in quanto l'inarrestabile evoluzione della giurisprudenza è linfa vitale della democrazia e, come rilevato da Paolo Grossi, bisogna evitare che la prevedibilità del diritto sia strumentale a "garantire la impietosa disuguaglianza fra ricchi e poveri".
La geografia delle nuove diseguaglianze, alimentata anche dalla pandemia, investe diversi ambiti, dal mondo del lavoro, profondamente cambiato anche nelle dinamiche sindacali, investito da una precarizzazione strutturale vestita dei panni di un preteso dinamismo del mercato, alla categoria dei risparmiatori, impreparati e disorientati dal mercato finanziario in un contesto in cui la asimmetria informativa assume proporzioni straordinarie.
L'art. 3 Cost. si rivolge a tutte le Istituzioni compresa la Magistratura e la Costituzione, come ricorda Calamandrei, non è immobile, è rinnovatrice e mira alla trasformazione della società.
Contemperare le ragioni del cambiamento con quelle della stabilità è un obiettivo non agevole e nella sua declinazione concreta deve confrontarsi con la realtà, evitando di creare o alimentare il rischio di un dualismo tra giudici di merito e giudici di legittimità che vada al di là di quello funzionale, di una divaricazione tra diritto libero e verticalismo.
La distinzione solo per funzioni tra i giudici fissata dai Padri costituenti e l'orizzontalità ordinamentale che ne deriva fanno sì che il rapporto fra giudice di merito e giudice di legittimità sia quello della leale cooperazione, anche al di là del circuito delle impugnazioni, e che Antonio Ruggeri ritiene indispensabile per perseguire il miglior risultato possibile per le parti che sono davanti al giudice.
Peraltro, non può non tenersi conto della circostanza che la produzione giurisprudenziale della Suprema Corte ha raggiunto numeri incredibili e parallelamente la sua diffusione è divenuta sempre più rapida e aggiornata praticamente in tempo reale.
E questo è certamente una grande conquista in funzione dello scambio di informazioni ed è una preziosa risorsa che arricchisce la conoscenza, consentendo ai giudici di merito di disporre di indirizzi giurisprudenziali aggiornati, ai quali si aggiungono i dati sulle pronunce di merito che parimenti affollano i canali di informazione costituiti anche da chat e mailing list.
Il timore, però, è dato dal fatto che, per una singolare eterogenesi dei fini, la disponibilità di una così vasta produzione giurisprudenziale potrebbe alimentare la pigrizia dei giudici di merito, interessati più alla ricerca del precedente, soprattutto di legittimità, calzante alla decisione della controversia che alla fisiologica elaborazione di un più faticoso percorso di studio e di approfondimento propedeutico alla decisione e che, soltanto dopo, si confronti con l'indirizzo del giudice di legittimità.
Ne verrebbero fuori un sostanziale appiattimento della giurisprudenza e il suo impoverimento quali-quantitativo, innescando un circolo vizioso destinato a ripercuotersi negativamente anche sulla Suprema Corte, che sarebbe privata degli stimolanti contributi provenienti dai giudici di merito in relazione ai quali si formano e si consolidano gli orientamenti del giudice di legittimità.
Temo che non sia una preoccupazione infondata, anche perché una sollecitazione alla scorciatoia del recepimento acritico dei precedenti può essere alimentata dai carichi di lavoro spesso assai gravosi se non quando insostenibili e alla conseguente indisponibilità di tempi adeguati a un ponderato esame di ogni questione, anche in vista di un'eventuale motivata e critica non condivisione del precedente.
Sotto altro profilo va considerato che l’accelerazione verso l'immediatezza della decisione della Corte di legittimità, per l’autorevolezza formale e sostanziale che riveste, ha come controindicazione, della quale occorre tener conto, la riduzione dei contributi provenienti dai giudici di merito che non fanno neppure in tempo a formarsi.
Così, anche la decisione della Corte di Cassazione non segue sempre a un fecondo dibattito da parte dei giudici di merito che nella pronuncia di ultima istanza trova la sua composizione ponderata, ma obbedisce maggiormente alla necessità di una risposta urgente viepiù sollecitata dal frenetico e non sempre coerente divenire della legislazione sostanziale e soprattutto processuale.
Ma la prevedibilità del diritto e una nomofilachia completa non possono non tenere conto della necessità di assicurare il medesimo obiettivo anche nell’ambito della giurisdizione di merito, in cui naturalmente hanno connotazioni diverse ma obbediscono a esigenze analoghe.
Lo ha ricordato la Presidente Cassano, e Giovanni Canzio parla, al riguardo, di nomofilachia orizzontale o circolare, promossa dai giudici di merito in quanto i primi a confrontarsi con la fluidità sociale e che torna agli stessi giudici che verificano le ricadute della giurisprudenza di legittimità.
Presupposto di questo meccanismo virtuoso è la circolarità della giurisprudenza e l'ordinamento appresta uno strumento apposito disciplinato dall'art. 47 quater dell'Ordinamento giudiziario che tra i vari compiti del presidente di sezione delinea quello di curare lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione.
Si tratta di una disposizione dalle potenzialità enormi che sollecita informazione e confronto e chiama tutti i protagonisti a un impegno di responsabilità non già per conseguire il conformismo della giurisprudenza ma per acquisire consapevolezza di eventuali contrasti e promuovere la ricerca di soluzioni interpretative condivise, così realizzando per quanto possibile la prevedibilità delle decisioni.
Non va trascurato che la prevedibilità delle decisioni riduce la quantità della domanda di giustizia e consente maggiore possibilità di approfondimento anche in funzione di sottoporre a revisione critica orientamenti consolidati e così stimolare l'affinamento della qualità della Giustizia.
E al tempo stesso consegna certezza alla collettività sul diritto vivente, aumentando la fiducia nella Magistratura alla quale è chiesto un impegno sempre più arduo nella tutela dei diritti e, in particolare, di quelli fondamentali.
Credo che sia sempre attuale l'insegnamento di Stefano Rodotà secondo cui i temi di una vita sono i diritti, quelli individuali e sociali perché è da quelli che si misura la qualità di una società.
*Intervento nell'ambito del convegno di studi organizzato dalla Corte dei Conti "Giustizia al Servizio del Paese", Palermo 13 ottobre 2023.
(Immagine: Hans von Aachen, Giustizia e Pace, inchiostro e sanguigna su carta, 1604, Museo Nazionale di Danzica)