Non è semplice racchiudere in un piccolo spazio le considerazioni, numerose e complesse, maturate in una esperienza così intensa quale una intera consiliatura. Provo a farlo per mettere a disposizione alcune riflessioni che possano arricchire un dibattito, interno ed esterno alla magistratura, troppo spesso caratterizzato da semplificazioni e dalla proposta di soluzioni salvifiche che in concreto sono di ardua e poco convincente realizzazione.
Muovo dalla piena consapevolezza dei problemi legati al correntismo ed alle degenerazioni che tanto affliggono il sistema del governo autonomo. Non li posso negare e li devo dare purtroppo per presupposti. Le degenerazioni vanno denunciate come un male da combattere tutti i giorni ed in ogni sede, evidenziando storture, deviazioni, debolezze, prevaricazioni. Seguendo in modo attento i lavori consiliari, pretendendo la spiegazione delle scelte operate e sottolineando le contraddizioni. Ma anche operando sul territorio, non solo a livello di consiglio giudiziario o di controllo associativo, ma soprattutto negli uffici, sia ad opera dei dirigenti che dei magistrati tutti.
Dunque innanzitutto controllo diffuso, pretesa di trasparenza e motivazioni chiare di provvedimenti, spiegazioni costanti.
Poi, in via assolutamente prioritaria, un impegno dell’intero sistema ad operare per valutazioni di professionalità effettive e utili alle comparazioni, non burocratiche, non meramente elogiative, ma capaci di far emergere i diversi profili. Un enorme problema della magistratura, mai risolto, forse difficilmente risolvibile, che chiama in causa la capacità dell’intero circuito del governo autonomo, e dunque dei magistrati, di operare giudizi “su stessi”, puntuali, differenziati, genuini. Il sistema attuale è chiaramente incapace di operare in questo senso, e si è rivelato inadatto nella sua concreta attuazione. Per ragioni tecniche? Di sistema? Correntizio? Più in generale per ragioni corporative? E’ la risoluzione di questi interrogativi che può far compiere decisivi passi avanti. Un nuovo sistema, all’interno del governo autonomo, che sia però compatibile con i principi di autonomia ed indipendenza e con la necessità di garantire qualità alla giurisdizione, efficienza ed efficacia all’utenza.
L’effettività delle valutazioni di professionalità è il primo strumento per spiazzare il criterio dell’appartenenza nelle nomine. Per esigere scelte effettive, motivazioni chiare, trasparenza nei percorsi decisionali, occorre mettere a disposizione del Consiglio profili professionali specifici e differenziati, facilmente leggibili, su cui poter innestare un giudizio comparativo “evidente”. Direi che chi oggi vuole cambiare il TU sulla Dirigenza, deve farlo senza iniziare toccando quel testo, ma lavorando in quarta commissione ed aprendo un serio dibattito sulle valutazioni di professionalità, capace anche di superare lo “zero virgola” o poco più che caratterizza le statistiche delle valutazioni non positive /negative, percentuale chiaramente incapace di raffigurare la reale situazione della magistratura come in concreto si manifesta nelle aule di giustizia e viene percepita dall’utenza. Dunque prima le valutazioni di professionalità, l’ampliamento delle fonti di conoscenza, un sistema meno burocratico che sappia misurare quantità e qualità senza il tourbillon dei provvedimenti a campioni, la effettiva verifica della tenuta dei provenienti giudiziari nei controlli giurisdizionali successivi, un ripensamento del contenuto obbligatorio del rapporto del dirigente dell’ufficio; prima la modifica della disciplina della conferma, con l’aumento delle informazioni utilizzabili e dei dati acquisiti dai magistrati dell’ufficio; poi, solo poi, una nuova riflessione sul Testo unico sulla dirigenza, la cui modifica altrimenti rischia di ingenerare solo nuove illusorie attese. Prima un occhio vigile e critico sul funzionamento dei consigli giudiziari, organi di prossimità ben capaci di esigere una piena corrispondenza fra realtà e sua rappresentazione nei pareri. Insomma prima la pretesa di un esercizio responsabile e non corporativo delle valutazione di professionalità da parte dei dirigenti, poi, solo poi, la possibilità di smascherare in concreto l’utilizzo e l’abuso del criterio dell’appartenenza nelle nomine; solo allora sarà davvero possibile e persino semplice operare serie e dettagliate critiche, non solo per i magistrati di base, ma per le stesse correnti che intendessero farsene portatori, perché facilmente sostenibili su basi documentali chiare e differenziate. In mancanza sarà invece facile, per chi intende praticare logiche di appartenenza, continuare su una strada così autolesionista per la magistratura senza dover pagare dazio all’evidenza di forzature e scorciatoie. Difficile, per chi vuole sottrarsi a questo metodo, farlo senza poter utilmente reggere un dibattito pubblico che sarà sempre drogato da motivazioni buone per ogni soluzione. Con la continua necessità di individuare la giusta opzione fra il doversi sottrarre ad un sistema di nomine così complesso (come chi sistematicamente sceglie la comoda posizione dell’astensione), ovvero operare per la riduzione del danno, finalizzata a dare agli uffici le migliori nomine possibili, in un dialogo faticoso, non sempre contenuto nelle fisiologia delle diverse sensibilità culturali, con tutte le componenti consiliari.
Questo, quello delle valutazioni di professionalità, il primo vero obiettivo su cui lavorare.
Un altro fondamentale settore è quello della sdrammatizzazione delle nomine dei dirigenti, pur così importanti per il funzionamento del sistema. Essa passa innanzitutto per un recupero complessivo della dignità e della capacità di attrazione del lavoro del giudice (e del pm). La corsa alla carriera si è accentuata di pari passo col venir meno della appetibilità del lavoro giudiziario, non tanto, o forse non solo, per ragioni ideali, quanto per ragioni concrete legate alla demotivazione conseguente ad un lavoro di cui non si riesce a percepire più come un tempo la capacità di fornire risposte alle esigenze di giustizia dei cittadini. Il progressivo diminuire delle risorse, le farraginose procedure, i tempi infiniti dei processi, il numero spropositato di prescrizioni, qualificano come sostanzialmente inutile il lavoro del magistrato, che si accorge che gran parte del suo sforzo non produce alcuna riposta efficace. Da qui pulsioni centrifughe, fuori della giurisdizione verso gli incarichi fuori ruolo o l’impegno extragiudiziario (come quello nella magistratura tributaria), e pulsioni centripete, verso gli incarichi dirigenziali, ritenuti i soli capaci di far recuperare la “dignità della funzione” e comunque forieri di maggiori soddisfazioni professionali.
A tali considerazione occorre aggiungere la necessità di recuperare il senso dell’incarico dirigenziale come servizio e non come premio alla carriera. Qui va stimolata una complessiva maturazione della magistratura, che fatica ad introitare gli esiti della riforma del 2006 e non ha facilità nel superare l’ancoraggio all’anzianità come criterio selettivo tranquillizzante. Non siamo ancora disposti ad accettare con serenità che, se un magistrato che ha dieci anni di anzianità meno di un altro ma ha una professionalità di rilievo nell'organizzazione, merita di fare il dirigente e può spiegare al collega più anziano come va organizzato il lavoro per renderlo funzionale al risultato finale, che è l'interesse dell'utenza al servizio complessivo. Non abbiamo ancora compreso appieno la sfida dell’organizzazione, la sua complessità culturale, che richiede attitudini e capacità che non possono misurarsi prevalentemente solo col numero di anni trascorsi in giurisdizione. Abbiamo le regole che lo dicono chiaramente, ma quando le attuiamo, continuiamo a vederci troppo spesso uno “scavalcamento” – proprio questo il termine comunemente utilizzato – inaccettabile. Un’idea, questa del recupero dell’anzianità, addirittura tramite punteggi, fuori tempo e fuori della realtà, non solo giudiziaria. Per non parlare dell’eccessivo allarme per alcune esperienze fuori ruolo che, se ben calibrate con l’esperienza giurisdizionale, possono essere un ritorno formidabile per il singolo e per l’ufficio nel complesso. Occorre opporsi fortemente alle carriere parallele, che sono cosa diversa e deleteria per l’intero sistema, ma avere la capacità di valorizzare esperienze ed attitudini anche quando in parte maturate in incarichi fuori ruolo attinenti all’organizzazione della giurisdizione.
Infine occorre accettate l’idea che sia il CSM (!), nell’esercizio della sua discrezionalità, a decidere chi è il più adatto a ricoprire quel ruolo, e dunque accettare l’idea che in quel consesso debba formarsi una maggioranza capace di investire su quella persona per quell’incarico. Affermazione che può essere oggetto di una interpretazione semplicistica e negativa (appunto il rifugiarsi nell’appartenenza ed il praticare la logica dello scambio), oppure capace di far riflettere sul valore delle idealità e del confronto fra diverse sensibilità nella lettura e valutazione dei profili professionali. Il ché rimanda anche al valore della dirigenza ed alla importanza e delicatezza dell’attività in quinta commissione (e in terza) quando si rinnova la classe dirigente degli uffici. Si tratta, quella della Dirigenza, di un anello della catena dell’autogoverno che oggi rappresenta il fulcro del sistema, tanto nel settore requirente quanto nel settore giudicante, proprio in conseguenza della riforma del 2006. Il legislatore del nuovo ordinamento giudiziario ha “investito” in misura rilevante sulla Dirigenza degli uffici per ottenere qualità ed efficienza; ne ha conseguentemente aumentato i poteri, introducendo una gerarchizzazione marcata, piuttosto evidente nelle Procure, ma sensibile anche negli uffici giudicanti. E’ fisiologico ci sia, in Consiglio, chi preferisca un dirigente che segue un modello caratterizzato da partecipazione, cultura della giurisdizione e della prova, efficienza e qualità delle decisioni, coinvolgimento dei magistrati nelle scelte decisionali organizzative, e chi un modello che privilegia una efficienza più aziendalista ed una più evidente gerarchia interna. Chi un maggiore rigore valutativo del lavoro del magistrato e chi una più diffusa accettazione di un metodo inclusivo e meno selettivo. Se pensiamo ai poteri del Procuratore della Repubblica, a come i dirigenti esercitano il potere valutativo nelle valutazioni di professionalità, a quanto sano diversi gli approcci al tema dell’organizzazione, ci rendiamo conto che avere un dirigente, piuttosto che un altro, pur fra magistrati di pari livello attitudinale e di merito, significa delineare diversi modelli di giurisdizione in un dato territorio. Con esiti assai diversi per l’utenza e perfino per l’interpretazione (si pensi al ruolo di un presidente di sezione).
Da qui la faticosa opera di dialogo e confronto fra tutte le componenti, non ultime quelle laiche, che portano sensibilità assai diverse da quelle interne e che possono giocare un ruolo decisivo. Un dialogo che se attuato con la esclusiva lente dell’appartenenza determina esiti nefasti per la singola nomina e per l’intero sistema, e se invece attuato per la ricerca della migliore soluzione possibile, nel confronto fra le diverse componenti, diventa l’ineludibile strumento di un buon governo. Tanto per i togati quanto per i laici, il cui operato troppo spesso viene ignorato nel dibattito sul buon funzionamento dell’organo, e che invece sono essi stessi capaci di indirizzare il confronto o positivamente, attraverso un fisiologico apporto di conoscenze, oppure negativamente, attraverso il sostegno a candidati sulla base di fattori esogeni e imperscrutabili.
La complessità dell’organo ne costituisce la forza e la capacità di tenuta, nei diversi tempi in cui l’istituzione è chiamata a governare la magistratura. Un’istituzione di cui nel dibattito interno si valuta solo l’attività che in qualche modo incide all’interno della categoria, in una accezione assai restrittiva del suo ruolo e della funzione, certamente individuata dall’art. 105 Cost., ma che la legge istitutiva e la prassi costituzionale hanno assai ampliato, facendone un organo capace di dialogare con le maggiori istituzioni del Paese sui temi della giustizia (Presidente della Repubblica, Ministro della Giustizia, Parlamento, istituzioni europee ed internazionali), e dunque portatore di una anomala ma autorevole rappresentanza esterna della magistratura, nonché portatore di un potere di indirizzo e promozione che ne fa il vertice organizzativo degli uffici giudiziari.
Da questa premessa derivano alcune considerazioni.
La prima è legata alla funzione rappresentativa della componente togata. Funzione disciplinata dalla Costituzione che esige la “elezione” dei togati e, di conseguenza, un sistema democratico di rappresentanza all’interno dell’organo. Ne consegue il rilievo dei gruppi associativi quali soggetti portatori di un programma, di un progetto per il governo autonomo, di idee e di sensibilità presentate all’elettorato per agganciare la rappresentanza al consenso interno alla magistratura, secondo un criterio democratico irrinunciabile. In altre sedi ed in maniera più diffusa si è risposto a chi sostiene il sorteggio come strumento di selezione della rappresentanza. Vorrei solo ricordare che il sorteggio individua “singoli” senza alcun aggancio ad idee e pregressi percorsi professionali e associativi. “Singoli” di cui non si sa nulla e nemmeno se siano buoni magistrati. E, seppure lo fossero, deve essere chiaro che essere bravi magistrati, o eccellenti in alcuni casi, non basta per fare bene il consigliere superiore. La considererei una condizione importante (vorrei dire necessaria) ma assolutamente non sufficiente. Ed anche il sorteggio temperato, con una preselezione a cui far seguire le elezioni, si rivela uno strumento in parte inidoneo a raggiungere il preventivato scopo (i sorteggiati sarebbero o già legati ai gruppi associativi o fisiologicamente portati a farlo prima dell’elezione), in parte certamente capace di affidare al caso la scelta e dunque non necessariamente con esiti di qualità (ove si parta dal presupposto che dire che tutti sono in grado di svolgere la funzione perché del resto si tratta di magistrati chiamati quotidianamente ad esercitare la giurisdizione ed applicare la legge, è davvero una considerazione del tutto semplicistica e riduttiva del ruolo e della funzione del Consiglio e dei singoli consiglieri). Dunque sicuramente no al sorteggio, e si ad una nuova legge elettorale. Sicuramente si ai gruppi per le ragioni sopra esposte e perché la rappresentanza esige responsabilità. Ed i gruppi associativi, in quanto costantemente rivolti all’elettorato per la verifica dl consenso conseguente all’operato dei vari rappresentanti, garantiscano che componenti eletti e non rieleggibili siano ancorati ad una responsabilità “politica” di cui gli stessi consiglieri sentono costantemente il bisogno. Ed è corretto che la proiezione di questi rappresentanti sia la costituzione di gruppi consiliari che consentono in maniera trasparente di portare avanti il programma sottoposto agli elettori e di contribuire al buon funzionamento dell’organo ed alla composizione equilibrata delle commissioni (in teoria capace di riprodurre in proiezione la composizione del plenum).
Seguendo questa linea, voglio però completare la riflessione sul rapporto fra consiglieri e gruppi associativi di riferimento, rapporto del quale ho sottolineato la natura virtuosa e gli effetti positivi, nella misura in cui l’appartenenza non diventi il criterio guida nelle nomine. Il legame al gruppo consente un ancoraggio al programma ed alle idee condivise con gli elettori, e la costante verifica, nel dibattito che ne segue, dell’adeguatezza dell’azione consiliare rispetto alle attese dei magistrati.
Ma … ciò che spesso sfugge nel dibattito interno è che la dimensione principale e prioritaria del consigliere resta quella “istituzionale”, che richiama innanzitutto a scelte effettuate secondo scienza e coscienza per il buon funzionamento del sistema giudiziario. Spesso si assiste a considerazioni che richiamano valutazioni di opportunità o di strategia che stridono con la necessità di confrontarsi innanzitutto con il quadro normativo ed ordinamentale e, in secondo luogo, con scelte compiute esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione. Che, in alcuni casi, in concreto, potranno significativamente discostarsi dal programma iniziale sottoposto agli elettori o dai contenuti discussi nel gruppo associativo. Sarà utile spiegare le ragioni, rappresentare la natura della scelta eventualmente dissonante con il programma elettorale. Il consigliere opera avendo sempre chiaro di essere il rappresentante di tutta la magistratura e non solo di quella che lo ha sostenuto dal punto di vista elettorale e della acquisizione del consenso. Insomma si è prima componente dell’istituzione, poi rappresentante di tutti i magistrati, infine magistrato legato ad un gruppo associativo ed al suo programma ideale di contenuto e valori. Questi, i contenuti ed i valori di riferimento orienteranno fisiologicamente le scelte e le decisioni, conformando naturalmente l’agire del consigliere ed il suo operato complessivo, ma le “attese” del gruppo associativo di riferimento o di singoli elettori non potranno influenzarne l’agire istituzionale. E’ dalla consapevolezza di questa poliedrica accezione che si ricava la traccia per un corretto compimento del mandato consiliare. Durante il quale ti soccorreranno due irrinunciabili guide: la tua esperienza professionale nella giurisdizione pregressa ed il contatto che con essa saprai mantenere, e un forte dimensione deontologica a cui legare l’esercizio della funzione e della responsabilità, da una postazione in cui ti accorgi di esercitare un enorme potere.
Fra mille cose, una riflessione ulteriore vorrei riservarla, poi, al funzionamento della sezione disciplinare.
Non mi sfugge quanta prudenza occorra per trattare questa materia e quanto delicato sia il tema delle incompatibilità fra l’attività di amministrazione e quella giurisdizionale interna al Consiglio. Assai problematica per molteplici aspetti e difficile da affrontare in una prospettiva di riforma per l’impossibilità di controllare gli esiti di una discussione pubblica che facilmente scivolerebbe verso derive pericolose. Né voglio assecondare la suggestione, periodicamente riproposta, per cui “chi nomina non giudichi e chi giudica non nomini”. Ma è chiaro a tutti che la sezione disciplinare accrescerebbe ulteriormente la sua autorevolezza e apparenza di imparzialità se la funzione giurisdizionale interna al Consiglio, con le stesse caratteristiche di composizione e di eleggibilità, fosse separata dalla diversa e complessa funzione amministrativa. Ma non è tempo per parlare di riforme in questo settore. Piccole cose però si possono fare. Una, con un piccolo sforzo organizzativo interno, può essere quella di evitare che almeno i componenti titolari della sezione disciplinare compongano la prima commissione. Evitare che il giudice, per le inevitabili sovrapposizioni di alcune vicende fra profili disciplinari e paradisciplinari che di fatto si realizzano in prima commissione, sia stato partecipe delle attività di commissione, abbia svolto attività istruttoria, sia stato relatore di pratiche i cui fatti poi si trova a giudicare in disciplinare. Una minima soluzione, forse solo estetica, che però può rappresentare un segnale di attenzione per i magistrati incolpati.
Inoltre è utile e necessario prestare la massima attenzione all’organizzazione tabellare della sezione, alla gestione dei carichi di lavoro, alla ricorrenza degli impedimenti dei giudici ed alle conseguenti sostituzioni, alla predeterminazione dei collegi, alla gestione dei rinvii fuori udienza, alla effettiva partecipazione del Vice presidente alle udienze ed alla generale attività di direzione della sezione. Occorrono provvedimenti organizzativi che il Vice Presidente deve assumere, quale Presidente della Sezione disciplinare, e che, a mente del nuovo Regolamento, deve portare in plenum per la presa d’atto.
Più in generale, poi, mi pare giunto il tempo per una riflessione sulle regole che caratterizzano il processo disciplinare e sulle garanzie per l’incolpato.
Ma di questo e altro non è possibile trattare in questa sede, di confusi e sparsi pensieri di un ex Consigliere.
Antonello Ardituro