L’accesso alla magistratura ordinaria nei principi costituzionali e nelle recenti riforme approvate o in corso di approvazione
Dall’eliminazione del concorso di secondo livello alla preparazione al concorso organizzata dalla Scuola superiore della magistratura, fino ai test e al colloquio psicoattitudinali
Il lavoro ha ad oggetto la disciplina dell’accesso alla magistratura, con particolare riferimento alle recenti modifiche introdotte dalla l. 71/2022 e dal d.lgs. 44/2024.
Dopo un richiamo ai principi costituzionali in materia, lo scritto si sofferma in particolare sul corso di preparazione al concorso in magistratura affidato alla Ssm, mettendo in rilievo gli ampi margini di scelta ad essa riconosciuti, nonché sulla introduzione dei test psicoattitudinali dei quali vengono sottolineati l’uso strumentale alla delegittimazione dell’attività giurisdizionale e la pericolosità per l’indipendenza della magistratura.
Sommario: 1. I principi costituzionali: l’accesso per concorso e la sua stretta connessione alla garanzia di indipendenza della magistratura. Le eccezioni al principio: a) la magistratura onoraria; b) i giudici di legittimità per meriti insigni nella disciplina ordinaria e nella riforma costituzionale approvata in prima lettura. – 2. L’accesso alla magistratura nella legge Cartabia (71/2022): la eliminazione del concorso di secondo livello e l’ammissione al tirocinio formativo prima della laurea. – 3. L’organizzazione del corso di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura. L’attuazione, l’inattuazione e la violazione dei principi della delega da parte del d. lgs. 44/2024. Le rilevanti scelte spettanti alla Scuola e la sfida alle scuole private di preparazione al concorso come momento di realizzazione dello stato sociale. – 4. La disciplina della prova scritta e della prova orale, la “disobbedienza” del governo delegato al principio e criterio direttivo di riduzione delle materie. – 5. La previsione di un test psicoattitudinale di ammissione nel d. lgs. 44/2024. I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega e irragionevolezza e la violazione del principio di leale collaborazione istituzionale nei riguardi del Consiglio superiore della magistratura. – 6. Segue: i test della personalità tra test psicoattitudinali e test psicodiagnostici. La verifica della “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria” e la ricerca dei relativi parametri di riferimento. Gli aspetti procedurali. La collocazione del test nel procedimento concorsuale; la relazione tra test e successivo colloquio; lo svolgimento del colloquio insieme alla prova orale sulle materie giuridiche davanti alla commissione di concorso: rilievi critici; la (non) motivazione con la “sola” formula “non idoneo” ed i riflessi circa la possibile ripetizione delle prove di accesso: rilievi critici. – 7. Segue: i risultati a breve termine della introduzione di test psicoattitudinali per la delegittimazione della magistratura ed i rischi a più lungo termine per la indipendenza dei magistrati. Il giudizio fortemente critico degli psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana e la significativa esperienza francese: le ragioni della introduzione nel 2009 del test psicoattitudinale e le ragioni della sua eliminazione nel 2017, a seguito dei risultati ricavati dalla sua applicazione pratica.
1. I principi costituzionali: l’accesso per concorso e la sua stretta connessione alla garanzia di indipendenza della magistratura. Le eccezioni al principio: a) la magistratura onoraria; b) i giudici di legittimità per meriti insigni nella disciplina ordinaria e nella riforma costituzionale approvata in prima lettura
Queste brevi osservazioni, dedicate all’amico di ormai tanti anni Michele Ainis, hanno ad oggetto un tema che non ha ricevuto, a mio avviso, l’attenzione che merita tra gli aspetti relativi all’ordinamento giudiziario, specie considerando che tutto inizia da quel momento: l’accesso alla magistratura.
In questi ultimi anni e mesi sono stati in proposito approvati, o sono in corso di approvazione, provvedimenti normativi di grande rilievo, sia per l’impatto che essi avranno sulle garanzie di autonomia e indipendenza dei magistrati, sia per il loro significato anche simbolico, espressione dell’atteggiamento dell’attuale maggioranza politica in ordine al ruolo che deve essere riconosciuto al potere giudiziario nell’ambito del principio di separazione dei poteri.
Al proposito la Costituzione (art. 106) opera una scelta molto chiara, fissando la regola per cui “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” (1° comma) e stabilendo poi due eccezioni: la possibile nomina, anche elettiva, di magistrati onorari (2° comma) e la chiamata a giudice di cassazione per meriti insigni (3° comma).
La scelta a favore del pubblico concorso assume per la magistratura un significato particolare rispetto al principio generale dettato dall’art. 97, 4° comma, Cost. per l’accesso alla pubblica amministrazione, in quanto si pone in stretta connessione con le scelte a favore dell’autonomia e indipendenza da ogni altro potere, della soggezione del giudice solo alla legge e del divieto di giudici speciali e straordinari.
Come ha sottolineato anche di recente la Corte costituzionale la regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, in quanto garantisce, da un lato, a tutti i cittadini la possibilità di accesso alla magistratura ordinaria, in aderenza al disposto dell’art. 3 Cost., evitando ogni discriminazione anche di genere e, dall’ altro, assicura la qualificazione tecnico-professionale dei magistrati, ritenuta condizione necessaria per l’esercizio delle funzioni giudiziarie. Mira infatti a verificare un iniziale standard uniforme di sapere giuridico, destinato ad affinarsi nel tempo, quale garanzia minima, ma essenziale, dell’esercizio della giurisdizione in modo neutrale (sent. n. 41 del 2021). La Corte ha altresì evidenziato in proposito come «la funzione della interpretazione ed applicazione della legge richiede il possesso della tecnica giuridica» da parte dei giudici togati (sent. n. 76 del 1961).
Potremmo dire che lo Stato ha l’obbligo di garantire, insieme alla autonomia, indipendenza ed imparzialità di chi giudica, anche la preparazione tecnica ossia la professionalità di tutti i magistrati, dal momento che, mentre il cittadino può scegliersi il medico, l’avvocato o l’idraulico di sua fiducia, non altrettanto può fare per il giudice, che per principio costituzionale è “precostituito per legge” (art. 25, 1° comma, Cost.).
Le due eccezioni alla regola del concorso sono all’evidenza di differente portata, assai maggiore e significativa la prima (magistrati onorari), più ridotta la seconda, limitata alla chiamata a giudice di cassazione per meriti insigni di professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati con quindici anni di esercizio ed iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.
Riguardo alla magistratura onoraria, questa è stata oggetto di una attuazione per larga misura diversa da quella pensata dal Costituente – e che in questa sede non possiamo all’evidenza neppure accennare – il quale, mentre aveva respinto l’ipotesi in generale di giudici elettivi, l’aveva invece prevista in maniera limitata e doppiamente eventuale. I magistrati onorari infatti non sono costituzionalmente necessari (il legislatore “può” ammettere la nomina di onorari) e, se ammessi, possono essere “anche” elettivi.
Questo giustificato dal fatto che la previsione era connessa alla ipotesi di un giudizio “secondo equità” e di un giudice “sociale” o “di prossimità” e comunque indicata come espressione di una giustizia minore, con una competenza limitata alle “funzioni attribuite a giudici singoli”.
Quest’ultima espressione ha poi dato luogo a diverse letture e la Corte costituzionale ha ricostruito una figura di “giudice singolo” professionale, al quale può essere sostituito il magistrato onorario: le materie sulle quali può decidere il giudice singolo possono essere attribuite ad un onorario.
Per superare questo limite la “riforma epocale” di Berlusconi del 2011 aveva previsto una revisione costituzionale che eliminava il riferimento alla competenza del giudice singolo nell’art. 106, 2° comma, Cost.
Più di recente si è posto il problema del possibile utilizzo di magistrati onorari per comporre gli organi collegiali e la Corte ha posto in proposito una linea di confine ben precisa, nel senso che deve trattarsi di una assegnazione precaria ed occasionale, riferita a singole udienze o a singoli processi.
Su queste basi ha dichiarato incostituzionale, in quanto del tutto fuori sistema ed in radicale contrasto con l’art. 106 Cost., la istituzione della figura di giudice ausiliario d’appello, attribuendogli lo status di componente dei collegi delle sezioni della Corte d’appello, anche se poi ha “salvato” la normativa dichiarata incostituzionale, consentendone l’applicazione fino al 31 ottobre 2025.
Per quanto concerne invece l’altra deroga al principio del pubblico concorso, l’art. 106, 3° comma, Cost., prevede che “su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”.
La riforma costituzionale (c.d. riforma Nordio), attualmente in attesa della seconda approvazione da parte delle camere, introduce due modifiche: a) la designazione deve avvenire da parte del Csm giudicante e b) possono ambire alla nomina, oltre agli avvocati ed ai professori universitari, anche i magistrati requirenti.
Nella relazione illustrativa la innovazione viene motivata sul presupposto che la separazione delle carriere giustifica la previsione, per i magistrati requirenti, “analogamente alle altre professioni indicate nella norma, della possibilità di essere ammessi, in via straordinaria, alla funzione giudicante di legittimità”.
Il conferimento di funzioni di legittimità può, al momento, avvenire attraverso due diverse procedure, una prima, che potremmo definire naturale, con riferimento alla vita professionale dei magistrati che ha ricevuto proprio di recente una nuova disciplina, con l’art. 2, 3° comma, della legge Cartabia, che prevede tra l’altro allo scopo il requisito di “effettivo esercizio delle funzioni giudicanti o requirenti di primo o di secondo grado per almeno dieci anni”, al quale ha dato attuazione l’art. 5 d. lgs. 28 marzo 2024 n. 44.
Attraverso la suddetta procedura vengono individuati quelli che potremmo chiamare, seppure impropriamente ma solo per capirci, i membri “togati” della Corte di cassazione.
In via chiaramente eccezionale vi è la possibilità di nomina di membri “laici”, quelli appunto chiamati alla carica di consigliere di cassazione “per meriti insigni” finora tratti dalle categorie degli avvocati e dei professori universitari. Questi ultimi debbono essere in numero non superiore ad un decimo dei posti previsti nell’organico complessivo della Corte di cassazione.
La previsione costituzionale, come noto, non ha ricevuto attuazione per mezzo secolo e l’ha avuta infatti con la legge 5 agosto 1998 n. 303.
La lettura di questa legge mostra all’evidenza come la stessa sia del tutto inapplicabile alla nuova figura di soggetti legittimati (magistrati requirenti), proprio perché fa chiaramente riferimento a soggetti estranei alla magistratura ed i magistrati requirenti, nonostante la prevista separazione delle carriere, rimangono, fino a prova contraria, facenti parte organica della magistratura.
Su questa base una prima conclusione è quella secondo cui per l’attuazione di questa parte nuova dell’art. 106, 3° comma, non può valere la legge n. 303, ma occorre una nuova e diversa legge, ovviamente con la speranza – per chi, a differenza dello scrivente, crede in questa innovazione - che il legislatore non impieghi un altro mezzo secolo ad approvarla.
La legge 303 prevede infatti un ruolo importante nella procedura del Consiglio universitario nazionale e del Consiglio nazionale forense ed anche i requisiti richiesti per la nomina e gli elementi di specifica rilevanza fanno chiaramente riferimento a persone esterne all’ordine giudiziario.
L’art. 2 della legge stabilisce che “la designazione deve cadere su persona che, per particolari meriti scientifici o per la ricchezza dell’esperienza professionale, possa apportare alla giurisdizione di legittimità un contributo di elevata qualificazione professionale. A tal fine costituiscono parametri di valutazione gli atti processuali, le pubblicazioni, le relazioni svolte in occasione della partecipazione a convegni”.
Quali elementi di specifica rilevanza vengono indicati: a) l’esercizio di attività forense da parte di professore d’università presso le giurisdizioni superiori; b) l’insegnamento universitario in materie giuridiche per un periodo non inferiore a dieci anni; c) il pregresso esercizio delle funzioni giudiziarie per un periodo non inferiore a dieci anni.
Tutto questo fa sorgere il sospetto, a mio giudizio fondato, che l’istituto della nomina di consiglieri di cassazione per meriti insigni, pensato per “laici”, sia inidoneo, proprio come struttura, finalità e modello, ad essere trasferito a magistrati.
Evidente che questa modifica è collegata al “cuore” della revisione costituzionale proposta, ossia alla separazione delle carriere e pare prefigurare una ulteriore modifica dell’attuale disciplina relativa alla surricordata procedura normale, nel senso di escludere dalla stessa i magistrati requirenti, tanto che la via straordinaria parrebbe una sorta di “risarcimento” per tale esclusione.
Il potere di designazione, ai sensi dell’art. 106, 3° comma, Cost., spetta, come detto, al Csm giudicante sul presupposto che “il magistrato nominato ai sensi della presente legge può essere destinato esclusivamente alle funzioni giudicanti nell’ambito della Corte di cassazione” (art. 4 l. 303/1998).
A parte i dubbi circa l’applicabilità di questa disposizione, per le ragioni sopra esposte, alla diversa ipotesi dei magistrati requirenti, avremmo l’effetto che, attraverso una revisione costituzionale motivata dal fine della separazione delle carriere giudicante e requirente, verrebbe riconosciuta la possibilità di un magistrato requirente di passare, per meriti insigni, alla magistratura giudicante.
Il significato attribuito al concorso per l’accesso alla magistratura dovrebbe, a mio avviso, sconsigliare, indipendentemente dalle finalità che le muovono, certe iniziative, quale quelle avanzate di recente, attraverso lo strumento della legge ordinaria o di quello della revisione costituzionale.
Mi riferisco, per la prima ipotesi, ad un ipotizzato concorso straordinario, in forme molto semplificate, riservato ai magistrati onorari e, per la seconda, alla assunzione di avvocati e professori universitari per ogni grado di giurisdizione inserita in alcuni dei vari progetti sulla separazione delle carriere presentati alle camere.
2. L’accesso alla magistratura nella legge Cartabia (71/2022): la eliminazione del concorso di secondo livello e l’ammissione al tirocinio formativo prima della laurea
La legge n. 71 del 2022 (c.d. legge Cartabia) ha fissato, in quanto legge delega, alcuni principi e criteri direttivi in materia di accesso alla magistratura, attraverso una disposizione (art. 4) la cui rubrica è (o avrebbe dovuto essere) di per sé significativa della volontà del legislatore (“riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura”).
I punti sono specificamente cinque: a) accesso immediato per i laureati in giurisprudenza con eliminazione del carattere di concorso di secondo livello; b) ammissione al tirocinio formativo una volta ultimati gli esami di profitto, anche prima della discussione della tesi di laurea; c) assegnazione alla Scuola superiore della magistratura (Ssm) del compito di organizzare corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario; d) disciplina della prova scritta ed e) della prova orale.
L’introduzione del concorso di secondo livello era stata giustificata dalla finalità di ridurre l’alto numero di partecipanti al concorso e, con esso, i tempi troppo lunghi di svolgimento delle prove.
Il legislatore, nella sua attività di bilanciamento tra i differenti interessi in gioco, aveva ritenuto prevalente quello della deflazione delle domande e della maggiore rapidità delle procedure.
L’applicazione pratica della innovazione non aveva dato i risultati attesi, tanto che il Consiglio superiore con la risoluzione del 7 dicembre 2021 aveva sottolineato come “l’innalzamento dell’età dei neo-magistrati ha prodotto ricadute negative sulla condizione personale di questi ultimi e sulla organizzazione giudiziaria nel suo complesso”.
Sotto il primo aspetto per l’aggravio economico derivante dalla eventuale partecipazione a scuole private di preparazione e soprattutto per la necessità di un sostegno economico per il tempo necessario a maturare i requisiti di legittimazione alla partecipazione.
Per il secondo, per il fatto che l’inizio dell’attività lavorativa in età matura rende inevitabilmente più gravoso il trasferimento, in conseguenza dell’assegnazione della prima sede, in luoghi lontani dalle famiglie, frequentemente appena costituite.
La risoluzione concludeva di conseguenza nel senso di ritenere “auspicabile ed urgente il ripristino del concorso di primo grado”.
La legge Cartabia quindi con la previsione sub a) ha risolto il predetto bilanciamento in senso opposto, eliminando il carattere di concorso di secondo livello, una volta constatato l’insuccesso dello stesso e gli effetti negativi derivati dal medesimo.
Con riguardo al momento di inizio del tirocinio formativo, la novità consiste nell’ammettere gli studenti prima che gli stessi si siano laureati, purché abbiano superato tutti gli esami del corso di laurea ed abbiano meno di trenta anni.
Non potendosi in tal modo far riferimento al voto di laurea (fissato in 105/110) viene richiesta la media del 27 per i seguenti esami: diritto privato, diritto costituzionale, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, procedura penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo.
Una condizione, per chi conosce l’ordinamento dei dipartimenti di giurisprudenza, certamente più gravosa rispetto alla votazione finale di 105 su 110.
Gli aspetti che comunque hanno posto maggiori problemi riguardano la organizzazione dei corsi di preparazione al concorso da parte della Ssm e la disciplina delle prove di esame. Problemi che, al momento in cui scrivo, sono tutt’altro che risolti e sui quali pertanto mi soffermerò maggiormente.
3. L’organizzazione del corso di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura. L’attuazione, l’inattuazione e la violazione dei principi della delega da parte del d. lgs. 44/2024. Le rilevanti scelte spettanti alla Scuola e la sfida alle scuole private di preparazione al concorso come momento di realizzazione dello stato sociale.
La legge delega ha previsto (sub c) che la Ssm organizzi, anche in sede decentrata, corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario per laureati in possesso dei seguenti requisiti: 1) voto di laurea non inferiore a 105/110; 2) tirocinio formativo, effettuato o in corso oppure attività prestata presso l’ufficio per il processo.
I costi di organizzazione debbono gravare “sui partecipanti in una misura che tenga conto delle condizioni reddituali dei singoli e dei loro nuclei familiari”.
A questa previsione della legge delega è stata data attuazione con d. lgs. n. 44 del 2024, con il quale sono state introdotte disposizioni tutt’altro che scontate ed in certa misura anche discutibili.
È stato infatti previsto che la Scuola, nell’esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse stabilisca, per ogni corso, il numero massimo dei partecipanti ammessi ed i criteri di preferenza per il caso in cui gli aspiranti siano in numero superiore ai posti disponibili.
I corsi, organizzati anche a livello decentrato, vertono sulle materie oggetto della prova scritta e consistono in sessioni di studio tenute da docenti di elevata competenza e professionalità ed i costi di organizzazione gravano sui partecipanti in misura che tenga conto delle condizioni reddituali loro e dei nuclei familiari, secondo le determinazioni del comitato direttivo della Scuola.
Inevitabile il confronto con le c.d. scuole legali che hanno funzionato presso le nostre università per diversi anni e che stanno attraverso un momento di profonda crisi, adesso aggravata dalla previsione del concorso in magistratura come concorso di primo grado.
Il risultato di questa esperienza credo possa essere giudicato non proprio positivamente, giusto per utilizzare un eufemismo.
Questo in sostanza per tutta una serie di diverse e concomitanti ragioni, la prima delle quali è da rinvenire nella mancanza di chiarezza circa la finalità delle scuole legali che sono sempre oscillate tra l’idea di un corso postlaurea comune a tutte le professioni legali, quasi come una specie di dottorato di ricerca e quella di un corso di preparazione alle prove di ammissione alle professioni di magistrato, avvocato o notaio.
Una tale incertezza circa le finalità ha inevitabilmente inciso sulla organizzazione dei corsi, i quali sovente si sono risolti in lezioni attinenti a differenti discipline, affidate a volenterosi docenti della facoltà (oggi dipartimento) i quali hanno rappresentato una sorta di specializzazione del contenuto del corso già offerto alle stesse persone come studenti.
Spesso è mancato un coordinamento sui contenuti dei singoli corsi e tra i corsi, trattandosi di interessanti conferenze su temi specifici, quando svolte dai titolari qualificati dei corsi.
Un limite della organizzazione nel nostro paese degli insegnamenti universitari di giurisprudenza è, come noto, la scarsa (o inesistente) pratica di scrivere in diritto. Le attività (lezioni, seminari, ricevimenti, esami di profitto, ad eccezione della tesi di laurea) si svolgono infatti quasi esclusivamente oralmente.
Le scuole legali avrebbero potuto costituire l’occasione per far esercitare i partecipanti con prove scritte, cosa che purtroppo si è verificata non di frequente e con scarsa disponibilità dei docenti a correggere i compiti e quindi a discutere i contenuti con gli studenti.
L’idea di una preparazione comune per i concorsi di ammissione alle singole professioni è andata a scontrarsi con le specificità dei singoli concorsi di ammissione, tenute invece in grandissima attenzione dalle scuole private di preparazione, nelle quali tutto è indirizzato al raggiungimento del risultato ed a quanto risulta utile e necessario per superare la prova di ammissione.
In questo e per questo il confronto tra le scuole legali e le scuole private a pagamento è stato, come tutti sanno, assolutamente impari a vantaggio delle seconde.
Il compito che adesso viene assegnato ai corsi della Ssm parrebbe più chiaro, non più una formazione comune ma la “preparazione al concorso per magistrato ordinario”, vertente sulle tre materie oggetto della prova scritta.
La previsione potrebbe riaprire la concorrenza con le scuole private di preparazione al concorso in magistratura, ma decisivo diviene che coloro che hanno approvato la legge credano poi davvero nei corsi “pubblici” che realizzerebbe un aspetto rilevante dello stato sociale disegnato nella Costituzione, dal momento che molti sono i nostri laureati che, per ragioni economiche, non possono permettersi di frequentare i corsi delle scuole private.
Credere in un progetto significa in sostanza destinare ad esso le risorse necessarie per la sua realizzazione e questo mi pare essere il primo aspetto, assolutamente imprescindibile. La mancanza di risorse infatti può ritenersi una delle ragioni, se non la principale, dell’insuccesso delle scuole legali.
Certamente da tenere in contro la possibilità di svolgere i corsi a livello decentrato, ma anche in questo caso vengono in rilievo le risorse economiche e di personale, attualmente quasi inesistenti o comunque del tutto inadeguate allo scopo.
La competenza attribuita alla Ssm, come si legge nella relazione illustrativa, non deve essere intesa come competenza esclusiva, rimanendo possibile, e forse anche auspicabile, che altri soggetti pubblici possono svolgere la preparazione al concorso per magistrato ordinario.
Ovvio in questo senso pensare alle Università, per le quali potrebbero non valere le limitazioni previste per i corsi organizzati dalla Ssm e quindi trattarsi di corsi aperti a tutti i laureati in giurisprudenza, indipendentemente dal voto di laurea o dalla media degli esami.
I corsi potrebbero svolgersi in maniera coordinata e senza alcuno spirito di competizione, evitando soprattutto il formarsi dell’idea di un corso di “serie A” ed un altro di “serie B”.
Necessario parrebbe altresì un raccordo dei tempi di svolgimento dei corsi con quello dei bandi di concorso, dal momento che una eccessiva sfasatura finirebbe per ridurre inevitabilmente l’efficacia della preparazione.
L’organizzazione dei corsi di preparazione è, come detto, attribuita alla Ssm, alla quale viene in specifico riconosciuta la necessità di assumere in proposito decisioni di grande importanza.
Innanzi tutto per la possibilità, non prevista dalla legge delega, di introdurre per gli aventi diritto a partecipare ai corsi un numero chiuso, sulla base delle risorse della Scuole.
La legge delega si limitava a restringere la partecipazione ai laureati “più bravi” e che avessero dimostrato interesse per la magistratura (tirocinio, ufficio per il processo), dando però l’impressione che a tutti coloro che fossero in possesso di tali condizioni sarebbe stato riconosciuto il diritto ad iscriversi e partecipare ai corsi di preparazione.
Il decreto legislativo prevede invece la possibilità della Scuola “nell’esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse” di stabilire “il numero massimo di partecipanti”.
A parte il fatto che non è certo la Scuola a decidere circa le proprie risorse, che derivano da scelte fatte in altre sedi e da altri soggetti istituzionali, la legge stabilisce che “i costi di organizzazione gravino sui partecipanti”, confermando così l’impressione che la presenza dei requisiti richiesti determini una sorta di diritto a partecipare ai corsi.
D’altra parte credere in questa iniziativa – per porre una reale alternativa ai corsi organizzati dalle scuole private – vuol dire anche attribuire le risorse necessarie e, in caso di un alto numero di domande, aumentare queste ultime anziché introdurre un numero chiuso ed escludere una parte dei richiedenti.
La decisione di fissare un numero massimo di ammessi viene quindi lasciata al direttivo della Scuola, la quale si vede riconoscere anche un ulteriore compito, assai delicato, vale a dire quello di stabilire in questo caso “i criteri di preferenza”, senza altra indicazione.
Si aprono, come evidente, molti possibili criteri di selezione: ancora merito (i “più bravi dei bravi”), di reddito, di genere e quanto altro. La scelta ancora è attribuita al direttivo della Scuola, senza che sia previsto l’intervento, neppure a livello consultivo, di altri soggetti istituzionali (ad esempio il Csm).
Il comitato direttivo della scuola determina anche in concreto in quale misura i costi di organizzazione debbono gravare sui partecipanti, seppure con la necessità di tener conto delle condizioni reddituali.
Al proposito ci potremmo chiedere, visto che niente si dice al riguardo, se a fronte di situazioni economiche disagiate il costo potrebbe essere fissato a livello zero, ossia una partecipazione gratuita. Il decreto non ha ritenuto di prendere in considerazione l’ipotesi avanzata dal Csm nel suo parere di istituire borse di studio per persone in difficoltà economiche.
Inutile infine sottolineare l’ampio margine di scelta – e questo rientra nelle funzioni tipicamente riconosciute alla Scuola – nella organizzazione dei corsi, nella scelta dei docenti e nella predisposizione dei programmi.
In questo caso sembrerebbe da tener in conto, quali esperienze e modelli da seguire, più quelli delle scuole private di preparazione che non quelli delle scuole legali, ad esempio facendo riferimento ad un numero ridotto di docenti, magistrati e/o universitari, semmai con impegno esclusivo o quasi, ma sempre con un taglio pratico delle lezioni e con prove scritte o simulazioni di temi corretti e discussi con i partecipanti ai corsi.
4. La disciplina della prova scritta e della prova orale, la “disobbedienza” del governo delegato al principio e criterio direttivo di riduzione delle materie
Con riguardo alle prove del concorso di accesso alla magistratura, la legge delega ha fatto riferimento sia alla prova scritta (sub d), sia a quella orale (sub e).
Per la prima ha stabilito che la stessa abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati e consista nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e della Unione europea. La disposizione è stata ripetuta negli stessi termini anche nel decreto legislativo.
Per la prova orale la legge indicava quale principio e criterio direttivo quello di ridurre le materie, mantenendo ferme, oltre al colloquio in una lingua straniera, almeno quelle di diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’unione europea, diritto del lavoro, diritto della crisi e dell’insolvenza e ordinamento giudiziario.
Il governo ha ritenuto di non dare attuazione a questo principio, giustificando la sua scelta con questa motivazione: “tra le materie della prova orale non si opera alcuna espunzione, non dando seguito a questo criterio della delega. Infatti non si è ritenuto che le materie della prova orale fossero ulteriormente comprimibili”.
Certamente non è la prima volta che il legislatore delegato decide per una attuazione parziale della delega e questo, secondo quanto precisato in varie occasioni dalla giurisprudenza costituzionale, non determina un vizio per violazione dei principi e criteri direttivi.
Per il nostro caso vale però la pena di sottolineare come più che attuazione parziale parrebbe doversi parlare di vera e propria violazione di una scelta inequivoca e caratterizzante operata dalla legge delega.
Indicativa in proposito la stessa rubrica dell’art. 4 della legge (“riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura”) e chiara la decisione di ridurre, allo scopo, le materie della prova orale, da tempo e da più parti segnalate come eccessive, alcune delle quali poco significative per la selezione dei futuri magistrati.
Il decreto legislativo – accanto al decreto legge – rappresenta, come noto, una eccezione al principio secondo cui il potere legislativo spetta al parlamento, giustificata dal fatto che le scelte significative, cui il governo deve attenersi, sono fatte dal parlamento. Il decreto ha il compito di attuare le stesse, integrandole e specificandole, senza poter in alcun modo sostituirsi alle scelte fatte dalla legge delega.
La scelta del parlamento era stata di ridurre le materie dell’orale per limitare i tempi per l’accesso alla magistratura, ad essa il governo ha sostituito la propria scelta, ritenendo nel merito non riducibili le materie.
Ad aggravare una supposta violazione dei principi e criteri direttivi della legge delega, il governo non solamente non ha ridotto le materie della prova orale, ma addirittura, in contrasto con la suddetta finalità, ha aggiunto una nuova ed ulteriore prova, scritta ed orale, vale a dire il test psicoattitudinale ed il relativo colloquio. Su questa prova, assai discutibile, vale la pena di soffermarsi un momento.
5. La previsione di un test psicoattitudinale di ammissione nel d. lgs. 44/2024. I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega e irragionevolezza e la violazione del principio di leale collaborazione istituzionale nei riguardi del Consiglio superiore della magistratura.
L’ipotesi di introdurre un test psicoattitudinale era già stata avanzata per il nostro ordinamento almeno in due precedenti occasioni.
La prima nel programma eversivo predisposto da Licio Gelli, nell’ambito del più ampio disegno tendente a ricondurre la magistratura alla funzione di corretta e scrupolosa applicazione della legge, la seconda con la più recente legge Castelli. Attraverso l’approvazione di un maxiemendamento all’originario progetto di legge era stata inserita la previsione secondo cui i candidati al concorso per la magistratura avrebbero dovuto sostenere un colloquio di idoneità psicoattitudinale, anche in relazione alle specifiche funzioni che avrebbero dovuto indicare nella domanda di ammissione. Era inoltre previsto, nel decreto legislativo di attuazione, lo svolgimento di un colloquio con la presenza di un professore universitario che avrebbe dovuto essere valutato collegialmente dalla commissione di concorso.
La successiva legge Mastella, come noto, portò sostanziali modifiche a quella legge, tra le quali l’abolizione del test psicoattitudinale.
La disciplina adesso contenuta nel d. lgs. n. 44 del 2024 appare, per quanto cercherò di evidenziare, frutto di una certa approssimazione e motivata da un pregiudizio di fondo nei riguardi della instabilità psichica dei magistrati – era il 4 settembre 2003 quando l’allore presidente del consiglio Silvio Berlusconi affermò che "i giudici sono matti, sono mentalmente disturbati, hanno turbe psichiche e sono antropologicamente diversi dalla razza umana” - e che va ad inserirsi nell’opera di delegittimazione in corso, da parte delle forze politiche della attuale maggioranza, nei riguardi di singoli magistrati e dell’intera magistratura.
È previsto che, per i concorsi banditi a partire dal 2026, i candidati al concorso per magistrato ordinario, dopo aver superato le tre prove scritte, debbano sostenere un test psicoattitudinale allo scopo di “verificare l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”.
Al test segue un colloquio psicoattitudinale, diretto dal presidente della commissione di concorso, con l’ausilio di un esperto psicologo, davanti alla commissione competente per la prova orale, alla quale è rimessa la valutazione dell’idoneità psicoattitudinale.
La valutazione della prova viene parificata alla verifica della conoscenza della lingua straniera e quindi motivata “con la sola formula ‘idoneo/non idoneo’”
I test, nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria, dovranno essere individuati dal Csm, il quale dovrà individuare altresì le condizioni di inidoneità a svolgere la funzione giudiziaria.
Prima di passare ad alcune valutazione sul merito delle scelte operate dal legislatore delegato, ritengo opportuno evidenziare alcuni possibili vizi di legittimità costituzionale, sotto l’aspetto dell’eccesso di delega, da un lato e della ragionevolezza della scelta legislativa, dall’altro.
La legge delega, come noto, non conteneva alcuna autorizzazione al governo ad inserire quella che può ritenersi una ulteriore prova, la quale, come già detto, si viene a porre in evidente contrasto con la ratio della legge, ispirata a ridurre i tempi di svolgimento del concorso di accesso alla magistratura.
Per quanto concerne invece la ragionevolezza, ci potremmo chiedere se ed in che limiti possa ritenersi conforme ai principi costituzionali una indagine sulla personalità di un soggetto che aspira ad un posto di lavoro.
In via di prima approssimazione credo che dovremmo dimostrare che quella indagine risulti assolutamente necessaria per la funzione cui aspira il candidato e quindi nel nostro caso quali sono le condizioni attitudinali richieste come indispensabili.
Nessun dubbio può nutrirsi sulle qualità recentemente indicate da Spina (Valutazione di idoneità psicoattitudinale e concorso per magistrato ordinario: profili di contrasto con la Costituzione e i suoi principi fondamentali, in Questione giustizia, 2 luglio 2024): equilibrio, capacità di giudizio, disposizione all’ascolto delle opposte ragioni, non lasciarsi condizionare, onestà intellettuale, indipendenza di giudizio, disinteresse personale, assenza di preconcetti.
Il dubbio riguarda invece la possibilità di poter accertare, attraverso un test seguito da colloquio psicoattitudinale, la presenza o meno dei sopra indicati elementi nel candidato al concorso e quindi la ragionevolezza della previsione normativa.
Riprendendo la frase scritta a mano in un cartello presente nello studio di Einstein all'Università di Princeton, “non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato.”
La disciplina in esame pone dubbi circa la ragionevolezza della medesima anche sotto l’aspetto di una ingiustificata discriminazione a danno degli aspiranti magistrati.
Se la previsione di una indagine sulla personalità viene giustificata dalla delicatezza del ruolo svolto dai magistrati e dalla incidenza delle loro decisioni sulla vita dei destinatari, ci potremmo chiedere come non ritenere necessaria una analoga misura per molte altre professioni, si pensi, solo per fare qualche esempio, agli insegnanti di qualsiasi livello oppure al personale medico.
Una ulteriore discriminazione, ancora meno giustificabile, è poi quella a danno dei magistrati ordinari rispetto ai magistrati delle giurisdizioni speciali (amministrativa, contabile, tributaria, militare) per i quali invece non si è ritenuto di prevedere un analogo test di ammissione.
Ai sospetti di incostituzionalità si può aggiungere - sempre con riguardo alla disciplina in oggetto e con specifico riferimento al rapporto tra ministro della giustizia e Csm - un comportamento certamente non ispirato al principio di leale collaborazione tra le istituzioni.
La bozza di decreto legislativo, attuativo delle delega, inviata dal ministro della giustizia per il parere del Csm non conteneva alcun riferimento all’ipotesi del test psicoattitudinale, introdotto dopo che era stato inviato il parere e quando ovviamente non vi era più alcuna possibilità da parte del Consiglio di esprimere il suo parere, pur se non poteva certamente sfuggire al ministro che, nel caso, non si trattava certamente di una aggiunta di dettaglio, ma di una scelta assai dibattuta e contrastata e sulla quale, come detto, vi erano stati specifici precedenti.
La cosa è resa palese dalla lettera aperta inviata a tutti i consiglieri del Csm il 15 maggio 2024 e firmata da 414 magistrati con la quale si chiedeva al Consiglio di esprimere un “motivato e deciso parere contrario” alla proposta di inserire un test psicoattitudinale, giudicando lo stesso “inutile, dannoso, incoerente, insidioso, pericoloso, preoccupante ed offensivo”.
6. Segue: i test della personalità tra test psicoattitudinali e test psicodiagnostici. La verifica della “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria” e la ricerca dei relativi parametri di riferimento. Gli aspetti procedurali. La collocazione del test nel procedimento concorsuale; la relazione tra test e successivo colloquio; lo svolgimento del colloquio insieme alla prova orale sulle materie giuridiche davanti alla commissione di concorso: rilievi critici; la (non) motivazione con la “sola” formula “non idoneo” ed i riflessi circa la possibile ripetizione delle prove di accesso: rilievi critici
Il decreto legislativo ha quindi introdotto un test e un colloquio psicoattitudinale per l’accesso alla magistratura ordinaria.
In materia è chiara la distinzione che corre tra un test di questo tipo, tendente ad accertare se il candidato ha le abilità richieste per svolgere una certa funzione ed i “test psicodiagnostici”, tendenti a rilevare stati di malattia psichica. Così in quest’ultimo caso i disturbi rilevabili sono individuati ad esempio negli stati depressivi o di ansia, nella schizofrenia, nei disturbi ossessivi compulsivi, nel delirio, mentre nel primo caso nella capacità di controllare le proprie emozioni, di gestire situazioni di stress, nella coscienziosità, nell’equilibrio, nella apertura mentale, nella capacità di risolvere i problemi.
Da condividere la conclusione per cui, con riguardo al tema che ci occupa, oltre ai test psicodiagnostici – esclusi dalla lettera della legge – siano da scartare altresì i test di intelligenza, di velocità nella lettura, di precisione o di generica attitudine al lavoro e quindi identificare i test psicoattitudinali in quelli che vengono comunemente chiamati “test di personalità”.
Il carattere un poco improvvisato della scelta operata dal governo pare evidenziato dal fatto che alcuni esponenti dell’area governativa, tra i quali lo stesso ministro Nordio, all’indomani della notizia, tradendo forse la loro reale volontà, hanno fatto riferimento al noto test Minnesota, il quale è senza dubbio alcuno qualificabile e qualificato come test psicodiagnostico.
La legge prevede che il test e colloquio psicoattitudinali debbono servire a verificare “l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”. La presenza di due negazioni (“assenza” “inidoneità”) in luogo di un più lineare “verificare le condizioni di idoneità”, sembra voler indicare che oggetto della verifica deve essere non la presenza di condizioni idoneative, quanto la esclusione di cause di inidoneità, vale a dire una situazione eccezionale rispetto alla normalità.
Logico pertanto che, al fine di predisporre i test e poi di svolgere il colloquio, si renda indispensabile individuare preventivamente quali sono i parametri di riferimento rispetto ai quali fondare la verifica, ossia quali sono le condizioni di inidoneità.
La loro esatta individuazione risulta del tutto necessaria sotto diversi aspetti.
Innanzi tutto per i candidati al concorso, i quali su questa base possono decidere se partecipare oppure no: se viene considerata una condizione l’essere di un’altezza superiore al metro e sessanta, quelli che non la raggiungono eviteranno di presentare domanda.
Inoltre per porre le premesse di una valutazione oggettiva e non rimessa alle libere scelte della commissione esaminatrice.
Infine per affidare poi l’incarico a chi ha la competenza tecnica (esperti di psicometria) di formulare concretamente i test.
Una volta escluso l’utilizzo di test psicodiagnostici o di valutazione del quoziente intellettivo, viene da chiedersi se realmente i test psicoattitudinali applicati al concorso per la magistratura ordinaria allo scopo di escludere i casi limite di inidoneità, abbiamo davvero una qualche utilità. Ciò anche in considerazione del fatto che la “funzione giudiziaria” di cui parla la legge ha caratteristiche profondamente diverse a seconda che faccia riferimento al “lavoro” del consigliere di cassazione, del pubblico ministero, del giudice di famiglia, del giudice del lavoro, del giudice monocratico o del componente di un organo collegiale.
Passando a valutare gli aspetti più strettamente procedurali, il legislatore delegato pone lo svolgimento del test e del colloquio psicoattitudinali in un momento successivo a quello dello svolgimento delle tre prove scritte e quindi solo per coloro che le hanno superate. Il superamento delle prove scritte con l’ammissione all’orale sta a significare, come noto, la quasi certezza di aver superato il concorso, dal momento che in vari casi gli ammessi alla prova orale sono stati in numero minore rispetto ai posti messi a concorso.
Una simile scelta esclude quindi l’ipotesi nella quale con maggiore frequenza vengono utilizzati i test attitudinali ossia quella di collocare la prova all’inizio della procedura concorsuale al fine di operare uno sfoltimento dei candidati che poi sosterranno le prove davvero qualificanti. Allo stesso modo esclude pure quella di porre i test attitudinali una volta terminato il “periodo di prova” durante il quale è stato possibile valutare i soggetti “all’opera” (per i magistrati, si sarebbe potuto pensare a porli dopo il periodo di tirocinio).
Come noto di recente (d.m. 30 maggio 2025, n. 418) i test preventivi di ammissione ai corsi di laurea in medicina sono stati sostituiti da un semestre libero iniziale, con frequenza obbligatoria a corsi su tre discipline (chimica, fisica e biologia), al termine del quale i candidati vengono sottoposti a test aventi ad oggetto le materie seguite durante il semestre.
Le prove, come detto, consisteranno in un test ed in un colloquio, per cui è logico porsi il problema di quale sia la relazione che intercorre tra i due momenti.
Tra coloro che si occupano di psicometria troviamo infatti chi ritiene che netta prevalenza debba essere riconosciuta ai risultati del test, in quanto certamente più oggettivo e meglio valutabile e motivabile, tanto da ritenere giustificata l’esclusione del colloquio in caso di assoluta insufficienza del test.
Altri invece al contrario vedono nel colloquio il momento più qualificante, potendo chiarire ed approfondire le risultanze del test e quindi meglio accertare la personalità del candidato.
Nel nostro caso il legislatore delegato parrebbe aver optato per la seconda impostazione, dal momento che prevede che i test siano sostenuti “esclusivamente ai fini dello svolgimento del colloquio psicoattitudinale”.
Se l’elemento centrale risulta essere quello del colloquio, la relativa disciplina non può non suscitare qualche perplessità. Generalmente si ritiene che un colloquio di questo genere debba essere condotto e soprattutto giudicato da persona esperta in psicologia e che si svolga in forma riservata, garantendo l’anonimato e la riservatezza per la veridicità del risultato e per non porre in imbarazzo la persona esaminata.
Al contrario il legislatore delegato ha stabilito che il colloquio sia diretto dal presidente della commissione (quindi da un esperto di diritto), al quale lo psicologo è solo chiamato a dare un “ausilio”, che si svolga di fronte all’intera commissione competente per la prova orale, la quale collegialmente valuterà la idoneità psicoattitudinale dell’aspirante magistrato. Il giudizio sulla idoneità viene quindi reso da un collegio di giuristi, integrato da uno psicologo in sovrannumero.
La prova di idoneità (rectius di non inidoneità) alla funzione giudiziaria si svolge pertanto secondo le stesse modalità dell’esame orale per le discipline giuridiche previste dalla legge e viene parificata, quanto a modalità di giudizio, alla prova di conoscenza della lingua straniera.
Evidente la differenza che intercorre tra il colloquio psicoattitudinale e l’esame orale di una disciplina giuridica, sia per quanto concerne il particolare contenuto che esclude qualsiasi forma di compensazione tra le differenti materie, sia per la natura escludente propria del colloquio.
Parrebbe infatti che l’accertata condizione di inidoneità alla funzione giudiziaria debba escludere comunque, a prescindere da ogni altra valutazione, il superamento della prova.
Per questo logica vorrebbe che il colloquio si tenesse prima dell’orale vero e proprio e che l’accertata inidoneità fosse preclusiva all’esame orale sulle discipline giuridiche. Ciò ad evitare la situazione un po' paradossale di un candidato che supera a pieni voti tre prove scritte in diritto civile, penale ed amministrativo, che altrettanto fa con le diciassette materie giuridiche previste per l’orale, salvo poi, sulla base di un colloquio psicoattitudinale, alla fine sentirsi dire “lei non è idoneo alla funzione giudiziaria”.
L’insufficienza nel colloquio psicoattitudinale – al pari di quello sulla lingua straniera – è motivata “con la sola formula ‘non idoneo’”, quindi attraverso una non motivazione la quale, se può aver un senso per la prova linguistica, appare davvero assai discutibile se riferita ad un test e colloquio psicoattitudinale.
Sembrerebbe infatti necessario che il candidato possa sapere per quali ragioni è stato giudicato inidoneo alla funzione giudiziaria, certamente ai fini di un eventuale ricorso in sede giudiziaria, giustificato tra l’altro anche dal fatto che una simile valutazione potrebbe pregiudicare il candidato pure per altri concorsi diversi da quello per la magistratura ai quali egli intenda presentarsi.
La legge, di recente modificata, ha esteso a quattro le possibili prove di accesso al concorso per magistrato ordinario alle quali l’interessato può partecipare.
A fronte di test e colloquio sui tratti della personalità che hanno dato come risultato la inidoneità del candidato a svolgere funzioni giudiziarie, se è vero che i tratti della personalità sono per definizione stabili (altrimenti non potrebbero essere definiti come tali), viene da chiedersi quali siano gli effetti di un simile risultato nei riguardi del candidato che intenda ripetere la prova.
Facile capire come rimediare ad una insufficienza nel diritto civile o nel diritto penale o anche nella conoscenza di una lingua straniera, ma come rimediare ad una non motivata “inidoneità alla funzione giudiziaria”?
Forse sarebbe più logico specificare che chi ha mostrato, a seguito di attendibili prove psicoattitudinali, la presenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria non possa ripetere l’esame di accesso o, qualora si dovesse accedere all’idea che nel tempo i tratti della personalità possono cambiare, sia nuovamente sottoposto al test ed al colloquio in via preliminare rispetto alle altre prove, scritte e orali.
7. Segue: i risultati a breve termine della introduzione di test psicoattitudinali per la delegittimazione della magistratura ed i rischi a più lungo termine per la indipendenza dei magistrati. Il giudizio fortemente critico degli psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana e la significativa esperienza francese: le ragioni della introduzione nel 2009 del test psicoattitudinale e le ragioni della sua eliminazione nel 2017, a seguito dei risultati ricavati dalla sua applicazione pratica
L’applicazione pratica della innovazione in parola darà la misura della opportunità ed efficacia della stessa. Lanciandomi in una previsione, ed accettando il rischio di venire clamorosamente smentito, credo che pochissimi (forse nessuno) saranno di fatto gli esclusi per “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”.
La previsione di un test psicoattitudinale ottiene comunque a mio avviso un risultato nel breve periodo e potrebbe costituire un grave rischio per l’indipendenza della magistratura a più lunga scadenza.
Nel breve periodo la misura si inserisce armonicamente nel processo in corso di delegittimazione della magistratura agli occhi dei cittadini, specie attraverso l’accusa di politicizzazione e di volersi sostituire alle scelte spettanti al legislatore (v., volendo, Romboli, Magistratura e politica dalla finestra del Csm. I progetti di revisione costituzionale e la pratica di delegittimazione della magistratura, in Questione giustizia, 11 giugno 2025).
Prevedere un test psicoattitudinale per l’accesso alla magistratura ordinaria non può non far pensare alla presenza nella stessa di soggetti psichicamente instabili o mentalmente disturbati.
Una verifica fondata, per le ragioni che ho cercato di evidenziare, su elementi dai contorni sfuggenti e per niente oggettivi e relativi a caratteri attinenti alla personalità può rischiare, in tempi più lunghi, di trasformarsi in un pericoloso strumento per escludere persone non conformiste e per incidere negativamente sulla selezione degli aspiranti magistrati.
Del resto un vasto gruppo di psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana, nell’aprile 2024 aveva espresso “la più decisa contrarietà, disapprovazione e preoccupazione” riguardo alla ipotesi di istituire test psicoattitudinali per l’accesso alla magistratura, attraverso una critica soprattutto “tecnica” in ordine alla capacità di selezionare i futuri magistrati vagliando la loro specifica “idoneità psicoattitudinale” (“nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione”).
Nella suddetta dichiarazione i firmatari sottolineavano altresì come la commissione giudicatrice, non avendo alcun vero ancoraggio scientifico, sarebbe indotta ad un affidamento, “se non ad una subordinazione all’ordinamento politico del momento. L’operato di simili esperti correrebbe così il rischio di adeguare le proprie risposte ‘diagnostiche’ all’aspettativa di quella domanda ‘politica’ che li ha cooptati come suoi funzionari. Il risultato di tutto ciò sarebbe, con tutta evidenza, negativo per la psichiatria, per la psicologia e altrettanto inopportuno e sfavorevole per la magistratura, per la giustizia e per la cultura del nostro paese”.
Significativa può essere in proposito l’esperienza francese, che vale quindi la pena di ripercorrere seppure in estrema sintesi.
Nel 2001 alcuni bambini parlarono di abusi sessuali subiti ad Outreau (da qui la vicenda nota come Affaire Outreau), per i quali furono accusate quaranta persone. I relativi processi si svolsero negli anni 2004-2005, con una serie di condanne.
Nel 2005 in appello a Parigi tutti gli imputati furono completamente assolti ed il giudizio di primo grado si rivelò un enorme errore giudiziario, con conseguenti forti critiche al sistema giudiziario. Fu pure istituita una commissione parlamentare d’inchiesta (2006) che mise in evidenza gravi errori nelle indagini e nella valutazione delle prove.
Il caso, che è rimasto come simbolo di “errore giudiziario”, portò ad una serie di riforme del sistema giudiziario, fra le quali la introduzione nel 2009 di un “test di attitudine e di personalità”, con lo scopo di identificare eventuali fragilità psicologiche o tratti di personalità incompatibili con la funzione giudiziaria.
La prova era costituita da un test di 240 domande da compilare in tre ore, seguite da un colloquio di mezz’ora condotto da un magistrato e da uno psicologo ed era collocata dopo le prove scritte e le prove orali di ammissione e prima del “grand oral” finale davanti alla commissione del concorso. Questa riceveva i risultati del test psicoattitudinale come elemento di informazione supplementare (un parere aggiuntivo), i quali non costituivano mai una barriera autonoma per l’accesso alla prova orale finale.
L’applicazione di simile innovazione si rivelò di scarsa utilità pratica, in quanto non forniva indicazioni utili alla selezione dei candidati, di dubbia validità scientifica, per la mancanza di basi solide in psicometria e possibile strumento di selezione politica o ideologica, con il rischio di escludere candidati sgraditi sotto una veste pseudo scientifica.
Per queste ragioni il 10 maggio 2017 il test psicoattitudinale fu eliminato.
Il sindacato dei magistrati, in un comunicato stampa pubblicato nella stessa data, poneva in rilievo come “la causa del malfunzionamento giudiziario è stata erroneamente attribuita alla personalità dei giovani magistrati priva di ‘spessore umano’, il che ha dato origine all'idea di una soluzione miracolosa, tanto fantasiosa quanto pericolosa: un test per individuare tratti della personalità incompatibili con l'esercizio delle funzioni giudiziarie. Questa analisi ha trascurato la riflessione essenziale sulla procedura penale e sul funzionamento dell'istituzione, in particolare per quanto riguarda la custodia cautelare e il diritto a un giusto processo (…). Non è stato per sfiducia di principio in qualsiasi modifica al concorso o per assecondare un corporativismo fuori luogo che abbiamo chiesto l'abolizione di questi test, ma piuttosto perché sono completamente inaffidabili e inutili. Una relazione presentata lo scorso ottobre da una task force presieduta da giudici di alto livello ha ribadito questo punto, denunciando una pericolosa apparenza di scientificità in questi test, che non migliora in alcun modo il reclutamento dei giudici. Come possiamo seriamente immaginare che questi test psicometrici e di personalità, soggetti a una valutazione necessariamente riduttiva e utilizzati, in un inquietante mix di generi, da una coppia psicologo-magistrato, possano riflettere la complessità della personalità di una persona e le sue capacità di diventare magistrato? (…) In ogni caso, queste competenze possono essere valutate solo dopo una solida formazione, in cui i magistrati in formazione beneficino di un ambiente di supporto basato su situazioni reali, realmente rappresentative della realtà giudiziaria. Queste sono tutte strade per promuovere un sistema giudiziario umano e aperto alla comunità”.
Nota dell’autore
Il saggio è destinato agli scritti in onore di Michele Ainis.
Il lavoro trae spunti ed argomenti dai lavori della VI commissione del Csm, della quale ho fatto parte dall’inizio della attuale consiliatura fino ad oggi.
Desidero ringraziare per questa esperienza e per quanto ho appreso dalle approfondite e spesso appassionate discussioni, i miei colleghi di commissione, a partire dai due presidenti (Marcello Basilico e Roberto D’Auria) e da tutti gli altri componenti (Antonello Cosentino, Claudia Eccher, Roberto Fontana, Felice Giuffrè, Maria Luisa Mazzola, Eligio Paolini e Dario Scaletta).
Immagine: particolare da Ritratto di magistrato, olio su tela – Scuola italiana, XVIII secolo.