AUDIZIONE I COMMISSIONE (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) - CAMERA DEI DEPUTATI
Memoria scritta del dr. Armando Spataro[1]
(già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino e già componente del CSM)
in ordine alla
Audizione informale del 25 gennaio 2024, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge C. 23 cost. Enrico Costa, C. 434 cost. Giachetti, C. 806 cost. Calderone e C. 824 cost. Morrone, recanti modifiche all’articolo 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il succedersi delle regole vigenti e le diverse questioni in campo - 3. Le ragioni contro l’unicità di carriera: pag. 9 - 3.a La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa pubblica - 3.b Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M. - 3.c La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale - 3.d La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale - 3.e La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo - 3.f La particolarità del Portogallo - 4. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera - 4.a La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa - 4.b La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM - 4.c I dati statistici - 4.d Unica formazione e unico CSM - 4.e Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere - 4.f La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia - 5. Tensioni tra potere politico e magistratura: il P.M. non è l’“avvocato della polizia”, né “dell’accusa" - 6.La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali (con cenni alla obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) e le altre cinque proposte di legge pendenti in Parlamento - 7. Per concludere…l’iniziativa di 600 magistrati a riposo e dell’ANM.
1. Premessa
Le osservazioni che seguono (la cui lunghezza è dovuta alla notevole delicatezza della questione) sono frutto della mia esperienza professionale (tutta spesa nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sia come Sostituto Procuratore della Repubblica e Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, sia – negli ultimi anni, fino al dicembre 2018 – come Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino), nonché di quelle di componente del CSM (nel quadriennio 1998/2002) e più recentemente (dall’inizio del 2019) di docente a contratto presso l’Università Statale di Milano nella materia di “Politiche di sicurezza e dell’Intelligence”. Utilizzerò anche miei precedenti interventi sui temi oggetto dell’audizione.
Saranno inevitabili alcuni cenni al contesto storico e normativo, che non devono affatto essere interpretati come frutto di intenzioni diverse da quella di contribuire, con corretta dialettica, alla riflessione sulla dichiarata finalità delle proposte di legge in esame di introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere dei magistrati, una riforma che a mio avviso – lo affermo preliminarmente – non è condivisibile, in quanto inutile, anacronistica ed in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento.[2]
In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi degli argomenti e delle rispettive obiezioni. Il tentativo è quello di riuscire a farlo con freddezza, nonostante talune affermazioni e strumentalizzazioni, non certo commendevoli, abbiano acceso il dibattito nel mondo dei giuristi.
In questa prospettiva, sento comunque il dovere di anticipare con chiarezza la mia ferma contrarietà (per le ragioni che appresso esporrò) a qualsiasi ulteriore cambiamento delle norme vigenti in materia (pur se alcune di esse appaiono criticabili) e, dunque, manifesto subito il mio dissenso (che illustrerò nel penultimo paragrafo) rispetto alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali (ma di iniziativa popolare), presentata il 31 ottobre 2017, nonché rispetto alle seguenti altre 5 proposte di legge costituzionale pendenti in Parlamento, le prime 4 presso la Camera dei Deputati e la quinta presso il Senato (che qui si preferisce citare, pur se non oggetto della audizione), tutte con la medesima intitolazione («Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura») :
· Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa (Azione), presentata in data 13 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 434, d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), presentata in data 24 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 806, d’iniziativa dei deputati Calderone, Cattaneo, Pittalis e Patriarca (Forza Italia), presentata in data 24 gennaio 2023;
· Proposta A.C. n. 824, d’iniziativa dei deputati Morrone, Bellomo, Bisa, Matone e Sudano (Lega), presentata in data 26 gennaio 2023;
· DDL S. n. 504, d’iniziativa della senatrice Erika Stefani e di altri 21 senatori cofirmatari (Lega), presentato in data 26 gennaio 2023.
Il Governo, come è noto, non ha ancora presentato alcuna proposta di legge in materia, poiché, illustrando il “cronoprogramma” delle proposte più urgenti di riforma in cantiere, il Ministro Nordio ha dichiarato che “ci sono poi altre riforme di carattere costituzionale come le carriere dei magistrati che esigono tempi più dilatati”[3], aggiungendo in seguito che “...sarà una rivoluzione copernicana. È una riforma non negoziabile per una ragion pura e una ragion pratica: è nel programma di Governo e quindi va attuata per rispetto verso i cittadini che ci hanno votato; è consustanziale al processo accusatorio”[4].
A dimostrazione del fatto che la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non è un obiettivo condiviso da tutto il mondo dell’avvocatura, pur se è ormai una sorta di “ossessione” delle Camere Penali, intendo, però, iniziare questo intervento citando affermazioni importanti di prestigiosi avvocati penalisti (e molti altri potrebbero essere qui citati)[5]:
- l’avv. Enzo Mellia, del foro di Catania, così ha scritto in un suo recente articolo intitolato “Separazione delle carriere tra giudici e pubblici, scelta scellerata”[6], che gli ha procurato molti consensi da colleghi ed accademici: “..sono persuaso e convinto che l’annunciata riforma sia giovevole ad incrementare un’impostazione secolare ed inquisitrice del processo e a lanciare, vieppiù, verso vette indefinite, quei pm che ritengono gli imputati avversari da abbattere e gli avvocati pericolosi mestatori del vero”…”. E l’articolo si chiude con quest’affermazione: “Il Giudice che si pone al servizio della Costituzione non può subire i fascini né della Procura della Repubblica né di potentati forensi. L’infettante sospetto, che, alla fine dei conti, si intende attribuire al Giudice, è la torbida, strategia degli Stati autoritari. Certamente, non della nostra democrazia e del tributo, dovuto, alla Resistenza”;
- l’avv. e prof. Franco Coppi, intervistato l’8 luglio 2023[7] da Paolo Frosina, ha dichiarato: “La separazione delle carriere.. sarebbe un’enorme spendita di quattrini, di mezzi, una cosa mostruosamente difficile. E a che servirebbe? Io non ho mai pensato di aver vinto o perso una causa perché il pm faceva parte della stessa famiglia del giudice. Dipende dall’onestà intellettuale delle persone. Poi, ammesso che oggi il giudice consideri il pm un fratello, con la separazione lo considererebbe un cugino, perché continuerebbe a pensare che la sua visione sia imparziale, mentre quella dell’avvocato – che è pagato dal cliente – no. Infine un piccolo particolare: ma questi sono sicuri di trovare così tanta gente che vuol fare l’accusatore per tutta la vita? Quando faranno i concorsi per pm non so in quanti si candideranno”. Ed identiche affermazioni l’avv. Coppi ha ribadito nel corso di un confronto con il Ministro Nordio, allorché (riferendosi ad una possibile causa “persa”) ha detto: “..ho sempre pensato dove avevo sbagliato io o dove poteva avere sbagliato il giudice. Ma mai mi è passato per l’anticamera del cervello che il giudice avesse voluto favorire il collega…Comunque, per quanto riguarda l’efficienza della giustizia, e soprattutto la giustizia della sentenza, non credo che la separazione delle carriere porterà a molto”.
Ma altre simili valutazioni provengono da esponenti altrettanto prestigiosi del mondo accademico tra cui, riservandomi altre citazioni più avanti:
- il prof. Salvatore Satta che, in suo storico manuale oltre mezzo secolo fa[8], nell'esaminare la figura del pubblico ministero (pagg. 62 e segg.), fece queste interessanti considerazioni: “la verità è che la funzione (e l’interesse) del pubblico ministero non ha corrispondenza che nella funzione (e nell’interesse) del giudice, il quale anch’egli vigila sull’osservanza della legge, e continuamente l’attua nell’esercizio della giurisdizione: onde la conclusione che se ne deve trarre è che il pubblico ministero è, come il giudice, un organo schiettamente giurisdizionale…. In realtà nulla impedisce di ritenere che, come lo Stato ha istituito i giudici per realizzare la volontà della legge, così abbia istituito degli organi per stimolare la realizzazione di tale volontà e che quindi possa configurarsi una giurisdizione che si esercita per via d’azione…”;
- il prof. avv. Gustavo Ghidini, secondo cui[9] “Inquieta la possibilità, che la separazione delle carriere sembra rendere assai concreta, che uno dei due magistrati da cui dipenderà la sua sorte giudiziaria (NdR: quella dell’imputato), sia «educato» ad accusarlo, e che gli argomenti a sua difesa da presentare al giudice siano affidati al solo avvocato difensore. Forse non avverrà così, v’è da augurarselo, ma così il pericolo appare concreto. Ed è un pericolo che colpisce la fiducia del cittadino nello Stato come «fornitore» di giustizia.
Quel ruolo richiede infatti che ogni magistrato, nei diversi ruoli, persegua un unico ed unitario interesse generale: accertare la verità dei fatti nei modi processuali stabiliti, e decidere di conseguenza, secondo la legge.
Il cittadino si aspetta che, come ora avviene (e comunque come ora deve avvenire), il pubblico ministero cerchi, con pari impegno, prove a carico e a discarico dell’indagato, e, se del caso, chieda l’archiviazione o l’assoluzione. Il pm deve rimanere «parte imparziale» del processo: a differenza del difensore che fa l’interesse privato e personale dell’imputato.
Al giudice, poi, spetterà di valutare le prove e gli argomenti presentati dall’uno e dall’altro”.
2. Il succedersi delle regole vigenti e le diverse questioni in campo.
Come è noto, le norme dell’ordinamento giudiziario vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), nonché in tema di assegnazione dei magistrati all’una o all’altra funzione al termine del tirocinio, erano – fino alla legge n. 71 del 17 giugno 2022 - quelle previste dal d.lgs n. 160 del 5 aprile 2006, emesso in attuazione della legge delega n. 150 del 20 luglio 2005, successivamente modificate dalla legge n. 111 del 30 luglio 2007, con conseguente notevole cambiamento del sistema preesistente[10].
A seguito della citata riforma ordinamentale[11], infatti, le funzioni requirenti di primo grado potevano essere conferite solo a magistrati che avessero conseguito la prima valutazione di professionalità, vale a dire dopo quattro anni dalla nomina.
La riforma, peraltro, aveva limitato il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti, e viceversa, sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:
a) all’interno dello stesso distretto;
b) all’interno di altri distretti della stessa regione;
c) all’interno del distretto di corte d’appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato prestava servizio all’atto del mutamento di funzioni.
Sotto il profilo soggettivo, veniva stabilito il limite massimo di quattro passaggi nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni esercitate pari a cinque anni.
Ai fini del passaggio si richiedeva inoltre:
a) la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale;
b) la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.
Il cambio di funzioni, purché avvenisse in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza, era possibile anche nel medesimo distretto, ma solo in presenza di specifiche situazioni e stringenti requisiti[12].
Va pure ricordato, in particolare, che la legge n. 111/2007, oltre ad avere modificato varie altre previsioni del D. lgs. n. 160/2006, aveva eliminato la netta ed irreversibile separazione delle funzioni originariamente introdotta dalla “legge Castelli” (secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti): la legge n. 111/2007 aveva dunque impedito l’entrata in vigore di una normativa che di fatto realizzava una separazione delle carriere, aggirando le previsioni costituzionali[13].
In relazione allo specifico tema della separazione delle carriere, è però doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 co. 2 sul passaggio dei magistrati dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa, e di altre previsioni dell’ordinamento giudiziario, ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue:
- dopo avere rilevato la "matrice razionalmente unitaria" che caratterizza il quesito, consentendo di ritenerlo conforme, sotto questo aspetto, alla logica del referendum abrogativo come "strumento di genuina manifestazione della sovranità popolare", la Corte ha precisato : “Ciò non significa, peraltro, che l'eventuale abrogazione, che discenderebbe dalla approvazione del quesito referendario, appaia in grado di realizzare, tanto meno in modo esaustivo, un ordinamento caratterizzato da una vera e propria "separazione delle carriere" dei magistrati addetti alle funzioni giudicanti e rispettivamente a quelle requirenti, obiettivo, questo, che richiederebbe una nuova organica disciplina, suscettibile di essere introdotta solo attraverso una complessa operazione legislativa, e non attraverso la semplice abrogazione di alcune disposizioni vigenti”;
- ed inoltre: “la Corte non può non rilevare che il titolo attribuito al quesito dall'Ufficio centrale per il referendum "Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti" appare non del tutto adeguato, e in sostanza eccedente, rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte, concernenti piuttosto, come si è detto, l'attuale disciplina sostanziale e procedimentale dei passaggi dall'una all'altra funzione in occasione dei trasferimenti dei magistrati a domanda.
- “Non può dirsi che il quesito investa disposizioni il cui contenuto normativo essenziale sia costituzionalmente vincolato, così da violare sostanzialmente il divieto di sottoporre a referendum abrogativo norme della Costituzione o di altre leggi costituzionali (…). La Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.
La Corte Costituzionale, nella stessa occasione, aveva pure precisato che:
Di questa pronuncia si deve prendere atto, anche in relazione al dibattito sulla necessità o meno di modificare la Costituzione per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, differenti rispetto a quelle oggetto del referendum abrogativo del 2000[14], che periodicamente sono argomento di dibattito politico, come quelle oggetto dell’audizione che prevedono la necessità di concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o quella di istituire separati Consigli Superiori della Magistratura. In questo caso[15], si tratterebbe di proposte di modifiche ordinamentali che, se fossero attuate con legge ordinaria, difficilmente potrebbero sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Ma il sistema sin qui illustrato per necessità di ricostruzione storica è stato a sua volta significativamente modificato da quello introdotto con la la Legge n. 17 giugno 2022, n. 71, contenente, tra l’altro, disposizioni in materia di riforma ordinamentale”.
In proposito, ha efficacemente scritto Nello Rossi[16] :
“Se per “separazione delle carriere” dei giudici e dei pubblici ministeri si intende una netta divaricazione dei percorsi professionali e la diversità dei contesti organizzativi nei quali vengono svolti i rispettivi ruoli professionali, allora bisogna prendere atto che, a seguito degli interventi legislativi degli ultimi venti anni, la separazione si è già di fatto realizzata.
In particolare la legge n. 71 del 2022 ha determinato un’accentuazione estrema del processo di interna divisione del corpo della magistratura, procedendo oltre i già rigidi steccati eretti dalla riforma Castelli del 2006 e realizzando il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata. L’art. 12 della legge 71/2022 ha infatti modificato l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una volta nel corso della carriera, entro il termine di 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni.[17]
Trascorso tale periodo è ancora consentito, per una sola volta:
a) il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, a condizione che l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;
b) il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.
La regola generale dell’unico passaggio intende evitare che la scelta delle funzioni sia troppo fortemente condizionata dalla posizione del magistrato nella graduatoria del concorso di accesso e da considerazioni compiute nella fase iniziale della sua vita professionale, lasciando aperta una (sola) porta per una opzione fondata su di una più matura vocazione.
Si è voluto, cioè, almeno evitare di avere un pubblico ministero ingabbiato, precocemente e irrimediabilmente, nel ruolo di giudice o viceversa.
Ora è evidente che tanto la regola generale quanto i due ulteriori spiragli lasciati aperti per il mutamento di funzioni in precedenza ricordati costituiscono solo modesti e parziali temperamenti di una separazione divenuta pressoché totale.”
Questa è dunque la disciplina attualmente vigente che si intende ulteriormente modificare con le già citate proposte di legge che, come si dirà appresso, andrebbero ad incidere anche su altri principi costituzionali: va posto in evidenza, infatti, che la Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica, prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dalle stesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), le attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi del modello previsto rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero, figura cui spetta il compito, come si evince dallo stesso nome dell’organo, di rappresentare gli interessi della Repubblica, vale a dire di assicurare il rispetto della legge, non solo in materia penale, ma anche in materia civile in particolare, “in tutti quei casi in cui l'ordinamento ravvisi la sussistenza di un interesse pubblico o di un interesse collettivo che si affianca a quello strettamente personale delle parti. In particolare, la legge prevede specifiche ipotesi in cui il p.m. può addirittura esercitare l'azione civile (dando quindi avvio ad una causa) ed altre in cui il suo intervento è comunque richiesto nelle cause instaurate da altri soggetti, a tutela di interessi che, come detto, trascendono quelli delle parti già coinvolte nel processo”[18].
Anche da queste brevi considerazioni dovrebbe risultare evidente la necessità che giudici e pubblici ministeri abbiano le stesse competenze, la stessa formazione e la stessa appartenenza a un unico ordine, indipendente da ogni altro potere, come stabilisce la nostra Costituzione.
Questa annotazione, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi appena enunciati che rischiano di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale in esame o che periodicamente si addensano all’orizzonte.
Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare e confutare separatamente ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma assolutamente rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico-giudiziario, talvolta impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella della separazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere, nient’affatto sovrapponibili. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dagli addetti ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dalla normativa citata (art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2006, poi sostituito dall’art. 2 L. 30 luglio 2007[19] e dall’art. 12 L. n. 71 del 2022). Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati, le carriere di giudicanti e requirenti siano amministrate da distinti CSM ed in cui il passaggio dall’una all’altra funzione sia impossibile.
3. Le ragioni contro l’unicità di carriera[20]
3.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa.
Il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m., secondo alcuni, sarebbe deducibile anche dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame.
Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto il 21 maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” e si qualificava compromettente “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale..”, affermazioni che si ripetono all’infinito almeno sin dall’epoca dei processi cd. di “Mani Pulite”
È notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare per le tesi dell’accusatore: Francesco Saverio Borrelli, autorevolmente, già venti anni fa, parlò di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”, auspicando che “si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee”[21].
Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa e dello stesso dato statistico, facilmente strumentalizzabile in qualsiasi direzione: perché escludere, ad esempio, che l’alto numero di richieste cautelari accolte dai giudici costituisca spia del fatto che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione ?
Ma soprattutto le tesi dell’appiattimento dei giudici sulle tesi dei PM sono smentite sul piano “quantitativo” da un dato opposto, quello dalle alte statistiche sulle assoluzioni e, sul piano “qualitativo”, dal rigetto di ipotesi accusatorie in importanti processi nei quali alcuni uffici di procura avevano investito molto in termini di impegno e di immagine.
Ne danno notizie le frequenti ed anche recenti cronache giornalistiche[22] che, però, citano anche i numerosi casi di decisioni dei giudici che “scavalcano” le richieste dei PM, condannando pur in presenza di richieste di assoluzioni, comminando pene più elevate di quelle richieste dai PM e disponendo il rinvio a giudizio pur in presenza di richieste di archiviazione. Insomma sembra nato, dopo quello dei PM, “il partito dei giudici”, al punto che spesso si auspicano indagini disciplinari nei loro confronti, si indaga sulle loro vite private e sui loro orientamenti ideali, fino a qualificarli oppositori politici nei confronti della maggioranza di turno.
L’affermazione della contiguità condizionante fra giudici e p.m., però, è diventata comunque “una convinzione diffusa, una verità che non ammette prove e ragioni contrarie”[23].
3.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.
È questa una posizione che emerge spesso negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali[24]. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati.
Orbene, dando per scontata l’esistenza, sia pur marginale, del vizio insopportabile di taluni magistrati (soprattutto P.M.) di erigersi al rango di moralizzatori della società, sorprende che da parte dell’avvocatura italiana (o di parte di essa) e da alcuni settori del mondo politico si trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp).
Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo - non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati e politici compresi).
Basterebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove. E ciò vale anche per i giudici di legittimità.
Stupisce, pertanto, quanto si legge in un articolo del prof. Giorgio Spangher[25]: “Il governo…dovrebbe avere il coraggio di contrapporsi ad essa (NdR: alla “magistratura antimafia”) ed alla magistratura in generale. Come? Rivendicando e non paradossalmente affossando la separazione delle carriere, il cui rinvio è ora giustificato dalla riforma del premierato: la separazione era stata peraltro ripetutamente ed ancora di recente promessa, senza dimenticare quanto la si fosse sbandierata in campagna elettorale. Di rinvio in rinvio non se ne farà nulla. Urge…attendere! E però se la si portasse a casa, si limiterebbero certi poteri che ora sono troppo concentrati nella Procura Nazionale Antimafia così come in quella europea”.
Dunque separazione delle carriere come farmaco in grado di curare i presunti eccessi di potere della PNAA (non si spiega quali sarebbero, però), il cui magistrato dirigente, invece, si distingue per sobrietà e rispetto delle competenze istituzionali, oltre che per la sua professionalità!
3.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale.
Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del “nuovo” codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni è ancora prevista nell’ordinamento giudiziario vigente, va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a vita a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante.
Sono in proposito ricche di passione ed efficaci le parole di Alessandra Galli[26], già giudice e figlia di Guido Galli, ucciso dai terroristi di Prima Linea il 19 marzo del 1980 a Milano: “Non è affatto detto che dalla separazione di giudici e pm nascano magistrati più equilibrati. La contaminazione non intacca l’autonomia. Al contrario, si impara a valutare le cose da una prospettiva diversa. Lo dico per esperienza personale e familiare. Io sono stata nella mia carriera pubblico ministero e giudice, penale e civile, un percorso che mi ha arricchito. Soprattutto, ho avuto l’esempio mio papà: era stato pm e poi giudice, e prima di essere assassinato stava rientrando in procura” (NdR: il CSM aveva già deliberato tale trasferimento).
Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro(come il modello americano, caratterizzato anche da alcune caratteristiche essenziali ed estranee al nostro, quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede, al co. 1, che il P.M. “veglia all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo, nei casi di urgenza, i provvedimenti cautelari che ritiene necessari”): un ruolo che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività e che non coincide, dunque, con quello di semplice parte, interessata solo alle ragioni dell’accusa. In definitiva appare evidente, e dovrebbe esserlo anche per chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, va costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.
Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”: “ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”.
Anche questa affermazione priva di fondamento è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata o, nel migliore dei casi, di una visione storica propria di commentatori disattenti. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G., rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito approvato nel 1988, ed in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura.
Le affermazioni di Falcone, peraltro risalenti ad epoca anteriore alle ben note aggressioni subite in anni seguenti dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno, specie da chi non conosce le precisazioni che più volte egli aveva diffuso per evitare equivoci sul suo pensiero.
3.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale
Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata)[27] quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di un principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.
In realtà, evocare il contenuto dell’art. 111 Cost. ed affermare che esso impone la separazione delle carriere è una delle più gravi suggestioni in circolazione.
Tralasciando ogni possibile slogan, infatti, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguentemente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento.
In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i “risentimenti” originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.
Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale: non si vede, infatti, come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo, pur se tutti “controllori” del merito delle indagini[28].
Ed a costo di apparire provocatorio, perché non arrivare a prevedere una distinzione di carriere tra avvocati che assistono imputati e quelli che assistono parti civili, anch’essi di solito “appiattiti” sulle tesi dei p.m.? In realtà, non sembra che interessi molto la difesa della unicità della cultura giurisdizionale che pure dovrebbe coinvolgere allo stesso grado magistrati ed avvocati!
Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio mandato nella piena legalità e con eventuale e personale successo professionale: senza quel ruolo non sarebbe possibile giustizia e la bilancia che la rappresenta non potrebbe essere equilibrata. Sono affermazioni che non hanno alcuna valenza offensiva, sia pur marginale, come ha invece ritenuto l’Unione delle Camere Penali in un documento del 10 settembre 2023 ove si legge quanto segue:
“La funzione difensiva viene considerata, sempre da ANM, come “rappresentazione di interessi privati”, che in quanto tale non ha titolo a pretendere parità rispetto alla parte pubblica, cioè al pubblico ministero. Uno sproposito giuridico e culturale di dimensioni epocali. La funzione difensiva, rappresentando la indispensabile condizione senza la quale non è tecnicamente possibile che si formi la prova nel processo e che il Giudice formi il proprio convincimento ed esprima il proprio giudizio, svolge una cruciale funzione di rilievo pubblico perfettamente equiparabile a quella svolta dall’Accusa. Identificare l’interesse specifico dell’imputato con la funzione pubblica svolta dal suo difensore rappresenta uno sproposito di dimensioni epocali, che ci fornisce la esatta misura della deriva populista e demagogica di ANM”.
Niente di tutto questo ha un minimo di fondamento: il ruolo pubblico del difensore è fuori discussione, ma ciò non significa affatto che sia identico rispetto a quello del P.M. e caratterizzato dalle stesse finalità ! Il P.M., invece, condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le sue indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).
Il 6 settembre 2023, in sede istituzionale e durante l’audizione del presidente dell’ANM dr. Santalucia dinanzi alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, l’on.le avvocato Tommaso Calderone, firmatario di una delle cinque proposte di legge citate in premessa, ha dichiarato di non avere mai conosciuto alcun pubblico ministero che abbia svolto attività investigative in favore degli imputati: si tratta di un’affermazione che genera stupore, alla luce di ciò che spesso si verifica in ogni Tribunale, anche in processi importantissimi, sia durante la fase delle indagini che durante i dibattimenti, come riconosciuto da molti avvocati.
Tornando al senso delle descritte differenze ontologiche (che – si ripete - non intaccano in alcun modo l’etica del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica), ciascuno può agevolmente comprendere che non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è anzi fatto positivo per i cittadini e per la collettività.
L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio, condiviso da chi scrive, della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Non risulta affatto che nel processo le parti abbiano poteri asimmetrici” pure se “il pubblico ministero è portatore di un interesse pubblico, che non è simmetrico a nessun interesse delle parti private”[29] . E comunque la parità processuale “…non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa”[30].
Anche il membro laico del CSM Ernesto Carbone si è pronunciato in tal senso[31]: “Nessuna separazione delle carriere ma ‘commistione’ delle carriere”. E ancora: “La separazione fra pm e giudici è un finto problema. La separazione ci deve essere tra magistrati bravi e magistrati meno bravi”. Ha poi teorizzato che, piuttosto, il buon magistrato per cinque anni dovrebbe fare il giudice, e solo dopo potrebbe cambiare casacca.
E Stefano Cavanna, altro membro laico del CSM, ha aggiunto: “Penso di essere stato il primo ad affermare l’importanza che i magistrati durante il loro percorso professionale ogni tot anni passino dal ruolo giudicante a quello requirente e viceversa”[32].
3.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo[33].
È questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori e da giuristi favorevoli alla separazione, i quali – tuttavia – non possono non conoscerne la natura di mero slogan, né ignorare quanto essa sia priva totalmente di fondamento.
Ma purtroppo, si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
È opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la assoluta inattendibilità dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo e il condizionamento delle indagini.
Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo raccontare in Italia. È chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese: basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Tra l’altro, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione: “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente”. Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita ad alcuni accademici[34] e persino all’avv. Gian Domenico Caiazza, già presidente della Unione Camere Penali, che nel corso di un recente confronto con lo scrivente[35] ha manifestato la propria indifferenza a tale ipotesi.
Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:
- in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende. Esiste interscambiabilità dei ruoli;
- in Belgio, il PM è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; anche il passaggio da una carriera all’altro può avvenire, per i PM, soltanto per decisione dell’esecutivo;
- in Germania chi esercita la funzione requirente riveste uno status di funzionario statale dipendente, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici; le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate, ma l’interscambio è comunque possibile, pur se non è frequente e, per lo più, avviene in un’unica direzione (da PM a Giudice);
- in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo, è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia, ha un limitato controllo della polizia giudiziaria. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e si è avviata una discussione sulla riforma del P.M., anche alla luce di due durissime condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Moulin c. Francia del 2010 e Vasis c. Francia del 2013). Pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti” avvenute anche in un recente passato, si tende a conferire al P.M. maggiore autonomia dall’Esecutivo.
- in Spagna, le carriere sono costituzionalmente separate senza possibilità di interscambio. Esiste una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo;
- in Inghilterra e Galles, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia la Polizia la quale ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni[36];
- in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma a seguito di elezione. L’ esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede. Non è prevista alcuna forma di passaggio dalla carriera requirente e quella giudicante e viceversa;
- in Olanda, previa frequentazione di corsi di aggiornamento, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m. (e viceversa), ma il PM è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale;
- in Polonia, la riforma della Prokuratura del 2016 ha interrotto e invertito un percorso che era in atto dal 2009 di un ufficio indipendente del PM: il ruolo del Ministro della Giustizia è stato riunificato con quello del Procuratore generale, in modo da accentrare nella stessa persona maggiori poteri di indagine ed intervento diretto in casi specifici pendenti presso le giurisdizioni. Una concentrazione di potere che ha comportato l’eliminazione di qualsiasi forma di indipendenza interna per i singoli procuratori[37];
- il sistema statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: è un sistema che si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici.
Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto”.
Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).
È stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese;
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà, come appresso si dirà, non può certo ritenersi così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura da tempo soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo.
Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.
3.f – La particolarità del Portogallo
La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo: non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso che, per la verità, si sta già autorevolmente “lavorando” all’ipotesi di un controllo dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principi di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.
Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale del Portogallo ove, , sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua pluridecennale applicazione, quel progressivoaffievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese[38], il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione –ha dichiarato il magistrato portoghese - aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri[39] hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. È stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.
4. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera
Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono già in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati. Ma altre ne esistono.
4.a – La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa
Per completare la carrellata sul panorama internazionale, ad es., è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea. Vanno a tal fine citate almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni, l’uno risalente al 2000 e l’altro più recente del dicembre 2014
Il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che:
“…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”.
Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che:
“La possibilità di <<passerelle>> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”.
Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta “Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.
Orbene, in questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono qui illustrati.
Ma va anche ricordata, in ordine al tema di cui qui si discute, la creazione della Procura Europea (EPPO) che, con sede in Lussemburgo, è entrata in funzione dal 1°giugno 2021, almeno per il momento è competente esclusivamente ad indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione dinanzi alle ordinarie giurisdizioni nazionali degli Stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi.
Si tratta di un’importante istituzione sovranazionale, utile per far meglio funzionare la collaborazione internazionale tra gli stati europei, ma anche con Eurojust ed Europol.
Orbene, è significativo che, anche per rendere omogenee le legislazioni europee in tema di giustizia, la normativa che riguarda l’EPPO impegna gli Stati Europei a bandire specifici interpelli ai rispettivi magistrati per diventarne componenti, prevedendo che questi ultimi possono esercitare – negli stati di provenienza – funzioni sia giudicanti che inquirenti: nell’ultimo interpello bandito in Italia, infatti, alla luce anche della normativa interna, vi sono stati vari giudici che hanno chiesto di diventare pubblici ministeri nell’Eppo.
“Nello spazio comune europeo, la garanzia di tutela dei diritti e dello Stato di diritto comporta una riduzione degli spazi di manovra autonomi per interventi strutturali che possano compromettere la capacità dei sistemi giudiziari nazionali di operare nella loro funzione di effettiva garanzia. La prospettiva europea è dunque la cartina di tornasole per valutare l’impatto e le ricadute di tutte le modifiche che incidono sulla qualità ed efficacia della giurisdizione.
Ciò che oggi l’Europa ci chiede è valutare ogni riforma istituzionale alla luce dei principi dello Stato di diritto, come insieme dei valori non negoziabili che sono a fondamento dell’Unione: fra questi, l’indipendenza dei sistemi giudiziari e degli attori della giurisdizione, che deve garantire l’effettiva tutela dei diritti e dei singoli contro ogni arbitrio del potere”[40].
Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni[41].
4.b – La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM
Si è fin qui più volte parlato di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi. O quasi si trattasse di uno slogan pubblicitario.
È quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità”[42]. In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.
Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia e di tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia di cui, diversamente, verrebbero incentivate prassi criticabili, talvolta ancora oggi emergenti. Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere inserito, appunto, nella cultura della giurisdizione, che non coincide certo con l’ovvia “cultura della legalità”, un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Il PM, insomma, deve saper esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura e senza rinunciare, dall’altro, a quella cultura che costituisce la barriera più solida contro i ricorrenti progetti di separazione delle carriere (e persino – come qualcuno incredibilmente auspica - di separazione del ruolo del PM da quello della Polizia Giudiziaria).
Se questo legame si attenuasse o venisse reciso, si aprirebbe la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità[43]), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica”[44]. Anni fa, lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia ai suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.
L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa agli ordini) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente (i cui eventuali diversi “colori” sono del tutto indifferenti rispetto agli argomenti qui in esame)[45].
La cd. “cultura giurisdizionale” e l’orgoglio della propria indipendenza, costituzionalmente garantita, sono dunque valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che, con l’aiuto dell’Avvocatura, andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati.
Efficaci, a tal proposito le parole di Marcello Maddalena[46]: “La Costituzione ha previsto che giudici e pubblici ministeri facciano parte di un unico ordine giudiziario con un unico Consiglio superiore comune ad entrambi e non ha posto alcun divieto al passaggio da una funzione all’altra… Quello che accomuna le due funzioni, di pm e giudice, e le rende, entrambe, incompatibili con quella della difesa (di qualsiasi parte, imputato, indagato, parte civile, persona offesa) è il principio di verità. Il pubblico ministero ha come scopo la scoperta della verità (che può essere anche l’innocenza dell’imputato...) ed il giudice deve accertare la verità. La difesa delle parti private non è tenuta a ricercare e sostenere la verità[47]”, aggiungendo poi di ritenere che la separazione delle carriere “...sia un portato della concezione agonistica del processo”.
4.c – I dati statistici
È opportuno ragionare anche attorno ad aggiornati dati statistici: si parla molto spesso, infatti, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM – nel 2000 - inviò anche al Comitato promotore del citato referendum abrogativo. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50%; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. Tali dati sono vistosamente “crollati” a seguito delle limitazioni introdotte d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007 (provvedimenti citati nel par 2).
Infatti, esaminando numeri e tipologia dei trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi a due periodi in sequenza (1° gennaio 2011–30 giugno 2016 e 30 giugno 2016-30 giugno 2019), dunque recentissimi e successivi al D. Lgs. 111/2007, nonché relativi agli anni 2019, 2020 e 2021, si ricavano i seguenti dati:
Periodo 1 gennaio 2011–30 giugno 2016
· trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 101 (con media annua di 18,36 unità);
· trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 78 (con media annua di 14,18 unità).
Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016 (requirenti: 2192; giudicanti : 6453), risultano le seguenti:
- REQUIRENTI: 0,83
- GIUDICANTI: 0,21.
Periodo 30 giugno 2016–30 giugno 2019
· trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 80 (con media annua di 26,66 unità);
· trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 41 (con media annua di 13,66 unità).
Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2019 (requirenti: 2270; giudicanti: 6754), risultano le seguenti:
- REQUIRENTI: 1,17
- GIUDICANTI: 0,20
E tali percentuali, in relazione ad entrambi i due periodi considerati (per un totale di otto anni e mezzo), sarebbero ancora più irrilevanti se le si rapportassero al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anziché a quello dei magistrati effettivamente in servizio.
Questi, infine, sono i dati più recenti:
· 2019 (anno intero): sono stati 5 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 19 pubblici ministeri sono diventati giudici.
· 2020: sono stati 10 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 15 pubblici ministeri sono diventati giudici.
· 2021: sono stati 15 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 16 pubblici ministeri sono diventati giudici.
Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si crede, anzi è quantitativamente marginalissima; dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.
I dati in questione sono stati spesso utilizzati per criticare i magistrati che si oppongono alla separazione delle carriere. Si dice, cioè, che se la separazione già esiste di fatto, non si comprende perché la magistratura si opponga alla sua previsione normativa.
Una polemica volutamente suggestiva che ignora tutte le riflessioni possibili oggetto di questo documento, tra cui quelle sulla difesa della comune cultura giurisdizionale tra giudici e pm a garanzia dei cittadini, sulla necessità di difendere anche la piena indipendenza dei magistrati - e dei pm in particolare - rispetto ad ogni possibile controllo politico, sul rispetto dei principi costituzionali in tema di giustizia e altro ancora.
4.d - Unica formazione e unico CSM
La magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato, dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione globale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura, di un’unica Scuola per l’aggiornamento da aprire il più possibile all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni: verrebbe da chiedersi, anzi, perché non è stata mai formulata o seriamente presa in considerazione l’ipotesi di un’unica Scuola di formazione per magistrati ed avvocati.
Ma è comunque evidente che formazione comune ed un unico CSM rischierebbero di costituire, nel tempo, una contraddizione, in presenza di carriere dei magistrati definitivamente separate e non avrebbero – cioè - ragione di essere.
4.e - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere
Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali (o parlamentari) o che potrebbe essere condizionato, a secondo dei momenti storici, da orientamenti culturali e giuridici di natura prevalentemente securitaria (si pensi al settore del contrasto dell’immigrazione irregolare) o, come qualcuno vorrebbe nel presente contesto storico, ispirati alla necessità di privilegiare le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale etc. Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata.
4.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia
È noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Come già si è ricordato nel par. 4.a, sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente, Procura Europea – EPPO, sia pur competente solo per alcuni tipi di reati) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso[48] o di cui – in altri casi – ancora si discute.
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato.
Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.
5. – Tensioni tra potere politico e magistratura: il PM non è l’ “avvocato della polizia”, né “dell’accusa”.
In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano tensioni tra giustizia e politica, anche se in Italia esse spesso raggiungono livelli elevati e determinano rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. E ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti e si succedono nella guida politica del Paese.
In questa sede ci si vuol limitare a ricordare una riforma che si voleva attuare rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, pur non avendo a che fare né con l’una, né con le altre. Si trattava di un pacchetto di riforme che, duramente criticate dall’allora Vicepresidente del CSM, il compianto on.le prof. Virginio Rognoni, sembravano caratterizzate da un solo fine: il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo.
L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, lanciava la proposta di far eleggere i dirigenti delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia rilanciava, due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra. E già da tempo, inoltre, si discuteva dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M., oggetto, più avanti, di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel DDL n. 1440, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009 e sostenuto dal Ministro Alfano, il cui cuore era costituito proprio dal ridimensionamento del ruolo del PM, che – secondo note enunciazioni – avrebbe dovuto assumere la veste di “avvocato dell’accusa” o “avvocato della polizia”, in un contesto che ne avrebbe determinato burocratizzazione e -va detto ancora una volta- sottoposizione di fatto all’esecutivo. Nella relazione di accompagnamento allo schema di tale disegno di legge di riforma del processo penale era scritto, addirittura, che sarebbero stati «distinti più nettamente i compiti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero per creare i presupposti di una maggiore concorrenza e controllo reciproco»: la logica del libero mercato rischiava di entrare nella giustizia attraverso lo slogan della “concorrenza” tra pubblici investigatori, ipotesi peggiore anche dell’auspicato controllo della p.g. sull’attività dei p.m. !
Questa prospettiva non è certo menzionata nei disegni di legge in discussione, ma non la si può ignorare perché si tratta di un altro rischio connesso all’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: esso finirebbe anche con il sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria, non solo facendo rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenziando l’organo dell’accusa ridotto al rango di funzionario amministrativo, compromettendo inevitabilmente il livello delle garanzie riconosciute ai cittadini[49].
Il timore di questa prospettiva trae origine anche dalle parole del Ministro della Giustizia il quale, in un intervento pronunciato in una sede non ufficiale[50], ha affermato di voler realizzare una radicale metamorfosi del magistrato del pubblico ministero, trasformandolo in avvocato dell’accusa, privo di poteri di coordinamento dell’attività degli investigatori nella fase delle indagini preliminari e chiamato a sostenere in giudizio le tesi accusatorie delle forze polizia sulla base delle risultanze delle loro autonome indagini. Al di là del citato e discutibile precedente del DDL Alfano, non si comprende come il Ministro della giustizia possa oggi affermare che sarà “indipendente” un pubblico ministero trasformato in avvocato della polizia, il cui ruolo sarà ridotto a sostenere in giudizio tesi accusatorie maturate negli uffici delle polizie, nei cui confronti assumerebbe inevitabilmente una posizione sussidiaria, servente e subalterna[51].
6. La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali, (con cenni all’obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) e le altre cinque proposte di legge pendenti in Parlamento.
Nell’ovvio rispetto per le elaborazioni e le proposte formulate dall’Avvocatura, in particolare per quella del 2017 di modifica costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali, e dai Parlamentari, appaiono chiare – alla luce di quanto sin qui precisato - le ragioni della diffusa contrarietà al contenuto delle proposte di modifica dei seguenti articoli della Costituzione e dei principi in essi affermati:
- Art. 104, con suddivisione formale della magistratura in giudicante e requirente, nonché istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante.
In ordine all’art. 104, tra l’altro, la proposte dell’U.C.P., nonché la prima, la seconda e la quinta tra quelle Parlamentari appresso elencate, contengono una identica nuova formulazione del primo comma (“L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo da ogni potere”), la cui particolarità – al di là dello sdoppiamento della magistratura – consiste nell’abolizione dell’aggettivo “altro” rispetto all’attuale testo della norma (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”). Si rischia allora di ritornare a quanto nel 2011 sostenuto da due ministri della Giustizia (uno non più in carica)[52]: la magistratura non può essere considerata uno dei tre poteri distinti su cui si fonda ogni democrazia poiché “è la Costituzione che la definisce un ordine!”. Meglio però, far sparire l’aggettivo “altro” dal co. 1 dell’art. 104 Cost. poiché, usando l’argomento puramente testuale e lo stesso metodo interpretativo, non si potrebbe non considerare che se la magistratura è definita “indipendente da ogni altro potere”, non può che costituire anch’essa un potere;[53]
- Art. 105, con precisazioni delle competenze, anche disciplinari, del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante;
- Art. 105 bis e 105 ter (da inserire nella Carta), con istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura requirente e precisazioni delle sue competenze, anche disciplinari;
- Art. 105 quater (da inserire nella Carta), con istituzione di una Corte di giustizia disciplinare, separata dal CSM e con competenze nei confronti sia dei giudici che dei pubblici ministeri ordinari;
- Art. 106, con previsione di distinti concorsi per magistrati giudicanti e requirenti, nonché di possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione;
- Art. 107, con previsione di distinte competenze dei due istituendi Consigli Superiori rispetto a trasferimenti ed altro di magistrati giudicanti e requirenti; e con soppressione del co. 3 (“I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”);
- Art. 110, con inserimento della citazione dei due istituendi distinti Consigli Superiori della Magistratura nella norma che prevede la competenza del Ministro della Giustizia in ordine a “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.
Un sistema così articolato, però, finirebbe con il favorire “...l’autoreferenzialità delle due categorie di magistrati, avviando una scissione …tra l’attitudine prevalente a giudicare in posizione di terzietà e l’attitudine prevalente a formulare accuse da una posizione di parte”[54].
Nell’incipit di questo documento sono state già elencate le altre 5 proposte di legge costituzionale pendenti in Parlamento, le prime 4 presso la Camera dei Deputati e la quinta presso il Senato, tutte con la medesima intitolazione («Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura»), cioè:
· Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa (Azione), presentata in data 13 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 432, d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), presentata in data 24 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 806, d’iniziativa dei deputati Calderone, Cattaneo, Pittalis e Patriarca (Forza Italia), presentata in data 24 gennaio 2023;
· Proposta A.C. n. 824, d’iniziativa dei deputati Morrone, Bellomo, Bisa, Matone e Sudano (Lega), presentata in data 26 gennaio 2023;
· DDL S. n. 504, d’iniziativa della senatrice Erika Stefani e di altri 21 senatori cofirmatari (Lega), presentato in data 26 gennaio 2023.
I rilievi che seguono saranno pertanto relativi sia alla proposta della Unione delle Camere Penali, sia a quelle presentate dai predetti Parlamentari : esiste infatti un file rouge che le lega, ed è quello - ben più ampio della mera separazione delle carriere - di un “vasto disegno di riorganizzazione del potere giudiziario e dell’intera giurisdizione”[55], che impone riflessioni anche sui “profili che riguardano il nuovo statuto del giudiziario e le relazioni con gli altri poteri dello Stato”[56].
A sostegno di quest’affermazione si potrebbe citare la quasi identità dei testi delle proposte di legge Parlamentari, sia quanto alla formulazione delle norme che si intendono far approvare che delle relazioni di accompagnamento.
Si intendano introdurre le seguenti modifiche a norme costituzionali, in relazione a buona parte delle quali si ribadisce comunque, al di là di quanto appresso sarà detto, il rinvio agli argomenti contrari sin qui già esposti:
· separati concorsi di accesso alla magistratura per funzioni requirenti e giudicanti, previa modifica dell’art. 106 Cost., che inevitabilmente determinerebbe diversità di preparazione e scuole di formazione, di eventuale praticantato in vista del concorso e di approccio culturale.
Si tratta di una proposta che, come ha rilevato il prof. Gaetano Azzariti[57], non è affatto una conseguenza logica della separazione delle carriere, che “dovrebbe invece consigliare di preservare e garantire almeno l’unicità del concorso al fine di assicurare una comune cultura della giurisdizione per entrambe le figure", mentre invece sembra aspirare anche a «dividere la conoscenza del diritto, la comprensione delle regole processuali, la comune idea di giustizia che deve essere fatta propria da tutti gli attori del processo, avvocati compresi». Lo stesso autore ha ricordato l’esperienza della Germania «ove è netta la separazione fra giudici e pubblici ministeri, ma è unico il percorso formativo per tutte le professioni legali»;
· possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione, (previa modifica del terzo comma dell’art. 106 Cost.): è una sorprendente previsione, peraltro contrastante con il I^ co. dello stesso art. 106 (“Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”), che darebbe luogo a “una modalità alternativa di reclutamento non sorretta, com’è ora, dai requisiti di straordinarietà ed autorevolezza (l’art. 106 prevede, infatti che possano essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione professori universitari ed avvocati con almeno quindici anni di servizio, per meriti insigni). Basterebbe ora, invece, superare l’esame di avvocato o qualunque concorso a cattedra per poter accedere a tutti i livelli della magistratura giudicante. Con quali garanzie di eccellenza?[58]”
· distinti Consigli superiori per la magistratura, l’uno per la funzione giudicante e l’altro per quella requirente (modifica dell’art. 87 Cost.), il che tra l’altro determinerebbe ricadute nelle 26 Corti d’Appello italiane in ragione della conseguente necessità di duplicare anche i Consigli Giudiziari esistenti presso ciascuna di esse;
· un nuovo rapporto tra il potere politico e il potere giudiziario, in particolare nella riscrittura degli equilibri interni al governo autonomo della magistratura: i membri laici dovrebbero aumentare fino al 50% del numero totale dei membri dei due CSM (modifica dell’art. 104 Cost. ed introduzione dell’art. 105 bis Cost.), depotenziando per entrambi la funzione di indirizzo collegata al complesso delle loro attività di alta amministrazione[59](rivelatesi spesso molto utili per colmare lacune legislative ed orientare l’attività consiliare verso obiettivi di efficienza e trasparenza), limitandone le competenze a assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari, salvo attribuzione di altre competenze con legge costituzionale (sostituzione dell’attuale art. 105 Cost. ed introduzione dell’art. 105 ter Cost.).
“Secondo le proposte Costa, Giachetti e Morrone ed altri – che sul punto ricalcano più da vicino l’attuale assetto costituzionale – dovrebbe spettare al Parlamento in seduta comune la nomina dell’intera componente laica mentre dovrebbe essere ancora il Presidente della Repubblica a presiedere i due Consigli.
Diversa su questi aspetti la proposta Calderone ed altri, che attribuisce la presidenza dei due Consigli rispettivamente al primo presidente della Corte di cassazione ed al procuratore generale presso la Corte, mentre riserva la nomina della metà dei membri “laici” dei Consigli per un quarto al presidente della Repubblica e per un quarto al Parlamento in seduta comune.
Al di là delle loro non irrilevanti diversità il tratto comune delle diverse iniziative legislative è però la volontà di coniugare la separazione delle carriere con l’accresciuta influenza della politica nel governo della magistratura”[60] .
È proprio questa la ragione per cui i due CSM verrebbero ridotti ad organi burocratici, cancellando la loro importante funzione di esprimere pareri su leggi riguardanti l’ordinamento giudiziario e l’amministrazione della giustizia, previsti per legge. È doveroso ricordare che fu Carlo Azeglio Ciampi, da poco eletto presidente della Repubblica, ad incoraggiare il CSM a proseguire su quella strada, ribadendo in uno storico plenum, il 26 maggio del 1999, su esplicita richiesta del vicepresidente Verde, che il Csm aveva non solo il diritto, ma anche il dovere, di esprimersi d’ufficio su disegni e progetti di legge riguardanti la giustizia. Anche il Presidente Napolitano lo confermò nell’agosto del 2009. Il Csm, fortunatamente, lo fa ancora oggi, nonostante i governi succedutisi negli ultimi anni continuino spesso a non interpellarlo sulle materie di sua competenza;
· cancellazione di un’altra norma chiave dell’assetto costituzionale della magistratura: l’art. 107, terzo comma, della Costituzione secondo cui “I magistrati si distinguono tra di loro soltanto per diversità di funzione”.
L’abrogazione proposta sembra destinata ad incidere all’interno delle carriere separate, sancendo la fine del principio di eguaglianza degli appartenenti alle carriere giudicante e requirente, aprendo la via a “distinzioni” diverse da quelle relative alle funzioni e ponendosi come potenziale preludio della rinascita di gerarchie e di trattamenti economici differenziati all’interno del corpo delle due magistrature giudicanti e requirenti;
· un nuovo regime dell’azione penale, proponendosi la modifica dell’art. 112 Cost. aggiungendo alla frase “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, le parole “nei casi e nei modi previsti dalla legge ordinaria”, cioè della maggioranza di turno che con legge ordinaria deciderebbe l’an, il quando ed il quomodo delle iniziative giudiziarie del P.M., con buona pace dell’obbligatorietà dell’azione penale a favore della piena discrezionalità del legislatore.
Quest’ultima proposta di modifica costituzionale dell’art. 112 (presente nelle proposte Costa, Giachetti e Morrone), che priverebbe il principio della obbligatorietà dell’azione penale della sua valenza costituzionale, si allinea dunque a quella dell’U.C.P.I., secondo cui, dopo le parole “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” dovrebbero essere aggiunte le seguenti: “secondo le forme previste dalla legge”.
A proposito dell’obbligatorietà dell’azione penale e della selezione delle priorità, però, occorre qualche specifica ulteriore riflessione, trattandosi di un tema di assoluto rilievo, sin qui non approfondito.
È giusto ricordare, innanzitutto, che la riforma Cartabia, con la legge delega 27 settembre 2021 n. 134, aveva assegnato al legislatore delegato il compito di «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti».
Si tratta, a parere di chi scrive, di una scelta criticabile, la cui efficacia dipenderà dalla capacità del Governo di predisporre il testo delegatogli che – si augura chi scrive - potrebbe limitarsi a trasferire sul piano legislativo, se non le si ritenesse già vincolanti, alcune delle previsioni già contenute nelle delibere del CSM in tema di priorità, approvate nel 2008, 2009, 2014, 2016, 2017, 2018, 2020 e 2021, comprendenti in ogni caso:
- l’obbligo dei procuratori della Repubblica di selezionare le priorità nell’azione penale, valutando a tal fine risorse umane e strutturali dell’ufficio, nonché statistiche relative ai carichi di lavoro, tipologia ed evoluzione della criminalità locale, occasionali e particolari esigenze (ad es.: emergenze ambientali), il tutto nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale;
· il dovere di interlocuzione interna con i magistrati dell’Ufficio;
· quello di interlocuzione con i Presidenti di Tribunale, onde inserirle in omogenei assetti organizzativi;
· il coordinamento possibile in sede distrettuale, a fini di omogeneità dei progetti organizzativi da adottare nei Circondari, da affidare ai procuratori generali presso le Corti d’Appello.
Molto importante sarebbe anche la previsione di doverose interlocuzioni dei Procuratori con i rappresentanti dei rispettivi organismi forensi e con i responsabili dei presidi di polizia giudiziaria operanti nel Circondario, già di fatto attuate in molte Procure.
Tutto ciò senza alcuno sconfinamento da parte del Parlamento nelle competenze proprie degli Uffici Giudiziari e dei Procuratori della Repubblica (dunque evitando la strada alla sottoposizione del pm all’Esecutivo) e senza cedimento alcuno rispetto alla doverosa difesa e “cura” dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non può esistere in forma politicamente orientata: per questo la selezione delle priorità di intervento dei p.m., anche solo nell’ambito di linee guida generali e non di un cogente catalogo di reati, non può essere materia sottratta alla competenza dell’Autorità Giudiziaria. Ed è questo che costituisce la linea di confine tra il sistema ordinamentale-giudiziario italiano e quello di altri Paesi europei per i quali – come già detto - costituisce un modello.
Fino a questo momento, comunque, “questa complessa procedura è rimasta lettera morta perché il Ministro della Giustizia non si è dato carico di presentare la legge sui “criteri generali” voluta dalla riforma Cartabia che, assegnando al Parlamento una mera funzione di orientamento e di inquadramento (i “criteri generali”) dell’esercizio dell’azione penale, rimesso alle successive scelte di priorità di quanti operano sul campo, resta preferibile e costituisce una valida alternativa rispetto alla revisione costituzionale che oggi si propone con la proposta dell’on.le Costa e di altri Parlamentari. La riforma Cartabia, dunque, potrà garantire una interpretazione ed una attuazione dell’obbligatorietà dell’azione penale che grazie alla pluralità dei soggetti che concorrono alla identificazione delle priorità – il Parlamento, gli uffici di Procura, il CSM – esclude il monopolio ed il controllo dell’azione da parte di un solo attore”[61], in particolare del ceto politico.
Sono comunque noti a tutti problemi e difficoltà che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si tratta di un principio da difendere con convinzioneperché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: per questo è semmai il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare, come in molti vorrebbero!
È chiara anche la ragione per cui quel principio garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essi sanno che, essendo il PM obbligato a perseguirli, tutti gli accertati responsabili di qualsiasi reato saranno condotti dinanzi ad un Tribunale (monocratico o collegiale) o ad una Corte d’Assise per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro potere politico, economico o sociale.
Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell'art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l'azione penale senza necessità di trasformare il PM in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere il principio inviolabile dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo, in realtà mirando ad impedirgli di avviare indagini ed esercitare l’azione penale per certi reati e nei confronti di certi imputati.
Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 Cost., sicchè soltanto una parte dei reati commessi viene effettivamente perseguita: le notizie di reato pervenute al PM e le procedure d’indagine che si avviano, infatti, sarebbero troppo numerose ed ingestibili, costringendo il PM stesso ad operare una selezione. L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, non troverebbe effettiva applicazione nella realtà ed il PM, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente selezionando gli affari da trattare e quelli da trascurare. Tale discrezionalità, peraltro, sarebbe esercitata senza criteri predeterminati o secondo criteri diversi tra Procura e Procura e, all’interno del singolo ufficio, tra i magistrati che lo compongono. In certi casi, poi, il PM sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il PM a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e contemporaneamente a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. In ogni caso, il destino finale per molti reati sarebbe costituito dalla prescrizione o dall’archiviazione per la mancata acquisizione degli elementi utili ad esercitare l’azione penale.
A questo punto, le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.
Quale potrebbe essere tale istituzione o autorità? Il Governo, tramite indicazioni del Ministro della Giustizia o il Ministro stesso, afferma taluno, con ciò aprendo la strada alla sottoposizione del PM all’esecutivo. Il Parlamento, previa discussione generale e trasparente, rispondono altri, così accettando la possibilità che l’azione penale sia condizionata dalle scelte della maggioranza politica di turno e che il dibattito parlamentare finisca inevitabilmente con l’investire il modo di operare di questo o quell’ufficio giudiziario. Ma c’è pure chi individua l’istituzione competente a regolare la presunta discrezionalità dei PM nel Consiglio Superiore della Magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente ad orientare il merito delle scelte giurisdizionali), chi pensa al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione o a quello presso le Corti d’Appello, chi ai Consigli Giudiziari operanti su base distrettuale e così in grado di valorizzare esigenze territoriali, chi ai singoli Procuratori della Repubblica (cui, anche per questo, dovrebbero essere riconosciuti poteri di tipo gerarchico). E c’è pure chi pensa ad una interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte - queste Istituzioni, ritenendole a vario titolo competenti.
Vi è poi un altro argomento spesso utilizzato a sostegno delle ragioni sia dei giuristi “tecnici” che di quelli “politici”. Nasce da uno sforzo di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo e consiste nell’affermare che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del PM dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata (come può dedursi anche da quanto specificato nel par. 3.e) : esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’ “economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità è orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sé le funzioni tanto del nostro Ministro della Giustizia che del Procuratore Generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia - nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del Giudice Istruttore indipendente (da noi abolita ormai più di trent’anni fa), che può rimediare alle inerzie del PM.
Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato, né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari ulteriori differenze: quelle di cultura giuridica e politica.
L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe comunque almeno il doppio dello spazio, già troppo ampio, che ha occupato nella presente relazione con la quale si spera di avere sufficientemente motivato la contrarietà dello scrivente alla modifica dell’art. 112 Costituzione[62].
È realistico, in ogni caso, prevedere che alle prime difficoltà, ai primi attriti, al primo casus belli (ed il sistema giudiziario conosce inevitabilmente tali momenti) i magistrati che comporrebbero il corpo separato dei pubblici ministeri potrebbero essere presentati come un’entità da ricondurre sotto la responsabilità del potere politico al pari di quanto avviene negli Stati nei quali le carriere sono distinte[63].
7. Per concludere: l’iniziativa di oltre 600 magistrati “a riposo” e il documento dell’ANM
Nello Rossi ha efficacemente scritto[64] che “In ogni caso, nel dibattito pubblico che accompagnerà l’iter della progettata revisione costituzionale, occorrerà chiarire all’opinione pubblica quali sono le implicazioni di modifiche costituzionali che vanno ben oltre l’assetto e gli equilibri propri del processo penale per investire il rapporto tra il potere politico e il giudiziario.
Nel corso dell’annosa partita sulla separazione delle carriere è infatti cambiata la posta in gioco e gli obiettivi che si vogliono realizzare.
Obiettivi che, come si è cercato di rappresentare, sopravanzano di molto il dato delle carriere dei magistrati, investendo la ridefinizione, a vantaggio del potere politico, dei complessivi equilibri di governo della magistratura, la cancellazione della valenza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e l’abrogazione del principio per cui i magistrati si distinguono solo in base alle funzioni svolte”.
Sono assolutamente d’accordo con queste valutazioni che, tra l’altro, spiegano le ragioni per cui oltre 600 magistrati (giudici e pubblici ministeri, civilisti e penalisti) in pensione – dunque ormai al di fuori dell’istituzione giudiziaria e delle dinamiche processuali - hanno sottoscritto, nell’agosto del 2023, un documento ([65]), mirante solo a fornire all’opinione pubblica ed ai decisori politici un contributo di esperienza e di conoscenza sul tema della separazione delle carriere, da tempo in discussione nel Paese ed oggetto di esame in Parlamento, ponendo ancora una volta in evidenza la necessità di garantire:
· l'autonomia del pubblico ministero ed insieme la terzietà del giudice ex art. 111 Costituzione assicurata anche dall’attuale ordinamento e dal contraddittorio delle parti, in condizione di parità, nell’ambito del processo che deve mirare all’accertamento della verità;
· l’unicità del concorso di accesso in magistratura per giudici e pubblici ministeri;
· l’unicità del Consiglio Superiore della Magistratura con maggioranza di eletti tra i membri togati e mantenimento delle sue competenze;
· l’obbligatorietà dell’azione penale e la titolarità di questa in capo al P.M.;
· l’importanza della stessa formazione e della stessa cultura della giurisdizione di giudici e pm, così come della stessa indipendenza;
· l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, preservando l’attuale ordinamento costituzionale, invidiato all’estero poiché consente di portare davanti al giudice qualsiasi persona che abbia commesso un reato.
Nello stesso documento vengono anche denunciati:
· il rischio di sottoposizione del PM al controllo svolto dal potere esecutivo, con la conseguenza che l’azione penale non potrebbe essere più obbligatoria;
· gli effetti deleteri, anche sotto l’aspetto organizzativo, sugli attuali assetti, nei quali operano giudice e pubblico ministero con conseguente periodo di transizione lungo e complesso.
In definitiva, si conclude nel documento, “non si comprende la ragione per la quale la maggioranza politica insista tanto nel voler raggiungere l’obiettivo della separazione delle carriere, visto che già sono stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra dalle riforme Castelli e Cartabia…omissis…”.
Inutile ricordare che il documento – benché elaborato e sottoscritto da “giuristi senza potere” quali sono i magistrati in quiescenza - ha suscitato, in ambienti politici supportati da alcuni organi di informazione, accuse di illecita “interferenza” che accompagnano ormai tutte le iniziative pubbliche sui temi della giustizia di giudici e pubblici ministeri, i quali ultimi costituirebbero un corpo dal potere incontrollato. E si sono moltiplicate, anche in questo caso, le citate inesattezze sulla “peculiarità italiana” (già smentite nel par. 3.e), secondo cui “nel mondo occidentale e democratico solo da noi non c’è la separazione”.
Bastano in realtà poche sobrie parole per rispondere a queste e ad atre affermazioni critiche sulla iniziativa dei magistrati in pensione: Elena Riva Crugnola, una dei firmatari del documento, ha definito la separazione delle carriere una "battaglia di retroguardia" ed ha ben spiegato[66] che non si trattava di un’iniziativa "per interferire con il Parlamento", ma di un tentativo di "mettere a disposizione della pubblica opinione e degli interlocutori istituzionali convincimenti maturati grazie alla nostra esperienza e sottolineare come la possibilità di aver svolto funzioni diverse, durante la carriera, sia stata un grande arricchimento professionale”.
A sua volta, in documento approvato il 9 settembre 2023 dal Comitato Direttivo Centrale(intitolato “Un cavallo di Troia”[67]), l’ANM ha condiviso gli stessi rilievi ed ha espresso “grande preoccupazione per i contenuti dei disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione affari costituzionali della Camera di deputati che, nel riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali nella XVII legislatura, rivelano, al di là dei propositi annunciati nelle relazioni illustrative, l’intento di assoggettare tutti i magistrati, giudici e pubblici ministeri, al potere politico”.
Per concludere, non è giusto tacere sul fatto che le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale.
Ma, in proposito, è utile invitare tutti ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali ed incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica.
Sono ancora una volta condivisibili, a tal fine, le parole del prof. Gaetano Silvestri, pronunciate nel già citato intervento in occasione di un Congresso dell’ANM di vari anni fa[68]: “Non possiamo negare che oggi si assista in varie parti d’Italia ad una ipertrofia dell’azione penale, derivante da una concezione pan-penalistica dei rapporti sociali, politici e istituzionali coltivata da taluni magistrati. In contrasto con la cultura del diritto penale minimo, che dovrebbe essere l’approdo di una più aggiornata visione della legalità, si sviluppa talvolta un iperattivismo inquisitorio ed accusatorio non certo in linea con un equilibrato esercizio della giurisdizione. Dobbiamo tuttavia notare che complessivamente la terzietà del giudice nel nostro sistema funziona abbastanza bene e che la maggior parte dei processi iniziati in modo avventato – in assenza di un quadro probatorio sufficiente o in base a forzature pan-penalistiche della legge – si concludono con decisioni di proscioglimento. Il processo penale italiano contiene in sé una grande quantità di garanzie per la difesa. Sono convinto che di fronte alla scelta di barattarlo con altri sistemi, molti suoi detrattori farebbero un passo indietro”.
“Purtroppo – aggiungeva il prof. Silvestri – i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il PM che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulla prospettazione dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei PM, perché colleghi ed amici”.
Si tratta di parole di grande efficacia, utili per invitare tutti a difendere con orgoglio i principi fondanti del nostro sistema ordinamentale, tra cui vi è sicuramente quello della unicità della carriera dei magistrati giudicanti e requirenti, che non merita affatto di essere smantellato.
Proprio per questa ragione, è auspicabile che Parlamento e Governo, Avvocatura e Magistratura, con il contributo determinante del mondo accademico, uniscano le loro forze, fino a determinare una sinergia virtuosa che, lungi dal porre al centro di ogni confronto la proposta della separazione delle carriere (francamente anacronistica e che comunque non può essere interpretata come occasione di scontro), peraltro attraverso passaggi di dubbia costituzionalità, si concentri sulle cause vere delle disfunzioni del processo, a partire dalla drammatica carenza di personale giudiziario ed amministrativo .
[1] Le osservazioni che seguono (la cui lunghezza è dovuta alla notevole delicatezza dei temi oggetto dell’audizione) sono frutto della esperienza professionale dell’autore (tutta spesa nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sia come Sostituto Procuratore della Repubblica e Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, sia – negli ultimi anni, fino al dicembre 2018 – come Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino), nonché di quelle di componente del CSM (nel quadriennio 1998/2002) e più recentemente (dall’inizio del 2019) di docente a contratto presso l’Università Statale di Milano nella materia di “Politiche di sicurezza e dell’Intelligence”. Saranno utilizzati anche suoi precedenti interventi sulla questione della separazione delle carriere.
[2] Il presente intervento contiene riferimenti a riflessioni formulate nel corso del confronto dell’11 settembre 2023 tra lo scrivente e l’avv. Gian Domenico Caiazza (all’epoca Presidente dell’Unione Camere Penali) organizzato dall’ANM – Sezione Autonoma Magistrati a riposo, nonché presenti in alcuni importanti articoli sul tema della separazione delle carriere, qui citati con il consenso degli autori: 1) Oltre la separazione delle carriere di giudici e pm. L’obiettivo è il governo della magistratura e dell’azione penale (Nello Rossi - Questione Giustizia, 04/09/2023); 2) Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri? (Nello Rossi – Sistema Penale, 16/11/2023); 3) Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta per poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra (Maria Rosaria Guglielmi, Questione Giustizia, 27/07/2023); 4) Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della Legge n. 71 del 2022 (Pasquale Serrao D’Aquino, Giustizia Insieme, 28 giugno 2022). Nelle note a piè di pagina successive i riferimenti a tali articoli conterranno solo i nomi degli autori e gli acronimi delle riviste che li hanno pubblicati.
[3] Il Giornale (4 settembre 2023).
[4] “L’avv. Coppi affonda la riforma Nordio. Separare le carriere non servirà a nulla” (Francesco Grignetti, La Stampa, 20 settembre 2023).
[5] Per correttezza va doverosamente ricordato che il dovere di contrastare la separazione delle carriere non è condiviso da tutti i magistrati. Ci si vuol qui riferire, però, ad una minoranza assolutamente irrisoria della magistratura in cui si colloca anche un attuale componente togato del CSM, il dr. Andrea Mirenda (si veda la sua intervista a Il Foglio, 23 agosto 2023: “I pm sono degli influencer. Serve un doppio CSM”).
[6] La Sicilia Catania, 29 agosto 2023.
[7] Il Fattoquotidiano.it (“Abolire l’imputazione coatta? Un’idea antisistema: se c’è un reato, il GIP non può far finta di nulla. L’avvocato Coppi smonta il piano di Nordio”).
[8] “Diritto Processuale Civile” (Cedam-Padova, 1967).
[9] Lettera al Corriere della Sera del 12 settembre 2023 “(«Il pm rimanga parte imparziale»).
[10] Prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di cui al capo V del d.lgs n. 160/06 non vi erano ostacoli al passaggio (a semplice domanda) dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti (e viceversa), per consentire il quale era sufficiente, ai sensi dell’art. 190 R.D. 12/1941, un parere attitudinale formulato dal Consiglio giudiziario del distretto di appartenenza del magistrato interessato. Nel 2003 una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura (Circolare n. P-5157/2003 del 14 marzo 2003 - Deliberazione 13 marzo 2003) aveva regolamentato le modalità di formulazione del parere e previsto incompatibilità al passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti penali nell’ambito dello stesso circondario. In relazione alla domanda di passaggio da una funzione all’altra, non erano previsti limiti temporali speciali di previa permanenza nella funzione da cui si proveniva, salvo quelli ordinari e generali – contemplati dalla legge – di legittimazione a proporre domanda di trasferimento ad altra sede o di tramutamento da una funzione all’altra. Al momento dell’accesso in magistratura, inoltre, potevano essere indifferentemente conferite al magistrato di prima nomina le funzioni giudicanti o quelle requirenti.
[11] Le precisazioni che seguono sono tratte dal sito web del CSM, accessibile al pubblico.
[12] Queste, in proposito, le testuali e “complicate” previsioni dei co, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 13 D. Lgs. N. 160 del 2006:
3.Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall'interessato, per non più di quattro volte nell'arco dell'intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell'ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d'appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima. 4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all'interno dello stesso distretto, all'interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.
5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l'anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche. ..(omissis…).
6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all'articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.
[13] Questa precisazione è stata tratta dal sito web di Magistratura Democratica.
[14] Il referendum non sortì alcun effetto abrogativo visto che il 21 maggio 2000 non fu raggiunto il quorum elettorale necessario.
[15] Si rimanda al paragrafo 6, in cui verranno sinteticamente commentate le proposte di modifica costituzionale dell’Unione Camere Penali e quelle già citate di iniziativa di vari parlamentari.
[16] (QG).
[17] Per precisione, va detto che l’art. 12 in questione prevede la possibilità per l’interessato di richiedere il passaggio di funzioni, per non più di una volta, entro il termine di sei anni dal maturare dei tre anni (e dunque per un totale di nove) per la legittimazione al tramutamento previsto dall’art. 194 dell’ordinamento giudiziario per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione.
[18] Così in: “Il pubblico ministero nelle cause civili” (www.studiocataldi.it).
[19] Prima del D.Lgs. 5 aprile 2006, come si è detto, la separazione delle funzioni era prevista dall’abrogato art. 190 dell’ordinamento giudiziario e dalla previsione ivi contenuta di pareri per il passaggio dall’una all’altra funzione.
[20] Nei titoli dei sub-paragrafi da 3.a a 3.e saranno esaminate le affermazioni spesso formulate a sostegno della necessità della separazione delle carriere.
[21] MicroMega n. 1/2003.
[22] Va in proposito precisato, comunque, che le elevatissime percentuali di assoluzioni ripetutamente fornite da alcuni organi di stampa a riprova degli straripamenti di potere da parte dei P.M., sono “da considerare errate perché computano come assoluzioni forme diverse di estinzione dei processi tra cui i casi di prescrizione, remissione di querela, oblazione, messa alla prova, ipotesi che non escludono la responsabilità e in alcuni casi la presuppongono. Al riguardo va precisato che, negli anni 2019, 2020 e nel primo semestre del 2022, l’effettiva percentuale di assoluzioni supera di poco il 21% del totale delle sentenze; risultato medio che non muta nelle ipotesi di citazione diretta. Un dato certamente significativo oggetto di puntuali ed approfondite considerazioni svolte e delle statistiche riportate nell’Intervento scritto del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, Giovanni Salvi nell’Assemblea generale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario svoltasi il 2022 (pp. 17 e ss.), che si legge nel sito della Corte di cassazione” (Nello Rossi, SP).
[23] Così Maria Rosa Guglielmi (articolo citato).
[24] Sinteticamente, anche all’inizio del decennio scorso, venne affermato da autorevoli rappresentanti delle Camere Penali, che “il giudice non deve ispirarsi alla cultura dell’azione”. Ma, ancora una volta, all’affermazione – in sé condivisibile - non fece seguito alcuna dimostrazione scientifica di tale ipotizzato atteggiamento culturale dei giudici italiani.
[25] “La politica è genuflessa ai dogmi intoccabili dei magistrati antimafia. C’è l’ossequio ai dogmi della DNA dietro lo stop sulle carriere separate”(Il Dubbio, 16 novembre 2013).
[26] “Carriere separate? Nordio ed i politici vogliono mani libere” (Intervista a Il Fatto Quotidiano – Marco Grasso, 20 agosto 2023).
[27] Comma inserito nell’art.111 Cost. dalla L. cost. 23.11.99 n.2. Si vedano, inoltre, il D.L. 7.1.2000 n.2 (recante disposizioni urgenti per l'attuazione dell'articolo 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), conv. con modificazioni, nella L. 25.2.2000 n.35, e gli artt. 2 ss. della L. 24.3.2001 n.89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile).
[28] In tal senso, più volte, numerosi giuristi e commentatori.
[29] Valentina Maisto (Q.G. “La separazione delle carriere tra argomenti tradizionali ed evoluzione del processo: un tema ancora attuale?”).
[30] Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002.
[31] Il Riformista, 15 agosto 2023.
[32] Il Riformista, 17 agosto 2023.
[33] I riferimenti che seguono agli ordinamenti di altri Stati non sono tutti aggiornati e, dunque, potrebbero contenere inesattezze. In tal caso l’autore se ne scusa con i lettori.
[34] In tale senso, ad esempio, sembra essere orientato il prof. Giuseppe Di Federico, come appare da una sua intervista pubblicata il 3 luglio 2016 su Il Giornale di Sicilia, in linea con un suo successivo intervento in un convegno svoltosi a Capo d’Orlando sulla separazione delle carriere (di cui egli è fautore), promosso dalla Unione delle Camere Penali Italiane.
[35] Roma, 11 settembre 2023 – Confronto organizzato dall’ ANM- Sezione Autonoma dei Magistrati a riposo.
[36] Non è dunque corretto quanto affermato dall’avv. Francesco Petrelli (Il Dubbio, 30 agosto 2023), secondo cui in Gran Bretagna il PM sarebbe separato dal Giudice.
[37] Maria Rosaria Guglielmi (art. cit. in cui sono citate le osservazioni della Commissione di Venezia, le decisioni della Corte Edu e i rapporti della Commissione Europea sulle condizioni di dipendenza dal potere politico dei pubblici ministeri in Bulgaria e Romania, in un contesto di enorme pressione sui giudici).
[38] Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica (Roma, 23/26.1.2003).
[39] Vengono qui ancora riportate le valutazioni critiche del dr. Cluny.
[40] Maria Rosaria Guglielmi (art. cit.).
[41] Sia qui permesso di citare anche il consenso alla struttura ordinamentale della carriera e della indipendente funzione del P.M. in Italia, manifestato da organismi rappresentativi dell’avvocatura tedesca nel corso di un importante convegno internazionale sia pur svoltosi in anni lontani (nel 2007) a Berlino, in cui il sottoscritto fungeva da relatore. Rispondendo alle domande degli avvocati tedeschi, ebbi modo di illustrare il nostro sistema ordinamentale, in particolare la normativa che consente, a certe condizioni, il mutamento di funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati italiani, in un quadro di assoluta ed uguale indipendenza dal potere politico di giudici e pm. Seguirono gli applausi di centinaia di avvocati presenti, tutti rivolti al sistema della giustizia italiana.
[42] Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario”, in La Magistratura, nn.1/2 2002 Tale posizione è stata ribadita dall’ANM in numerose successive ulteriori prese di posizione, mai abbandonate neppure nel periodo attuale.
[43] Questo dato numerico, risalente al 2002, epoca dell’articolo, è ovviamente mutato. Oggi, come si ricava dal sito web del CSM, i dati numerici riguardanti i pubblici ministeri, aggiornati al 22 settembre 2023, sono i seguenti: 2649 posti in organico, di cui 438 (il 16,53% del totale) vacanti.
[44] Livio Pepino: “Carriere Separate, Governo in Toga”, L’Unità, 20.11.02
[45] Non a caso, alla vigilia del fallito referendum abrogativo del 2000, si registrò una impennata di domande di trasferimenti di pubblici ministeri ad uffici giudicanti. Ad avviso di chi scrive, ciò si spiega con la preoccupazione - che evidentemente i p.m. all’epoca nutrivano - di vedersi precluso l’eventuale accesso alla carriera giudicante e di poter essere in breve sottoposti alle direttive dell’esecutivo:
[46] Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2023.
[47] In tal senso anche la giornalista Giulia Merlo: “Ragionando per principi, il pm risponde a quello di verità processuale, l’avvocato alla difesa di una parte” (“La separazione delle carriere è boomerang per Nordio”, Domani, 27 agosto 2023).
[48] Così Ignazio Juan Patrone, all’epoca presidente di Medel.
[49] In proposito, il prof. Giuseppe Di Federico, nella intervista citata in precedente nota a pie’ di pagina, rivendica di avere per primo utilizzato la espressione di “pm-poliziotto” perché “se una persona dirige la polizia non la si può definire diversamente”, aggiungendo, però, che il Pm “a differenza del poliziotto, non risponde a nessuno: una cosa incompatibile con il sistema democratico”.
[50] Intervento al Forum della Fondazione Iniziativa Europa 2023, tenutosi a Stresa (NO), l’11 novembre 2023.
[51] N. Rossi (S.P.).
[52] “Il nostro diritto prevede due poteri e un ordine, che è quello della magistratura”: lo affermava l’on.le Angelino Alfano, intervistato da Lucia Annunziata durante la trasmissione “In ½ ora”, in onda sui Rai Tre il 13 marzo 2011. Alfano era, a quella data, Ministro della Giustizia, impegnato nel tentativo di spiegare ai cittadini italiani perché la “riforma” della parte della Costituzione dedicata alla Magistratura (Titolo quarto della Parte seconda, articoli da 101 a 113) sarebbe stata “epocale” ed avrebbe consentito di risolvere tutti i problemi che affliggono la giustizia italiana. Lo stesso concetto (la Magistratura non è un potere costituzionale, ma un ordine) veniva ribadito poco più di un mese dopo, il 18 aprile, dall’ ex Ministro della Giustizia, il sen. Roberto Castelli, nel frattempo diventato Viceministro delle Attività produttive, anch’egli intervistato da Lucia Annunziata nel corso della trasmissione di Rai Tre, “Il Potere”.
[53] Le osservazioni relative al co. 2 dell’art. 104 della Cost. riproducono quelle dello scrivente già formulate in “I Leoni e il Trono”, testo incluso nel libro “Il Potere in Italia” di Lucia Annunziata (Marsilio, 2011).
[54] Così il prof. Gaetano Silvestri in “La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), commentando il disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.
[55] Così Nello Rossi (QG).
[56] N. Rossi (SP).
[57] Gaetano Azzariti (La separazione delle carriere dei magistrati”, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2/2023 del 4 aprile 2023.
[58] G. Azzariti, idem.
[59] Nello Rossi (QG).
[60] Nello Rossi (SP).
[61] Così Nello Rossi (QG).
[62] Sia permesso, comunque, il riferimento ai seguenti interventi di chi scrive, ai quali si rimandano gli eventuali
interessati:
1)“Obbligatorietà dell’azione penale”, in “Giustizia, la parola ai magistrati”, a cura di Livio Pepino (Laterza, 2010); 2)“Criteri di organizzazione della Procura della Repubblica di Torino dell’8 ottobre 2018”, in particolare, paragrafo n. 12 (pag. 168)[62], che in buona parte riprendono ed arricchiscono i precedenti criteri del 23 giugno 2015; 3) “Le priorità non sono più urgenti e comunque la scelta spetta ai giudici”, in Cassazione Penale, LV, ottobre 2015, n. 10.
[63] Condivisibili affermazioni di N. Rossi (SP).
[64] (QG).
[65] Il documento e la lista dei sottoscrittori sono leggibili nel sito web dell’Associazione Nazionale Magistrati (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4013/magistrati-in-pensione-contro-la-separazione-delle-carriere.htm).
[66] ADN Kronos, 25 agosto 2023.
[67]Anche questo documento è leggibile nel sito web dell’Associazione Nazionale Magistrati (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4017/il-cdc-su.htm )
[68] “La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), relazione a commento del disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.