Qualità ed efficienza della giurisdizione di Luca Verzelloni
Intervento al 35° congresso nazionale ANM, Roma, 15 ottobre 2022
Buongiorno a tutte e tutti, per prima cosa, vi ringrazio molto per l’invito.
I miei sono ringraziamenti particolarmente sentiti per due ragioni, tra loro collegate: da un lato, sono l’unico relatore non giurista – sono, infatti, un sociologo delle organizzazioni – e, dall’altro, questo congresso rappresenta per chi – come me – da diversi anni cerca di studiare il “vostro mondo” con un approccio empirico, un’occasione di ricerca e di apprendimento davvero preziosa, per indagare le logiche di funzionamento della Giustizia italiana.
Una volta un vostro collega, un magistrato portoghese – José Igreja Matos – che da circa un anno presiede l’Associazione mondiale dei giudici (IAJ), mi ha raccontato che, sulla base della sua lunga esperienza in convegni e corsi di formazione in giro per il mondo, vi sono tre modi efficaci per aprire una relazione: presentare dei dati statistici – dei numeri accattivanti; creare scandalo, ossia riferire qualcosa che turbi la platea; e, infine, raccontare una storia, un aneddoto, un racconto, preferibilmente vissuto in prima persona.
Ecco, se me lo permettete, io vorrei servirmi di questa terza strategia, ossia raccontarvi una breve storia vissuta personalmente. La storia risale a quasi vent’anni fa: una delle mie prime esperienze di ricerca all’interno di un Tribunale, nel luglio 2004.
Al tempo, stavo svolgendo una serie di interviste ad alcuni magistrati e cancellieri sull’organizzazione di una sezione, in vista dell’imminente entrata in vigore del Processo Civile Telematico – in quel momento nessuno sapeva che non sarebbe stata così imminente, ma questa è un'altra storia.
Nel corso di questi colloqui, un vostro collega mi rispose candidamente: “qui l’organizzazione non esiste, sta perdendo il suo tempo!… E poi a me non interessa occuparmi di queste cose; mi occupo di organizzazione solo quando mi dà dei problemi!”.
Qual era la conclusione di questo primo lavoro di ricerca “sul campo”[1]?
Citando la famosa metafora introdotta dal compianto Prof. Stefano Zan[2], questo ufficio giudiziario poteva essere paragonato a un “condominio”, al cui interno esercitavano le loro funzioni, in parallelo, tanti professionisti-monadi, senza alcuna forma di interdipendenza.
Quelli erano gli anni in cui andava di moda il concetto di “auto-organizzazione del giudice” – una sorta di contraddizione in termini per noi studiosi di organizzazione.
Erano gli anni in cui se in un convegno si parlava di organizzazione – come è successo diverse volte al sottoscritto – si veniva additati come aziendalisti o, nella peggiore delle ipotesi, come sovversivi, che rimettevano in discussione l’indipendenza del giudice, tutelata dalla Costituzione italiana.
Sono passati quasi vent’anni e fortunatamente – se me lo permettete – questi discorsi sono stati abbandonati. Nel corso del tempo, infatti, si è diffusa una nuova consapevolezza: la centralità della “questione organizzativa” per il funzionamento degli uffici giudiziari.
Si potrebbe discutere a lungo sui fattori endogeni ed esogeni che hanno favorito questa trasformazione, ma – studiandovi dall’esterno – è un fatto che la magistratura italiana abbia compiuto dei passi da gigante, specialmente in ottica comparativa, sia in termini di consapevolezza sia di diffusione, in tutto il sistema, di competenze organizzative e manageriali.
Forse a voi potrebbe sembrare scontato, ma se oggi siamo qui a parlare di qualità ed efficienza della giurisdizione, di gestione delle risorse umane e di risultati attesi è proprio perché nel corso del tempo è emersa l’idea di giurisdizione come organizzazione complessa – principio riconosciuto, fra l’altro, anche dall’art. 26-bis del D.lgs. 26/2006, che ha portato alla nascita dei corsi per aspiranti dirigenti della Scuola Superiore della Magistratura, nonché dalla normativa secondaria, ormai consolidata, in materia di organizzazione, che è stata adottata negli ultimi anni dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Per non sottrarmi al compito che mi è stato affidato dai coordinatori della sessione, in questa mia relazione vorrei presentare una serie di considerazioni sul funzionamento e sulla governance della Giustizia italiana, che si basano sui risultati di diverse ricerche empiriche, condotte negli ultimi anni sia in Italia sia in altri paesi europei, soprattutto del Sud Europa. Queste riflessioni verranno sviluppate a partire da tre domande generali, che intendo porre – idealmente – ai partecipanti alle due successive tavole rotonde, nonché a tutti i presenti, per stimolare il dibattito:
1. È possibile conciliare qualità ed efficienza della giurisdizione?
2. Sulla base di quali criteri possiamo definire la qualità del “servizio Giustizia”?
3. L’innovazione organizzativa nella Giustizia è sempre qualcosa di auspicabile?
Visto il poco tempo a mia disposizione, le mie considerazioni saranno, inevitabilmente “per flash” e faranno riferimento, a seconda dei casi:
- al livello micro, i singoli magistrati;
- al livello meso, gli uffici giudiziari e le loro articolazioni interne;
- al livello macro, ossia il “Sistema Giustizia”, inteso nel suo insieme.
Partiamo dalla prima domanda generale: è possibile conciliare qualità ed efficienza della giurisdizione?
Ecco, io credo che, in questo preciso momento storico, soprattutto alla luce degli obiettivi del PNRR, questa sia davvero un interrogativo cruciale, che dobbiamo porci – così come ricordato ieri, nella sua relazione introduttiva, anche dal Presidente Giuseppe Santalucia.
Non ho, ovviamente, la presunzione di dare una risposta a questa domanda, ma voglio sottolineare alcune dinamiche, che si stanno manifestando sia nel nostro paese sia a livello internazionale.
Come messo in luce da una parte pioneristica della letteratura, negli ultimi vent’anni si è diffusa e progressivamente affermata una concezione di “qualità della Giustizia” orientata al risultato. Tutto ciò ha portato a un cambiamento del paradigma dominante: dal paradigma della rule of law, fondato sulle garanzie di indipendenza e sulle regole a tutela del giusto processo, al paradigma manageriale, incentrato sulle performance degli apparati giudiziari e sulla loro capacità di fornire una risposta adeguata, entro un tempo ragionevole, alla domanda di Giustizia proveniente dai cittadini[3].
È indubbio che questi processi abbiano dato un contributo fondamentale al cambiamento del modo stesso di intendere la governance della Giustizia, che ha reso la stessa sia più efficiente sia più responsabile nei confronti dei cittadini e della società[4].
Ma, al contempo – come messo in luce, tra gli altri, da un attento osservatore, come Antoine Garapon[5] – questi stessi processi stanno facendo emergere alcune dinamiche che, se non adeguatamente governate, rischiano di produrre delle distorsioni anche molto gravi, soprattutto in termini di legittimazione sociale dei magistrati e della Giustizia, nel suo insieme.
Il fatto che oggi – attenzione, non solo in Italia; queste sono dinamiche globali – i magistrati utilizzino sempre più spesso espressioni come “fare statistica”, “svuotare gli armadi” e “smaltire l’arretrato” – come fosse spazzatura – è significativo di un progressivo spostamento dell’attenzione dalla qualità alla quantità del “prodotto Giustizia”.
Se questa retorica non cambia, rischiamo di doverci chiedere – paradossalmente – se a un magistrato o a una magistrata convenga, in termini di carriera, smaltire più casi possibili o, viceversa, costruire decisioni in modo accurato, secondo scienza e coscienza. Si tratta, ovviamente, di un’aberrazione.
Come possiamo tentare di uscire da questo “cortocircuito”, soprattutto nel breve periodo, ovvero con gli attuali vuoti d’organico – in alcune realtà assolutamente patologici – e con la necessità impellente di raggiungere gli obiettivi posti dal PNRR?
Premetto che sono da sempre, fin dalla prima ora, contrario all’idea di definire dei “carichi esigibili”, validi su tutto il territorio nazionale – che mi riporta alla mente l’immagine di una penna che cade al raggiungimento di un certo numero di casi o di una sirena che suona a fine turno. Questa misura non necessariamente aumenterebbe la qualità della Giustizia e rischierebbe di produrre altre, diverse, ma non meno pericolose, aberrazioni[6].
A mio avviso, queste dinamiche possono essere limitate attraverso l’azione contestuale di tre “leve”, collegate tra loro:
- la prima leva riguarda il ruolo dei magistrati con funzioni direttive e semidirettive. Siamo tutti diversi: qualcuno è più produttivo di altri. Eppure, a mio avviso, fra i compiti del capo ufficio – ma anche del semidirettivo – dovrebbe esserci quello di comprendere le ragioni che spiegano eventuali picchi – tanto in negativo, quanto in positivo – nella produttività dei singoli magistrati. Questa attività di ricognizione di eventuali anomalie è cruciale per poter definire degli obiettivi credibili e, al contempo, valutare il raggiungimento dei risultati attesi dell’ufficio;
- la seconda leva riguarda il ruolo della comunità professionale. So che richiamo una questione conflittuale, aperta da decenni – non solo in Italia – ma siete voi, solo voi, che potete decidere sulla base di quali standard valutare la qualità di un atto decisorio di un magistrato o, più in generale, la qualità professionale dello stesso. E siete altresì voi che potete rilevare e, nel caso, sanzionare eventuali condotte deontologicamente discutibili. Molto è stato fatto, ma, a mio parere, molto resta ancora da fare;
- infine, è possibile individuare una terza leva: quella che noi studiosi delle organizzazioni, chiamiamo governo delle interdipendenze – il grado in cui le parti di una relazione organizzativa dipendono le une dalle altre per svolgere il loro compito – ossia le interazioni organizzative tra gli uffici giudiziari, ai diversi livelli di governance: Tribunali e Corti d’appello, Tribunali e Procure, Procure e Procure generali, Corti d’appello e Cassazione, ecc.
A mio avviso, per poter fare un ulteriore salto di qualità e incidere, in tal modo, su alcune sacche di inefficienza tuttora esistenti, occorre abbandonare una visione incentrata sui singoli uffici, per ragionare, invece – se mi permettere l’uso di un termine organizzativo – in “ottica di filiera”. Se ci concentriamo sul singolo ufficio, infatti, rischiamo di non riuscire a cogliere alcune dinamiche. Il punto di osservazione fa la differenza.
Per questioni di tempo, posso fare solo alcuni esempi – fra i tanti possibili:
- Procure della Repubblica ultra produttive che – senza volerlo – finiscono per inceppare e rallentare l’attività dei Tribunali;
- Tribunali che non conoscono il destino dei fascicoli che vengono impugnati in appello, né se esistano o meno dei filoni di contenzioso con un tasso di conferma molto basso o, viceversa, molto alto;
- fascicoli che rimangono fermi per diverso tempo tra un ufficio e l’altro, in una sorta di limbo, di “terra di nessuno”, con una serie di conseguenze processuali, ma soprattutto sulla vita delle persone che aspettano una risposta alla loro “domanda di Giustizia”.
In che modo questo discorso si collega a quello sulla qualità della Giustizia?
Governare le interdipendenze significa lavorare meglio, evitare perdite di tempo e diseconomie, ma significa anche, per esempio, avere una serie di informazioni per la governance del sistema, inteso nel suo complesso.
Concentrandomi sui rapporti tra Tribunali e Corti d’appello, per esempio, conoscendo nel dettaglio, in maniera sempre più accurata, il tasso di impugnazione e di eventuale riforma su singole materie, rispetto al Tribunale di provenienza del fascicolo, si potrebbe disincentivare l’avvio di procedimenti che si basano su orientamenti consolidati nel tempo.
Allo stesso tempo, il singolo giudice potrebbe fare delle scelte di case management, ovvero decidere su quali casi dedicare maggiore tempo ed energie – in quanto su questioni controverse, dove non vige un orientamento consolidato – e quali, invece, per esempio, affidare all’analisi preliminare di un addetto all’ufficio per il processo oppure di un tirocinante – qualora presente nell’ufficio.
I vantaggi di un governo responsabile delle interdipendenze potrebbero essere molteplici e, soprattutto, non richiederebbero interventi normativi oppure ordinamentali, ma delle strutture di interconnessione tra uffici giudiziari, per esempio, nell’ambito di un ipotetico staff del presidente, composto anche da addetti all’UPP con competenze statistiche e organizzative.
Seconda domanda, cui dedicherò meno tempo della precedente, anche se altrettanto importante: sulla base di quali criteri possiamo definire la qualità del “servizio Giustizia”?
A differenza di quanto avviene con riferimento all’efficienza, il dibattito su questi temi non è ancora riuscito a definire in modo chiaro sulla base di quali criteri possiamo stabilire se il “servizio Giustizia” sia erogato o meno secondo certi standard di qualità, riconoscibili e comparabili. Si parla molto di qualità e soprattutto – come detto – di quantità di atti decisori del magistrati, ma poco di qualità del servizio, così come percepita dai cittadini.
Anche in questo caso, molto è stato fatto, ma vedo ampi margini di miglioramento, anche attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione di diversi attori istituzionali, sia a livello centrale sia locale: in primo luogo, l’avvocatura associata, ma anche le università, gli enti locali, la forze di polizia giudiziaria, gli altri enti pubblici, ecc.
Ma anche degli stessi cittadini, per rilevare sia il grado di fiducia sia di soddisfazione nei confronti del servizio, attraverso strumenti quali survey ripetute a cadenza regolare, indagini di customer satisfaction, focus group, interviste in profondità, ecc.[7].
A mio avviso, per comprendere le logiche di funzionamento del “Sistema Giustizia” – inteso in senso complessivo – e, di conseguenza, poter migliorare la qualità del servizio erogato ai cittadini, occorre allargare il focus oltre la “macchina statale” e le sue articolazioni.
Occorre interrogarsi sull’origine dei conflitti che, non trovando altre forme di risoluzione nella società, arrivano nelle aule di Giustizia.
Se mi permettete l’uso di una metafora, a mio avviso, dobbiamo interrogarci sulle cause di quest’onda, non aspettare che le frustrazioni delle persone si abbattano, come uno tsunami, sugli uffici giudiziari – che non saranno mai, per definizione, incapaci di arginarlo da soli.
È un cambiamento di prospettiva che, a mio avviso, occorre realizzare.
La terza e ultima domanda aperta di questa mia relazione è: l’innovazione organizzativa nella Giustizia è sempre qualcosa di auspicabile?
A dispetto dell'opinione diffusa tra i cittadini, negli ultimi vent’anni, numerosi uffici giudiziari italiani si sono trasformati in vere e proprie “arene d'innovazione”, dove sono stati progettati e implementati una pluralità di interventi “dal basso”, di diversa natura e portata[8].
Seppur in ritardo, queste dinamiche stanno cominciando a svilupparsi anche in altri paesi del Sud Europa – ma in Italia risultano oltremodo evidenti[9].
Queste innovazioni locali – spesso adottate in maniera artigianale, ma non per questo meno efficace – hanno ottenuto, in alcuni casi, dei risultati eccezionali, tanto da essere riconosciute come pratiche virtuose sia a livello nazionale sia internazionale.
In occasione di convegni ed eventi formativi con magistrati di altri paesi[10], mi è capitato spesso di raccontare quanto è stato realizzato da alcuni uffici giudiziari italiani, nel nord come nel sud del Paese. Di fronte a questi risultati, i vostri colleghi sono spesso increduli.
Eppure, negli ultimi anni, il “Sistema Giustizia” ha, di fatto, incentivato i magistrati dirigenti a ricorrere all’innovazione in modo sistematico, continuativo e, di sovente, anche distruttivo e poco sostenibile, ossia senza “fare tesoro” di quanto fatto nell’ufficio prima del loro arrivo o della loro nomina. Gli esempi potrebbero essere molti.
Negli ultimi anni, alcuni uffici giudiziari hanno innovato senza sosta, trasformando l’innovazione da eccezione a regola.
A mio avviso, queste dinamiche stanno producendo due effetti paradossali, uno interno e uno di natura sistemica:
- per quanto riguarda il versante interno, innovare costa fatica e può rallentare, almeno inizialmente, le performance organizzative: le persone, infatti, sono chiamate ad adattare le loro pratiche lavorative alle nuove procedure, ai nuovi strumenti e alle nuove relazioni organizzative. In occasione di un processo di innovazione senza fine, come dimostrano numerose ricerche empiriche, di diversa provenienza disciplinare, si può creare una situazione di forte stress, che può portare all’emergere di fenomeni di burnout e può spingere le persone a chiedere un trasferimento, anche in realtà meno stimolanti, da un punto di vista professionale[11];
- a livello sistemico, invece, il ricorso continuo all’innovazione rischia di allargare o, comunque, di cristallizzare e rendere permanenti, le differenze tra gli uffici giudiziari italiani, sia in termini di comportamento sia di prestazioni[12].
Tutto ciò rischia, infatti, di creare delle “mappe delle differenze”: uffici giudiziari innovativi – che non temono confronti con quelli di altri paesi europei – che operano a pochi km da altri che, per diverse ragioni – tra cui, in primo luogo, la disponibilità di enti e istituzioni, del territorio in cui operano, a sostenere, anche economicamente, dei progetti di miglioramento – non riescono a innovare o ad auto-innovarsi.
Rispetto alla qualità del servizio, ma anche alle performance degli uffici giudiziari, il fatto che per un cittadino o per un’impresa non sia affatto indifferente doversi difendere oppure promuovere un procedimento in un ufficio giudiziario piuttosto che in un altro, ha una serie di implicazioni di natura sociale, economica e politica. Queste dinamiche incidono, infatti, sullo sviluppo socio-economico dei diversi territori, visto che amplificano le disuguaglianze, in termini di effettiva capacità delle persone di accedere a diritti, beni e servizi pubblici.
Ecco perché, in ottica futura, credo sia necessario porci un nuovo interrogativo:
in che misura siamo disposti a tollerare delle differenze, sia in termini di prestazioni sia di comportamento, pur di incoraggiare l’emergere di alcune innovazioni virtuose?
Oppure – posta in altri termini – in che misura siamo disposti a ostacolare la nascita di innovazioni “dal basso”, potenzialmente virtuose, pur di garantire un servizio uniforme su tutto il territorio?
A mio avviso, dalla risposta – certamente non scontata – a questa domanda, passano molte delle questioni aperte in materia di innovazione e governance della Giustizia italiana.
Vi ringrazio molto per l’attenzione.
NOTE:
[1] Di recente, i risultati della ricerca sono stati pubblicati in: Verzelloni, L. (2019), Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino.
[2] Zan, S. (2003), Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, Il Mulino.
[3] Sul tema, si rimanda a: Piana, D. (2016), Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia, Bologna, Il Mulino.
[4] Sul tema, si veda: Fabri, M. et al. (2003) (a cura di), The administration of justice in Europe: Towards the development of quality standards, Bologna, Lo Scarabeo; Frydman, B. e Jeuland, E. (2011) (a cura di), Le nouveau management de la justice et l’indépendance des juges, Paris, Dalloz; Langbroek, P. et al. (2017), Performance management of courts and judges, in F. Contini (a cura di), Handle with care: Assessing and designing methods for evaluation and development of the quality of justice, Bologna, IRSiG-CNR, pp. 297-325.
[5] Garapon, A. (2012), Lo stato minimo. Giustizia e neoliberismo, Milano, Cortina.
[6] La mia critica – non ideologica – all’idea di definire un “carico esigibile” a livello nazionale si fonda su due considerazioni, tra loro strettamente collegate. In primo luogo, per costruire un target attendibile – anche in forma di soglia oppure di range di riferimento – occorrerebbe tenere conto di una pluralità di variabili di contesto, sia interne sia esterne, che incidono direttamente sul lavoro quotidiano e, di conseguenza, sulla produttività dei singoli magistrati. Tra le prime, si devono ricordare: tasso di scopertura del personale togato, tasso di scopertura del personale amministrativo, presenza di figure di supporto (addetti, tirocinanti, magistrati onorari), condizioni e spazi di lavoro, benessere organizzativo, tasso di turnover, disponibilità di strumenti informativi e tecnologici, organizzazione interna dell’ufficio, divisione dei carichi di lavoro, ecc. Tra le seconde, invece: caratteristiche del tessuto sociale ed economico, presenza di una cultura della legalità, tasso di litigiosità, qualità delle altre pubbliche amministrazioni, politiche locali, rapporti con l’avvocatura, disponibilità della stessa a dialogare con gli uffici, ecc. Vista l’impossibilità di considerare tutti questi aspetti, l’opera mi sembra difficilmente realizzabile; a meno che non si stabiliscano delle soglie così ampie da risultare, di fatto, inutili. In secondo luogo, qualora si riuscisse a definire un parametro di riferimento a livello nazionale, questo potrebbe, paradossalmente, allargare ulteriormente le differenze territoriali. In alcune realtà il “carico esigibile” potrebbe essere raggiunto molto più facilmente che in altre: i magistrati potrebbero essere portati a rallentare i loro ritmi di lavoro o, viceversa, a rassegnarsi all’idea di non poter neppure avvicinare certi target di produttività, in attesa di chiedere il trasferimento in un'altra realtà territoriale. A mio avviso, occorrerebbe, invece, investire nella ricerca di sempre più accurati criteri di “pesatura dei fascicoli” che permettano, da un lato, di dividere più equamente il lavoro tra colleghi di uno stesso ufficio giudiziario e, dall’altro, di assumere delle scelte organizzative più consapevoli, ai diversi livelli di governance.
[7] Come avvenuto negli ultimi anni, per esempio, in Francia. Sull’esperienza francese, si veda: Vigour, C. et al. (2022), La justice en examen, Presses Universitaires de France, Paris.
[8] Per approfondimenti, si rimanda a: Verzelloni, L. (2019), Pratiche di sapere, op cit. e a Verzelloni, L. (2020), Paradossi dell’innovazione: i sistemi giustizia del Sud Europa, Roma, Carrocci Editore.
[9] Per un confronto sui processi di innovazione in altri sistemi giudiziari del Sud Europa (Portogallo, Grecia e Spagna), si veda: Verzelloni, L. (2020), Paradossi dell’innovazione, op. cit.
[10] Come in occasione del seminario internazionale "South-Western Seminar on Timeliness", organizzato dall’European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ), Madrid, 28-30 novembre 2016.
[11] Il tasso di turnover potrebbe essere un buon indicatore per rilevare il livello di benessere organizzativo all’interno degli uffici giudiziari e, ad avviso di chi scrive, dovrebbe essere considerato anche nell’ambito del procedimento di conferma dei magistrati con funzioni direttive e semidirettive.
[12] Sul tema, si veda: Verzelloni, L. (2020), "Riformare la giustizia del lavoro fra disuguaglianze e inefficienze: il prisma del sud Europa", Stato e Mercato, 119, 2, 319-357.