L’ufficio del massimario tra mito e leggenda
di Donatella Salari
Dice bene Vladimiro Zagrebelsky [1] che “l’idea illuministica del giudice bocca della legge, proclamata dai Montesquieu, dai Robespierre, dai Beccaria è tramontata, almeno da quando il magistrato interprete della legge deve orientarne la lettura in modo da renderla compatibile con la Costituzione e le Carte europee e internazionali dei diritti fondamentali, per renderla capace di concretizzarne principi e valori. L’idea che le varie interpretazioni della legge da applicare alle controversie da decidere comprendano una interpretazione esatta, distinta da interpretazioni sbagliate è ormai priva di fondamento”.
Mi pare, perciò, che ciascuno di noi non possa che sottoscrivere queste parole, perché esse presidiano, innanzitutto, l’indipendenza della giurisdizione, ossia quel valore fondante che, più di tutti, è oggi insidiato da forme di populismo che impediscono qualsiasi ragionamento di una minima complessità e che favoriscono autoreferenzialità e ripiegamenti verso un arcadico “diritto oggettivo” che il giudice si limiterebbe a celebrare scevro da ogni interpretazione che lo coinvolga in un confronto con la realtà circostante e con i cambiamenti perenni che la plasmano
Tutti sappiamo, rispetto a questo scenario, quale sia la funzione fondante della Corte di Cassazione.
Essa, infatti, assicura l'esatta osservanza delle leggi nelle decisioni dei giudici per mezzo del sindacato di legittimità esercitato nel tempo. Infatti, attraverso il “precedente” delle decisioni osservato, registrato e catalogato la Corte crea la nomofilachia, ossia presidia la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge e dell’unità del diritto oggettivo nazionale verificando se un determinato assetto interpretativo che riveli una tendenziale stabilizzazione, possa costituire “diritto vivente”, nel senso che ogni esegesi stabilizzata ed aggiornata possa intendersi come recupero di certezza del diritto davanti ad una produzione legislativa alluvionale, restituendo sistematicità e chiarezza all’ordinamento normativo al momento della sua applicazione.
Ora, questo meccanismo non ha solo un valore di pura tenuta del sistema, ma riveste anche un ruolo giuridico fondante perché, come tutti sanno, se il precedente si è stabilizzato, né la Corte a sezioni semplici, né il giudice di merito possono sconfessarlo in assenza di una motivazione stringente.
La nomofilachia ha, del resto, anche un ruolo decisivo nella deflazione del contenzioso giudiziario nel momento in cui essa restituisce all’ordinamento la prevedibilità della decisione, ossia quella qualità essenziale che rappresenta uno strumento forte di controllo di una domanda di giustizia che stenta a ritrovarsi in una visione compiuta, organica ed unitaria di un apparato normativo che non eccelle in chiarezza e uniformità di visioni.
Che cosa fa dunque il Massimario?
Non è questa una domanda defatigatoria perché l’impressione è che all’esterno non vi sia una percezione chiara dei compiti di questo Ufficio. Invece, il suo ruolo “E’ semplicissimo” ! Come esordiva Luciano Berio in una nota trasmissione dedicata alla musica classica quando cercava di spiegare entusiasticamente che cosa è la musica, tonale e non alla televisione.
Basterà, allora, dire che il Massimario, quale organo della Corte di Cassazione, in posizione di indipendenza rispetto ai collegi, estrae e forma i precedenti giurisprudenziali del giudice di legittimità fornendo il contributo essenziale alla sedimentazione della nomofilachia (art. 68 del R.D. n. 12 del 1941).
Come lo fa?
Anche qui è semplicissimo: esamina sentenze e ordinanze e, in tale ambito, enuclea il principio di diritto depurato da affermazioni ed argomenti incidentali ed occasionali.[2]
In questo modo con le massime di giurisprudenza si forma il tessuto connettivo dei precedenti i quali costituiscono, a loro volta, la struttura portante della nomofilachia sulla quale riposa la ragion d’essere della Corte di cassazione secondo l’art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n. 12 ossia quella di assicurare , come già detto: "l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni".
La creazione della nuova figura degli assistenti di studio [3] non ha mutato la natura dell’Ufficio del Massimario.
Come forse non tutti sanno, infatti, gli assistenti di studio oltre a formare i ruoli di udienza, classificare i ricorsi, redigono progetti di decisione, svolgono opera di orientamento su questioni di carattere generale (come i massimatori puri) che interessano la sezione cui sono assegnati etc…
Nonostante queste brevi premesse una certa misteriosa vulgata, forse di tradizione orale, un po’ come l’Iliade, vorrebbe porre i magistrati componenti dell’ufficio del Massimario lontani dalla giurisdizione attiva.
Difficile essere d’accordo e non mi riferisco solo agli assistenti di studio i cui compiti ho appena elencato perché la giurisdizione attiva è anche quella che consente a ciascun magistrato, attraverso lo studio e la ricerca dei precedenti elaborati dall’Ufficio del Massimario, di affrontare i compiti del lavoro quotidiano forte di quell’elaborazione culturale e di quel presidio scientifico.
La massima, infatti, con le sue indicazioni di “difformità” conformità” e con i suoi “vedi” enuncia il principio di diritto e ne restituisce il contenuto, indicando, l’iter logico che lo ha generato orientando anche il Foro.
Siamo quindi vicini o no alla giurisdizione attiva? Io direi che siamo vicinissimi a meno di non pensare che del diritto vivente non vi sia bisogno perché il giudice è solo il medium che evoca le parole della legge come un oracolo, mentre, come abbiamo appena detto, così non è perché il diritto dei precedenti è una cosa viva necessaria allo ius dicere e strumento di deflazione.
Di tutto le cose fin qui dette il previdente legislatore è ben consapevole nel momento in cui fissa il principio di cui all’art. 12 (Requisiti e criteri per il conferimento delle funzioni), comma 13, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160 modificato dal comma 13 dell’art. 1 della legge 30 luglio 2007 n.111 «Per il conferimento delle funzioni di cui all'articolo 10, comma 6 [funzioni giudicanti e requirenti di legittimità], oltre al requisito di cui al comma 5 [quarta valutazione di professionalità] del presente articolo ed agli elementi di cui all'articolo 11, comma 3, deve essere valutata anche la capacità scientifica e di analisi delle norme; tale requisito è [4]oggetto di valutazione da parte di una apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura.
Vi è una specificità in questa previsione – stabilita solo per l’attribuzione delle funzioni di magistrato della Corte di cassazione e della Procura Generale presso la Corte di cassazione - perché essa va collegata alla funzione tipica della Corte di Cassazione, vale a dire alla nomofilachia, cioè all’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale» di cui al già citato art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12.
A mio parere questa scelta, in un sistema che costituzionalmente vuole il giudice soggetto alla sola legge (art. 101, secondo comma, Cost.) in ragione della primazia di essa nello Stato di diritto, impone che la selezione, ai fini del reclutamento dei magistrati destinati alle funzioni di legittimità, avvenga secondo criteri rigorosamente tecnici e specifici. Ne consegue che il parere espresso dall’apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura acquisti nel concorso un ruolo centrale. Ne consegue che la motivazione di un eventuale discostamento da quel parere ad opera della Commissione consiliare competente, e dunque del Plenum del CSM debba essere particolarmente rigorosa ed argomentata in base a valutazioni di ordine anch’esse prettamente tecniche.
Pertanto, l’art. 12, comma 16, d.lgs. n. 160 del 2006, nell’affermare che «La commissione del Consiglio superiore della magistratura competente per il conferimento delle funzioni di legittimità, se intende discostarsi dal parere espresso dalla commissione di cui al comma 13, è tenuta a motivare la sua decisione» impone un onere di motivazione particolarmente stringente ed analitico che la legge pretende per prevenire qualsivoglia prevaricazione, sia pure surrettizia rispetto alle espresse valutazioni tecniche della nominata Commissione, di considerazioni spurie o, comunque, di diversa natura.
Secondo la giurisprudenza amministrativa un tale stringente obbligo motivazionale diventa irrinunciabile rispetto alla salvaguardia[5] dell’essenziale funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione e della Procura Generale presso la Corte e, dunque, del ruolo uniformatore e chiarificatore della giurisdizione di legittimità nello Stato di diritto. E’ semplicissimo!
Dunque che cosa rimane? Forse solo un pregiudizio da sfatare secondo il quale gli addetti all’Ufficio del Massimario e del ruolo sarebbero dei privilegiati che brillano sulla cuspide di un ordine gerarchico che pone la Corte su di un’ideale e forse antistorica piramide che va scalata per gradi fino al perentorio motto “Micat in vertice”.
[1] Vladimiro Zagrebelesky in Giustizia insieme, La resa dei conti e la reazione della magistratura.
[2] Vedi anche l’art. 26 del d.m. 30 settembre 1989, n. 334.
[3] (d.l . n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, art. 64)
[4] 13. Per il conferimento delle funzioni di cui all'articolo 10, comma 6, oltre al requisito di cui al comma 5 del presente articolo ed agli elementi di cui all'articolo 11, comma 3, deve essere valutata anche la capacità scientifica e di analisi delle norme; tale requisito e' oggetto di valutazione da parte di una apposita commissione nominata dal Consiglio superiore della magistratura. La commissione e' composta da cinque membri, di cui tre scelti tra magistrati che hanno conseguito almeno la quarta valutazione di professionalità e che esercitano o hanno esercitato funzioni di legittimità per almeno due anni, un professore universitario ordinario designato dal Consiglio universitario nazionale ed un avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle magistrature superiori designato dal Consiglio nazionale forense. I componenti della commissione durano in carica due anni e non possono essere immediatamente confermati nell'incarico.
[5] Consiglio di Stato 4166 del 2018