GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Brevi osservazioni su una pronuncia cautelare della Supreme Court of the United States in tema di effetti della pandemia da Covid 19 di Mario Serio  

    Sommario: 1. Comparazione giuridica e formante giurisprudenziale - 2. La corte Suprema USA di fronte agli effetti della pandemia nei rapporti tra proprietari ed inquilini - 3. Gli elementi della fattispecie in esame - 4. La decisione della corte distrettuale della Columbia - 5. La ratio decidendi di primo grado - 6. La sospensione degli effetti della sentenza di primo grado - 7. La conferma della sospensione degli effetti della sentenza di primo grado da parte della stessa corte distrettuale - 8. Il ricorso alla Supreme Court federale - 9. L'opinione di maggioranza della Supreme Court - 10. L'opinione di minoranza della Supreme Court - 11. Spunti finali.  

    1. Comparazione giuridica e formante giurisprudenziale

    La comparazione giuridica, intesa nella sua più schietta declinazione di criterio di osservazione di realtà distinte e talvolta distanti da quelle cui lo studioso è “iure loci” aduso e di conseguente selettrice di affinità e divergenze tra le stesse, ben può essere impiegata per scorgere, nelle pieghe degli ordinamenti stranieri, elementi sintomatici di concezioni profonde della vita sociale e di quelle individuali e del sistema di valori che le ispirano. A fungere da strumento rivelatore di questi, talvolta nascosti, caratteri spesso valgono, per la vastità delle implicazioni che ne derivano e per il necessario dispiegamento di un apparato argomentativo che attinge a livelli meta od extra giuridici, le fonti giurisprudenziali. In esse, infatti, più esattamente nelle menti e nelle parole delle persone-giudici che le incarnano, si annida quel complesso sostrato di idee, principii, sentimenti, visioni ideologiche di cui è necessariamente intessuta una società organizzata in forme e secondo strutture giuridiche. Perché i soggetti costitutivi dell'ordinamento che si esprime attraverso le rispettive pronunce mai e per nessuna ragione possono o debbono, nel momento di svolgimento dell'ufficio istituzionale, dissociarsi dalla propria concreta identità culturale, morale, politica che, espressamente o tacitamente, beneficamente traluce dai loro atti. E così la lettura in senso critico di un documento giudiziario contribuisce a schiarire il contesto territoriale ed ideale nel quale esso si colloca, donando al lettore il vantaggio della penetrazione per la via del diritto in un territorio conoscitivo che può abbracciare l'intero complesso di relazioni sociali ed umane che vi si svolge. E se a questo ricco risultato si giunge quando lo sguardo è rivolto verso mondi stranieri è giocoforza chiamare la comparazione giuridica a testimone ed artefice della conquista culturale così ottenuta.  

    2. La corte Suprema USA di fronte agli effetti della pandemia nei rapporti tra proprietari ed inquilini

    Il preambolo appena enunciato, di larga ed essenziale applicazione ad ogni seria ricerca comparatistica, in special modo se incentrata sul versante giurisprudenziale, trova una propria specifica legittimazione metodologica con riguardo ad una recente pronuncia interlocutoria e con fini cautelari della Supreme Court of the United States resa il 26 agosto 2021 nel caso Alabama Association of realtors et al. v  Department of health and human services et al. ( 594 U.S. 2021).

    Se si cercasse, più o meno fruttuosamente, di condensare i termini della controversia, ravvisati nella sfera di interessi, collettivi ed individuali, implicati si potrebbe indicare gli antagonisti rispettivamente nella difesa della proprietà immobiliare privata e delle correlate utilità e nella protezione ordinamentale dell'ampia schiera dei non proprietari affetti da circostanze economiche e sanitarie di intensissima avversità. Si potrà vedere nel corso di queste notazioni sparse che le due categorie contrapposte sono perfettamente in grado di contemplare al proprio interno ulteriori profili di contrasto, o meglio ancora, di ospitare concezioni della complessità sociale più articolate e taglienti.  

    3. Gli elementi della fattispecie in esame

    La fattispecie sottoposta all'esame della Supreme Court in via di urgenza, che portò ad una decisione adottata con il voto favorevole di 6 giudici e quello contrario degli altri 3 (Sotomayor e Kagan che dichiararono di convergere nell'opinione dissenziente redatta dal  loro collega Breyer) ,onusta di passaggi procedurali di cui in questa sede vanno colti e descritti solo i salienti, si inscrive drammaticamente tra i gravi effetti collaterali globalmente causati dalla diffusione pandemica negli Stati Uniti d'America del virus induttivo del Covid 19.  

    È dato di comune esperienza mondiale che all'incontrollabile dominio assunto dalla malattia abbia in misura corrispondente fatto riscontro una pari flessione della circolazione e produzione di ricchezza e l'inevitabile raggiungimento di alte vette di impoverimento generatrici di drammatici mutamenti deteriori nelle generali condizioni di vita.  

    In questo scenario non poteva non irrompere con tempestività il ramo congressuale del Parlamento statunitense che, nel marzo 2020,approvò il Coronavirus Aid,Relief and Economic Security Act diretto ad allevia re i gravi pesi determinati dalla patologia. Tra le varie ed estese  misure adottate con lo scopo di mitigare gli effetti sociali ed economici del coronavirus fu introdotta quella, di carattere temporaneo, con cui fu sospese per 120 giorni l'esecuzione degli sfratti riferiti ad immobili aventi particolari caratteristiche, quali l'inclusione in programmi federali di assistenza o il godimento di mutui agevolati di origine anch'essa federale. Tale misura non fu rinnovata né prorogata alla sua scadenza dal Congresso. A colmare la lacuna, prolungando fino all'ultimo giorno del 2020 l'efficacia delle disposizioni agevolative ormai scadute, intervenne un'agenzia governativa il Center for Disease Control and Prevention (d'ora in poi CDC) nella persona del suo direttore che impose una moratoria in quell'ambito temporale agli sfratti nei confronti di inquilini abitanti in contee nelle quali fosse particolarmente elevato il rischio di propagazione del virus e che versassero in gravi situazioni di difficoltà economica. Allo spirare del nuovo termine il Congresso votò per una proroga di un mese del provvedimento del CDC. Quest'ultimo, in assenza di nuovi provvedimenti legislativi, adottò due successive proroghe trimestrali, seguite da altra estensione fino al luglio 2021.Le progressive deliberazioni del CDC assunsero come base giustificativa dell'esercizio del relativo potere il paragrafo 361 (a) del Public Health Service Act del 1944 e delle successive modifiche ed integrazioni che attribuisce al Surgeon General (autorità federale in posizione apicale in materia di igiene e salute pubblica, le cui funzioni sono state nel 2020 delegate proprio al CDC) il potere di emanare i provvedimenti più opportuni (sanificazioni, disinfestazioni, divieti di importazione, abbattimento di animali infetti, etc.) al fine di prevenire la trasmissione o la diffusione di malattie contagiose di origine straniera. Le ultime due proroghe della sospensione dell'esecuzione degli sfratti immobiliari ricadenti nelle aree prima indicate sono state in tempi diversi impugnate davanti la corte distrettuale della Columbia da più associazioni di proprietari che ne hanno chiesto la dichiarazione di illegittimità in via di urgenza con connessa concessione dell'inibitoria alla sua protratta vigenza. La ragione addotta per il promuovimento dell'azione fu quella dell'assoluta carenza di potere da parte del CDC di disciplinare materia ,quella della regolamentazione degli sfratti quali strumenti volti ad assicurare il pieno godimento della proprietà immobiliare, rientrante esclusivamente nelle attribuzioni del Congresso.  

    4. La decisione della corte distrettuale della Columbia

    La tesi fu accolta dalla corte, che in tal senso emise una pronuncia di natura sommaria legata alla urgenza dedotta dagli attori. Tuttavia, la stessa Corte, resa edotta dell'intendimento dell'agenzia resistente di proporre impugnazione, sospese gli effetti della propria pronuncia.  

    5. La ratio decidendi di primo grado

    Di particolare interesse si dimostra il ragionamento compiuto dalla District Court for the District of Columbia nel maggio 2021 a sostegno della propria. decisione soprassessoria. Essa non fu, infatti, dettata dalla ragionevole previsione di successo dell'appello della CDC, quanto, piuttosto, dal vincolo da cui i Giudici si sentirono avvinti di rispettare il tradizionale ,quadruplice ordine di fattori destinati ad assicurare il successo alla domanda inibitoria degli effetti di una decisione di merito di per sé esecutiva. Ed invero, attorno alla loro ricorrenza nel caso in esame sarebbe poi ruotato il dissenso registratosi nel collegio della Supreme Court. La quadripartizione trova da ultimo una chiara illustrazione nel caso Nken v. Holder del 2009 ed è così riassumibile: la delibazione sull'istanza di sospensione dell'esecuzione della sentenza deve tener conto dei seguenti elementi: a) della dichiarata volontà della parte soccombente di impugnarla; b) della sussistenza di un pregiudizio irreparabile per la parte richiedente in caso di diniego della tutela cautelare; c) delle eventuali conseguenze dannose per le altre parti del giudizio discendenti dall'accoglimento della domanda; d) dell'individuazione del pubblico interesse riconducibile alla pronuncia. Sulla base del soppesamento di questi elementi la corte distrettuale di primo grado ha ritenuto che militassero ragioni prevalenti per l'accoglimento della domanda cautelare di sospensione degli effetti di una pronuncia sfavorevole all'agenzia istante.  

    6. La sospensione degli effetti della sentenza di primo grado

    La stessa corte distrettuale fu di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di revoca della propria ordinanza di sospensione dell'efficacia della precedente sentenza agli inizi di agosto 2021 a seguito di apposita richiesta formulata dalle associazioni di proprietari immobiliari che avevano originariamente reagito ai precedenti provvedimenti della CDC. Quest'ultima, infatti, sopraggiunto il termine del 31 luglio 2021 dell'ultima proroga della sospensione degli sfratti, ribadì  ultrattivamente il proprio provvedimento.  

    7. La conferma della sospensione degli effetti della sentenza di primo grado da parte della stessa corte distrettuale

    La Corte distrettuale nuovamente adita in via cautelare ha mantenuto fermo il proprio anteriore provvedimento moratorio dell'esecuzione della sentenza favorevole agli attori per non contraddire l'orientamento prima citato in tema di condizioni per la concessione della tutela cautelare: ma questa volta la Corte non si è trattenuta dal manifestare il proprio rammarico per questo esito, sottolineando che la situazione rispetto alla previa occasione era mutata nel senso che, accanto alla mantenuta prognosi sfavorevole all'accoglimento dell'impugnazione della CDC, si aggiungeva la considerazione equitativa secondo cui mentre la categoria degli inquilini era più prospera in conseguenza di cospicui aiuti governativi in termini di contributi economici e di incremento del numero dei vaccini somministrati che preservava da contagi incontrollati, la situazione dei proprietari era rimasta immutata, al pari della loro impossibilità di ottenere alternativamente la corresponsione dei canoni arretrati o la disponibilità dell'immobile.  

    8. Il ricorso alla Supreme Court federale

    Contro questo provvedimento di rigetto della domanda tendente alla  dichiarazione di immediata ed incondizionata esecutività della sentenza favorevole hanno proposto ricorso in via d'urgenza le associazioni  di proprietari davanti la Supreme Court, riunitasi in camera di consiglio e non in udienza pubblica.  

    Il tema essenzialmente controverso in quella sede discusso dalle parti con semplice trattazione scritta fu congiunto, essendosi nell'opinione “per curiam” (fermamente contestata da quella dissenziente) sostanzialmente cumulato l'aspetto di merito dell'azione e, quindi, della legittimità dei provvedimenti della CDC e quello riguardante la effettiva presenza delle condizioni giustificative dell'inibitoria. Proprio in questo reticolo motivazionale risiede, come si potrà in seguito constatare, la divergente impostazione, non solo tecnico-giuridica ma di forte connotazione socio-economico-culturale, che ha diviso e visto contrapposte le due anime, conservatrice e progressista (tali anche in relazione alle rispettive provenienze politiche delle nomine),della Supreme Court, rendendo in certo modo esemplare la sentenza.  

    9. L'opinione di maggioranza della Supreme Court

    La Corte a maggioranza ha ritenuto fondata ed ha accolto la domanda delle associazioni proprietarie ,revocando l'ordine di sospensione dell'esecuzione della sentenza di primo grado.  

    A differenza della corte distrettuale quella suprema ha accordato ampio e decisivo credito alla prognosi circa l'esito dell'impugnazione eventualmente proposta dall'amministrazione soccombente, giudicando molto esigue le probabilità di successo, sotto il profilo che l'ambito delle misure che in periodi di contagio di malattie infettive la legge del 1944 come successivamente modificata ,molto esteso per quel che attiene a disposizioni di genuina natura sanitaria, non sembrava comprenderne altre ramificate in settori del tutto diversi, quali quello degli sfratti. A tal proposito la Supreme Court ha enunciato un principio interpretativo di portata costituzionale secondo il quale è auspicabile che il Congresso si esprima con chiarezza allorché autorizzi un'agenzia governativa ad esercitare poteri di grande significato economico e politico (“We expect Congress to speak clearly when authorising an agency to exercise powers of vast economic and political significance”). Il ragionamento ha preso un'ulteriore piega sul piano inclinato dei rapporti tra legislazione federale e legislazione statale, tracciando una netta linea di confine, all'esterno della quale ha collocato la sola competenza di quest'ultima a regolare i rapporti tra proprietari immobiliari ed inquilini. A questa stregua, particolare rigore va posto nella delimitazione delle attribuzioni dell'agenzia per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive (la CDC, appunto),insuscettibili di indebita espansione oltre gli stretti sentieri legislativamente fissati.

    La Corte suprema non si è accontentata però di mantenersi lungo la strada del controllo di legittimità costituzionale dei provvedimenti devoluti al suo esame: essa ha inteso inerpicarsi nell'aspro sentiero delle considerazioni puramente equitative (per stare al suo linguaggio),in sostanza occupando l'area del dibattito in ordine alla qualificazione del contenuto delle posizioni soggettive, proprietarie e locatarie, in conflitto tra loro. Ed in quel momento traspare - come specularmente è accaduto nell'opinione minoritaria - l'anima di politica giudiziaria della pronuncia. Essa si è manifestata sotto una doppia luce, di accecante caratura ideologica. In primo luogo, la maggioranza della Corte ha svelato il proprio orientamento, espresso secondo il parametro della giustizia del caso concreto che comunque obbedisce a principii generali, in termini di scelta di campo tra posizioni e pretese contrapposte, dichiarando l'insussistenza di ragioni appunto equitative che giustificassero la privazione in danno dei proprietari dei benefici scaturenti dalla pronuncia di primo grado che li aveva visti vittoriosi. Ben più sintomatico del generale atteggiamento della Corte si palesa lo sviluppo del precedente discorso condotto alle sue conseguenze ultime, quelle per le quali la categoria proprietaria, potendo contare nel proprio seno anche persone di modesti mezzi finanziari, non doveva essere tenuta a sopportare un significativo onere economico collegato alla pandemia e consistente nella privazione della più basilare delle facoltà connesse al diritto di proprietà, ossia l'esclusione di chiunque altro dal godimento della cosa propria, in ciò in pratica risolvendosi l'esercizio dell'azione di sfratto. All'argomento socio-economico la Supreme Court ha, tuttavia, avuto cura di far seguire quello nomofilattico in senso costituzionale: solo il potere legislativo, nella fattispecie il Congresso, può dirsi dotato della legittima scelta di assecondare l'interesse pubblico a scongiurare gli effetti perniciosi della pandemia anche sacrificando temporaneamente alcune della facoltà proprietarie ed incidendo sull'assetto dei rapporti locativi. E tale compito il Congresso aveva assolto solo parzialmente, circoscrivendolo ad un periodo determinato e non rinnovandolo nel tempo successivo. Non poteva, pertanto, identificarsi in un'agenzia governativa l'organo titolare di una così incisiva potestà, non rientrante tra quelle tipicamente riconosciute per far fronte a situazioni di emergenza sanitaria dal Public Health Service Act. E tale carenza di competenza non poteva trovare utile spiegazione legittimante nemmeno nell' (insindacabile, tanto più se si fosse prestata al dubbio, concepibile nella fattispecie, della piena consapevolezza degli effetti nascentine) inerzia legislativa. Alla luce di questa articolata riflessione la Supreme Court ha ritenuto improseguibile, in difetto di un' espressa autorizzazione Congressuale, la moratoria all'esecuzione degli sfratti imposta dalla CDC.    

    Prima di guardare all'altra faccia della medaglia decisoria, costituita dall'opinione di minoranza del giudice Breyer, confortata, come già ricordato, dall'adesione dei giudici Sotomayor e Kagan, una concisa osservazione su quella “per curiam” avvalora l'impressione che nel suo impianto possa riscontrarsi un'equa ripartizione tra argomenti riferibili alla predicata preservazione della demarcazione delle attribuzioni  tra poteri dello Stato e concezione rigida ed invalicabile del contenuto delle facoltà in cui si articola il diritto di proprietà, prima tra esse lo “ius excludendi omnes alios”.L'impressione stessa si accresce di un tratto constatativo che induce a credere che non di argomenti parallelamente e cumulativamente spesi si sia in effetti trattato ,quanto di una meditata e conforme al pensiero della maggioranza preordinazione dei primi, di indiscutibile persuasività e robustezza giuridica, a conforto della affermata preminenza, in una logica di opzione bilanciata tra situazioni antagoniste, di quella dominicale.  

    10. L'opinione di minoranza della Supreme Court

    Solo all'apparenza distinta può valutarsi la tecnica redazionale e logica cui ha aderito l'opinione di minoranza, nel preciso senso che l'opposta scelta valoriale-tendente a mantenere l'ago della bilancia saldamente puntato verso il binomio tutela della salute pubblica in combinazione con la protezione delle categorie contrattuali più esposte ai negativi precipitati economici della crisi sanitaria- è stata sostanzialmente scandita all'insegna di altrettanto recise posizioni collocabili nel perimetro propriamente tecnico-giuridico. Più in particolare, la minoranza ha indirizzato le proprie attente considerazioni sul terreno-evidentemente reputato come l'unico esplorabile data la natura sommaria ed interlocutoria del procedimento- della presenza delle condizioni concretamente ravvisabili allo scopo di rimuovere l'originaria sospensione degli effetti della decisione di primo grado, attraendo in esse l'analisi circa la gamma di prerogative legislativamente riservate alla CDC in fattispecie del tipo di quella in esame, così tacitamente aggirando il tema di decisione riflettente la lamentata violazione della sovranità parlamentare.

    In sintesi, l'opinione del giudice Breyer, ha preso le mosse dalla ferma e dichiarata convinzione, difficilmente contestabile, che in via di principio la revoca, da parte di una corte superiore, in questo caso posta addirittura al vertice dell'organizzazione giurisdizionale federale, possa solo trovare adeguato fondamento nel chiaro e dimostrabile errore nell'applicazione dei criteri comunemente accettati  per giungere a tale risultato. Il suffragio di questa premessa è stato opportunamente scorso nel precedente della Supreme Court nel caso del 2013 Planned Parenthood of Greater Tex. Surgical Health Servs v Abbott (con una punta di malizia vien fatto notare che la decisione fu adottata con l'opinione concorrente del giudice Scalia ,che fu in vita l'epitome del conservatorismo circolante nella corte di vertice, favorevole al diniego della revoca dell'ordine di sospensione dell'efficacia della pronuncia di grado inferiore). L'orientamento stabile della giurisprudenza federale si innesta nella salvaguardia del quadruplice criterio di cui si è detto nei paragrafi precedenti (intenzione della parte soccombente di impugnare la pronuncia a sé sfavorevole, esistenza di un pregiudizio irreparabile per essa nel caso di mancata concessione dell'inibitoria, comparazione dell'interesse del soccombente con quello delle altre parti processuali, soppesamento dell'interesse pubblico ad una pronuncia in un senso o nell'altro tra quelli a confronto). I giudici dissenzienti hanno espresso, sulla base di una triplice ragione, il punto di vista che nessun apprezzabile errore fosse imputabile alla corte distrettuale che aveva mantenuto fermo l'ordine di sospensione degli effetti della propria sentenza. Sommariamente esposte le ragioni, esse possono condensarsi nei termini che seguono. La prima di esse, la più direttamente implicante una risposta di stampo costituzionale alle contrarie conclusioni della maggioranza, risiede nella confutazione della tesi che all'agenzia potesse chiaramente rimproverarsi una chiara mancanza di potere di emanare i provvedimenti di moratoria degli sfratti successivi al primo, in quanto limitati alle sole zone nelle quali ancora alto ed insuperato apparisse il pericolo pandemico e sottoposti a severe restrizioni che ,tenendo conto di una serie di parametri attuativi sia soggettivi sia oggettivi, sensibilmente attenuavano e diminuivano quantità e qualità degli interventi ricadenti nella sfera dei proprietari immobiliari. Del resto, tali interventi trovavano la loro sufficiente base giustificativa primaria nelle disposizioni della legge del 1944 e delle sue sopravvenute modificazioni prevedente un cospicuo ventaglio di misure affidate alla CDC nell'adempimento dei propri compiti di governo e controllo delle malattie infettive diffusibili. Né  sarebbero stati offerti elementi utili a smentire l'affermazione secondo cui la lettera della legge debba  ritenersi ostativa al varo delle misure in questione ,anche in ragione della mancata censura da parte del Congresso delle politiche utilizzate dalla CDC nel campo degli sfratti. Il secondo ordine di ragioni illustrato nell'opinione di minoranza per discostarsi da quella di maggioranza acquista un sapore più rimarchevole dal punto di vista della costruzione socialmente orientata del sistema dei rapporti nel mercato delle locazioni immobiliari. In particolare, è stato respinta la tesi della preponderanza dell'esigenza di porre un freno alla perdita di somme cospicue da parte dei proprietari immobiliari a causa della mancata percezione dei canoni locativi da parte di incolpevoli inquilini rimasti privi per la crisi sanitaria di idonei mezzi economici rispetto alla necessità, nascente dal perseguimento di obiettivi igienico-sanitari ,di evitare nelle aree ad  accertata, elevata densità di morbilità  gli spostamenti di massa conseguenti all'esecuzione degli sfratti. Anche la terza delle ragioni cui la minoranza ha prestato adesione esibisce una affatto celata propensione all'accoglimento nell'orbita decisoria e di opzioni accreditabili alla Supreme Court di valutazioni di netta caratterizzazione in termini di politica giudiziaria ispirata ad un particolare e ben contrassegnato ordine valoriale. Ed infatti, è forte ed alta l'affermazione dei dissenzienti nell'affrontare la questioni riguardante l'impatto del fattore descritto come quello dell'interesse pubblico “al fine di dirimere la “res litigiosa”. Essi senza reticenze hanno, da un canto, ribadito l'ovvio concetto che mai ed in nessun caso l'interesse pubblico può  dirsi essere favorito dall'accrescimento del numero dei contagi e che, d'altra parte ed analogamente, a questa causa non potrebbe giovare la caducazione dei provvedimenti della CDC, tenuto conto dell'ancora altissima percentuale della malattia virale nelle varie contee dell'intera federazione: dato statistico del tutto atto a controbattere ottimistiche previsioni circa l'acquisito dominio sull'infezione, in passato rivelatesi tragicamente inveritiere. Tirando le somme del nugolo di osservazioni compiute la minoranza ha concluso nel senso che allo stato del giudizio i vari profili in esso dibattuti non fossero stati ancora, a causa del carattere sommario della fase procedimentale, sufficientemente esplorati e non consentissero la formazione di una incontrovertibile e certa opinione circa l'insostenibilità della pronuncia inibitoria dell'esecuzione della propria sentenza di merito emessa dalla medesima corte distrettuale: l'obbligata conclusione è stata, pertanto, secondo il parere della minoranza, che tale pronuncia non fosse meritevole di riforma.  

    11. Spunti finali

    Come il titolo di questo scritto preannuncia, la decisione oggetto di commento si presta ad alcune, brevi e sparse considerazioni più orientate verso i criteri e gli stili argomentativi circolanti in ordinamenti di common law, e nella fattispecie in quello nord-americano, che verso il merito della fattispecie, in cui è appariscente la plausibile convivenza di posizioni diverse, tutte egualmente sostenibili ed opinabili a seconda del punto di osservazione ideale e socio-economico, oltre che strettamente giuridico, nel quale ci si voglia collocare.  

    Si può convenientemente partire dal giusto credito che va tributato all'ammissibilità dell'esternazione di tutte le opinioni manifestate dai giudici del collegio decidente ed alla sublimazione della rispettiva raccolta nel salutare manicheismo della formula maggioranza-minoranza - dissenziente ,appena temperata dalla riconosciuta presenza  di quelle concorrenti con la posizione “per curiam” del diritto statunitense. E ciò si dice non solo per sposare il dato tecnico, particolarmente esaltato nel sistema delle fonti del common law inglese, del possibile affievolimento del grado di vincolatività (addirittura capace di sfumare al rango della semplice “persuasività”) del precedente non unanime ma, soprattutto, per far risaltare il benefico apporto che sul piano del democratico controllo esterno dell'affidabilità delle decisioni giudiziarie può dare la conoscenza del dibattito interno all'organo giurisdizionale. La positività dell'apporto non va solo calcolata sul terreno della chiara identificabilità delle personalità dei singoli giudici e del correlato bagaglio ideale, ma va piuttosto colta nell'arricchimento della piattaforma critica alla cui stregua porsi per valutare in modo informato e maturo un dato provvedimento giurisdizionale, eventualmente scavando le radici per un suo possibile, evoluto superamento o emendamento. Auspicabili evenienze, queste, precluse dalla pubblicazione di una monolitica pronuncia che non lasci in alcun modo sprigionare l'aria salubre della serrata discussione che non può non circondare il momento dell'effettuazione della camera di consiglio. In questa sede non si può che tornare ,per percorrerli nuovamente, sui passi, finora battuti senza apprezzabili successi, diretti alla formulazione della finora inedita regola della divulgabilità anche nell'ordinamento italiano di tutte le opinioni espresse dai componenti tutti gli organi giurisdizionali di vertice. E travolgere il fascinoso quanto pericoloso mito dell'esigenza di non indebolire la portata nomofilattica ed esemplare delle relative pronunce non può né deve apparire eversivo o velleitario ma strumento di crescita della conoscenza diffusa e di affinamento del rispettoso senso critico verso la giurisprudenza, così sbarrando la strada alla scorciatoia che si invera attraverso il dileggio e la generica delegittimazione.  

    Un altro livello di osservazioni appare facilitato dall'esame della fattispecie qui trattata: esso attiene allo scottante, ma ineludibile, problema della legittimità, o quanto meno della opportunità, del disvelamento, attraverso la propria opinione, dell'identità culturale, sociale, in senso lato politica del relativo autore. È materia quotidianamente ricorrente nel dibattito giudiziario italiano, sovente contaminato dall'incursione, non di rado maldestra, della dimensione soggettivamente ed oggettivamente politica, quella che con crescenti gradi di malignità tende ad identificare ipostaticamente nei tratti in senso lato biografici dell'autore del provvedimento il suo movente o la recondita chiave di spiegazione, additiva se non alternativa rispetto a quella risultante dal testo della motivazione. Il più grave rischio rinvenibile in siffatta maniera di venire in contatto con i frutti dell'attività giurisdizionale sta forse ,ancor prima che nello spesso e non irragionevolmente paventato discredito dell'intero ordine, nel diniego assoluto di accreditare al singolo  giudice la libertà di esercizio dell'alto compito sociale di non segregare da sé nell'atto di amministrazione della giustizia la propria complessa umanità, mai scomponibile o valutabile solo nei suoi singoli atomi (etici, socio-economici, di sentire politico-istituzionale) costitutivi. La diversa visione si rivelerebbe incompatibile con l'aspirazione che tutti i cittadini hanno il diritto di fondamento costituzionale di coltivare di trovarsi di fronte ad una/o donna-uomo giudice meritevole di fiducia, in virtù della sua competenza, solerzia, insensibilità alle sirene dell'ambizione professionale e politica, dirittura morale, solida formazione valoriale: presidi, tutti, dell'autonomia e della ripulsa dei condizionamenti di qualsiasi, perniciosa provenienza.      

    Lo scontro tra gli Stati membri dell’Unione europea dovuto, da ultimo, agli interventi per sostenere l’economia dei Paesi UE colpiti dall’emergenza sanitaria provocata dal COVID-19, è diventato, in un solo giorno, da politico/economico a giudiziario. Questo come conseguenza della sentenza della Corte costituzionale federale tedesca (Bundesverfassungsgericht), depositata il 6 maggio che, accantonando senza troppi complimenti il bon ton istituzionale, non solo mette in discussione l’operato della Banca centrale europea (BCE), ma ancora di più giudica l’attività della Corte di giustizia dell’Unione europea, provando ad accaparrarsi un ruolo che non le spetta, almeno per le modalità con le quali lo ha esercitato.

    Un comportamento che ha spinto la direzione della comunicazione della Corte Ue a divulgare, l’8 maggio, una precisione con la quale sono stati chiariti alcuni punti che i giudici costituzionali tedeschi dovrebbero conoscere e – aggiungiamo – applicare, ossia che solo i giudici Ue sono competenti a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto Ue. Questo lo hanno stabilito gli stessi Stati nei Trattati – come ribadito nel comunicato – e questo serve a garantire la certezza del diritto e l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione che anche i giudici nazionali, come autorità degli Stati membri, devono garantire per assicurare l’effettiva efficacia del diritto dell’Unione.

    Passando all’esame della pronuncia, per quanto riguarda l'aspetto che, almeno nelle intenzioni dei giuristi ed economisti tedeschi che hanno presentato ricorso alla Consulta, era quello centrale, ossia l’illegittimità delle misure di acquisto di titoli di Stato volute dalla Banca centrale europea di Mario Draghi nel 2015, la Corte tedesca, con sede a Karlushe, ha salvato il sistema messo in campo dalla BCE con il Public Sector Purchase Programme (PSPP) stabilendo che le misure di Francoforte non servono a finanziare i singoli Paesi. Tuttavia, la Consulta tedesca – ed è questo il punto che desta allarme e sconcerto – ha “accusato” la Corte di giustizia dell’Unione europea di non aver controllato, evidentemente in modo adeguato, le misure della BCE sul punto, omettendo di effettuare il controllo di proporzionalità affermato dall’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea. E così – come garante supremo non solo della Costituzione tedesca, ma in generale del diritto – Karlushe emette un verdetto sull’operato della Corte Ue, scrivendo che nella sentenza dell’11 dicembre 2018 (causa C-493/17, Heinrich Weiss e altri) i giudici di Lussemburgo non hanno motivato il ragionamento sul rispetto del principio di proporzionalità delle misure e sul pieno rispetto della conformità del programma della BCE al principio di proporzionalità. Un inedito assoluto, perché, semplificando, i giudici interni dicono che gli eurogiudici non hanno fatto bene il proprio mestiere. Non una critica, ma un verdetto, senza una richiesta agli eurogiudici di tornare indietro o di valutare nuovamente, in uno spirito di collaborazione. Proprio per questo, la sentenza potrebbe non solo incidere sul consolidato e ormai non più messo in discussione principio del primato del diritto Ue su quello interno (del quale gli stessi giudici costituzionali dovrebbero essere garanti), ma anche sulla delimitazione delle competenze tra Stati membri e Unione e sul valore delle sentenze di Lussemburgo. Così come potrebbe aprire ad analoghi interventi delle Corti costituzionali di Paesi sovranisti come la Polonia e l’Ungheria che potrebbero ispirarsi al ragionamento della Consulta tedesca e applicarlo, in chiave ultrasovranista, in altre circostanze.

    Solo su un punto la Corte tedesca conferma l’operato dei giudici Ue ritenendo che il piano di acquisti di titoli di Stato attraverso il Quantitative easing (QE), funzionale a immettere liquidità per la crescita economica dell’eurozona, non è contrario al diritto dell’Unione proprio perché non è utilizzato per finanziare il debito pubblico degli Stati ed è, quindi, conforme all’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. La Corte Ue aveva stabilito che il programma di acquisti dei bond di Stato era in linea con il mandato della BCE, trattandosi, inoltre, di un meccanismo di politica monetaria per gli Stati della zona euro, di esclusiva competenza dell’Unione. Secondo la Corte di giustizia, che era stata investita della questione proprio dai colleghi tedeschi, il sistema attivato per arginare la grave crisi economica che aveva colpito la zona euro non era finalizzato a soddisfare le esigenze e i bisogni di specifici Stati membri e non era selettivo a vantaggio di singoli Paesi. La Corte di Lussemburgo aveva anche accertato che il principio di proporzionalità fissato dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea era stato garantito. E su questo interviene la Corte costituzionale tedesca a giudicare il lavoro dei giudici della Corte Ue, sostanzialmente scrivendo che mancava la motivazione su tale conclusione. Così, la Banca centrale europea, entro 3 mesi dovrà motivare la scelta che ha portato nel 2015 all’acquisto dei titoli di Stato. Su questo punto, non c’è dubbio che la Corte costituzionale intacca il principio di indipendenza delle banche centrali rischiando che, anche in futuro, si presentino ricorsi analoghi su altri piani (inclusi, evidentemente, gli interventi decisi in questi giorni da Francoforte per fronteggiare la crisi economica procurata dal COVID-19, aspetto sul quale, va detto, una precisione nel senso di escludere effetti della sentenza in questo campo è stata fatta nel comunicato stampa, ma non nella pronuncia). Dimenticando che l’indipendenza della Banca centrale europea è essenziale per mantenere la politica monetaria libera da interventi politici diretti, accompagnata dall’obbligo per gli Stati membri di non esercitare un controllo o dare istruzioni alla BCE (articolo 130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). E che si tratti di un vero ultimatum risulta chiaro laddove la Corte di Karlushe prospetta subito le conseguenze di una mancata risposta: il Governo e il Parlamento tedesco, infatti, in questo caso, dovranno fermare la partecipazione di Berlino al sistema di acquisto di nuovi titoli e intervenire con misure concrete contro il QE “nella sua versione attuale”. Pertanto, per evitare ciò, la BCE deve fornire chiarimenti in modo rapido e con adeguate motivazioni.

    L’aspetto che, però, preoccupa di più riguarda proprio il giudizio della Corte costituzionale rispetto all’operato degli eurogiudici. Non si tratta, infatti, della possibilità di attivare i controlimiti per garantire la Costituzione tedesca, ma dei modi con i quali Karlushe lo fa, trasformando, in un attimo, il dialogo tra corti, che ha sempre caratterizzato il rapporto tra Lussemburgo e Corti costituzionali nazionali, in uno scontro frontale. Una strada, quest’ultima, che sembra proprio seguita con determinazione dalla Corte tedesca che ha avuto un atteggiamento ben diverso rispetto alla Corte costituzionale italiana. Quest’ultima, infatti, nella nota vicenda Taricco, a fronte di una pronuncia della Corte di giustizia (C-105/14, dell’8 settembre 2015) che non risultava chiara in alcuni punti e che poteva mettere in discussione alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento, aveva sollevato una questione di interpretazione (ordinanza 26 gennaio 2017 n. 24) anche con riguardo ad alcuni aspetti della sentenza Ue e i giudici di Lussemburgo (C-42/17, sentenza del 5 dicembre 2017), accogliendo l’invito al dialogo dei colleghi italiani, avevano svolto un ragionamento idoneo a salvare primato del diritto Ue e tutela dei principi fondamentali contenuti nelle costituzioni degli Stati membri. E la Corte costituzionale, poi, a sua volta, proseguendo nella sua azione diplomatica volta a salvaguardare i principi costituzionali e l’impianto dell’Unione europea, che ha il suo fondamento nella stessa Costituzione, con la sentenza del 10 aprile 2018 n. 115 aveva correttamente delineato i rapporti tra ordinamenti mantenendo l’obbligo della stessa Consulta di tutelare i diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno (con riguardo al principio di legalità in materia penale) e la funzione della Corte Ue. Che aveva raggiunto una posizione di compromesso, appunto accettando il dialogo voluto dalla Corte costituzionale italiana. Pertanto, non è in discussione il diritto/obbligo dei giudici costituzionali di vigilare sul rispetto della Costituzione, ma l’iter seguito dalla Consulta tedesca che, rifiutando il dialogo con gli eurogiudici, sembra ergersi su un piedistallo e segnare con la matita rossa i presunti errori di Lussemburgo. Un comportamento che potrebbe avere effetti ad ampio raggio proprio sull’integrazione europea, costruita passo dopo passo, anche per gli interventi di giudici nazionali e giudici Ue. Integrazione che rischia di essere sepolta dalle 100 pagine della sentenza tedesca che, da un lato, riconosce a Lussemburgo la competenza volta ad assicurare “uniformità e coerenza del diritto dell’Unione” e l’obbligo di garantire che le rispettive funzioni giudiziarie siano esercitate in modo coordinato ma, d’altro lato, afferma che agli Stati membri non può essere impedito un esame sulla circostanza che un atto adottato nel contesto Ue e sul quale si sia già pronunciata la Corte di giustizia, sia ultra vires. In caso contrario – ammonisce la Consulta tedesca – sarebbe concessa alle istituzioni Ue un’autorità esclusiva anche quando un’interpretazione porta a un allargamento delle competenze fissate nei Trattati. Così, i giudici di Karlushe si riappropriano del potere di accertare se un atto che arriva da Francoforte è ultra vires: in questi casi non vi è alcuna copertura dell’articolo 19 (che si occupa della Corte di giustizia) del Trattato di Lisbona e l’adozione dell’atto diventa priva di legittimazione democratica, con la conseguenza, quindi, di un intervento della Corte costituzionale per assicurare il rispetto del principio di sovranità e di ripartizione di competenze. Quest’intervento, però, - scrivono i giudici tedeschi – “must be exercised with restraint, giving effect to the Constitution’s openness to European integration”, principio che non sembra poi essere stato seguito. La Corte, infatti, afferma che “If the CJEU crosses the limit set out above, its actions are no longer covered by the mandate conferred in Art. 19(1) second sentence TUE in conjunction with the Domestic Act of Approval”.

    E se certo la reazione della Commissione europea non si è fatta attendere nel riaffermare il primato del diritto dell’Unione e l’obbligo degli Stati membri di rispettare le sentenze della Corte di giustizia, non c’è dubbio che la pronuncia potrebbe rompere l’equilibrio nei rapporti tra giudici nazionali e Corte Ue, arrivando a compromettere proprio quel primato che la Commissione europea si è precipitata a ribadire.

    E questa volta, rispetto alla saga Taricco, non è detto che si arrivi all’happy end.

    Sommario: 1. L’accezione plurale o singolare del contract inglese ‒ 2. La partecipazione della buona fede al sistema dei principii generali del law of contract inglese ‒ 3. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinari inglesi favorevoli al (limitato) riconoscimento del principio di buona fede contrattuale ‒ 4. Brevi considerazioni conclusive e riassuntive.

    1. L’accezione plurale o singolare del contract inglese

    La questione dell'uso alternativo, se non contrapposto, del termine “contract” al singolare o al plurale nel common law inglese non sembra riflettere, secondo una diffusa opinione[1], il medesimo, stringente e fascinoso carattere che essa è solita rivestire nei principali ordinamenti del continente europeo. Ciò non toglie, tuttavia, che la questione stessa riemerga vivacemente con riferimento ad istituti e figure del law of contract rispetto ai quali il motivo dominante è rappresentato dalla loro possibile riconducibilità a criteri o principii di natura generale e dei quali si possa predicare un'immanente ed ineliminabile presenza nelle pieghe ordinamentali, come il tema della buona fede (good faith), di cui più avanti si tratterà, chiaramente dimostra.

    Ridotta al suo nucleo essenziale la dicotomia contract-contracts deve preliminarmente rispondere alla domanda che ne costituisce il logico presupposto, ossia come si configuri, ed a quali fini ubbidisca, una declinazione del termine al singolare, che ne rappresenterebbe la capacità di descrivere l'essenza della figura nelle potenziali esplicazioni dell'esperienza giuridica.

    Prima di accedere al territorio del contract, giova rimuovere il sospetto che anche in altre aree del diritto privato inglese di non minor rilevanza si registri un'analoga tendenza a lasciar convivere in esse, ed adottando un lessico familiare al giurista italiano, una parte generale (declinata al singolare) ed una parte speciale (declinata al plurale), allo scopo di rinvenire tra loro un rapporto bilanciato di vicendevole preminenza di una delle due declinazioni. È di ausilio al proposito il richiamo del fondamentale capitolo dedicato alla responsabilità civile, condensato attorno alla figura del tort, concepito come oggetto di un'apposita branca sia singolarmente sia pluralisticamente considerata (rispettivamente law of tort o law of torts). Nelle famose lezioni indiane di Tagore dei primi anni '30 del secolo scorso[2], uno dei più eminenti studiosi inglesi, Winfield, autore di uno dei più celebrati manuali in materia[3], si intrattenne memorabilmente attorno alla competizione tra i due modelli linguistici (che naturalmente celavano ben più profonde divaricazioni concettuali) cogliendo il fondamento del dilemma nella (da lui ritenuta) attitudine del common law alla elaborazione di una teoria generale della responsabilità da fatto illecito radicata su principii fondativi e sull'esistenza di una clausola generale per la relativa affermazione (il duty of care coevamente sancito dalla House of Lords nel fondamentale caso Donoghue v Stevenson[4]) in antagonismo con una concezione atomistica poggiante sull'autonomia disciplinare e strutturale delle singole figure, insuscettibili di attrazione in un unico recipiente. Visione, questa, che attrasse opposti orientamenti dottrinari e giurisprudenziali miranti ad esaltare la atipicità e la individualità delle singole figure di torts non attenuate dal comune riconoscimento della presenza di uno statuto basilare imperniato sulla accertata violazione del dovere di non recare ad altri un danno ingiusto. Dovere da coniugare, tuttavia, con ciascuno degli spicchi del caleidoscopio “tortious”, ciascuno contrassegnato da specificità irripetibili che largamente risentono degli attributi propri del singolo bene protetto.

    Questo si dice per segnalare non già una perfetta assimilabilità tra due delle principali componenti del diritto privato inglese, in effetti smentita da una tradizione di concentrazione dell'attenzione sulle singole figure di tort, quanto per sottolineare la ciclica riproposizione di un'indagine metodologica rivolta alla scoperta di un patrimonio comune ed autosufficiente di principi e regole di disciplina applicabili ad entrambe.

    Tornando al contract ben può dirsi che vige, soprattutto in dottrina, una concezione funzionalista diretta alla individuazione dei fini che la sua parte generale ed il correlato corteo di principii sono chiamati ad assolvere. Fini consistenti nel compimento di una molteplicità di operazioni logiche ed epistemologiche munite di idoneità contraddistintiva dell'istituto contrattuale: la identificazione dei requisiti del contract e degli elementi distintivi rispetto ad una promessa giuridicamente non vincolante (ma, in ipotesi, solo moralmente impegnativa); i criteri per pervenire alla definizione del suo contenuto; la disciplina delle conseguenze del mancato rispetto delle obbligazioni contrattualmente assunte e dei rimedi connessi. L'essenzialità e la relativa esiguità dei temi che concorrono a dar vita al “general law of contract” possono spiegarsi impiegando punti di osservazione diversi. In primo luogo, deve ritenersi, concordemente all'accreditato orientamento dottrinario imperante, che innegabile influenza sia stata esercitata dalla mancata recezione del modello romanistico e dalla conseguente ripulsa di una autonoma categoria concettuale rispondente alla denominazione di “special contracts”, accolta nei sistemi giuridici di civil law. In secondo luogo, ha contribuito alla solida costituzione di un plesso ordinamentale sorretto da pilastri di ampia portata la condivisa aggregazione di plurime regole operazionali sufficienti ad assicurare ordinariamente l'uniforme regolamentazione dell'archetipo contrattuale in sé considerato, indipendentemente dalle concrete raffigurazioni potenzialmente riscontrabili nelle singole figure di accordo negoziale vincolante. Basti al riguardo pensare all'omogeneo corpo normativo, tanto di origine giudiziale quanto di derivazione legislativa, che scandisce le evenienze più rilevanti nella vita fisiologica o patologica del contract, afferente, ad esempio, al processo della sua formazione, alla sua fase interpretativa, al momento dell'inattuazione, alle opzioni rimediali: esso è capace di universale applicazione alla categoria generale del contract, manifestando al contrario natura residuale ed eccezionale le ipotesi di adozione di uno statuto disciplinare dedicato a singole “species” (quali quelle di vasto impatto nel settore dei rapporti contrattuali ascrivibili al fenomeno consumeristico), reputate meritevoli di un trattamento particolare in ragione, ad esempio, delle condizioni soggettive delle parti e della correlata necessità di superare connaturali posizioni di squilibrio (come, ad esempio, è stato deputato ad assicurare il Consumer Rights Act del 2015). Seguendo questa logica è comunemente estranea al common lawyer la propensione euristica, tipica del suo omologo continentale, del “nomen iuris” da attribuire, a fini regolamentari, alla singola fattispecie contrattuale che gode nel common law del beneficio di una cornice adeguatamente ampia e capiente di principii e regole adottabili di norma nel singolo caso. Un campo in cui è peculiarmente avvertita la linea uniformatrice in questione è non accidentalmente quello delle tutele e dei rimedi garantiti nell’evenienza di inadempimento ad una platea pressoché globale di situazioni: ciò che ha indotto le Corti giudicanti a resistere alla tentazione di elevare una rigida barriera divisoria, sia in senso dogmatico sia nelle implicazioni pratiche, tra “special” e “general contracts”. Anche il terreno dell'ermeneutica contrattuale è avvinto alla medesima tensione unitaria, la cui manifestazione più evidente e sicura viene fornita dalla salda adesione al metodo informatore dell'accertamento della volontà delle parti secondo standard di pura oggettività piuttosto che in omaggio alla superiorità della “voluntas” sui “verba”. Allo stesso modo la possibilità dell'integrazione del contenuto contrattuale alla stregua di quel caratteristico modo di operare sussunto sotto il nome di “implication of terms” nelle sue varie dimensioni (giudiziale, normativa, consuetudinaria) viene esperita secondo precise ed omogenee regole che in via normale non soffrono apprezzabili deroghe con riferimento alle fattispecie contrattuali individuali. Inevitabili e logicamente conseguenti sono le forme di redazione dei testi contrattuali, usualmente calibrati secondo la prospettiva del loro assoggettamento ad un trattamento che scaturisce da un codice concettuale tendenzialmente uniforme.

    La descritta affezione del common law inglese ad una visione globale del contract (una delle cui esplicitazioni è rappresentata dal tradizionale uso del termine al singolare) e la diffidenza che ne discende nei confronti di una rigida categorizzazione anche in termini dogmatici dei singoli tipi contrattuali non comporta, tuttavia, che seri problemi non campeggino con riferimento alla possibilità di arricchire il catalogo dei principii generali integrandoli di loro controversi fattori esponenziali. Sorge, pertanto, il problema, tutto interno al “general law of contract”, di determinarne perimetro e componenti al fine di offrire un quadro affidabile e stabile all'osservatore esterno.

    In questa complessa e mai compiutamente risolta sfera definitoria si colloca certamente in posizione di assoluta importanza la vicenda della rilevanza ed ammissibilità, tra quelli caratteristici del “contract”, del principio di buona fede, concepito nella duplice veste soggettiva ed oggettiva cui gli ordinamenti di civil law sono avvezzi, rispettivamente secondo i parametri della correttezza e della ignoranza di circostanze perturbatrici della validità ed efficacia contrattuale.

    Ci si trova senza dubbio di fronte ad uno dei capitoli più tribolati e divisivi del diritto privato inglese, e di quello contrattuale in particolare, di cui è necessario tentare di cogliere brevemente genesi, occasioni di inveramento, soluzioni e linee prospettiche.

    2. La partecipazione della buona fede al sistema dei principii generali del law of contract inglese

    La storia della good faith quale parte integrante della teoria del contract inglese nonché dei suoi principii generali debutta sotto i più promettenti auspici in virtù di una pronuncia resa nel 1766 nel caso Carter v Boehm[5] da uno dei più noti e lodati Giudici che abbiano operato in quell'ordinamento, Lord Mansfield, di origini scozzesi. Il riferimento anagrafico non è privo di significato poiché ne denuncia ‒ in aderenza alla tradizione culturale dell'ordinamento del Paese di provenienza ‒ la spiccata vicinanza al mondo del civil law continentale e specialmente alle sue radici romanistiche, rendendo del tutto naturale la proclività a dare centrale rilievo alla buona fede in ambito contrattuale. Ed invero, decidendo su una controversia avente ad oggetto la condotta richiesta alle parti di un contratto di assicurazione in termini di disvelamento di circostanze refluenti sul consenso prestato alla conclusione del negozio, il Giudice ritenne che la disputa dovesse trovare governo secondo il canone della buona fede, in quanto applicabile ad ogni tipo di contratti ed accordi negoziali. Egli procedette anche ad una puntuale descrizione del contenuto di quello che veniva enunciato alla stregua di un obbligo di matrice contrattuale, chiarendo che esso proibisce a ciascuna delle parti di nascondere i fatti di cui sia a privata conoscenza onde non indurre l'altra, inconsapevole, ad una stipulazione cui non sarebbe altrimenti giunta, nel senso che l'impulso alla manifestazione del consenso era proprio dato dalla mancata conoscenza delle circostanze artatamente taciutegli[6].

    Un così felice esordio, che poneva il common law inglese in stretto connubio con i sistemi continentali, fu bruscamente contraddetto dal pensiero, proiettatosi soprattutto nei repertori giurisprudenziali, affermatosi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, ovverosia nel periodo fondativo di una teoria del contract del tutto speculare a dottrine economiche volte a privilegiare l'assoluta libertà di scambio in una pretta logica individualista di perseguimento del profitto e del self-interest. Fu così che iniziarono a svilupparsi, perfezionarsi, consolidarsi, scolpirsi concezioni espulsive della good faith dalla tavola dei principi generali del contract, avvalorate da una serie di molteplici argomenti, nessuno dei quali completamente scomparso perfino dalla odierna scena.

    Le maggiori opere trattatistiche sul contract sono solite convenire, forti anche del concorde apporto giurisprudenziale, sull'elenco delle ragioni principali che hanno portato alla consueta affermazione secondo cui “there is no generale doctrine of good faith in the English law of contract[7], vuoi nella fase prodromica delle trattative, vuoi in quella esecutiva, vuoi, infine, in quella eventualmente modificativa dell'accordo originario. La rassegna degli ostacoli ad un riallineamento dell'esperienza inglese a quella degli ordinamenti continentali permeati dagli insegnamenti romanistici non può che porre al proprio apice un peculiare tratto di quell'ordinamento, in molti casi ingenerosamente enfatizzato a detrimento di una appropriata conoscenza critica del common law inglese, cui per questo è stata non convincentemente negata l'attitudine a nutrirsi di forme di conoscenza tassonomicamente orientate ed alimentate dal ricorso alle categorie mentali del fenomeno giuridico[8]. E tale severa opinione continua ad incontrare larga fortuna fra i giuristi stranieri, incoraggiati anche da talune posizioni inglesi che lambiscono addirittura l'autodenigrazione. Si tratta della diffusa riluttanza della giurisprudenza inglese ad accogliere nel proprio “legal reasoning” metodi argomentativi basati su generalizzazioni concettuali e principii astratti, classe definitoria cui apparterrebbe la buona fede. Può, tuttavia, osservarsi incidentalmente al riguardo che nelle sparute pronunce e nei non rari contributi dottrinali di apertura all'ingresso della good faith nel domain del contract si è sapientemente rifuggito il pericolo grazie ad una fruttuosa concretizzazione dei margini del suo possibile intervento nei vari casi di specie, ad esempio ancorandolo a postulazione di condotte delle parti contrattuali ispirate all'onestà o all'accettabilità nel mondo degli scambi giuridici o, ancora, all'obbiettivo di concorrere a conferire efficacia agli accordi commerciali. Si addebita poi al canone in parola l'alone di incertezza in ordine alla determinazione del preciso contenuto del connesso obbligo che da esso promanerebbe, con nocumento alla chiara circoscrizione dei rapporti tra le parti. Anche a diluizione di questo stigma si è levata alta e limpida l'autorevolissima voce del compianto Lord Bingham[9], campione del pensiero liberal-progressista, che, in una celebre sentenza della Court of Appeal del 1989[10]  fece immaginifico ricorso ad esemplificazioni vivide e tratte dalla quotidianità delle relazioni giuridicamente rilevanti per incanalare l'opera dell'interprete verso l'approdo definitorio della good faith in uno specifico ambito contrattuale poi degenerato nella sfera litigiosa. Difficilmente potrebbe pensarsi a prosa più duttile nella costruzione di un benefico ponte tra la pratica dimensione della vita umana e la sua valutazione in sede giudiziale: si esemplificò la natura dello spazio occupato dalla buona fede nella vicenda contrattuale attribuendole l'idoneità a convertirsi in precetti e regole semplici, quali il “fair play” comportamentale, il dovere di mantenere le “mani pulite” (clean hands) nel corso di ciascuna delle frazioni di cui si compone complessivamente il contract, l'esigenza di “giocare a carte scoperte”[11]. L'acume dell'intuizione è testimoniato dal credito costantemente accordatole dalla letteratura giuridica successiva

    Ed infine, la sommaria lista dei motivi dell'ostilità (tale essendo stata spesso esplicitamente proclamata) del common law inglese ‒ a differenza di quelli statunitense ed australiano  ‒  ad ospitare la buona fede all'interno della teoria generale del contract contempla l'accusa di incompatibilità con la genuina natura del legame che deve reggere i rapporti tra le parti: essa fu molto recisamente delineata nel 1992 dalla House of Lords nel caso Walford v Miles[12], per bocca di Lord Ackner ,da cui provennero parole del peso di macigni per confutare l'ipotesi dell'ingresso della good faith nella traiettoria del contract. Egli affermò con piglio intransigente che l'idea secondo cui le trattative contrattuali debbano ispirarsi al dovere di buona fede intrinsecamente ripugnerebbe alla posizione di antagonismo assunta dalle parti interessate al negoziato[13].

    È di innegabile evidenza la frattura tra questa posizione, condivisa da tutti gli altri componenti il collegio della House of Lords, ed il ragionamento arioso e sensibile ad una visione in senso solidaristico del rapporto contrattuale espressa da Lord Bingham: lungi dal provocare un’insuperabile situazione di stallo il conflitto ha animato apprezzabili riflessioni dottrinarie e rinnovate energie giurisprudenziali indirizzate al recupero del dialogo tra common law inglese e civil law.

    3. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinari inglesi favorevoli al (limitato) riconoscimento del principio di buona fede contrattuale

    Di tali contro-tendenziali posizioni va dato un sommario cenno per fugare la falsa impressione che le acque nel canale della Manica siano irrimediabilmente stagnanti, per quanto ancora tutt'altro che inarrestabilmente fluenti.

    Due esempi possono utilmente essere esibiti della vitalità tutt'altro che rassegnata di parte della dottrina e della giurisprudenza al destino dell'irreversibile incomunicabilità delle due principali famiglie giuridiche europee in relazione al principio della buona fede contrattuale in ognuno dei profili in cui la vicenda rapportuale è destinata a snodarsi.

    Perché, in effetti, alla radice delle concezioni favorevoli ad una tensione incrementale dei principi generali del contract inglese platealmente si scorge il dichiarato proposito ‒ sciaguratamente compromesso dagli esiti referendari del giugno 2016 ‒ di riconsiderare in senso armonioso il tessuto relazionale tra common law e civil law, restituendo fiducia all'idea della imprescindibilità del risultato nella prospettiva della edificazione di una prospera e duratura stagione di Koinè giuridica europea.

    Esattamente in questa fervida scia culturale si inserisce il pensiero di una delle più qualificate ed aperte menti giuridiche inglesi, Ewan Mc Kendrick[14], che, coltivando l'ottimismo della volontà, esclude l'esistenza di un abisso incolmabile tra i due sistemi ordinamentali a confronto. Nel denunciare come fattore impediente la radicata avversione del diritto inglese nei confronti dei principii generali, l'Autore considera, d'altro canto, che quell'ordinamento ha sempre intessuto un discorso al quale l'idea della buona fede non è stata sostanzialmente estranea.  Su questa scia un altro studioso[15] icasticamente scrive che i fondamenti della buona fede possono scovarsi tra la polvere del common law. In particolare, viene ridimensionata, se non addirittura rigettata, l'impressione che il law of contract inglese sia strutturalmente incapace di recepire, al di là dei vezzi nominalistici, il precipitato sostanziale della figura. Fanno fede di questa disponibilità all'assorbimento del contenuto effettivo del principio di buona fede contrattuale quale predicato negli ordinamenti continentali numerosi esempi di tipi contrattuali ai quali in modo naturale e pressoché meccanico corrisponde il crisma della loro disciplina secondo il canone della buona fede oggettiva. Ed infatti, sono note ed indiscusse figure contrattuali la cui conformazione è sempre stata concepita in funzione di indissolubile nesso con i contenuti essenziali della buona fede, tra i quali indubbiamente spicca il sostrato fiduciario che costituisce la linfa del solidissimo paradigma dei contratti “uberrimae fidei”, normalmente riferibili ai rapporti assicurativi, come la risalente pronuncia di Lord Mansfield decisivamente conferma.

    Ora, queste osservazioni suggeriscono la conclusione che il principio di buona fede debba proseguire il proprio cammino orientato al rafforzamento delle proprie basi in termini sia giuridici sia etici. Lungo questo speranzoso itinerario si innesta il pensiero di altro autorevole teorico, Hugh Collins[16], che esprime la convinzione, ovviamente spalmata nel non breve periodo, che il common law inglese alla fine debba essere costretto a cedere ad una concezione ideale maggiormente connotata in senso europeo, quale quella, emergente dalla direttiva comunitaria 93/13 in maniera pressoché letterale trasposta in quell'ordinamento[17] e dall'Unfair Contract Terms Act inglese del 1977, diretta all'equo bilanciamento dei rapporti tra consumatori e professionisti, altro terreno di elezione in vista della piena esplicazione delle robuste potenzialità della good faith contrattuale.

    Vagiti giurisprudenziali, che pure si è tentato di soffocare rudemente da parte dei gradi superiori di giurisdizione, vanno recentemente e con soddisfazione registrati, anche in ragione del prestigio del Giudice da cui provengono, nel frattempo promosso al rango di componente effettivo della United Kingdom Supreme Court, nelle prime istanze giudiziarie.

    Va, infatti, ricordata con il dovuto apprezzamento la sentenza pronunciata nel 2013 dall'oggi Lord Leggatt, che allora sedeva nella High Court (dalla quale fu elevato “per saltum” al grado finale di giurisdizione britannica), nel caso Yam Seng v International Trade Corporation Ltd[18]. In essa furono esaminati da un angolo visuale particolarmente affilato alcune delle maggiori questioni attorno alle quali si dipana il dibattito concernente la buona fede contrattuale.

    Nella fattispecie, l'oggetto della lite consisteva nella domanda tendente alla dichiarazione della sussistenza di un inadempimento legittimante la risoluzione di un contratto di distribuzione di prodotti di profumeria ed al risarcimento del danno: al fine della qualificazione delle circostanze dedotte quali indici dell'inadempimento stesso il Giudice adottò un criterio improntato al principio di buona fede oggettiva nel senso continentale di correttezza e lealtà comportamentale. La sentenza rivela la profonda consapevolezza di una persistente contrarietà del mainstream culturale inglese alla introiezione di un siffatto principio generale ed integra l'appena esposto impianto argomentativo dottrinario, del tutto condiviso, con due ulteriori, realistiche precisazioni. La prima si concentra sulla preferenza abitualmente accordata dalla giurisprudenza inglese a soluzioni meglio rispondenti alle necessità del caso concreto indipendentemente dal loro possibile inquadramento dogmatico: il che equivale a dar forza al concetto espresso da Mc Endrick circa una strisciante, seppur non dichiarata, presenza del principio di buona fede nelle pieghe del sistema e soprattutto nella prassi, almeno ogni volta che la sua affermazione serva la causa della giustizia del caso concreto da decidere. Il successivo passaggio analitico della pronuncia di Lord Leggatt punteggia con brillante sguardo di introspezione psicologico il problema. Esso allude ad un intimo contrassegno del contract inglese e delle aspettative che su di esso convergono ad opera delle parti per poi essere valorizzate in sede giudiziale: esplicitamente si parla dell'etica individualistica, che presiede agli scambi commerciali realizzati attraverso il veicolo contrattuale, fortemente sostenuta ed approvata dalla giurisprudenza che reiteratamente nel tempo mira alla preservazione degli accordi raggiunti per il soddisfacimento degli interessi individuali delle parti, con la sola eccezione ‒ che di per sé esclude la rilevanza del criterio della buona fede sia al momento della conclusione sia in quello dell'esecuzione del vincolo ‒ delle ipotesi di mancata osservanza, obiettivamente verificabile, delle clausole obbligatorie. In questo articolato e lucidamente illustrato contesto la sentenza si accosta con risolutezza ed evidente empito solidaristico al tema razionalmente collegato al mancato riconoscimento di un principio generale di buona fede contrattuale: la strada prescelta per colmare una lacuna giudicata inconciliabile con una veduta evoluta ed al passo con le altre esperienze giuridiche europee implicitamente circolanti nel testo è stata quella di scardinare la contraria blindatura concettuale con l'utilizzazione del prezioso meccanismo, già ricordato, dell'integrazione del contenuto mediante l'apposizione di patti impliciti (implied terms) nella misura e secondo la latitudine suggerite dalle particolarità del singolo caso. A ben vedere è stata data piena conferma, ospitandola nel corpo motivazionale della sentenza, all'arguta osservazione di Lord Bingham che, nel generoso tentativo di ammortizzare i perniciosi effetti di un inveterato atteggiamento negativo rispetto al principio generale di buona fede, poneva nel debito (e consolatorio) rilievo la sperimentata capacità del diritto inglese dei contratti di supplire a tale endemica carenza percorrendo la soluzione di statuirne la silenziosa, per quanto frammentaria, presenza laddove si fosse di fronte a dimostrate situazioni di sostanziale iniquità negoziale (ad esempio facendo leva sul criterio di ragionevolezza, come appropriatamente notato in linea generale da un nostro illuminato comparatista[19]), malgrado il ripudio del superiore principio che esige che le parti contrattuali debbano in ogni fase agire in buona fede[20]. Di fronte al prolungato inceppamento dello strumento della generosità mentale e dell'apertura al modello dell'Europa continentale la High Court si è spinta al passo di affermare che la presenza della buona fede ben può essere oggetto di ricognizione giudiziale in preciso rapporto al contesto negoziale ed agli effetti che ne discendono: contesto che deve indurre l'interprete a pretendere dalle parti un contegno onesto, in primo luogo palesato dalla ripulsa di qualunque forma di condotte astutamente decettive in danno dell'altra parte, quali il calcolato silenzio serbato relativamente a circostanze rilevanti, la mancata dolosa rivelazione di informazioni essenziali, con speciale riguardo alla categoria di contratti con originalità ‒ almeno per il common law inglese ‒ appellati “relational” come tributo alla loro intrinseca natura fiduciaria. La svolta concettuale impressa da Lord Leggatt ha comportato la redazione di un importante codicillo che la completa, donandole una anche maggior perspicuità: si dice, infatti, che il dovere comportamentale commisurabile al parametro della buona fede imposto alle parti contrattuali va ragguagliato al comune programma negoziale, cui non è, pertanto, consentito attentare adibendo la via obliqua di condotte arbitrarie, capricciose, irragionevoli, in una parola irrazionali.

    In questa sede è necessariamente postulato un doveroso tributo all'aria nuova che si respira e circonda la good faith, finalmente affrancata dalle strettoie dell'egoismo contrattuale, che l'avevano relegata all’angolo, e liberata verso un orizzonte prossimo ai valori della leale collaborazione anche nella sfera delle relazioni interindividuali: così, peraltro, raggiungendo un altro commendevole traguardo, quello dell'ingegnerizzazione di nuovi tramiti di collegamento tra common law e civil law, di sicuro foriera di stabilità e prevedibilità nei traffici internazionali.

    La nota dolente, ma non tanto da dover provocare sentimenti di sfiducia nell'affermazione di un moderno progetto di ripensamento dello strumento contrattuale in chiave di reciproco rispetto tra le parti, che va trascritta in questa sede è data dalla pronuncia adottata dalla Court of Appeal nel 2016 (annus horribilis, come prima detto) nel caso MSC Mediterranean Shipping Company v. Cottonex Anstalt[21]. Particolarmente acuminati e polemici sono stati gli aculei gettati nella propria opinione, ed evidentemente scagliati alla volta di Lord Leggatt (non ancora asceso alla Supreme Court: il che può fornire un'eloquente spiegazione della durezza verbale) dal Giudice Moore Bick, cui si sono associati gli altri due componenti il Collegio, nella propria opinione. Questa, infatti, non ha esitato ad additare i pericoli insiti nel riconoscimento di un principio generale di buona fede che, ove invocato, potrebbe alternativamente essere utilizzato dalle parti con l'obiettivo di indebolire l'impianto contrattuale o di proporne un'interpretazione corriva per piegarlo ai propri interessi. Pericoli definiti non dissimili da quelli generati da una concezione troppo liberale (e qui il riferimento critico alla posizione di Lord Leggatt è trasparente) dell'ermeneutica contrattuale condotta all'insegna dell'integrazione del contenuto delle clausole che sarebbe stata severamente respinta dalla Supreme Court nel caso Arnold v Britton del 2015[22], che però registrò una fiera opinione dissenziente di Lord Carnwath[23].

    Anche la recentissima, già citata, sentenza della Supreme Court (in una composizione che non comprendeva Lord Leggatt) nel caso Pakistan International Corporation v Times Travel[24] non lascia trasparire sostanziali modifiche della posizione appena riportata della Court of Appeal nel 2016. Tuttavia, un non trascurabile spiraglio non va ignorato nell'opinione di Lord Burrows, l'unico dei Giudici supremi di accreditatissima provenienza accademica. Egli, infatti, pur dichiarando di temere l'ingresso nel law of contract di un principio di buona fede ancorato al criterio dell'accettabilità nel mondo del commercio o della irragionevolezza delle condotte delle parti, ha ritenuto che le circostanze del caso concreto, di fronte alle quali era stata prospettata la possibile fruizione del canone di cui si discute, potessero trovare un'adeguata e soddisfacente risposta mediante l'applicazione delle regole proprie di altro istituto (quello della violenza economica o “economic duress”) quale efficace antidoto alla lamentata condotta prevaricatrice di una delle parti, così in pratica riproponendo il brillante metodo argomentativo di Lord Bingham che pone al centro della scena il bisogno di non lasciare prive di tutela rimediale le posizioni delle parti reputate meritevoli.

    4. Brevi considerazioni conclusive e riassuntive

    L'esposizione che precede indirizza verso un discreto numero di considerazioni a cerchi concentrici di differente diametro, dei quali si dà adesso in energica sintesi conto.

    Va, innanzitutto, ribadita perché assodata e resistente nel tempo la configurazione del diritto contrattuale inglese come ruotante attorno ad un nucleo agevolmente percettibile di principii e regole di generale applicazione, solo derogabili o integrabili a cagione di situazioni di speciale e contingente natura, di estensione tale, comunque, da non dar vita ad un autonomo corpo normativo o giurisprudenziale. Da qui sorge l'opportuno mantenimento di una declinazione al singolare della branca del diritto privato inglese in questione, cui va accreditato uno statuto ben strutturato e di sicura e vasta applicazione che non richiede la parallela formazione di uno “special law of contract(s)”. Destino, questo, che diversifica in maniera sensibile la disciplina del contract da quella, pluralistica e differenziata, dei torts e del loro apparato dogmatico e pratico.

    Del tutto rientrante nei confini tematici dei principi generali del law of contract inglese risulta, pertanto, l'indagine vertente sulla plausibilità dell'idea di ricondurvi una nozione, quale quella di buona fede, che reca l'indelebile marchio della risalenza storica agli ordinamenti di matrice romanistica. Sostanzialmente univoci sono i risultati, conseguiti anche sulla piattaforma della frequenza statistica, della ricerca, riassumibili nella trita proposizione ricavabile dal common law latamente inteso che stentoreamente rigetta l'esistenza di un generale principio di buona fede ascrivibile al law of contract. Di eguale, ripetitiva regolarità appaiono le ragioni addotte per giustificare quella che a buon titolo, desumibile dalla comparazione con gli ordinamenti di civil law europeo, può definirsi una posizione eccentrica. Se si volesse approdare ad una formula risolutiva ben si presterebbe quella che si impernia sulla strenua difesa che l'ordinamento inglese intende spendere, a causa della reiezione del “good faith principle”, al più augusto degli architravi del contract, quello che ne preserva la “sanctity”, nella accreditata accezione di santuario dell'autonomia negoziale privata inviolabile da incursioni esterne che siano intese ad una destrutturazione o anche ad una ristrutturazione indebita del suo contenuto. E tra i fattori potenzialmente nocivi per la tenuta del fortilizio viene costantemente annoverata la buona fede, cui viene conferito il temibile attributo della rimodellabilità in senso imprevedibile ed imponderabile del suo tessuto testuale. Corredano questa generica fobia ragioni minori ed ancillari, seppur dissimulate come di pari forza, rappresentate quali ulteriori baluardi per la salvaguardia dell'intangibile volontà delle parti. Questa sarebbe messa a repentaglio dalla vacuità delle implicazioni che potrebbero trarre origine dall'affermazione del canone della buona fede. Su questa linea da oltre un secolo e mezzo la giurisprudenza inglese, che ha potentemente condizionato buona parte del pensiero dottrinario, dimentica dei contrari precedenti dell'ultimo quartile del 1700, si è attestata in modo intransigente e chiuso.

    Tuttavia, crescenti raggi solari, favoriti dall'influsso dell'“exemplum” europeo vanno vantaggiosamente infiltrandosi nelle maglie finora ritenute impenetrabili dell'ostinato rifiuto di asilo alla osteggiata esule dal “legal discourse” inglese. La potenza di questa luce non va calcolata nel breve periodo ‒ come senza riserve ammettono gli stessi fautori di questo processo rinnovatore ‒ ma va auspicabilmente proiettata nel futuro in ragione della persuasività degli argomenti che la suffragano. Questi si distinguono non solo per la loro naturale inerenza alla promozione della dimensione extra-individuale del mezzo contrattuale e per la conseguente aderenza ad un progetto negoziale attento alla protezione di valori di fatto racchiusi nel corpo vivo della costituzione materiale inglese. Tali argomenti possiedono un pregio ancor più avvolgente ed edificante, tanto più apprezzabile nell'amaro tempo presente di disgregazione dell'unità istituzionale europea seguita alla fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione Europe con conseguenze globali allo stato difficilmente computabili. Resta, infatti, tuttora spianata e percorribile la strada del ravvicinamento giuridico, che la graduale recezione del principio di buona fede contrattuale nel common law inglese (coraggiosamente avallata anche da esemplari figure di Giudici e dalle loro indimenticabili opinioni individuali) certamente renderebbe più pervia e luminosa: direzione ormai da tempo e con sicurezza imboccata dagli ordinamenti statunitense ed australiano che non mostrano affatto segni di ravvedimento, premendo, al contrario, molto insistentemente sul confratello inglese perché salutarmente li emuli[25].


    *Il testo costituisce la rielaborazione della relazione tenuta all’Accademia dei Lincei il 29 novembre nel corso dell’incontro di studio "Il contratto o i contratti", organizzato dalla SSM.

    [1] J. Cartwright, Contract Law. An introduction to the English law of contract for the civil lawyer, London, 2016, p. 57 ss.

    [2] P. Winfield, The province of the law of tort, Cambridge, 1931.

    [3] Winfield & Jolowicz on Tort (20th ed), edited by James Goudkamp, Donal Nolan, UK, 2020.

    [4] [1932] AC 562.

    [5] [1766] S.C. 1 Bl. 593.

    [6] “Good faith forbids either party by concealing what he privately knows, to draw the other into a bargain, from his ignorance of that fact, and his believing the contrary”.

    [7] La suddetta affermazione è presente anche nel caso Times Travel, deciso dalla Supreme Court il 18 agosto 2021, su cui ci si soffermerà in seguito (infra, par. 3).

    [8] M. Serio, Il ricorso alle legal categories nell'esperienza del diritto privato inglese, in Europa e diritto privato, 2010, pag. 511 ss.

    [9] Autore di The rule of law (London, 2008) autentico manifesto della democrazia liberale inglese e della sua epifania giudiziale.

    [10] Interfoto Picture Library Ltd v Stiletto Visual Programmes Ltd [1989] QB 433 (CA) 439.

    [11]  “Putting one's cards face upwards on the table”.

    [12] [1992] 2 AC 128.

    [13]  “The concept of a duty to carry on negotiations in good faith is inherently repugnant to the adversarial position of the parties when involved in negotiations”.

    [14] E. Mc Kendrick, Good faith: a matter of principle, in Good faith in contract and property, a cura di A.D.M. Forte, Oxford, 1999, p. 39 ss.

    [15] M. Clarke, The common law of contract in 1993: is there a general doctrine of good faith?, in Hong Kong Law Journal, 1993, p. 318.

    [16]  H. Collins, Good faith in European contract law, in Oxford Journal of legal studies, 1994, p. 229 ss., ed in particolare p. 254.

    [17] Il riferimento è alle Unfair Terms in Consumer Regulations del 1999 (SI 1999/2083).

    [18] [2013] EWHC 111 (QB).

    [19] G. Criscuoli, Buona fede e ragionevolezza, in Riv.dir.civ., 1984, p. 709 ss., ed in particolare, p. 721 ss.

    [20] “English law has not committed itself to the overriding principle that in making and carrying out contracts parties should act in good faith: it has developed piecemeal solutions in response to demonstrated problems of fairness”.

    [21] [2016] EWCA Civ 789.

    [22] [2015] UKSC 36.

    [23]  Queste le parole del Giudice Moore Bick: “There is a real danger that if a principle of good faith were established it would be invoked as often to undermine as to support the terms in which the parties have reached agreement”.

    [24] [2021] UKSC 40.

    [25]  Si vedano, per il diritto statunitense, C. Perry (Good faith in English and US contract law: divergent theories, practical similarities, in Business Law International, 2016, p. 27 ss.) e, per il diritto australiano, L. E. Trakman, K. Sharma (The binding force of agreement to negotiate in good faith, in The Cambridge Law Journal, 2014, p. 598 ss.).

    1. Roe v. Wade[1] appartiene alla storia americana, ma non solo. È stato come l’epicentro di un movimento tellurico che ha cambiato (per sempre) la vita delle donne e la cultura giuridica occidentali. Attorno e in seguito a quella decisione si sono prodotte svolte nel diritto europeo – dalla sentenza della Corte costituzionale italiana del 1975[2] alla parziale depenalizzazione realizzata dalla legge tedesca del 1976, fino alla nostra legge 194/78 - che hanno riguardato tutte noi. E dunque Roe è anche parte della nostra storia. E il suo overruling non ci riguarda solo come mero fatto di cronaca e neppure come un episodio (infelice) nella storia della cultura giuridica americana.

    D’altra parte che Dobbs minacci di proiettare la sua ombra lugubre sulle vite delle donne di larga parte del nord globale è dimostrato dalla pronta reazione del Parlamento europeo, che in una risoluzione approvata con una larga maggioranza pochi giorni dopo la pubblicazione di Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization ha chiesto che l’accesso all’aborto sia garantito dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea con la seguente formula “ogni persona ha diritto all’aborto sicuro e legale”[3]. Le preoccupazioni del Parlamento europeo non nascono peraltro solo dalla sortita della Corte Suprema statunitense, ma sono ingenerate anche dal deterioramento della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne in alcuni paesi dell’Unione.

    E dunque, proprio a partire da Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, o meglio, dall’overruling di Roe v. Wade, sarebbe interessante un esercizio di geopolitica del diritto che mappi il dislocarsi dei diritti e delle libertà, a cominciare da quelle concernenti la sfera della sessualità, nelle diverse regioni del globo. 

    In questo senso è utile, innanzitutto, inquadrare la vicenda Dobbs nella sua specificità di ‘storia americana’. E vale la pena di ricordare il contesto in cui l’overruling di Roe v. Wade si colloca, prima ancora di ricostruire il contesto in cui Roe, come precedente giurisprudenziale, era maturato. Poiché l’esito di questa storia americana si iscrive in un quadro di vera e propria secessione politica. Non è infatti solo l’autodeterminazione riproduttiva delle donne a essere in gioco. Anzi è possibile che l’aborto non sia altro che lo scalpo – il più prestigioso e il più caro al nemico - da esibire a chi si vuole sconfiggere su terreni ulteriori. Che riguardano i diritti civili ma non solo. La stessa Corte due giorni prima aveva dichiarato incostituzionale la legge dello stato di New York - uno stato blu, democratico - volta a limitare l’uso delle armi[4]. Una settimana dopo restringe i poteri presidenziali in tema di emissioni delle centrali elettriche a carbone, quasi a voler cancellare il tema del global warming dall’agenda politica nazionale[5]. Invero il quadro che superficialmente si avesse degli Stati Uniti quale realtà politica tendenzialmente unitaria non è affatto realistico, come la plastica distinzione, geografica innanzitutto, fra stati rossi e stati blu evidenzia. E la strategia della Corte Suprema sembra esattamente mirata a universalizzare l’orientamento politico degli stati rossi radicalizzatosi con l’avvento di Trump, estendendolo all’intera nazione. Il vero tema in Dobbs non è infatti una legge restrittiva del Mississippi da salvare, ma la risposta da dare a ben 26 stati – rossi – che espressamente chiedevano alla Corte l’overruling di Roe e Casey. E se è nota la divergenza fra stati rossi e stati blu in tema di aborto e di armi, è forse meno noto che i diritti di famiglia di stati rossi e stati blu divergono sensibilmente, tanto da legittimare la contrapposizione fra Red Families, maggiormente conformi a valori religiosi e patriarcali, e Blue Families, egalitarie e libertarie, e segnare una distanza profonda nello statuto della cittadinanza delle statunitensi a seconda di dove geograficamente locate[6]. Infine poco si sa in Europa delle legislazioni statali già in vigore o in corso di approvazione che vietano l’insegnamento nelle scuole statunitensi della Critical Race Theory – con questo termine intendendosi in realtà un resoconto accurato della storia americana della schiavitù, delle discriminazioni razziali e del razzismo nelle sue espressioni passate e presenti[7].

    In questo scenario, già estremamente conflittuale e profondamente segnato in termini di genere, razza e classe (la stessa negazione del caos climatico ha e avrà un pesante impatto sociale sul terreno dell’environmental justice) l’agenda politica che la Corte Suprema sta riscrivendo avrà come saldo il sacrificio (ulteriore) dei diritti delle soggettività minoritarie.

    A ben vedere un analogo schema, negli USA plasticamente reso dalla contrapposizione rossa/blu, è ravvisabile in Europa - come la risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio scorso evidenzia - e in altre parti del mondo. Che i diritti riproduttivi e l’autodeterminazione nella sfera sessuale siano sotto attacco è una realtà dimostrata anche dalle lotte femministe in corso in varie regioni del globo. L’intreccio fra libertà economiche, diritti del mercato e diritti fondamentali della persona, da una parte, e aspirazioni egalitarie e modernizzatrici v. pulsioni sovraniste, dall’altra, è un tema caldissimo, di cui Dobbs è un segnale importante ma non certo l’unico.

    Come ha notato Paul B. Preciado, in gioco è innanzitutto il dominio delle tecnologie del corpo quale punta avanzata della libera costruzione della sfera di autodeterminazione di ciascun@, ovvero del controllo biopolitico sulle soggettività, in particolare minoritarie[8]. Ed è proprio questo il fronte di attacco di Dobbs. Che per la verità di corpo femminile neppure parla, seppellendolo sotto una fitta coltre di esasperato legalismo. Nulla della delicatezza, dell’umanità, a tratti del lirismo dell’argomentare di Roe è presente nell’opinione della Corte. Che è ormai nota. Rifacendosi alla dottrina dell’original intent il giudice Alito, estensore della decisione, rigetta l’operazione evolutiva posta in essere da Roe v. Wade qualificandola come clamorosamente sbagliata. L’argomento originalista è fondamentalmente che i diritti che nella costituzione americana non sono espressamente nominati - e il diritto ad abortire non lo è - hanno copertura costituzionale attraverso la clausola del due process ovvero l’equal protection clause del XIV Emendamento, solo laddove essi siano profondamente radicati nella storia e nella tradizione della nazione. Per dimostrare il contrario Alito percorre a ritroso il diritto americano fino a risalire Bracton (XIII secolo) cioè alle origini del common law (inglese) e giunge alla determinazione che l’aborto storicamente è sempre stato considerato un crimine; ed è stato tale fino, appunto, alla decisione, arbitraria, di Roe. Un risultato, questo, raggiunto nello specifico dopo una lunga rassegna delle leggi penali sull’aborto in vigore dall’epoca in cui il XIV Emendamento fu approvato, nel 1868, fino al 1973[9]. Che la profondità storica della ricostruzione di Alito sia fallace lo evidenzia non solo la considerazione che l’aborto fosse tendenzialmente vietato in osservanza di politiche demografiche allora in vigore in tutto l’Occidente e non per scelte d’ordine morale. Ma soprattutto non si tiene in alcun conto lo stretto legame tra la percezione della riproduzione umana e la condizione giuridica della donna in quella fase storica (poiché le donne, lo abbiamo detto, in Dobbs non esistono): nel common law tradizionale i coniugi erano considerati una sola persona e questa persona era il marito, nella cui sfera legale si dissolveva l’esistenza giuridica della moglie (coverture[10]. Una condizione, questa, che muta assai lentamente, a cominciare dall’approvazione nel Regno Unito del Married Women’s Property Act del 1882 - che riconosce capacità di disporre alle donne coniugate - ma che permane in seno all’istituzione familiare per molti decenni in tutto l’Occidente, se solo si pensa che la Costituzione italiana del 1947 s’incarica di declamare all’art. 29 l’uguaglianza giuridica e morale (!) dei coniugi.

    La conclusione cui per questa via giunge la Corte è che la questione dell’aborto non ha dignità costituzionale e deve tornare a essere decisa dai legislatori statali, anzi dal popolo, “the people of the various States”, come enfaticamente afferma Alito. Con ciò la controrivoluzione della Corte Roberts giunge al suo climax: è la “dittatura della maggioranza” che deve governare le vite; della costruzione della sfera intima e personale di ciascun@ devono ora decidere gli elettori. E con ciò in apparenza Dobbs porta a termine la sua missione, che è quella di ‘registrare’ il ruolo della Corte al fine di evitare l’arroganza del raw justice power di cui è accusato Roe, garantire la ‘sovranità’ popolare contro lo strabordare della funzione giurisdizionale, limare i tecnicismi dello stare decisis senza mai planare sulla materialità della vita che la questione dell’aborto involge.

    Ma alla neutralità dei tecnicismi non è lecito credere. Il tentativo messo in campo –  foriero di ulteriori, distopici sviluppi, come suggerisce il giudice Thomas nella sua concurring opinion –  è quello di azzerare la rivoluzione democratica iniziata dalla Corte Warren nel 1965 con il caso Griswold v. Connecticut[11]quando l’autonomia riproduttiva e, più in generale, la sessualità fanno ingresso di prepotenza nella sfera di rilevanza costituzionale. Da allora l’uso del e il controllo sul proprio corpo si pongono al centro di alcune fondamentali decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti destinate ad avere ampia eco in Europa e nel resto dell’Occidente. È un’elaborazione condotta dalla Corte sin dai primi anni ’60, in virtù della quale la libera espressione della sessualità viene ad essere identificata con il nucleo duro di quel diritto all’autodeterminazione che si assume garantito dal XIV Emendamento, e la tutela della (constitutional) privacy, in tal modo realizzata, si tinge di caratteri apertamente countermajoritarian. Proprio quanto l’interpretazione originalista di Dobbs e la sua (possibile) onda lunga rischia di travolgere.

    A partire da Griswold v. Connecticut, la Corte respinge sistematicamente i tentativi delle legislazioni statali di incidere sull’atteggiarsi delle relazioni personali a carattere sessuale. In Griswold, in particolare, è l’idea che lo stato possa decidere al posto dell’individuo che i rapporti sessuali che intrattiene all’interno del matrimonio debbano avere esclusivamente scopo riproduttivo ad essere rifiutata con forza dalla corte, la quale, pertanto, giudica illegittimo il divieto, penalmente sanzionato, di far ricorso alla contraccezione per le coppie sposate. Successivamente il principio sarà esteso anche alle relazioni sessuali fuori dal matrimonio[12]. L’orientamento giunge al suo culmine proprio con Roe v. Wade, quando la libertà di costruzione della sfera di libertà individuale si dilata fino a ricomprendere il diritto della donna di interrompere la gravidanza indesiderata. Come ha sottolineato Duncan Kennedy, con la giurisprudenza costituzionale che va da Griswold a Roe si produce un’accelerazione nella riscrittura dell’agenda politica in materia di family law voluta dalle élite liberal e femministe, particolarmente influenti negli stati roccaforte del partito democratico. Più precisamente la Corte Suprema in quella stagione asseconda e sostiene un cambiamento culturale che la forza della politica da sola non era in grado di imporre[13]. Ma nella giurisprudenza Warren e con Roe c’è di più. Il corpo e la sessualità si coniugano alla costruzione giuridica della sfera privata come ambito distinto e contrapposto alla sfera di dominio del pubblico potere; abitudini sessuali e scelte procreative individuali divengono il nucleo costituzionale del diritto di privacy e prendono il posto della proprietà privata nel ridefinire la dicotomia pubblico/privato propria dei regimi liberali. All’avere, perno del binomio proprietà/libertà, si sostituisce la sfera intima individuale e la sua libera costruzione.

    La libertà di autodeterminazione diviene allora centrale nella grammatica dei diritti, baluardo contro le intromissioni dello stato nella sfera privata dei cittadini, e la sua tutela, nella veste di constitutional privacy, è giocata in funzione antiautoritaria contro ogni tentativo di imposizione al singolo di valori fatti propri dalla legislazione statale, quand’anche condivisi dalla maggioranza dei cittadini[14].

    L’autodeterminazione in tal modo declinata, lungi dal riguardare aspetti considerati marginali nella vita e nel diritto, perché ‘intimi’, acquista un ruolo centrale nella dottrina della Corte: per essa la privacy è penumbra, vive cioè nella penombra di tutti i diritti e le libertà garantiti dalla costituzione americana, ne costituisce il presupposto necessario, poiché non si dà effettivo esercizio di un diritto se non è garantita la libertà di autodeterminazione[15]. E questa autodeterminazione passa appunto per il corpo.

    Questo motivo sarà ulteriormente precisato In Planned Parenthood v. Casey una decisione successiva ancora in tema di abortoquando la Corte affermerà a chiare lettere la sua missione, salvaguardare le libertà di ognun@, a prescindere dalle convinzioni morali che possono muovere i singoli componenti (della maggioranza) della Corte. Non è esattamente quanto pensa di dover fare ora la Corte Roberts. Al contrario l’operazione di smantellamento della libertà di autodeterminazione va ben oltre Roe, intende travolgere l’intero impianto dottrinale che la sostiene sino a Griswold, al principio, affermato con forza in quella sentenza, che la constitutional privacy sia sottaciuta nel Bill of Rights americano non in quanto estranea al tessuto costituzionale, ma al contrario in quanto “penumbra”, presupposto e condizione dell’esercizio di ogni altro diritto costituzionale. È piuttosto logico che rimuovendo quella pietra angolare l’intero edificio sia destinato a crollare.

    Se ciò non avverrà sarà forse per ragioni di convenienza, ad esempio, perché far cadere la libertà costituzionale di autodeterminazione sui contraccettivi significherebbe mettersi in aperto conflitto con Big Pharma. O invece perché solide alleanze intersezionali fra le soggettività colpite o minacciate dalla controrivoluzione tentata con Dobbs saranno in grado di fermarla[16].

    2. L’orientamento statunitense in tema di constitutional privacy ha fatto breccia anche di qua dell’oceano e sviluppi analoghi hanno caratterizzato l’applicazione da parte della Corte di Strasburgo dell’art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) sin dai primi anni Ottanta[17], con il risultato di garantire la tutela dell’autodeterminazione in materia di orientamento sessuale ben prima della Corte Suprema degli Stati Uniti[18]. Più di recente, la Corte di Strasburgo ha coniato il concetto di autonomia personale, di cui la libertà sessuale sarebbe parte integrante: su questa base è stata affermata l’illegittimità dell’interferenza statale, e, segnatamente, dell’intervento del diritto penale, anche rispetto a pratiche sadomasochiste estreme e particolarmente cruente, purché poste in essere in privato e con il consenso della ‘vittima’[19].

    Vero è che l’irresistibile ascesa della constitutional privacy nel diritto statunitense aveva subito una pesante battuta d’arresto nella seconda metà degli anni ’80, di fronte allo scoglio del riconoscimento della libertà di coltivare pratiche erotiche connesse all’orientamento sessuale[20]. In quella circostanza la Corte affermò che la libertà di autodeterminazione non poteva prevalere sulla tradizione, sul comune sentire, ché la sodomia era tradizionalmente perseguita penalmente nella maggior parte degli Stati e non ricadeva sotto l’ombrello protettivo del XIV Emendamento. Tale scoglio sarà superato solo all’inizio del nuovo millennio, con una storica decisione che coniuga l’affermazione della libertà di autodeterminazione in materia sessuale al valore della dignità umana[21].

    Il rispetto della dignità sarà un punto qualificante anche in Obergefell[22], la famosa decisione della Corte Suprema in tema di same sex marriage che accoglie l’idea, già fortemente affermata dall’ala pro-marriage del movimento LGBT+, che il matrimonio per le soggettività non eteronormate sia in sé dignifying. Ma un riferimento alla dignità è anche in Gonzales, primo temutissimo caso sull’aborto deciso dalla corte Roberts[23]. E qui la dignità è riferita al feto. Così come in vari passaggi in Dobbs, in cui la dignità sembra diventare una prerogativa della vita prenatale.

    La svolta della Corte Suprema nella relazione che viene a determinarsi fra autodeterminazione e dignità, ancora nelle sue ultime sortite liberal, merita una breve riflessione conclusiva che gioverebbe ulteriormente sviluppare. Come si è detto, l’autodeterminazione sul corpo si è prefigurata da Griswold in poi nel diritto occidentale come un formidabile veicolo di emancipazione e liberazione sessuale perché, pur nei limiti del bilanciamento con altri interessi, nella constitutional privacy si iscrive una sostanziale insindacabilità delle scelte sul corpo. La matrice antiautoritaria di questa costruzione giuridica, come abbiamo detto, porta a una riscrittura dei rapporti pubblico/privato, cittadino/stato, dove i diritti riproduttivi e il controllo sul proprio corpo demarcano la sfera di intervento dello stato un tempo delimitata dal diritto di proprietà. Il principio del rispetto della dignità umana ha tutt’altra vocazione. La dignità è tale perché appartiene al genere umano e implica invece sempre una valutazione collettiva, una scelta di valore condivisa in merito alla stessa definizione di ciò che è degno[24].

    Ma il dominio delle tecnologie del corpo, se deve essere architrave dello statuto della cittadinanza contro ogni montante autoritarismo, non può che comportare un margine individuale di insindacabilità. Ed allora sembra corretta la scelta del Parlamento europeo contenuta nella risoluzione del 7 luglio scorso, di reclamare il riconoscimento del diritto all’aborto legale, sicuro (e gratuito) all’interno dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dedicato al rispetto della vita privata e della vita familiare, nel Capo II, intitolato alla libertà.

    3. Proprio a quest’ultimo proposito, appaiono necessarie alcune ulteriori considerazioni conclusive, di carattere generale, che investono direttamente il tema dell’autodeterminazione riproduttiva femminile per come esso potrebbe atteggiarsi sulla scorta di Dobbs anche di qua dell’oceano.

    Una prima notazione muove dal registro prescelto da Dobbs. Nell’opinione della corte – come accennato – non si fa mai diretto riferimento alle donne, come se non fosse di un loro diritto che si discetta e come se il tenore del decisum non fosse destinato ad avere un impatto enorme sulle loro vite. Women compare nella intestazione del caso (Dobbs v. Jackon’s Women Health Organization), nient’altro. Ricorre invece il riferimento all’unborn human being e largo spazio nell’argomentare è dedicato al tema della vitalità del feto, il c.d. quickening. Ciò che ha una sua suggestività, al di là del registro della decisione, marcatamente tecnico sul piano sia medico sia giuridico. Tanto non stupisce. Come sempre nelle posizioni antiabortiste, la donna o è l’antagonista, l’avversaria da neutralizzare, o non esiste affatto. E in Dobbs, in effetti, non esiste. Ora, sulle ricadute di questo approccio è opportuno un chiarimento, anche a beneficio del dibattito che va prefigurandosi in Italia e in Europa sotto il vessillo dei movimenti pro-life. Il diritto funziona secondo meccanismi suoi propri che tendono a emanciparsi dai codici morali che possano eventualmente ispirarlo. Se la lezione di Casey[25] (“Our obligation is to define the liberty of all, not to mandate our own moral code”) non è (più) nelle corde della Corte Suprema e dei suoi possibili epigoni overseas, resta il fatto che personificare il feto (o l’embrione, o il concepito, o il nascituro a seconda della terminologia invalsa nel dibattito pro-life) o attribuire alla vita prenatale dei diritti, indefettibilmente configura la gestazione come un potenziale conflitto fra due soggetti, la madre e il concepito. Anche in considerazione della forza dirompente acquistata negli ultimi decenni dal principio del best interest of the child in tutte le giurisdizioni del nord globale, nazionali e sovranzionali, non solo l’interruzione volontaria della gravidanza, ma lo stesso controllo sul proprio corpo sarebbero per motivi evidenti sottratti alla gestante. Quali comportamenti potenzialmente ‘a rischio’ per il feto (fumo, sesso, guida di autoveicoli, sport, ecc.) sarebbero da considerare leciti? Quali dovrebbero essere inibiti alla futura madre? Letta con gli occhi del diritto, la quotidianità di una gravidanza si risolverebbe in una sequela di ipotesi di conflitto d’interessi fra la gestante-donna e la gestante-madre. E chi allora dovrebbe rappresentare gli interessi del feto? L’istituto del curator ventris tornerebbe improvvisamente d’attualità[26]. Non c’è dubbio che in questa direzione portino iniziative recenti, come l’ICE enfaticamente intitolata “Uno di noi”, che la Commissione europea ha sostanzialmente respinto[27].

    Un secondo ordine di considerazioni discende dall’approccio originalista che si dispiega in Dobbs e che – come Justice Thomas preannuncia nella sua concurring opinion - finirà per travolgere l’intera costruzione della constitutional privacy inaugurata con Griswold v. Connecticut nel 1965. Alla luce di quanto abbiamo detto sin qui, è necessario chiedersi se sia possibile e se sia opportuno espungere la libertà individuale di autodeterminazione sul proprio corpo dalla costituzione. E se sia possibile e opportuno che ciò avvenga in un sistema federale, con il dichiarato intento di restituire la competenza a deciderne agli stati, cioè alle maggioranze politiche contingenti che di volta in volta prendano corpo nei singoli parlamenti statali. Il punto ci riguarda da vicino poiché le analogie col caso italiano sono maggiori di quanto di primo acchito non sembri. Sin dalle anticipazioni circolate qualche mese addietro con riguardo alla c.d. bozza Alito, non poche voci si sono levate in Italia per reclamare una revisione della legge 194 del 1978[28]. Come ho premesso, l’ombra lunga di Dobbs non tarderà a dispiegarsi nel dibattito nostrano e con tutta probabilità avrà il sapore di uno sdoganamento delle posizioni più apertamente anti-abortiste. Una delle possibili prospettive in questa direzione è quella di negare alle donne il diritto all’accesso alla IVG, nei termini definiti dalla l. 194, attraverso una lettura restrittiva del bilanciamento salute della donna/tutela della vita prenatale contenuto nella legge o, più probabilmente, con la modifica della legge stessa, per lasciare ai singoli servizi sanitari, regione per regione, la decisione sul se e come garantire la prestazione. Uno scenario non troppo dissimile da quello attuale, come noto caratterizzato da un’accentuata disomogeneità di garanzie fra regione e regione, dovuta tanto alla diversità di regimi nella somministrazione della pillola abortiva RU 486, quanto alla differente incidenza dell’obiezione di coscienza. Ma la sua formalizzazione in una legge nazionale è altra cosa. E proprio in Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization sembra ora cercare la sua legittimazione.

     

    [1] 410 U.S. 113 (1973). Si veda anche il caso gemello Doe v. Bolton, 410 U.S. 179 (1973).

    [2] Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27.

    [3]  Risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio 2022 sulla decisione della Corte suprema statunitense di abolire il diritto all'aborto negli Stati Uniti e la necessità di tutelare il diritto all'aborto e la salute delle donne nell'UE (2022/2742(RSP)).

    [4] New York State Rifle & Pistol Association, Inc. v. Bruen, 597 U.S., (2022).

    [5] West Virginia v. Environmental Protection Agency, 597 U.S., (2022).

    [6] Cfr. N. Cahn e J. Carbone, Red Families v. Blue Families. Legal Polarization and the Creation of Culture, Oxford University Press, 2010.

    [7] Cfr. Du. Kennedy et al., Sostieni la libertà accademica negli Stati Uniti. Fermiamo gli attacchi alla Critical Race Theory, Riv. crit. dir. priv., n. 1/2022, p. 109 ss.

    [8] V. G. Merli, Preciado: «Fanno di tutto per fermare la rivoluzione in atto», ne Il manifesto, 26 giugno 2022.

    [9] In realtà nel 1959 l’American Law Institute elaborò uno schema di legislazione per depenalizzare l’aborto in determinati casi, per esempio i casi di aborto terapeutico, che già venivano praticati in molti ospedali. Almeno 13 stati accolsero questo schema di legislazione già prima del 1973 e in alcuni di essi le leggi adottate erano più permissive di quanto prescritto in Roe.

    [10] Questa doctrine è ben esplicata da W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, 1770, Vol.I, p. 442: “the very being or legal existence of the woman is suspended during the marriage, or at least is incorporated and consolidated into that of the husband: under whose wing, protection, and cover, she performs every thing; and is therefore called in our law-french a feme-covert, femina viro co-operta; is said to be covert-baron or under the protection and influence of her husband, her baron, or lord; and her condition during her marriage is called her coverture. Upon this principle, of an union of person in husband and wife, depend almost all the legal rights, duties, and disabilities, that either of them acquire by the marriage”.

    [11] Griswold v. Connecticut, 381 U.S. 479 (1965).

    [12]  Eisenstad v. Baird 405 U.S. 438 (1972).

    [13] Du. Kennedy, Consciousness, Doctrine, and Politics in the History of American Family Law. Harvard Public Law Working Paper No. 21-40. 

    [14] Sia consentito il rinvio a M.R.Marella, I diritti civile fra laicità e giustizia sociale, in Diritto e Democrazia nel pensiero di Luigi Ferrajoli, a cura di S. Anastasia, Torino, Giappichelli, 2011, p. 45 ss.

    [15] Antonio Baldassarre, divenuto giudice della Corte costituzionale italiana dopo aver studiato l’elaborazione dottrinale della privacy ad opera della Corte Suprema statunitense, importa quello stesso modello con una serie di sentenze in cui si riproduce l’idea della penumbra (Corte cost., 14 gennaio 1991, n. 13, in Foro It., 1991, 1, 365; Corte cost., 19-12-1991, n. 467, in Giur. It., 1992, I,1, 630; Corte cost., 22 giugno 1992, n. 290, in Foro It., 1992, I, 3226 con nota di Colaianni; Corte cost., 11 marzo 1993, n. 81, in Foro It., 1993, I, 2132; Corte cost., 28 luglio 1993, n. 343, in Giur. It., 1994, I, 176; Corte cost., 31 marzo 1994, n. 108, in Giur. It., 1994, I, 362.). Della constitutional privacy all’italiana non è altrettanto chiara, tuttavia, la vocazione antimaggioritaria: dalla giurisprudenza Baldassarre emerge piuttosto l’idea che l’autodeterminazione si nutra dell’insieme dei valori che sottendono la carta costituzionale e sia dunque tale da far emergere ciò che in essa è implicito. Ma altre voci in dottrina individuano più chiaramente nella privacy un argine contro l’imposizione di valori dominanti (cfr. A. Cerri, voce Riservatezza, Enc. giur. Treccani, Roma, 1995).

    [16] L’influenza dei movimenti sociali sugli orientamenti della Corte Suprema è messa a tema in una ricca letteratura statunitense. Cfr. fra gli altri: Reva B. Siegel, Constitutional Culture, Social Movement Conflict and Constitutional Change: The Case of the De Facto ERA, 94 CALIF. L. REV. 1323 (2006); Jack M. Balkin, How Social Movements Change (or Fail to Change) the Constitution: The Case of the New Departure, 39 SUFFOLK U. L.REV. 27, 52 (2005)

    [17]  Cfr. G. Marini, La giuridificazione della persona. Ideologie e tecniche nei diritti della personalità, in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 359 ss.

    [18] Dudgeon c. Regno Unito, decisione del 22 ottobre 1981, serie A n. 45, 18, § 41.

    [19]  Corte Europea dei diritti dell’uomo, 17 febbraio 2005, K.A. e A.D. c. Belgio, di cui può leggersi il commento - decisamente critico, ancora una volta giocato sul rispetto della dignità umana – di M. Fabre-Magnan, Le sadisme n’est pas un droit de l’homme, Dalloz, 2005, 2973.

    [20]  Bowers v. Hardwick, 478 U.S. 186 (1986).

    [21]  Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558 (2003), su cui v. da noi V. Barsotti, Privacy ed orientamento sessuale. Una storia americana, Torino, Giappichelli, 2005.

    [22] Obergefell v. Hodges, 576 U.S. 644 (2015).

    [23] Gonzales v. Carhart, 550 U.S. 124 (2007) su cui cfr. A. D’Angelo, Ai confini della libertà. La !Corte Roberts” e un principio da erodere, in RCDP, 2007, p. 713.

    [24] C. M. Mazzoni, Quale dignità? Il lungo viaggio di un’idea, Firenze, 2019; G. Resta, La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità (note a margine della Carta dei Diritti), in Riv. dir. civ., n. 6/2002, p. 801 ss.; M. R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo di contratti, in Riv. cri. dir. priv., n. 1/2007, p. 67 ss.

    [25] Planned Parenthood v. Casey, 505 U.S. 833 (1992).

    [26] Fra le proposte di modifica dell’art. 1 del codice civile volte a estendere la capacità giuridica al concepito si veda ad es. PDL Volontè del29 aprile 2008.

    [27] COM (2014) 355 final. In tema cfr. M. Mori, La 3° Marcia per la Vita e l’iniziativa “Uno di noi”: risveglio del prolifeismo o segno di passatismo?, in Bioetica, 1/2013, p. 5. Sulla comunicazione della Commissione si è innestata poi una vicenda giudiziaria conclusasi con la condanna alle spese dei cittadini promotori: Patrick Grégor Puppinck e a. contro Commissione europea, Causa C-418/18 P (Corte di Giustizia Ue, Grande Sezione, sentenza del 19 dicembre 2019).

    [28] Si veda ad es. G. Razzano, A proposito della bozza Alito: l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale, in Giustizia Insieme, 24 giugno 2022, al link https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2379-a-proposito-della-bozza-alito-l-aborto-e-una-grave-questione-morale-e-non-un-diritto-costituzionale.

    Parla Monika Frackowiak*, giudice distrettuale di Poznan, sull’attacco all’indipendenza della magistratura in Polonia.

    di Marcello Basilico

    Sono più didieci anni che lo Stato di diritto in Polonia è sotto scacco. Nell’ultimo lustro nel mirino delle istituzioni politiche è soprattutto la giustizia. L’indipendenza della magistratura e del suo organo di autogoverno sono visti come una minaccia per il coronamento delle politiche governative. Le iniziative dirette a controllare la Corte costituzionale e il Consiglio giudiziario, a rimuovere un’intera generazione di giudici, a minacciare la loro libertà di espressione e di giudizio sono state censurate ripetutamente anche a livello europeo. Ma non sembra che questi moniti e le resistenze interne riescano al momento a frenare il regime. Fare il giudice in Polonia diventa così ogni giorno più difficile.  

     Noi sappiamo, soprattutto dalla lettura dei quotidiani, che le interferenze del Governo polacco dell’amministrazione della giustizia sono state numerose. Puoi sintetizzarci le principali e più allarmanti?

    «Noi lo constatammo già a novembre 2015, quando il partito "Legge e Giustizia” ottenne la maggioranza nel Parlamento polacco. La prima cosa che fecero, fu di prendere il controllo sulla Corte costituzionale polacca. E’ un’istituzione essenziale nell’ordine legale polacco, visto che giudica sulla conformità delle leggi approvate dal Parlamento in relazione alla nostra Costituzione. Una volta che dipenda dalla politica del partito maggioritario, come avviene ora, l’attuale Corte costituzionale non può che confermare la legalità della nuova legge (anche quando questa sia apertamente contraria alla Costituzione)».

     Dopo questo primo passo ne sono venuti altri.

    «Nel 2017 è stata approvata la nuova legge sulle corti territoriali (con competenze di primo e secondo grado – n.d.r.), che permette al ministro della giustizia di revocare presidenti e vice presidenti di qualsiasi tribunale in Polonia senza necessità di motivare.  Attualmente una vasta maggioranza di uffici giudiziari polacchi è amministrata da presidenti designati direttamente dal Ministero della giustizia. Il presidente d’un ufficio ha enormi competenze nel lavoro di ogni giorno dei giudici (principalmente grazie alla nuova legge del 2017). Alcuni di loro usano queste prerogative non correttamente, contro i giudici che parlano pubblicamente o che assumono delle decisioni contrarie alla volontà del Governo. Ma il problema più preoccupante è la composizione del nuovo Consiglio nazionale della magistratura, che ora è divenuto un corpo completamente politicizzato. Oltre a occuparsi della nomina e della carriera dei giudici, il Consiglio decide anche su alcune questioni amministrative importanti, operando ad esempio come organo di seconda istanza nel caso in cui un giudice agisca in difromità ad una decisione del presidente)».  

     Abbiamo letto anche di iniziative di epurazione generalizzate nei confronti di magistrati. Di cosa si è trattato?

    «Nel 2017 è stata abbassata l’età pensionabile dei giudici delle corti territoriali, da 67 a 65 per gli uomini e a 60 per le donne, e dei giudici della Corte Suprema, da 70 a 65. Grazie all’intervento della Commissione europea, l’età pensionabile dei giudici delle corti territoriali è stata resa uguale per uomini e donne, ma nel frattempo alcune colleghe erano gia state costrette ad andare in pensione e non sono più rientrate in servizio. Riguardo i giudici di Corte Suprema, dopo che la Corte Europea di Giustizia si è occupata a ottobre 2018 delle misure polacche sull’età pensionabile (è l’ordinanza 19.10.2018, c-619/18 della vice presidente CGUE, nella procedura d’infrazione aperta dalla Commissione U.E- - n.d.r.), le autorità polacche hanno fatto un passo indietro e i vecchi giudici di Corte Suprema sono tornati a giudicare».

     Vi sono stati casi ripetuti di mancato rispetto delle sentenze delle Corte europee da parte del Governo della Polonia. Quali sono stati i più gravi, a tuo parere?

    «Pensiamo alla più importante decisione della Corte di giustizia, quella che riguarda il Consiglio Giudiziario Polacco e la sezione disciplinare, pubblicata il 19.11.2019 (Corte giust. 19.11.2019, cause riunite c-585, 624 e 625-18 – n.d.r.). Vi si è affermato che ogni corte giudiziaria che sia chiamata a valutare l’operato di un’altro organo giudiziario deve accertarne innanzi tutto l’indipendenza, specialmente quando si tratti di un giudice delle più alte istanze. Gli elementi che sono state indicati dalla Corte europea come misura dell’indipendenza rendono evidente che la nuova sezione disciplinare, costituita presso la Corte Suprema polacca, non é un organo che dia garanzie d’imparzialitàLa decisione del 19 novembre scorso ha riguardato anche la legittimazione del Consiglio Nazionale Giudiziario polacco e stabilito che i giudici designati da questo nuovo Consiglio devono essere sottoposti ad una valutazione che cosnenta di verificarne la loro effettiva indipendenza».

     Quale è stata la risposta del Governo polacco?

    «Una risposta adeguata del governo polacco sarebbe stata quella di promulgare una nuova legge per conformarsi alla decisione della Corte di giustizia. Invece il governo ha introdotto delle nuove disposizioni, chiamate „muzzle law”, che vietano ai giudici polacchi di applicare la sentenza della Corte del 19.11.2019. Grazie a queste nuove norme, un giudice che sollevi una questione di legittimazione di altro giudice designato per decisione del nuovo Consiglio Giudiziario polacco, potrebbe addirittura venire espulso! Tutti i giudici che hanno cercato di applicare la decisione della Corte di giustizia sono attualmente sotto procedimento disciplinare e penale con l’accusa di abuso di potere. Una nuova legge in tal senso è stata approvata dalla SEJM, la camera bassa del Parlamento polacco, a maggioranza del partito di governo, in un solo giorno. E’ stata poi respintta dal Senato, dove i partiti di opposizione hanno la maggioranza per un voto, ma recentemente la SEJM ha respinto a sua volta il rigetto del Senato. Quindi ora, a dispetto dell’opinione negativa della Commissione Venice (organo consultivo del Consiglio d’Europa – n.d.r.), sta solo aspettando la firma del Presidente».

     Il Consiglio della Magistratura polacco è stato sospeso dalla rete europea dei Consigli, perché si è ritenuto che non avesse più la necessaria indipendenza. Quali sono stati gli effetti di questo provvedimento per voi?

    «Sì, il Consiglio Giudiziario polacco è stato sospeso dall’European Networks of Councils for the Judiciary, ma i suoi membri non sembrano esserne molto preoccupati. Tuttavia, visto che la ENCJ è ben riconosciuta dalle istituzioni europee, come il Consiglio d’Europa, la Commissione Europea e la Corte di Giustizia Europea, quel provvedimento influenzerà sicuramente il loro approccio nei confronti del nostro Consiglio giudiziario».

     Cosa significa oggi fare il giudice in Polonia?

    «Sta diventando sempre più difficile. Le cosiddette riforme non hanno portato altro che un caos incredibile all’interno del nostro sistema giudiziario. Siamo oberati di lavoro: ad esempio io ho seicento processi aperti attualmente; ci sono circa ottocento scoperture nell’organico dei magistrati: il numero totale dei giudici polacchi sarebbe di 10.000. Siamo sotto pressione del Governo e dei media, che sono a loro volta sotto il controllo governativo. Recentemente il Presidente polacco si è appellato ai minatori del carbone dicendo loro che intende mettere ordine coi giudici! C’è stata una campagna diffamatoria organizzata dal vice ministro della giustizia contro alcuni nostri colleghi membri dell’associazione Iustitia e Themis. Alcuni account twitter anonimi hanno pubblicato dei dati sensibili riguardanti dei giudici, accessibili solo dai presidenti delle Corti e dal Ministro della giustizia. E ogni magistrato polacco è consapevole del fatto che giudicare un caso di rilievo politico può dare il via a una campagna diffamatoria contro di lui ed esporlo a un procedimento disciplinare».

    L’11 gennaio scorso la marcia delle mille toghe di Varsavia ha raccolto magistrati da venti paesi europei. Venticinquemila persone almeno hanno sfilato pacificamente in difesa di una giustizia indipendente in Polonia. Il risultato dell’evento ha risposto alle vostre aspettative? Quali pensi che potranno essere gli effetti della manifestazione?

    «E’ stato un evento meraviglioso, oltre la nostra immaginazione. I giudici polacchi che hanno partecipato alla marcia erano non meno di duemila e poi c’erano migliaia di altri operatori giudiziari, tra cui avvocati e procuratori. E siamo veramente grati al supporto dei nostri amici europei, dopo tutto apparteniamo alla stessa famiglia europea di valori. Sia per i magistrati polacchi che per quelli europei è stato uno dei momenti più toccanti della loro carriera. Siamo ancora in contatto e sono certa che questo evento avrà altri effetti per l’intera Europa in futuro. Ma per la situazione attuale in Polonia non avrà nessun impatto, anche se ovviamente il Governo è rimasto scioccato dall’eco che la marcia ha avuto in tutto il mondo. Ho paura che sfortunatamente i giorni più difficili siano ancora davanti a noi.  Tuttavia sono sicura che alla lunga il ruolo del diritto avrà la meglio».  


    *Monika Frackowiak ha 45 anni e lavora come giudice nella Corte distrettuale di Poznan. Fa parte dell’associazione di giudici polacchi Iustitia ed è componente del board di Medel (Magistrats Européens pur la Démocratie et les Libertés). E’ stata tra le organizzatrici della „marcia delle mille toghe” svoltasi a Varsavia l’11 gennaio 2020, che ha visto la partecipazione di venticinque associazioni di magistrati.   

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