GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

      Lessico di genere

     

    Le interviste di Giustizia Insieme

    Lessico di genere

     

    Marco Dell’Utri intervista

    Dott.ssa Silvia Governatori – Giudice presso il Tribunale di Firenze

    Prof.ssa Maria Rosaria Marella - Professor of law University of Perugia

    Prof. Eligio Resta – Professore Emerito di Filosofia del diritto.

    Prof.ssa Cecilia Robustelli – Professoressa ordinaria di Linguistica Italiana presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

    Prof.ssa Jaqueline Visconti – Professoressa ordinaria di Linguistica Italiana presso l’Università di Genova

    Sommario

    1. Le domande. 2. La Scelta del tema. 3. Le risposte. 4. Le conclusioni. 5. L'intervista in pdf.

     

    Le domande.

    1) È un dato inconfutabile che, nonostante gli studi di linguistica e la stessa Accademia della Crusca riconoscano la correttezza del riassestamento maschile-femminile nei titoli professionali, si continui in ambito giuridico, e non solo, a utilizzare il maschile come neutro universale per individuare donne giudici, avvocate, docenti e altre categorie di professioniste, anche quando la declinazione al femminile dei termini sia del tutto agevole. Ritiene che questo uso del linguaggio sia l’unico conforme alle regole grammaticali, ovvero costituisca un mero e non meditato appiattimento su una consuetudine consolidata, che si trascina per forza di inerzia, o pensa piuttosto che il fatto di assumere la forma grammaticale maschile nella sua portata inclusiva e omologante rifletta una cultura e una visione dei ruoli tendente ad annullare la specificità di genere, finendo per rendere invisibili le donne?

    2) Ritiene che un uso più consapevole della lingua e più rispettoso della differenza di genere possa contribuire a una più corretta rappresentazione dell’immagine della donna nella società, nonché al pieno riconoscimento del suo ruolo in ambito lavorativo e professionale, facilitando la sua partecipazione a tutti i livelli ai processi decisionali?

    3) Come è noto, la questione dell’uso non discriminatorio del linguaggio è stata negli ultimi anni al centro di molte iniziative culturali anche in sedi istituzionali e ha dato luogo, pure a livello europeo, a specifici interventi normativi e alla elaborazione di linee-guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, nonché alla costituzione di un Gruppo di esperti sul linguaggio nell’ambito della Commissione Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.È noto altresì che la lingua non si modifica con facilità, ma richiede tempi lunghi perché siano in essa recepite nuove forme e modalità di espressione che riflettano nuovi valori, nuove sensibilità e nuovi modelli di vita. Quali sono a suo avviso gli strumenti per accelerare tale processo di rivisitazione del linguaggio anche nell’ambito giuridico e giudiziario e accrescere tra gli addetti ai lavori la consapevolezza degli effetti discriminatori delle parole e della loro importanza per il rispetto dell’identità di genere?

     

     

    2. La scelta del tema.

    Marco Dell’Utri

    Il linguaggio - secondo il noto passaggio heideggeriano - è la ‘casa dell’essere’ (M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 267). Ad esso spetta delimitare i termini di un campo formale, di un ambito, entro cui l’essere possa ‘darsi’ nel luogo del discorso, senza che l’uomo (l’essere-umano, l’esser-ci) possa mai impadronirsi definitivamente di ciò che, come l’essere, da sempre, per definizione, ‘si sottrae’.

    Si tratta dunque di assumere, rispetto al linguaggio, la responsabilità comune della ricerca del senso, sulle ‘tracce’ dell’essere. Di riconoscere la radice, in origine forse arbitraria (e di seguito tradizionale), di quel singolare compito di elaborazione collettiva dei segni (dei simboli e dei significanti) nel rapporto istituito con la profondità esistenziale dei significati.

    Propriamente - è ancora Heidegger a dire - è il Linguaggio a parlare, non l’uomo. L’uomo parla soltanto in quanto corrisponde al Linguaggio (M. Heidegger, Hebel, l’amico di casa, Aguaplano, Perugia, 2012, p. 39).

    Muovendo da queste premesse - secondo la linea di un’elementare sintesi - si giustifica l’indole propriamente archeologica della ricerca foucaultiana sul sapere, la prospettiva necessariamente genealogica del discorso morale nicciano.

    L’ordine del discorso non è mai innocente; non lo siamo noi, parlanti o scriventi. Spetta a ciascuno, nella misura in cui si nutre e si serve del linguaggio, porsi l’interrogativo radicale sulle origini, la funzione e lo scopo dello strumento comunicativo adoperato, di demistificarne l’aura quasi-sacrale, di decostruirlo, derridianamente, affinché abbia a emergere la tessitura complessa dei poteri e delle culture che ne hanno, nel tempo, forgiato le forme e i contenuti simbolici.

    Nel quadro dei poteri che percorrono (talora apertamente, più spesso sotterraneamente) la struttura delle relazioni della vita quotidiana, quello che innerva i rapporti di genere appare, singolarmente, quello più presente (o evidente) alla riflessione comune, ma, insieme (e contemporaneamente), quello più nascosto e insidioso.

    Il dibattito civile e politico contemporaneo non ignora le questioni della sottorappresentanza femminile nelle istituzioni, della violenza maschile sulle donne, della discriminazione di genere nei molti luoghi della vita comune, a partire dal mondo del lavoro, fino alle famiglie o alle organizzazioni politiche, sindacali o confessionali.

    E tuttavia, una dimensione più profonda o sotterranea delle relazioni di genere (verosimilmente alle origini di ciascuna delle questioni appena ricordate) sembra sfuggire alla riflessione meno attenta o diffusa, sottraendosi, forse inevitabilmente, anche alla presa della meditazione più accorta. Una sorta di riflesso culturale condizionato capace di sorprendere alle spalle, inconsapevolmente, pensieri, parole, opere od omissioni.

    Si tratta di indagare se, nelle pieghe della declinazione delle parole secondo il genere (il femminile, il maschile, il neutro in molte lingue, morte o correnti), non si nasconda una precisa istanza di classificazione sociale, una ripartizione collettiva di ruoli, di compiti, di impegni o di funzioni, che all’idea di genere si addica come a un destino proprio dell’esser-maschio o dell’esser-femmina.

    Da qui il ritorno alla riflessione sulla pretesa, propria del pensiero e della cultura occidentale, di impadronirsi dell’essere a fini di elaborazione e di dominio, come esemplarmente testimoniato dall’ambizione della tecnologia contemporanea di pensare lo stesso essere-umano come materia continuamente riproducibile e liberamente manipolabile.

    Ed è un ritorno che interroga, nel profondo, la dimensione di autenticità dei nostri modi di vivere, di pensare e di parlare; la nostra capacità di sottrarci al ‘già detto’, o al ‘si dice’, di non lasciarci ingabbiare, a guisa di prodotti, in una sorta di ‘sformati di informazione’.

    Nella cosiddetta età della comunicazione globale, il linguaggio diviene con più facilità il veicolo o la cinghia di trasmissione di convinzioni radicate e mai (o non più) filtrate da alcuna sufficiente meditazione individuale e/o collettiva.

    Siamo ancora in grado di comprendere cosa (vogliamo che) sia, l’esser-femminile o l’esser-maschile? Cosa ve ne sia di specifico, di prezioso, di insostituibile, in vista della comune progettazione dell’orizzonte dell’esser-umani? Siamo ancora in grado di cogliere il valore aggiuntivo della ‘differenza’ nella costruzione dell’idea di uguaglianza? Cosa ‘ne va’ nello smarrimento della differenza?

    Nel recente messaggio di Capodanno, il Presidente della Repubblica ha ricordato il valore di un dono ricevuto da un’associazione di disabili: un dono «molto semplice ma che conserverò con cura perché reca questa scritta: “Quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi”. Esprime appieno il vero senso della convivenza».

    Chi parla male, pensa male, e vive male”, ammoniva il protagonista di un noto film di Nanni Moretti, rivolto a una giornalista-simbolo della comunicazione stereotipata e irriflessa, e dunque dell’incessante e assordante ‘chiacchiera’ sociale.

    Animata dal desiderio di indagare il tema all’interno del proprio mondo, sollecitata dall’autorevole magistero di una donna, Gabriella Luccioli, cui molto deve la riflessione della giurisdizione degli ultimi anni (anche, ma non solo, sui temi dei diritti della persona), ‘Giustizia Insieme’ ha deciso di proporre alcune domande allo scopo di avviare una riflessione comune sul rapporto tra lingua e genere nella comunicazione giuridica, e in particolare nel linguaggio dei testi normativi, delle sentenze e degli atti del processo, oltre che delle opere della dottrina.

     

    3. Le risposte.

       

    1) È un dato inconfutabile che, nonostante gli studi di linguistica e la stessa Accademia della Crusca riconoscano la correttezza del riassestamento maschile-femminile nei titoli professionali, si continui in ambito giuridico, e non solo, a utilizzare il maschile come neutro universale per individuare donne giudici, avvocate, docenti e altre categorie di professioniste, anche quando la declinazione al femminile dei termini sia del tutto agevole.

    Ritiene che questo uso del linguaggio sia l’unico conforme alle regole grammaticali, ovvero costituisca un mero e non meditato appiattimento su una consuetudine consolidata, che si trascina per forza di inerzia, o pensa piuttosto che il fatto di assumere la forma grammaticale maschile nella sua portata inclusiva e omologante rifletta una cultura e una visione dei ruoli tendente ad annullare la specificità di genere, finendo per rendere invisibili le donne?

     

    Silvia Governatori 

    Dopo 30 anni in magistratura posso dire di aver verificato e verificare quotidianamente che il linguaggio giudiziario non nomina le donne e che le donne non nominano se stesse. Ritengo che sia un appiattimento sessista su una consuetudine consolidata che perpetua l’invisibilità delle donne. Ben poche sono le magistrate che usano per sé l’espressione “la giudice” e “la presidente”. Il linguaggio in uso, specie nei nostri provvedimenti, non rispecchia i grossi cambiamenti che sono avvenuti dall’ingresso delle donne in magistratura, e vi è una profonda difficoltà – quando non un vero e proprio rifiuto - per molte donne di riconoscersi nelle parole e attraverso le parole che loro stesse usano. Ma se il linguaggio che usiamo non nomina le donne è – per dirla con Bice Mortara Garavelli – come se le cancellasse, perché ciò di cui non si parla non esiste

    Scriveva acutamente Gabriella Luccioli nel suo “Diario di una Giudice” che “focalizzare l’attenzione sulla categoria della differenza sessuale per una donna che opera nel mondo del diritto non si risolve in un andare indietro, ma piuttosto in un progredire verso una visione più giusta e più corretta dell’ordinamento, una volta posta in discussione l’effettiva neutralità dei concetti generali fondati sulla universalizzazione di un unico sesso”. Sono totalmente d’accordo con lei: è una imprescindibile esigenza democratica che chi “dice la giustizia” abbia conoscenza delle marcate asimmetrie nella posizione di uomini e donne nella società e del peso degli stereotipi. Per rendere la giustizia in modo totalmente fedele ai valori costituzionali occorre avere ben presente che situazioni diverse richiedono soluzioni diverse, e che occorre – in concreto - uno scrupoloso rispetto della dignità della persona e del quadro normativo e costituzionale di tutela.

    Il tema del nominarsi come donne – del riconoscersi e pretendere che gli altri riconoscano la nostra intrinseca differenza - è complesso, ma vi sono moltissimi studi ormai al riguardo. La filosofa Claudia Mancina ha scritto egregiamente a questo riguardo che “il soggetto collettivo “donne” da un lato è un riferimento necessario per comprendere il percorso delle singole individue, e dall’altro può impedire di mettere a fuoco le dinamiche effettive della libertà, che sono sempre individuali. L’attaccamento al soggetto collettivo oscura le differenze individuali così come quelle sociali e culturali, perché riduce le donne alla “differenza” sessuale” dimenticando che sono individue singole da una parte e dall’altra che appartengono a mille altre “differenze”. Anche la filosofa Letizia Gianformaggio ci ha lasciato acute riflessioni sul diverso atteggiamento delle donne che accettano con orgoglio e rivendicano il ruolo di “uomini onorari”, per sottrarsi all’essere ricondotte al genere femminile, di minor valore, di fatto non prendendo sul serio l’eguaglianza. In psicanalisi si segnala che, anche se ora a livello legale e sociale, ci muoviamo in mondi nuovi, in realtà ci portiamo ancora molti segni dei 3.000 anni precedenti, e la vecchia gerarchia dei valori su cui si basa il patriarcato non è stata veramente superata, persistendo a livello psicanalitico, come segnalato da Annalene Homberg, una contrapposizione tra il bene – coscienza e ragionevolezza, e il male, al quale le donne si trovano tradizionalmente associate: l’inconscio e la dimensione irrazionale. A me pare, per dirla con la psicoanalista Jean Bolen, che forse alle magistrate che sdegnano ogni riferimento al genere, potrebbe essere utile pensare all’essenza archetipica di Atena. Dea della saggezza, nota per le strategie vincenti e per le soluzioni pratiche rappresentata con la lancia in una mano e la ciotola o il fuso nell’altra, nata dalla testa del Padre – Zeus: le donne dovrebbero pensare all’acutezza della propria mente – come suggerisce Bolen – come una qualità femminile riferita ad Atena, sviluppando una immagine positiva di sé proprio come donne, rifuggendo dall’omologazione al maschile.

    Dopo decenni di studi e di riflessioni io credo che sia ora doverosa per le magistrate prendere consapevolezza di sé e delle tematiche di genere, non giustificandosi più un approccio superficiale e non meditato al tema, perché come scrisse Karl Gunnar Myrdal quasi mai ci si trova di fronte a carenze casuali nei nostri processi di conoscenza: “L’ignoranza, come la conoscenza, è intenzionalmente orientata”.

     

    Maria Rosaria Marella

    In primo luogo è importante sottolineare che nella lingua italiana l’uso del maschile in riferimento a un soggetto femminile è un errore grammaticale grave. È sbagliato dire l’avvocato Caia tanto quanto dire la mela è acerbo! Direi perciò che chi insiste ad usare il maschile al posto del femminile avverte la forzatura, ma ritiene che questa eccezione alla regola della concordanza sia giustificata o addirittura doverosa. Una tale convinzione, e l’uso distorto della lingua che essa produce, è con tutta evidenza il persistente retaggio del confinamento delle donne nell’ambito della riproduzione e della loro tradizionale esclusione dalla sfera pubblica. Il che spiega perché a molti suoni del tutto naturale dire sarta, parrucchiera, maestra, segretaria, e altrettanto naturale declinare al maschile professore ordinario, magistrato, consigliere, avvocato in riferimento a una donna.

    Ma poiché l’accesso delle donne alla sfera pubblica e alle professioni ‘liberali’ non è più un fatto raro o episodico, ma assolutamente normale anche in termini di numeri, è evidente che chi si ostina a usare il maschile al posto del femminile faccia, consapevolmente o meno poco importa, un uso politico della lingua, in quanto ribadisce a dispetto della realtà l’eccezionalità della presenza femminile in alcuni ruoli e in alcune sedi, quasi a ricordare che il ruolo proprio della donna è altrove, è socialmente subordinato e solo in quell’altrove liberamente declinabile al femminile: segretaria, cameriera, operaia, casalinga.

    In questo quadro, quel che trovo davvero sorprendente è l’inconsapevolezza di chi, pur professandosi progressista ed essendo culturalmente provveduto/a, continui a essere convinto/a di salvaguardare l’importanza e la dignità del ruolo e della posizione professionale raggiunta da una donna declinandola al maschile. Il che nelle donne cela una sorta di falsa coscienza o di pulsione assimilazionista rispetto alla propria avvenuta emancipazione, e negli uomini, spiace dirlo, un inveterato maschilismo. L’esito – non certo inatteso sebbene talora non voluto - è in entrambi i casi quello di sancire la minorità femminile.

     

    Eligio Resta

    Le parole della legge non sono mai neutre. Nascondono polisemie, stratificazioni storiche, semantiche complesse. Parafrasando Nietzsche, potremmo dire che la grammatica che attraversa il diritto è, per antonomasia, una “gaia scienza”. 

    Gli studi più risalenti si richiamano a una “semantica storica” che mostra come varino nel tempo e nello spazio i significati delle parole; il lessico ci informa sui sistemi sociali più di qualunque altra cosa. Vale per i verbi usati dal linguaggio normativo (“siamo uguali” che de-scrive e pre-scrive nello stesso tempo) e per ogni struttura grammaticale impiegata. Vale anche per il numero (nessuno, ognuno, tutti) che non sono ovviamente equivalenti (per essi passa anche la “magia” del principio maggioritario).

    Dove più marcata è la sedimentazione storica è nell’uso del genere che finisce, da sempre, per usare il maschile come universale linguistico; appare ovvio che vi sono delle profonde ragioni storiche.

    Il diritto moderno ribalta i vecchi privilegi dell’antico regime creando la categoria possente, sia pure oggi discussa, del “soggetto di diritto” e del “cittadino”.  Apparve subito chiaro, però, che nell’uso del maschile si celava qualcosa di molto più sostanziale. Già all’indomani dell’entrata in vigore del Codice Napoleone ci si rese conto che dietro il “soggetto universale” vi era soltanto “il maschio, adulto, sano di mente, preferibilmente sposato”. Qui non si tratta dei giochi di genere che ogni lingua conosce nell’attribuire nomi a cose: si pensi alla differenza che corre tra italiano e tedesco nel designare luna e sole che in tedesco sono all’opposto (“la sole” e “il luna”). Nel linguaggio normativo si ha a che fare con forme prescrittive che annullano specificità di genere e che spesso impongono destini, determinano caratteri, fanno circolare diritti e doveri.

    La letteratura, del resto, ha spesso mostrato come dietro le forme si nascondesse la menzogna. In Il mercante di Venezia Shakespeare fa perorare la famosa arringa risolutiva nella causa intentata, a Porzia che, donna, deve mascherarsi da avvocato patavino, rigorosamente al maschile. Ci sono stati secoli di tradizione che sacrifica il genere nel diritto innalzando il maschile a universale annientando la differenza di genere a dispetto dell’origine greca che parla al femminile. L’invenzione del tribunale che neutralizza le Erinni che inseguono Oreste è opera di Atena, dea della ragione ed è suo il voto decisivo per assolvere l’imputato; così come femminile è Dike, dea della giustizia, e Temi. Del resto è la figura di Antigone che, richiamandosi alle “leggi non scritte” del nomos, si oppone alle “leggi scritte” di Creonte facendo valere le ragioni dell’oikos, degli affetti, contro le leggi della polis. E non c’è dubbio che nelle diverse interpretazioni filosofiche di Antigone sia il codice materno e fraterno a opporsi a quello paterno, il codice femminile a quello maschile. 

    I greci sapevano bene, del resto, che non può esserci sempre conciliazione nella vita (sarà questa la vera preoccupazione di Hegel) e che ci sono alcuni dissoi logoi che vivono soltanto della loro differenza (come terra e mare) e sono rappresentati massimamente dal discorso del genere, appunto, maschile e femminile. Questione questa rimasta irrisolta anche nel mondo moderno, che, proprio grazie a Hegel, si pone costantemente la questione del “terzo”. Chi è il terzo del sesso quando questo è irrimediabilmente diviso in maschile e femminile? Pensiamo, infatti, al problema del genere del giudice che deve decidere sulle questioni di genere. C’è sempre il salvagente della legge, ma anche questo, si sa, non è sempre neutro.

    La neutralità della legge è anche “contraddizione”. Lo aveva colto Engels nel mirabile saggio L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, che sapeva bene che il soggetto neutro e universale dei codici borghesi e l’uguaglianza che prescriveva, finiva per essere anche la sua “dismisura” al confronto con la realtà. Posti tutti sullo stesso piedistallo si può misurare la diversa altezza degli uomini: il racconto dell’uguaglianza è anche la “trappola” che lo impegna alla sua contraddizione e al suo superamento.

    È quanto avviene lentamente nei sistemi giuridici contemporanei che un po’ alla volta sono costretti a restituire il mal tolto della storia. Ricordo spesso la pagina di F. Cordero che diceva “sono duemila anni che alcuni uomini dicono il diritto su altri uomini”. Il colpo di teatro è nel seguito, quando aggiungeva: “da cinquant’anni anche le donne”, restituendo all’astrattezza del linguaggio la concretezza della vita restituita alle sue differenze, alla sua realtà al suo dissos logos.

     Rimane sullo sfondo, ma meriterebbe ben altre riflessioni, il problema se sia l’intero universo del diritto a essere sovraccaricato di codice paterno con la sua implacabile, si fa per dire, funzione commutativa, che consiste nell’attribuire esclusivamente colpe e responsabilità (“liberi perché responsabili” di Kant o il “dura lex sed lex”). Se invece, come spero, il diritto è anche un modo per andare incontro ai bisogni, ai desideri, alla vita di uomini e donne in carne ed ossa, le cose cambiano. A ben vedere in questo caso il diritto scoprirebbe il suo volto, da sempre celato, di un codice materno, fino a ora, destinato a scompaginare la polis ma, con molta fatica, a vincere.

     

    Cecilia Robustelli

    Oggi l’uso del genere grammaticale maschile per designare le donne che svolgono una professione o ricoprono un ruolo istituzionale di prestigio è spia di scarsa consapevolezza dell’uso della lingua italiana, e in particolare delle regole che sovrintendono a quello del genere grammaticale, oltre che di rifiuto nel riconoscere il lungo percorso culturale compiuto dalla società, e quindi anche dalle donne, solo recentemente diventate soggetto attivo della società stessa. Per quanto riguarda il piano strettamente linguistico, e quello della comunicazione, si ricordi che in italiano, e anche in molte altre lingue, il genere grammaticale maschile rimanda a esseri di sesso maschile e quello femminile a esseri di sesso femminile, con pochissime eccezioni ininfluenti sulla regolarità del sistema.

    Non rispettare questa regola comporta il rischio di ambiguità e addirittura di fraintendimenti per quanto riguarda l’individuazione della persona alla quale si fa riferimento: un pericolo di particolare rilievo per il linguaggio giuridico, da quello amministrativo a quello legislativo. Sul piano socioculturale e politico la scelta di definire le donne con termini maschili rivela l’attaccamento a una tradizione patriarcale inadeguata rispetto alla società attuale, la presunzione di un modello maschile come archetipo di capacità e potere e la tensione all’omologazione all’uomo sul piano professionale, con la conseguente negazione del pieno riconoscimento della funzione svolta oggi dalle donne nella società e dell’acquisizione della parità fra i sessi e i generi.

     

    Jaqueline Visconti

    La questione è di grande attualità, nel contesto dell’elezione, l’11 dicembre, della giudice Marta Cartabia a prima donna Presidente della Corte costituzionale, settant’anni dopo la nascita della Consulta. È un dato di fatto che la discriminazione permanga ai vertici delle professioni: se le donne in magistratura sono ormai il 53%, negli incarichi direttivi esse calano al 27% (fonte CSM 2019). Anche in Università, a fronte di 50,7% assegniste di ricerca, solo 22,3% sono professoresse ordinarie (fonte MIUR 2016). L’uso maschile come neutro universale per individuare donne giudici, avvocate, docenti e altre categorie di professioniste è pertanto sì spesso tralatizio e inconsapevole, mosso dall’inerzia dell’uso di decenni, ma riflette anche un dato sociale reale.

     

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    2) Ritiene che un uso più consapevole della lingua e più rispettoso della differenza di genere possa contribuire a una più corretta rappresentazione dell’immagine della donna nella società, nonché al pieno riconoscimento del suo ruolo in ambito lavorativo e professionale, facilitando la sua partecipazione a tutti i livelli ai processi decisionali?

     

    Silvia Governatori 

    Assolutamente sì. Scriveva Luce Irigary che il parlare non è mai neutro. Io temo che l’omologazione delle magistrate ad un modello maschile e l’uso – inconsapevole, quando non voluto – di un linguaggio asseritamente “neutro” sia un pericoloso “cattivo esempio”, laddove le magistrate e la magistratura nel suo complesso dovrebbero piuttosto essere promotrici di modelli di piena integrazione e rifiuto di qualsivoglia discriminazione. Purtroppo è mancata e ancora manca anche una seria riflessione su modi di esercizio del “potere” - o, se si vuole, anche dell’”autorità” – diversificati per genere.  Le logiche correntizie che tanto rilevano nel conferimento di incarichi del CSM – che spesso ottengono purtroppo gli onori delle cronache – sono ben lungi dal consentire l’emersione di figure femminili di dirigenti caratterizzate da una positiva immagine di un modo diverso di gestione di incarichi di responsabilità. Ci troviamo di conseguenza ancora oggi in una situazione in cui ci troviamo a chiederci se la differenza femminile esista davvero, se sia un dato originario del genere, o se sia fatta nel quotidiano dalle scelte che ciascuno fa, donne – ma anche uomini sempre più diversi dai modelli consolidatisi nel tempo- combinando modelli “altri” con modelli del tutto propri.

     

    Maria Rosaria Marella

    Certamente! Il linguaggio è performativo: determina la realtà, non la rispecchia. Finché si continuerà a scrivere il consigliere Caia, il presidente Mevia, finché, cioè, la lingua declinerà la presenza femminile nella sfera pubblica come eccezionale, non solo quello che potremmo definire il ‘pregiudizio eccezionalista’ resterà inalterato e continuerà a rappresentare il contributo delle donne alle istituzioni, alla politica, alla cultura come episodico, ma la loro stessa affermazione sociale sarà costruita come strutturalmente fragile, fortunosa e precaria, in quanto, come ogni eccezione, frutto di una concessione e sempre revocabile. Di qui la ricorrente (e facile!) esclusione delle donne dai massimi livelli dirigenziali: alle concessioni, infatti, possono sempre apporsi dei limiti. In definitiva, il linguaggio maschilista che anche alcune donne che ricoprono incarichi importanti sembrano prediligere, presidia di fatto la tenuta del c.d. tetto di cristallo.

     

    Eligio Resta

    La domanda pone la questione correttamente quando ricorre alla formula dell’uso consapevole del linguaggio. Il nocciolo del problema è, infatti, tutto lì, in quella formula.

    Cos’è l’uso consapevole del linguaggio se non il compimento di una dimensione condivisa della comunità politica. Non è necessario scomodare la filosofia del linguaggio del novecento per capire che il modo in cui parliamo è immediatamente il modo in cui viviamo, è la forma della nostra esistenza al mondo, che è fatta della presenza di altri, di molte “differenze condivise”: si sa, del resto, che l’uguaglianza divide e le differenze accomunano.

    Non è superfluo ricordare lo strato di senso profondo della communitas. Il munus condiviso è insieme dono e dovere che abbiamo in comune (da questo ne è derivata anche un’etica della comunicazione). Dalla comunità non si prende; a essa si dona. Persino nel muni-cipio vi è soltanto l’assunzione di un dovere nei confronti della città, non un’apprensione di qualcosa (come dovremmo ricordare un po’ più spesso). Comunità, dunque, è condivisione di un onere, appunto, con-senso. Questa parola deve essere restituita al suo significato originario, come senso condiviso, contrariamente alla strana curvatura che questa formula ha preso nel linguaggio della vita quotidiana, finendo per equivalere a “ovvietà”, banalità.

    La comunità è dunque il suo linguaggio in cui ognuno misura il suo senso di appartenenza.

    Una frase del linguaggio corrente lo ricorda: questa è “dare la parola”. Essa ha un doppio significato; sta a indicare sia una promessa sia un diritto di parlare.

    Nel primo caso richiama un obbligo vero e proprio (ti do la mia parola, spesso si aggiunge “d’onore”) che scaturisce dalla promessa e proprio questo è all’origine dell’obbligazione giuridica. Si sa che la genesi del diritto sta nel “performativo” della promessa (e del giuramento); da essa scaturisce, come nel paradosso del dono, una gratuità mai così tanto vincolante e obbligatoria.

    Nel secondo caso “dare la parola” sta a indicare un potere di distribuire a ognuno il diritto di parlare, a far ascoltare la propria voce (ma non a prendere a “male” parole). Indica in questo caso un diritto regolato a partecipare, ognuno secondo i suoi bisogni, interessi, le sue aspettative, le sue passioni. Al diritto di parlare, di ognuno, corrisponde soltanto un potere di distribuire secondo regole, e soltanto in base ad esse, l’esercizio di tale diritto. In questo caso “dare la parola” è all’origine dell’obbligazione politica.

    Il munus, inteso come dovere e obbligo condiviso, come si vede, ritorna prepotentemente al centro della vita della comunità politica e il suo veicolo è il linguaggio; la parola, appunto. È anche il modello aureo della democrazia, dove il senso comune nasce dalle tante voci che devono esprimersi prendendo sul serio le parole “date”. Il controllo della parola è, dunque, il vero esercizio di democrazia. Non si tratta del controllo delle parole altrui (che spesso sfocia in una “pre-potenza”), ma delle proprie. Il luogo per eccellenza in cui si esprime tale controllo, che è la vera essenza di una comunità democratica, è nel rispetto delle differenze di sesso, razza, lingua, religione, opinioni, come ricorda il linguaggio esemplare dell’art. 3 della Costituzione e, proprio per questo, dell’uguaglianza. Differenza e uguaglianza sono facce della stessa medaglia che animano un linguaggio consapevole, il quale è presupposto, ma anche risultato da raggiungere, in un’etica della comunità politica. 

     

    Cecilia Robustelli

    Sicuramente un uso della lingua consapevole delle sue funzioni, inclusa quella di individuazione della persona a cui si fa riferimento in termini di maschile/femminile, realizza una rappresentazione della donna nella società più rispondente alla realtà e quindi anche alle conquiste compiute dalle donne sul piano professionale. Non c’è dubbio che il riconoscimento attraverso il linguaggio del ruolo delle donne in ambito lavorativo e professionale sia indispensabile per la sua partecipazione ai processi decisionali di alto livello, ma ad esso deve accompagnarsi la volontà sul piano sociale, culturale e politico di ampliare l’angusto orizzonte patriarcale in un arco più ampio dove donne e uomini abbiano lo stesso potere. E questo passo deve essere compiuto dagli uomini, che ancora oggi hanno in mano il potere. I singoli termini femminili che individuano la presenza delle donne in ambito professionale, già di per sé efficaci in isolamento, cioè per esempio se vengono usati con funzione di appellativo, acquistano maggiore efficacia quando sono incastonati in un discorso che ne mette in luce lo stesso livello di capacità rispetto agli uomini, riconoscendone ove necessario le specificità, secondo un modello di parità fra donne e uomini in termini non di omologazione ma, appunto, di riconoscimento delle differenze.

     

    Jaqueline Visconti

    Sì, senz’altro. Manca invece, a partire dalle Università, una riflessione su questo aspetto e sulla lingua in generale. È inoltre fondamentale che tale riflessione sia integrata da un lavoro di politica culturale e sociale volto a incoraggiare le donne ad assumere ruoli di dirigenza. Come notava Graziadio Isaia Ascoli nel noto Proemio del 1872 all’Archivio Glottologico Italiano, la diffusione di un uso della lingua non si può ottenere con mere disposizioni ministeriali, né dall’oggi al domani, ma solo grazie all’istruzione, all’ammodernamento delle istituzioni culturali e al progresso scientifico.

     

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    3) Come è noto, la questione dell’uso non discriminatorio del linguaggio è stata negli ultimi anni al centro di molte iniziative culturali anche in sedi istituzionali e ha dato luogo, pure a livello europeo, a specifici interventi normativi e alla elaborazione di linee-guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, nonché alla costituzione di un Gruppo di esperti sul linguaggio nell’ambito della Commissione Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

    È noto altresì che la lingua non si modifica con facilità, ma richiede tempi lunghi perché siano in essa recepite nuove forme e modalità di espressione che riflettano nuovi valori, nuove sensibilità e nuovi modelli di vita. Quali sono a suo avviso gli strumenti per accelerare tale processo di rivisitazione del linguaggio anche nell’ ambito giuridico e giudiziario e accrescere tra gli addetti ai lavori la consapevolezza degli effetti discriminatori delle parole e della loro importanza per il rispetto dell’identità di genere?

     

    Silvia Governatori 

    Ci vorrebbe una modifica del linguaggio normativo e una direttiva di impulso in tal senso da parte del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’Associazione Nazionale Magistrati, oltre che da ciascuno e ciascuna di noi: quando si comincia ad usare il femminile diventa esso stesso “normale”. Si potrebbe, ad esempio, regalare alle MOT e alle magistrate un timbro con scritto “La Giudice” e “La Presidente”: personalizzato ovviamente con il loro nome; diffondere modelli di provvedimento per consolle al femminile. Anche la Scuola Superiore della Magistratura dovrebbe essere motore in tal senso, ponendo come priorità quella di una riflessione diffusa e convinta, nei singoli corsi, sui temi più vari, circa l’uso del linguaggio e i rischi di “disattenzione” alle tematiche di genere, quando non di vere e proprie discriminazioni.

    Per contro a me sembra che le riflessioni ed iniziative a tale riguardo siano state fino ad ora del tutto episodiche e scollegate da un piano di azione convinto di potere e dovere provocare un mutamento.

    Non ha molto senso, secondo me, limitarsi a declinare al femminile alcune tematiche – o affrontare episodicamente temi squisitamente e tradizionalmente femminili: bisognerebbe piuttosto cercare di cogliere la “differenza” che si introduce negli ambiti di analisi quando sono le donne a farsi interpreti dirette e consapevolmente originali dei fenomeni di cui sono effettive protagoniste o attrici mancate.

    Nel lontano 1990 venne fondata l’Associazione Donne Magistrato Italiane; nel 1992 da una mia lettera al CSM venne istituito il Comitato per le Pari Opportunità in Magistratura. In diverse credevamo che le donne potessero “fare la differenza”, che fosse possibile “scalfire” un modo di essere e di autorappresentarsi delle donne magistrato – delle magistrate - secondo una tendenziale omologazione al modello maschile. Purtroppo, secondo me, fino ad oggi si è trattato di una “scalfittura” molto superficiale: le magistrate, per la maggioranza, non si nominano come tali, e ritornando alla citazione già fatta “ciò che non si nomina non esiste”. Bisogna far presto, e bisogna fare qualcosa di incisivo: prima che il modello di donne che si sono omologate al preesistente modello maschile – ampiamente prevalente, come messo in luce in ricerche sociologiche tuttora valide, tra cui ricordo quella di Chiara Saraceno in Italia e di Anne Boigeol in Francia, - diventi un “modello unico femminile” – privo di qualsivoglia “differenza” e ancor meno di una sua “valorizzazione”, anche per le nuove generazioni.

    Ci servono esempi positivi di donne – come quello che ci ha dato Gabriella Luccioli – modelli di “giudicedonna” capaci di esprimere la differenza nell’esercizio della giurisdizione, portando in essa la risorsa di una specifica sensibilità, attenzione e prospettiva nelle questioni da esaminare, con felici e sempre rigorose sintesi tra testo della legge e sistema di valori tutelato dall’ordinamento, in primis il valore della persona e dei suo diritti fondamentali, primo fra tutti quello della dignità.

     

    Maria Rosaria Marella

    Il tema del linguaggio pone una questione molto seria sebbene possa apparire marginale e persino irrisoria se rapportata a fenomeni drammatici che investono i rapporti fra i generi, come i femminicidi, la violenza sessuale, e, per altro verso, la discriminazione sul luogo di lavoro. In realtà la loro matrice è la medesima e riguarda la radice patriarcale della nostra cultura, dunque un più generale problema strutturale che l’uso del linguaggio maschilista costantemente riproduce e rafforza. E che dunque va affrontato con misure altrettanto strutturali. Nel caso degli atti giudiziari e amministrativi, il problema è ancor più rilevante e urgente data la specifica valenza performativa del linguaggio del diritto, dovuta tanto alla sua intrinseca portata normativa (in senso lato e in senso stretto) quanto a quella simbolica e pedagogica. È perciò necessario intervenire sulla formazione degli operatori del diritto riservando uno spazio adeguato al tema del linguaggio discriminatorio, e nella miriade di corsi di aggiornamento/formazione che avvocati, magistrati, personale amministrativo regolarmente frequentano non dovrebbe essere affatto difficile trovarlo. Dovremmo in realtà cominciare a introdurre il tema già all’università, nei corsi di laurea, nei corsi di dottorato e nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. Avvalendoci di linguiste che mettano a disposizione le proprie competenze per svelare la matrice patriarcale – non neutra, ma sessista e discriminatoria – della consuetudine di declinare al maschile le professioni ‘alte’, dello stesso uso del suffisso –essa, dell’uso del femminile per gli altri mestieri.

    Nella letteratura giuridica di lingua inglese è da lungo tempo invalso l’uso del pronome femminile ‘she’ anziché del maschile ‘he’ come neutro universale. È una pratica significativa: denuncia la consapevolezza e l’impegno di chi scrive e svolge una funzione pedagogica importante in chi legge. Ma va detto che nel mondo anglosassone la sensibilità per questi temi è generalmente assai maggiore. Il linguaggio è chiaramente percepito come strumento di lotta politica anche contro l’eteronormatività che rende invisibili le soggettività non conformi (non etero). A questo scopo, ad esempio, da tempo si è diffusa la consuetudine di aggiungere il pronome ‘they’ (loro) accanto a ‘she or he’ come neutro per indicare le persone transgender.

     

    Eligio Resta

    Se tutto questo manca, gli effetti si mostrano effettivamente discriminatori, come vediamo nella prassi del linguaggio quotidiano.

     Ben vengano allora disposizioni normative che indirizzino il linguaggio amministrativo e giudiziario e va benissimo anche la costituzione di gruppi di esperti sul linguaggio nata nell’ambito di attività governative. Del resto, compito dei governanti, diceva Stuart Mill è attuare circoli virtuosi, magari praticando, e non soltanto declamando, pratiche anche solo linguistiche commendevoli.

    Nelle pratiche linguistiche conta molto l’esempio mostrato a tutti livelli dalla sfera pubblica e dalle comunicazioni private; da non trascurare i mezzi di comunicazione di massa e, non da ultima, la letteratura che è una grande riserva di simboli per il linguaggio. Per questo aiuterebbe molto una letteratura “di genere” che evidenzi le “altre” possibilità del linguaggio.

    Occorre però essere ben consapevoli che le parole usate nel linguaggio del diritto godono di un’autonomia soltanto relativa rispetto alla vita quotidiana e che molto dipende, anche nel diritto, dagli universi simbolici che circolano nelle dimensioni di tutti i giorni.

    La mia impressione è che le variazioni linguistiche siano legate a pratiche lunghe che devono sfidare stratificazioni consolidate. Bisogna però cominciare da qualche parte; i cambiamenti normativi, persino gli esempi imposti dall’alto, sono condizione assolutamente necessaria, ma non sufficiente, per una “svolta linguistica” così importante. La consapevolezza linguistica richiesta riposa in pratiche della vita quotidiana che sono effetto, ma anche causa, di tendenze che hanno una deriva lunga.

     

    Cecilia Robustelli

    Ho fatto parte io stessa del Gruppo di esperti sul linguaggio e ho redatto, coordinando un gruppo di lavoro, le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR, e sono molto consapevole che sono necessari tempi perché la tradizione e le abitudini linguistiche cambino. Per la mia esperienza, che include anche molta attività di formazione da parte delle istituzioni, è indispensabile che già nel periodo di preparazione alla futura attività in tutti gli ambiti professionali, incluso quello giuridico e giudiziario, vengano inseriti gli “studi di genere”, mentre a chi è già in attività dovrebbero essere offerti corsi di formazione. Molti ordini professionali, incluso l’Ordine degli Avvocati, già lo fanno, e anche la Corte di Cassazione nel 2015 ha dedicato una giornata a riflettere sulla questione della differenza di genere, alla luce del ruolo che devono rivestire nelle politiche nazionali e europee il principio di uguaglianza, la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza di genere, la politica di prevenzione contro ogni discriminazione. Credo che sarebbe molto importante per ogni persona che vuole avere un ruolo attivo nella società, e a maggior ragione per coloro che lavorano in ambito politico, giuridico e giudiziario, acquisire un alto livello di consapevolezza che il linguaggio rappresenta uno strumento per raggiungere questi obiettivi, e che essi sono condivisi e proclamati ufficialmente dai singoli paesi, dall’Unione Europea e dalle grandi organizzazioni internazionali.

     

    Jaqueline Visconti

    Come l’Italia non ebbe l’unità di lingua finché mancarono le condizioni necessarie, così la priorità è che mutino i valori e i modelli di vita. Oltre a iniziative di politica sociale volte a favorire l’accesso femminile ai vertici delle professioni, penso a un concreto modulo di formazione, già nelle Università e poi nella formazione permanente, in cui la lingua sia posta al centro della riflessione, sia per aspetti di logica, chiarezza ed efficacia sia per la questione di lingua e genere nella comunicazione giuridica. La formazione dovrebbe inoltre coinvolgere gli operatori dell’informazione, che giocherebbero un ruolo importante nella diffusione di usi più consapevoli (proprio a questa mancata sinergia risale la diffusione di impieghi imprecisi quali “comminare” per “irrogare” una sanzione o “imputato” per “inquisito” o “indagato”, ecc.).

     

     

    5. Le conclusioni

    Marco Dell’Utri

    Le risposte ascoltate invitano a recuperare il senso greco originario delle parole, delle figure e dei personaggi mitologico-letterari della ‘giustizia’ e, insieme, a chiarire i percorsi storico-ideologici della modernità e della cultura borghese, maschilista e censitaria.

    E dunque confermano l’indole archeologica della ricerca sulle parole e le cose, sulle grammatiche e l’ordine dei discorsi.

    Convocate a testimoniare, sul piano del confronto di genere, la marcia, fin qui inarrestata, del potere del maschile sul femminile; a dar conto della sistematica esclusione del femminile dagli spazi (apparentemente) ‘decisivi’ della vita comune, le risposte ricevute sembrano nondimeno indicare i segni di un percorso possibile: quello lungo il quale è il codice maschile del potere e della colpa a lasciare il passo (o, più significativamente, a ‘dare la parola’) a quello femminile della cura e della ‘conversante comprensione’, alla sua prospettiva, ancora tutta da scoprire, dell’incontro del diritto con la dimensione, personale e irripetibile (umana, non ‘troppo umana’) del bisogno del singolo, che ancora attende d’essere ascoltato e colmato dalla risposta dell’altro.

    Può legittimamente attendersi che, alla declinazione della parola dal maschile al femminile, non corrisponda banalmente (come troppo spesso capita di rilevare) la mera sostituzione, di un soggetto a un altro, nella realizzazione di uno stesso progetto (istituzionale, formativo, professionale, etc.), ma l’affermazione di valori progettuali nuovi e di inedite aperture di senso.

    Converrà pensare, in ultima analisi, a un itinerario che non può essere affidato alla sola trasformazione, in sé, del linguaggio (che pure assume un significativo rilievo sul piano della sollecitazione del pensiero o della pedagogia comunicativa): riposa, la consapevolezza linguistica (come l’esito di un processo), sulla convinta adesione dei molti (o dei più) alle pratiche quotidiane di quel ‘mondo della vita’ che pure invitano e legittimano a prospettare, come al termine di una traversata, nuovi traguardi e modi nuovi, o inauditi, di vedere e di vivere il mondo.

    Le questioni di genere non rimandano al terreno della ‘pietà’ del potere maschile; e nemmeno all’ambito formale, per molti versi irritante, delle preoccupazioni del ‘politicamente corretto’, quanto alla ‘cura’ per l’oggetto del proprio sapere, che a nessuno (e dunque neppure al giurista) è dato di trascurare. Si tratta di situare, nel loro luogo più radicale, gli interrogativi inestinguibili sulla ‘verità’ delle cose, e di disporsi, con pazienza, alle attese dell’ascolto.

    Proprio al tema dell’ascolto dell’essere, secondo una particolare lettura del pensiero heideggeriano, si è tentato di legare l’invito, a suo tempo rivolto da Walter Benjamin, all'ascolto dei vinti, delle voci spezzate dalla violenza e dalle discriminazioni della storia: lungi dall’attendere alcuna rivelazione, siamo noi gli ‘attesi’ dall’ansia dei sommersi. L’Angelus Novus, raffigurato da Paul Klee, che, trascinato dal futuro, volge il suo sguardo al passato, vale a scolpire l’impegno, imposto alla generazione presente, di realizzare il riscatto dei vinti, la rivolta che invoca la revisione di ogni consolidata giurisprudenza dei vincitori.

    Tornano alla mente, nell'assumere secondo quest’inclinazione morale l’idea dell’ascolto dell’essere, le parole con le quali Gustavo Zagrebelski suggeriva di accostare l'idea astratta della ‘giustizia’; accantonando la pretesa di intenderne i contenuti in termini positivi, ed assecondando, viceversa, l'immediata capacità di riconoscerne, intuitivamente, le violazioni concrete e le ferite intollerabili inferte dalle azioni degli uomini.

    Ancora dunque risuona, per l’uomo di giustizia, come all’uomo contemporaneo, l’ammonimento del verso che induce a negare la ‘parola definitiva’. Là dove sola rimane, convinta, l’affermazione di “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

     

     CEDU e cultura giuridica. 4) La Corte edu vista dai suoi giudici

     

    CEDU e cultura giuridica. 4) La Corte edu vista dai suoi giudici    

    Intervista di Roberto Giovanni Conti a Guido Raimondi e Vladimiro Zagrebelsky  

    1. Le domande. 2. La scelta del tema. 3.  Le risposte. 4. Le conclusioni. 5. L’intervista in pdf.  

     

    1.Le domande  

    1) Qual è, alla luce dell’esperienza da Lei maturata all’interno della Corte edu, il futuro dei rapporti fra giudice nazionale e Corte di Strasburgo?

    2) La Sua precedente appartenenza alla giurisdizione nazionale quanto e in che modo ha inciso sul ruolo esercitato all’interno della Corte edu?

    3) L’autonomia e indipendenza della giurisdizione nazionale da ogni altro potere dello Stato in che misura è assimilabile a quella dei giudici incardinati nella Corte edu?

    4) Quali sono, a Suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro, con particolare riferimento alla gestione dei ricorsi diretti, ai tempi di definizione dei relativi procedimenti  e al ruolo del margine di apprezzamento? E quali quelle che si porranno al giudice nazionale rispetto al suo ruolo di giudice comune della Convenzione dopo l'entrata in vigore del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, ma non ancora reso esecutivo in Italia?

     

    2. La scelta del tema

    Roberto Giovanni Conti

    Un’occasione forse unica quella concessa a Giustizia Insieme di mettere insieme le riflessioni e opinioni di due personalità di spicco del mondo giudiziario italiano accomunate dall’avere trascorso un lasso di tempo significativo presso un’Istituzione giudiziaria – la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo –  diversa e “altra” rispetto a quella nazionale.

    Tanto si è detto e scritto sulla Corte edu e sulle questioni che ruotano attorno al suo ruolo nei sistemi nazionali. Poco si è riflettuto sui medesimi temi orientando la lente  su chi ha operato in quella Corte in qualità di giudice “nazionale”.

    Si è, allora, qui cercato di mettere in evidenza, nella domande proposte, aspetti sui quali l’attenzione è spesso risultata attenuata, orientando le risposte sul cosa significa essere giudice nazionale in un’istituzione giudiziaria sovranazionale, quale apporto viene offerto e richiesto dai giudici che compongono la Corte edu, quanto essi si distaccano dall’ordinamento di provenienza e quanto diverso sia il modo di “essere giudici” e di “fare giustizia” di quella Corte rispetto alle Corti nazionali. Senza ovviamente tralasciare i temi più caldi, rappresentati dal ruolo della Corte edu nell’affermazione e protezione dei diritti umani e delle sfide che si porranno nel prossimo futuro.

    Non poteva, peraltro, mancare una sollecitazione rivolta a riflettere sul presente e futuro dei rapporti fra le giurisdizioni nazionali e la Corte edu.

     

    3.Le risposte.  

    Qual è, alla luce dell’esperienza da Lei maturata all’interno della Corte edu, il futuro dei rapporti fra giudice nazionale e Corte di Strasburgo?  

    Guido Raimondi

    Direi che i rapporti tra il giudice nazionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo sono il futuro del sistema europeo di protezione dei diritti umani.

    Solo la comune consapevolezza, dalle due parti, di lavorare per un obiettivo comune, che è quello della piena tutela dei diritti previsti dalla Convenzione europea, in armonia con la protezione assicurata dalle Costituzioni nazionali, può garantire la vitalità futura della Corte europea dei diritti dell’uomo e lo sviluppo ulteriore della sua già ricchissima giurisprudenza, che spetta essenzialmente alle Corti nazionali di far vivere nel quotidiano.

    Naturalmente non penso che le Corti nazionali debbano essere confinate in un ruolo di semplici esecutori. Credo che il “dialogo” tra le Corti – pensando all’interazione tra il livello giurisdizionale nazionale e quello europeo – non debba essere a senso unico. È ben possibile che la Corte di Strasburgo sia chiamata a riconsiderare taluni approdi della sua giurisprudenza alla luce di posizioni differenziate assunte dai giudici nazionali.

    È celebre il caso della sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito del 2011, nel quale la Corte ha modificato l’orientamento espresso a livello di Camera sulle esigenze convenzionali legate alla escussione dei testimoni nel processo penale alla luce della sentenza nel caso Horncastle che era stata adottata nel frattempo dalla Corte suprema britannica.

    Credo che oramai si possa parlare di un clima di crescente fiducia tra i giudici europei e quelli nazionali.

    Se si pensa, sul versante nazionale, a ciò che è accaduto nel nostro Paese, certamente non un campione di entusiasmo, nei primi anni di applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in Italia, ci sono ragioni che spingono all’ottimismo.

    Dopo le chiusure, anche di natura psicologica, del passato, si è affacciata e poi affermata, dapprima timidamente, e al puro livello tecnico dell’attività interpretativa della giurisprudenza, poi finalmente al livello delle coscienze dei giuristi, l’idea di quello che si tende oggi a chiamare ordinamento integrato, l’idea cioè dell’esistenza di un nucleo di valori europei, che, senza negare la diversità e il pluralismo delle culture e dei popoli stanziati sul nostro continente, concorrono a formare il concetto d’identità europea, il quale si traduce in principi e regole giuridiche che i giudici nazionali ed europei insieme, di qui la necessità del dialogo tra di loro, concorrono a far vivere e a tradurre in pratica.

    Si parla oggi di tutela multilivello dei diritti fondamentali e, come dicevo, di ordinamento integrato, come se fossero novità, ma in effetti nessuna spettacolare integrazione di ordinamenti si è verificata negli ultimi tempi. Se integrazione vi è, e, in effetti, è così, questa si è prodotta sin dal momento dell’introduzione nell’ordinamento italiano delle pertinenti norme internazionali, e in particolare, per quanto riguarda il c.d. “diritto di Strasburgo”, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con la legge (4 agosto 1955, No. 848) che ne ha autorizzata la ratifica e ne ha ordinata l’esecuzione nell’ordinamento italiano. Ciò che è mutata, e di molto, negli ultimi decenni, è la sensibilità dell’interprete interno nei confronti di questi valori giuridici. È noto che questo mutamento si è prodotto attraverso un cammino faticoso e accidentato, ma oggi possiamo constatare che vi è una notevole sensibilità dei giudici italiani verso i valori convenzionali. Un percorso analogo si è compiuto negli altri Paesi parti della Convenzione, più rapido in taluni, più lento in altri, ma oggi vi è una generale accettazione, direi anzi condivisione, da parte dei giudici nazionali di tutta Europa di questi valori.

    Dal lato della Corte europea dei diritti dell’uomo sono visibili i segnali di attenzione e di richiesta di leale collaborazione rivolti ai giudici nazionali.

    In certi casi la giurisprudenza di Strasburgo assume un aspetto “promozionale”. Un esempio è la sentenza nel caso Ndidi c. Regno Unito, del settembre 2017, nella quale – si trattava di verificare la conformità all’art. 8 della Convenzione, che protegge la vita privata e familiare, dell’espulsione di uno straniero – la Corte ha affermato che quando essa sia chiamata a determinare, come era in quel caso, se la misura statale litigiosa abbia assicurato un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, non è necessario rifare ex novo la valutazione di proporzionalità già assunta dal giudice nazionale. Al contrario, quando le Corti nazionali abbiano esaminato i fatti con cura, applicando gli standard in materia di diritti umani in modo coerente con la Convenzione e la giurisprudenza europea, e proceduto ad un adeguato bilanciamento dell’interesse del ricorrente con l’interesse generale, la Corte non deve sostituire la propria valutazione a quella del giudice nazionale.

    Personalmente, durante il mio tempo alla presidenza della Corte, ho fatto della cooperazione tra il giudice europeo dei diritti umani e i giudici nazionali l’assoluta priorità del mio mandato. 

    Ponendo l’accento sulla responsabilità condivisa per la buona applicazione della Convenzione, s’intende condivisa tra il livello europeo e quello europeo, ho cercato di dare impulso alla conclusione di protocolli d’intesa con Corti superiori nazionali, supreme e costituzionali, e alla Rete delle Corti superiori europee.[1]

    La Rete è un progetto relativamente modesto dal punto di vista delle risorse che vi sono impiegate, perché consiste essenzialmente di una piattaforma per lo scambio di informazioni sulle giurisprudenze rispettive delle Corti partecipanti, ma ha un grande valore, anche simbolico ed emblematico della volontà dei giudici nazionali e di quello europeo di lavorare insieme.

    A partire dal 2016, quando la Rete è uscita dalla fase sperimentale, limitata alle giurisdizioni superiori del Paese ospite, la Francia, ed è entrata nella sua fase multilaterale, essa ha conosciuto un’espansione che ha superato tutte le attese. Costituita da 23 corti superiori di 17 Stati alla fine del 2016, essa ha percorso un cammino impressionante. In effetti, al giorno d’oggi essa conta 82 Corti di 38 Stati parti della Convenzione. Per l’Italia partecipano la Corte costituzionale, la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. Tutte queste giurisdizioni hanno concluso con la Corte europea dei protocolli d’intesa, come ha fatto anche il Consiglio superiore della magistratura.

    La Corte ha la responsabilità di far evolvere questo progetto in maniera utile, di ascoltare i partecipanti, di riflettere e di individuare delle vie appropriate per il suo sviluppo. Certamente in futuro si dovrà avanzare con prudenza per accompagnare lo sviluppo della Rete verso una piattaforma ancora più compiuta di scambi sulla giurisprudenza della Convenzione e su quelle nazionali. In ogni caso, in circa tre anni di esistenza, la Rete ha ampiamente dimostrato la sua utilità.

    Accanto allo sviluppo della Rete spero che si moltiplichino in futuro i contatti diretti, specie quando vi siano problemi specifici, che spesso possono risolversi quando ci si incontra personalmente, e che continui il fondamentale dialogo attraverso la giurisprudenza.

    Il ghiaccio è rotto, direi, e questo lascia bene sperare per il futuro.

     

    Vladimiro Zagrebelsky

    Vi sono due aspetti del rapporto tra i giudici nazionali e la giurisprudenza della Corte europea. Però il tema riguarda tutte la autorità nazionali e non solo quelle giudiziarie. Si tratta di esaminare la fase in cui il giudice (o il governo o il parlamento) deve assumere decisioni in linea o non in contrasto con gli obblighi che l’Italia ha assunto entrando nel sistema europeo di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare ratificando la Convenzione europea dei diritti umani. Si tratta poi di vedere come le autorità nazionali danno esecuzione a specifiche sentenze (e provvedimenti provvisori urgenti) della Corte europea nei confronti dell’Italia. Non mi soffermerò su quest’ultimo punto se non per segnalare che, diversamente da quanto avviene per altri paesi del Consiglio d’Europa, continua a mancare in Italia una legge generale che disciplini la materia. Di conseguenza gli organi giudiziari si trovano spesso nella necessità di inventare soluzioni volta per volta, utilizzando strumenti che nascono ad altri fini.

    Quanto al primo profilo invece la questione investe la natura della giurisprudenza della Corte europea, che esprime la interpretazione e la portata attuale dell’obbligo che gli Stati hanno assunto ratificando la Convenzione. Il contenuto dell’obbligo deriva dalla interpretazione (evolutiva) elaborata dalla Corte (art. 32 Conv.). In tal senso si è espressa più volte anche la Corte costituzionale, a partire dalle due sentenze del 2007, anche se successivamente in vari modi essa ha ridotto la portata della affermazione di principio che quelle due sentenze avevano enunciato. In particolare, con la sentenza n. 49/2015, la Corte ha limitato l’obbligo derivante dall’art. 117 Cost. riconoscendo solo la giurisprudenza “consolidata” della Corte europea. Ho criticato altrove quella sentenza (Corte cost. n. 49 del 2015, giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione, in «Osservatorio Aic», 2015) e non riprenderò qui i motivi per cui ritengo che essa sia incompatibile con il sistema della Convenzione. Rilevo soltanto che la giurisprudenza della Cassazione si è prontamente allineata. Un esempio recente riguarda la sentenza delle Sezioni Unite sulla estensione ad altri del principio affermato dalla Corte europea nella sentenza Contrada c. Italia (n. 3) del 14 aprile 2015. Osservo da un lato che l’esame delle sentenze della Corte costituzionale, che considerano la giurisprudenza della Corte europea -ai fini dell’art. 117 Cost. o della interpretazione da dare alle norme costituzionali-, mette in luce atteggiamenti non omogenei nella gestione del principio enunciato nella sentenza 49/2015. Sono infatti frequenti le sentenze che contengono approfondito studio della giurisprudenza della Corte europea, senza cercare di distinguere la giurisprudenza consolidata da quella che consolidata non sarebbe. In ogni caso la forte limitazione della rilevanza della giurisprudenza europea ai fini dell’art. 117 Cost. e prima ancora per l’interpretazione orientata alla Convenzione, espone l’Italia a violazione della Convenzione e sollecita la proposizione di ricorsi alla Corte europea. La Corte (in Parrillo c. Italia, 27 agosto 2015, § 100) si è già pronunciata negativamente rispetto a tale orientamento, restrittivo rispetto alla Convenzione “così come interpretata dalla Corte europea”.

    Ciò detto, va d’altro lato rilevato che le sentenze della Corte europea e la loro successione pongono talora gravi difficoltà al giudice che voglia dar loro il rilievo che, in linea di principio, meritano. Talora la ratio decidendi è tutt’altro che chiara, poiché la Corte tende ad accumulare argomenti senza che risulti evidente ciò che vale in generale e ciò che è proprio della specificità del caso, ciò che appartiene alla motivazione e ciò che è semplice obiter dictum, ciò che è decisivo e ciò che è enunciato solo ad adiuvandum (come forse al § 196 della già citata Parrillo c. Italia). La Corte europea dovrebbe maggiormente preoccuparsi di come le sue sentenze possano essere tenute in conto (“eseguite”) da parte delle autorità nazionali e dei giudici in particolare (non solo nello Stato parte nel giudizio). Inoltre le oscillazioni giurisprudenziali della Corte europea (recentemente le vicende relative al bis in idem, alla sovrappopolazione carceraria, alla confisca urbanistica), non sempre nel senso della progressiva estensione dei diritti e delle libertà fondamentali, creano un problema serio. La Corte costituzionale, che potrebbe essere indotta a dichiarare una incostituzionalità ex art. 117 Cost., per poi vedere la Corte europea ritornare sui suoi passi. Ciò che -indipendentemente dalla sua incompatibilità con il sistema convenzionale- spiega l’orientamento della Corte costituzionale che si pone alla ricerca di una giurisprudenza europea “consolidata”.

    L’opera del giudice nazionale che si impieghi a ricercare il senso della giurisprudenza europea pertinente rispetto al caso che è chiamato a decidere, è spesso difficile. In fondo è la stessa Corte europea che ne dà testimonianza quando le sue sentenze sono rese a maggioranza e le opinioni dissidenti offrono una ricostruzione dei precedenti della Corte difforme rispetto a quella adottata dalla maggioranza. Ciò dimostra che l’insieme dei precedenti spesso consente ricostruzioni diverse. La difficoltà non esime il giudice nazionale dall’impegnarsi nella ricerca della ratio, che regge le sentenze della Corte europea e nell’esporre ampiezza e profondità della ricerca effettuata per giustificare le conclusioni raggiunte in sede nazionale. La Corte europea ha più volte dato dimostrazione della considerazione che essa assegna all’orientamento manifestato in proposito dal giudice nazionale rispetto alla Convenzione (come in Pedersen e Baadsgaard c. Danimarca, 17 dicembre 2004, §§ 37, 71). Canone generale -e qualche volta contrastante con le leggi “generali e astratte”- è che la Convenzione tende a garantire “diritti concreti ed effettivi e non teorici e illusori”. A tale scopo dovrebbe essere tesa la applicazione delle leggi nazionali.

    Se vogliamo impegnarci sul piano del futuro rapporto tra il giudice italiano e la Corte europea con la sua giurisprudenza, forse possiamo dire che la crescente disponibilità dei giudici a dar peso alla giurisprudenza europea metterà sempre più in crisi la nozione di legalità che privilegia disposizioni legislative dettagliate e “astratte”, a favore di leggi aperte alla considerazione del caso concreto (in tal senso va la giurisprudenza della Corte costituzionale, critica rispetto alle norme ad applicazione “automatica”).

     

    La Sua precedente appartenenza alla giurisdizione nazionale quanto e in che modo ha inciso sul ruolo esercitato all’interno della Corte edu?  

    Guido Raimondi

    Le Corti costituzionali e supreme nazionali sono l’interlocutore naturale della Corte di Strasburgo.

    Normalmente, per effetto della regola del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, la Corte europea si trova a operare avendo a sua disposizione una decisione della Corte costituzionale o suprema del Paese convenuto. Nella maggior parte dei casi la questione sottoposta alla Corte è stata già esaminata dalla Corte più alta dello Stato interessato, ed è dunque con la soluzione che è stata data dalla Corte nazionale che quella europea si deve confrontare.

    Anche se i giudici della Corte di Strasburgo hanno diverse provenienze professionali (oltre all’alta giurisdizione, essenzialmente l’accademia e l’avvocatura) essi hanno evidentemente pari dignità.

    Ciò detto, per quanto osservavo prima, la Corte ha un interesse tutto particolare nella stima dell’impatto che le proprie sentenze avranno nel sistema giuridico del Paese interessato. Dunque, poter immaginare quale sarà la reazione ad una sentenza europea della Corte suprema o della Corte costituzionale di un Paese è cosa di grande valore agli occhi dei giudici europei, ciò che crea condizioni favorevoli ad un ascolto particolarmente attento dei colleghi che, per l’appunto, provengono da Corti supreme o costituzionali nazionali. 

    Posso testimoniare del rispetto che ho potuto constatare per il sistema giuridico italiano, soprattutto per il riconoscimento della reale indipendenza del sistema giudiziario del nostro Paese e della sua eccellenza tecnica. Naturalmente i problemi di efficienza del nostro sistema non solo sono ben conosciuti dalla Corte, ma hanno fornito ad essa molto lavoro, come sappiamo tutti, ma questo non esclude una grande stima per la qualità del nostro “prodotto giuridico”.

    Quindi la mia provenienza dalla Corte di cassazione mi ha collocato subito in una posizione di credibilità presso i miei colleghi. Devo aggiungere di aver potuto beneficiare della tradizione, nel senso che tutti i giudici italiani che mi hanno preceduto, Giorgio Balladore Pallieri, Carlo Russo, Benedetto Conforti e Vladimiro Zagrebelsky, erano circondati da grande stima e rispetto.

    Personalmente ho sempre sentito come continua, permanente e sempre viva l’appartenenza alla Corte di cassazione, per cui considero tra i momenti più alti del mio mandato di Presidente della CEDU i miei incontri con i vertici della Corte italiana, a Strasburgo e a Roma. Vorrei ricordare in particolare la visita a Strasburgo del compianto Primo Presidente Giorgio Santacroce che, accompagnato da Lei, siglò l’11 dicembre 2015 l’atto preliminare al Protocollo d’intesa tra le due Corti, e quella di una delegazione della Corte di cassazione condotta dal Primo Presidente Aggiunto, Renato Rordorf, in rappresentanza del Primo Presidente Giovanni Canzio, che firmò il Memorandum del 26 maggio 2016. Vorrei rendere omaggio all’impegno per la cooperazione con la Corte di Strasburgo dei due Primi Presidenti che ho nominato, e anche dell’attuale Primo Presidente, Giovanni Mammone, che non ha mai fatto mancare il suo appoggio a questo grande progetto.

    Vladimiro Zagrebelsky

    La risposta a questa domanda è difficile. In ogni caso posso esprimere una opinione solo legata alla mia esperienza nella Corte nella sua composizione nel periodo 2001-2010. La personalità di ogni singolo giudice della Corte e i rapporti che si instaurano tra i giudici sono determinanti. Ciò premesso direi che l’attitudine dei giudici della Corte che hanno in precedenza esercitato funzioni giudiziarie in sede nazionale si diversifica -in linea molto generale- da quella dei giudici provenienti dall’Università per una maggiore attenzione alle particolarità del caso da decidere, rispetto ai profili di carattere più generale. Ma si tratta di impressione di scarsa importanza, che però consente di segnalare il valore della discussione tra giudici di diversa caratterizzazione professionale (oltre che, e più ancora della diversa origine nazionale).

    La mia esperienza giudiziaria, precedente alla elezione alla Corte europea, è stata certo talora utile per la conoscenza che implicava di realtà legali e di prassi proprie del sistema italiano: conoscenza da segnalare ai colleghi nel corso della discussione in camera di consiglio. Ricordo un caso contro l’Italia riguardante un ricorso per indennizzo per ingiusta detenzione. La Sezione della Corte di cassazione aveva cassato senza rinvio una sentenza della Corte d’appello rilevando un difetto nella nomina del difensore del ricorrente e ciò aveva fatto ignorando l’interpretazione della legge già indicata dalle Sezioni Unite. I colleghi giudici a Strasburgo manifestavano stupore, non riuscendo a credere che un simile contrasto di interpretazione potesse manifestarsi nell’ambito dello stesso organo giudiziario. Potei spiegare che ciò derivava dalla interpretazione che i giudici italiani danno della loro indipendenza. Spiegai, senza convincere. Il ricorso fu dichiarato ricevibile e per fortuna intervenne poi un amichevole componimento. A proposito della persistenza in Italia di orientamenti giurisprudenziali contrastanti persino nell’ambito della Corte di cassazione, è strano che ricorsi ex art. 6 Conv. che si ripetono contro altri Paesi (es. Romania) non vengano introdotti contro l’ltalia. Forse non è diffusa la conoscenza della giurisprudenza della Corte europea sul punto.

    Straordinaria -e direi brutale per la sua immediatezza- è la rivoluzione culturale imposta a un giudice di civil law (penalista come nel mio caso, in più!), proiettato in un mondo di concetti giuridici e di metodi di decisione delle cause profondamente diverso da quello proprio del sistema giuridico da cui proviene. Si tratta di modificare l’atteggiamento professionale proprio di chi è un “prodotto” della cultura giuridica di un sistema di civil law, verso quello che molto assomiglia al metodo e alla cultura dei giudici di common law. Basti dire che l’interpretazione della Convenzione (e delle sue vaghe formule, cariche di elementi di valutazione) e la risposta ai quesiti posti dai singoli ricorsi passano per il richiamo ai precedenti tratti dalla giurisprudenza della Corte europea: precedenti che sono in linea di fatto vincolanti (salvo mutamento, come esito della eccezionale procedura della Grande Camera) e rispetto ai quali i giudici operano con il metodo del distinguishing, cercando gli elementi del caso che consentano (o invece impediscano) di giungere ad una conclusione diversa da quella indicata dai precedenti relativi a ricorsi analoghi. Il metodo del precedente, nel quadro di una giurisprudenza casistica, è forse la maggior ragione della forte torsione professionale cui è sottoposto un giudice italiano quando inizia il suo lavoro alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

    L’essere il «giudice nazionale» italiano non mi pare però che abbia inciso in modo significativo, nel senso di differenziare il mio lavoro da quello degli altri colleghi. Pur con i vincoli derivanti dal valore del precedente nella giurisprudenza della Corte, i margini che rimangono aperti alla valutazione individuale del giudice nella decisione della causa sono ampi. Basti pensare al criterio della «proporzione» dell’interferenza statale nel caso concreto. La proporzione, molto più che la legalità astratta, è il fondamentale carattere della ricerca della Corte ai fini della decisione del caso, insieme al peso dato a ciascun diritto o libertà, quando più di uno entri in concorrenza nel caso concreto. Negli spazi aperti alla valutazione di proporzione e bilanciamento emerge l’inclinazione personale del singolo giudice (come quando si tratti della libertà di espressione in contrasto con la protezione della riservatezza della vita privata). Indipendentemente dalla origine nazionale di ciascuno ed anche dall’orientamento politico dei governi che li hanno inseriti nella lista dei candidati, ho notato manifestarsi delle stabili sintonie tra giudici diversi nelle diverse materie. Esse riflettono le comunanze o le diversità degli orientamenti culturali rilevanti nella decisione di un caso o dell’altro. L’Europa esiste sul terreno dei diritti umani. Essa non è monolitica, ma per fortuna pluralista. Le differenze di orientamento esistono e sono anche profonde, ma di manifestano in modi simili in ciascuno dei paesi europei. In linea di principio e spesso nella realtà, ciascun giudice europeo si orienta senza considerare le frontiere che dividono l’Europa.

    L’orientamento di ciascuno produce “appartenenze” di natura culturale, che non hanno carattere nazionale.

    Quanto ho ora esposto invita a qualche considerazione sul ruolo del «giudice nazionale» nella discussione e decisione dei casi concernenti lo Stato da cui egli origina. Furono i governi, nel corso dei lavori preparatori della Convenzione, a imporre la composizione della Corte con un giudice per ciascuno Stato parte della Convenzione. La commissione che redasse il progetto aveva indicato invece la soluzione di un numero fisso di giudici (nove), indipendente da quello degli Stati parte. Era evidentemente un modo per sottolineare la differenza che esiste tra un organo giudiziario indipendente, composto da giudici indipendenti, e gli organismi politico-amministrativi internazionali in cui ogni Stato ha un suo rappresentante, voce del governo. I giudici sono indipendenti e partecipano ai lavori della Corte a titolo individuale; non sono rappresentanti del Paese a titolo del quale sono stati eletti. Discende dalla logica che prevalse al momento della redazione della Convenzione, che il giudice “eletto a titolo” dello Stato che è parte nel giudizio, sia obbligatoriamente membro del collegio giudicante. Si ritiene che nella discussione e deliberazione collegiale possa utilmente entrare la voce di chi meglio degli altri conosce il sistema nazionale. Libero naturalmente il giudice di esprimersi e votare come ritiene giusto. Tuttavia, la previsione e l’appellativo stesso di “giudice nazionale” assegnato al giudice nella funzione ora detta, pone qualche problema. Escluso che il giudice sia rappresentante, è egli almeno in qualche misura «rappresentativo» del paese di provenienza? Ma in quale modo o misura può esserlo? L’orientamento culturale prevalente nell’ambito di un paese è nozione di difficile o nulla consistenza. I diritti e le libertà riconosciuti e protetti dalla Convenzione europea sono numerosi e diversi. È possibile essere inclini a spingere molto avanti la protezione e valorizzazione dell’uno ed essere invece piuttosto prudenti nei confronti di un altro. In società pluralistiche come sono quella italiana e generalmente quelle europee, ciascuno di noi si ritrova su posizioni (e in compagnie!) diverse, tema per tema, questione per questione. Nel mosaico di culture che vivono (anche in modo conflittuale) nel Paese, il giudice “eletto a titolo dell’Italia” si trova ad essere espressione, volta per volta, di una delle diverse Italie, che coesistono e si confrontano in tutta legittimità storica e culturale. Di ciò trovo conferma nel fatto che talora la stessa causa vede, in fasi diverse, intervenire una persona diversa nella funzione di “giudice nazionale” (ad esempio per l’intervenuta scadenza del mandato del precedente giudice). È accaduto che il nuovo “giudice nazionale” si sia orientato diversamente da quanto ha fatto il primo. Non è dunque la “nazionalità” che conta, ma la personale inclinazione culturale.

    Talora la posizione di «giudice nazionale» -che nella Convezione ha una portata solo procedurale- induce e sollecita la pretesa negli ambienti politici e di opinione pubblica nazionale che il giudice difenda quelli che sono creduti gli interessi o gli orientamenti culturali del paese. Con la conseguenza che in caso diverso emerge l’accusa di slealtà, tradimento, ecc., specialmente in tempi di intolleranza crescente. E la pretesa di assicurarsi un giudice su cui fare affidamento nella difesa dell’interesse del governo convenuto in giudizio davanti alla Corte, può comparire poi al momento della designazione da parte del governo della terna di candidati da proporre al Consiglio d’Europa.

     

    L’autonomia e indipendenza della giurisdizione nazionale da ogni altro potere dello Stato in che misura è assimilabile a quella dei giudici incardinati nella Corte edu?  

    Guido Raimondi

    Il tema dell’indipendenza della giurisdizione è evidentemente cruciale, assieme a quello dell’eccellenza tecnica dei giudici e della loro integrità morale, per la credibilità della giurisdizione, a livello interno come a livello internazionale.

    All’indipendenza dei giudici, ovviamente di quelli nazionali, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dedicato una grande attenzione, giudicando che la sua importanza va oltre lo stretto ambito della giurisdizione, essendo l’indipendenza della giustizia condizione indispensabile per la realizzazione ed il mantenimento della democrazia e della preminenza del diritto, quindi delle premesse imprescindibili perché un sistema di protezione dei diritti fondamentali possa esistere.

    In particolare, la giurisprudenza ha tratteggiato l’importanza fondamentale dell’articolo 6 della Convenzione, che prevede le garanzie del giusto processo, tra le quali l’indipendenza delle corti, spesso associata all’imparzialità. Il ruolo eminente di questa disposizione, nell’ambito del fondamentale principio della preminenza del diritto (Rule of Law) è sottolineato con grande forza.

    E a sua volta la preminenza del diritto è condizione indispensabile della democrazia per come questa è intesa nella Convenzione. In alcune sue celebri pronunce, come Delcourt c. Belgio del 17.1.1970 (§ 25), De Cubber c. Belgio del 26.10.1984 (§ 30), Moreira de Azevedo c. Portogallo del 23.10.1990 (§ 66), la Corte ha detto con chiarezza che, in una società che possa dirsi democratica ai sensi della Convenzione, il diritto a un’equa amministrazione della giustizia occupa un posto di tale rilievo che un’interpretazione restrittiva dell’articolo 6 non corrisponderebbe allo spirito e alla ratio di questa disposizione. Nell’altrettanto celebre caso Sunday Times c. Regno Unito, sentenza del 26.4.1979, la Corte ha detto che il diritto a un’equa amministrazione della giustizia “consacra la preminenza del diritto in una società democratica”.

    Il tema è dunque particolarmente sentito alla Corte.

    Detto questo, i parametri che la giurisprudenza della Corte ha elaborato per valutare l’indipendenza dei giudici nazionali ruotano intorno a quattro elementi, cioè le procedure di nomina di giudici, la durata del loro mandato, le garanzie e le protezioni contro possibili pressioni esterne e l’apparenza.

    Volendo applicare tali parametri agli stessi giudici che ne sono gli autori, direi che il risultato è grosso modo soddisfacente. Dico grosso modo perché il risultato finale dipende dal grado di correttezza e buona fede con il quale gli Stati applicano la Convenzione. Ciò sia al momento della selezione e dell’elezione dei giudici della Corte, sia durante il loro mandato sia alla conclusione di questo, specialmente nel caso di giudici che, al momento di lasciare la Corte, sono lontani dall’età della pensione.

    Ma procediamo con ordine.

    Per quanto riguarda la nomina iniziale, va detto che le scarne norme previste dalla Convenzione, che si limitano a dire che ogni Stato parte presenta una terna di candidati (che debbono certo possedere i requisiti professionali e morali richiesti dalla Convenzione), tra i quali l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa elegge il giudice, oggi sono accompagnate da una ricca prassi, che limita la discrezionalità degli Stati proprio in vista di assicurare al massimo l’indipendenza dei membri della Corte.

    L’Assemblea Parlamentare, che ha rivendicato a sé il potere di respingere una lista di candidati presentata da uno Stato e quindi, di fatto, ritardare o addirittura impedire l’elezione di un giudice, ha imposto agli Stati di pervenire alla scelta delle tre personalità attraverso una procedura trasparente, con un concorso pubblico che permetta l’audizione dei candidati (almeno di quelli più meritevoli) da parte di una commissione indipendente. L’Assemblea richiede anche che ad essa sia offerta una vera scelta, cioè che tutti e tre i candidati proposti posseggano i requisiti richiesti per l’elezione. Si richiede anche che la lista comprenda almeno un esponente del sesso meno rappresentato alla Corte (attualmente quello femminile). I candidati vengono poi esaminati da una speciale Commissione dell’Assemblea, formata da parlamentari con formazione giuridica, che formula, in vista del voto finale da parte del Plenum dell’Assemblea, le proprie preferenze.

    A ciò si aggiunge un vaglio delle candidature, successivamente alla elaborazione della lista dei candidati da parte dello Stato interessato e prima della sua presentazione all’Assemblea, da parte di un Panel indipendente di eminenti giuristi. Le raccomandazioni del Panel non sono vincolanti, ma hanno evidentemente un peso, anche perché il Presidente di questo gruppo si riunisce con la Commissione competente dell’Assemblea prima che questa proceda all’audizione dei candidati.

    Relativamente alla durata del mandato, il regime attuale è quello di un mandato novennale non rinnovabile. In precedenza (fino all’entrata in vigore del Protocollo n. 14 ala Convenzione nel 2010) il mandato era di sei anni rinnovabili. La scelta del Protocollo di rendere il mandato non rinnovabile fu dettata proprio dalla preoccupazione di proteggere l’indipendenza dei giudici, per evitare che, approssimandosi la fine del loro mandato, essi cercassero il favore dei loro governi, dai quali, in definitiva, dipendeva il loro eventuale rinnovo.

    Certamente la soluzione data dal Protocollo non ha risolto tutti i problemi. In diversi documenti sia l’Assemblea Parlamentare sia il Comitato dei Ministri hanno sottolineato l’importanza di ciò che accade ai giudici dopo la fine del loro mandato.

    Il rischio per l’indipendenza dei giudici portato da comportamenti degli Stati che li penalizzino al momento del loro rientro in patria dopo nove anni alla Corte è evidente, ma qui, come dicevo, è questione del livello di correttezza e buona fede con il quale gli Stati applicano la Convenzione e, bisogna dire, del livello di maturità dei loro sistemi democratici. Purtroppo, non si può dire che i comportamenti degli Stati a questo proposito siano stati cristallini in tutte le circostanze.

    Si può dire però, anche per rassicurare gli utenti della giustizia europea, che la Corte possiede potenti anticorpi per far fronte a possibili deficit d’indipendenza. Un giudice che prendesse posizioni identificabili come protettrici dell’interesse politico del proprio Paese, o anche di un altro Paese, finirebbe ben presto per perdere ogni credibilità, e quindi ogni influenza all’interno della Corte.

    Certamente la Corte è molto attenta al tema della protezione dei propri giudici da pressioni esterne, e non manca di sollecitare gli organi politici del Consiglio d’Europa, il Comitato dei Ministri e l’Assemblea Parlamentare, perché si facciano carico di misure adeguate.

    Quanto all’apparenza, la Corte è estremamente severa a questo riguardo. Le regole interne sull’astensione e la ricusazione si basano sulla decisione da parte della formazione di giudizio, escluso il giudice interessato, in caso di disaccordo tra lo stesso giudice e il presidente della formazione di giudizio. La prassi è orientata nel senso che, in caso di dubbio, si debba privilegiare l’esclusione del giudice interessato dalla procedura, anche se si tratti, appunto, di una mera questione di apparenza.

    In definitiva, quindi, le norme e la prassi assicurano un livello di indipendenza soddisfacente. Vero è però che comportamenti impropri degli Stati, come la penalizzazione dei giudici alla fine del loro mandato, possono creare qualche preoccupazione, sapendo però che la Corte è in grado di reagire efficacemente nel caso dovesse palesarsi un deficit di indipendenza per questo o quel giudice.

    Vladimiro Zagrebelsky

    Direi innanzitutto che l’autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) e la soggezione soltanto alla legge dei giudici (art. 101 Cost.) sono cose diverse. La legge cui i giudici sono soggetti è ora altra cosa rispetto alla nozione che se ne aveva, non solo da parte dei filosofi illuministi, ma anche per tutto il periodo successivo fino ai lavori della Assemblea costituente compresi, che produssero la formula dell’art. 101. Tuttavia resta importante il senso di quella formula per l’indicazione derivante dall’uso del termine “soggezione”. Certo la legge è ora qualcosa di complesso, perché il testo di una legge ordinaria vive in un ambito di altre norme anche gerarchicamente superiori. L’esito della interpretazione conforme è spesso lontano da quello “fatto palese dal senso delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore”. Tuttavia non è dubbio che i vincoli cui il giudice italiano è soggetto sono più stretti di quelli che riguardano il giudice della Corte europea, che applica (e innova) il contenuto delle norme della Convenzione, redatte in stile costituzionale e soprattutto integrate e sviluppate dalla ormai imponente giurisprudenza della Corte. Ciò dico per segnalare che il vincolo al testo letterale della Convenzione è per il giudice europeo tenue. I criteri interpretativi della Convenzione, indicati dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, lasciano molta autonomia al giudice. Per il modo di lavorare della Corte, vincoli derivano invece dalla regola -normalmente osservata- di rispetto dei precedenti pertinenti.

    Ciò detto, rimane anche per il giudice europeo il principio secondo il quale l’indipendenza -dato connaturato all’idea stessa di giudice- implica che il giudice deve operare “senza timori e senza speranze”. In funzione di questo carattere del suo status, la posizione del giudice europeo è assimilabile a quella del giudice nazionale. In proposito rilevano sia le procedure che portano alla sua elezione da parte della Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sia le prospettive che il singolo giudice ha (o opera per avere!) al suo rientro al termine del suo mandato novennale (non più rinnovabile, dopo l’entrata in vigore del Protocollo n.14).

    Sul primo punto ho l’impressione che il controllo operato dal sistema del Consiglio d’Europa sull’idoneità dei candidati inseriti nella terna comunicata dai governi sia piuttosto efficiente. Ma si tratta di controllo sulla qualificazione dei candidati, che non investe anche il diverso profilo che riguarda la possibile esclusione di candidati maggiormente qualificati, ma, per una ragione o l’altra, non graditi al governo proponente. Quest’ultimo punto dovrebbe essere curato e garantito dai comitati (“autorevoli e indipendenti”) che devono assistere i governi nella formazione della terna. Ma in realtà nulla indica che ciò avvenga e che in quella sede non si operi una “selezione negativa”, per ragioni diverse dalla qualificazione e idoneità della persona esclusa. Quei comitati finiscono comunque per sollevare il governo dalla responsabilità della scelta comunicata al Consiglio d’Europa.

    Sul secondo punto, quello delle speranze e dei timori nei confronti delle autorità del proprio Paese, nel quale si rientra al termine del mandato, è difficilissimo farsi una idea della posizione reale dei singoli giudici in rapporto alle autorità degli Stati di provenienza o ad enti internazionali vari. Si può pensare che la giovane età dei giudici eletti -molto frequente ora- può creare situazioni imbarazzanti. Essi infatti legittimamente possono ancora aspirare a posti, cariche, ecc. e dunque “avere speranze”.  

     

    Quali sono, a Suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro, con particolare riferimento alla gestione dei ricorsi diretti, ai tempi di definizione dei relativi procedimenti  e al ruolo del margine di apprezzamento? E quali quelle che si porranno al giudice nazionale rispetto al suo ruolo di giudice comune della Convenzione dopo l'entrata in vigore del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, ma non ancora reso esecutivo in Italia?

     

    Guido Raimondi

    Non vorrei entrare nell’arena politica, ma è un fatto che l’evoluzione degli eventi in Europa ha condotto negli ultimi anni a una situazione nella quale si può constatare una pressione sul principio democratico della preminenza del diritto, mentre sono sempre meno rare manifestazioni di insofferenza verso organi di garanzia, sia interni sia internazionali come la Corte europea dei diritti dell’uomo.

    La mia generazione ha a lungo pensato che una volta instaurata la democrazia non sarebbe stato possibile tornare indietro. Noi avevamo la certezza che democrazia era lì per l’eternità. Era un’illusione? Spero veramente di no, ma oggi siamo confrontati a un fenomeno di disincanto sociale potenzialmente capace di rendere fragile la democrazia.

    Per le giovani generazioni, l’adesione immediata all’idea dei diritti umani non è più cosa evidente. Le ragioni sono molteplici e varie: la stagnazione del livello di vita; i timori suscitati dai fenomeni migratori, con la connessa tentazione di ripiegarsi su sé stessi rifiutando il confronto con l’altro; lo sviluppo anarchico dei cosiddetti “social” e la disseminazione massiccia di “fake news”. La disaffezione dei cittadini nei confronti del modello democratico è tale che la diffusione dei discorsi estremisti e, qualche volta, l’arrivo al potere di leader capaci di attaccare le stesse fondamenta della democrazia pluralistica sono divenuti più facili. Ma i diritti umani non possono vivere e prosperare, come il Preambolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo dice chiaramente, senza una democrazia effettiva.

    Un segnale preoccupante, sul quale mi sono soffermato in occasione del mio discorso inaugurale dell’anno giudiziario della Corte, nel gennaio di quest’anno, è quello del moltiplicarsi delle violazioni dell’art. 18 della Convenzione.  Questo articolo dispone che le restrizioni che possono essere apportate ai diritti e libertà garantiti dalla Convenzione devono obbedire allo scopo per il quale esse sono permesse, e non ad altri fini. Questa disposizione, essenziale in una democrazia pluralista, risulta essere stata violata, da quando esiste la Convenzione, dodici volte. Ebbene, cinque di queste occasioni si sono verificate nel solo anno 2018. Il sintomo è inquietante e rivelatore. Senza accusare questo o quel Paese, si può constatare che lo scopo perseguito è spesso quello di ridurre al silenzio un oppositore politico o di soffocare il pluralismo politico, che è una componente essenziale di quel “regime politico sinceramente democratico” di cui parla, come dicevo, il Preambolo della Convenzione.

    Si può dunque prevedere che la navigazione non sarà tranquilla negli anni a venire. La Corte dovrà contare sulla sua integrità, sulla qualità delle sue decisioni e sul sostegno dei giudici nazionali, evitando ogni sconfinamento nel campo della politica. 

    Certamente permarranno nei prossimi anni i problemi di arretrato con i quali la Corte è confrontata ormai da molto tempo. Gli investimenti effettuati nel campo delle nuove tecnologie stanno dando i loro frutti, ed è possibile che miglioramenti ulteriori siano visibili nel prossimo futuro, anche grazie all’intelligenza artificiale. Tuttavia, l’unica via seria per restituire efficienza alla Corte è il miglioramento dei sistemi nazionali di tutela. Quindi, una volta di più, sono i giudici interni i veri protagonisti del sistema.

    Porrei quindi ancora una volta l’accento sui giudici nazionali, la cui azione sarà fondamentale per il futuro del sistema europeo di tutela dei diritti umani. Il mio auspicio è dunque quello che l’opera di intensificazione del dialogo tra i giudici di Strasburgo, con la Rete ed altri mezzi, compreso Il Protocollo n. 16 alla Convenzione, continui e si sviluppi sempre di più, in vista del definitivo consolidamento di quella fiducia tra i due livelli che è condizione del permanere del successo di un progetto, quello pensato da grandi europei visionari con la Convenzione firmata a Roma il 4 novembre 1950, che ha garantito un baluardo a difesa della democrazia e della preminenza del diritto, migliorando quotidianamente la vita di tutti noi.

    Il Protocollo n. 16, che consente alle Corti supreme e costituzionali nazionali di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’ambito di una concreta procedura giurisdizionale, per ottenerne un parere non vincolante sull’interpretazione della Convenzione, è ormai entrato in vigore, ed è stato attivato già da due Corti superiori europee, la Corte di cassazione francese e la Corte costituzionale armena.

    La prima risposta della Corte di Strasburgo, fornita alla Corte di cassazione francese in un delicato caso di maternità surrogata, è stata favorevolmente recepita, ed ha costituto una manifestazione di efficienza, perché la Corte è riuscita a finalizzare il suo parere in pochi mesi. Molto del successo futuro del nuovo meccanismo dipenderà dalla capacità della Corte di mantenere questo livello di efficienza.

    Sappiamo che l’Italia non ha ratificato per il momento questo strumento, né la ratifica sembra imminente. Credo che, sull’esempio di quanto è stato fatto negli altri Paesi europei, sarebbe opportuno consultare le Corti interessate, che da noi sono le stesse che hanno firmato Protocolli d’intesa con la Corte di Strasburgo.

    In linea generale vorrei dire che il Protocollo è da accogliere con favore, in quanto potente strumento di cooperazione tra i giudici supremi e costituzionali nazionali, anche per il suo valore simbolico.

    Detto questo, credo che il giudice nazionale dovrebbe essere prudente nell’utilizzare questo strumento, sia per la sua incidenza sui tempi della procedura interna sia per il suo impatto sulla capacità di lavoro della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma al tempo stesso non dovrebbe esitare a farne uso in presenza di una questione non ancora risolta dalla giurisprudenza di Strasburgo.

    L’attenzione del giudice interno, non solo evidentemente quella delle Corti superiori, dovrebbe restare concentrata sulla buona applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, nell’ambito fissato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nella costante ricerca di soluzioni armoniche che tengano conto dei valori convenzionali e dei valori costituzionali, tra i quali, a mio sommesso giudizio, non potrà mai esservi vera contraddizione. Nemmeno può esservi contraddizione tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui art. 52 § 3 garantisce l’applicazione della Convenzione nel sistema dell’Unione europea come “contenuto minimo” dei diritti corrispondenti della stessa Carta.

     

    Vladimiro Zagrebelsky

    a)Io credo che il problema drammatico che deve affrontare la Corte, centrale nel sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali, sia quello del sovraccarico di ricorsi, che non riesce a definire in tempi utili rispetto sia all’interesse del ricorrente, sia allo scopo generale, relativo a tutti i sistemi nazionali, che hanno le sentenze (delle Camere, per non parlare della Grande Camera). Perché la difesa del diritto individuale sia efficace e non si riduca al riconoscimento, quando verrà la sentenza, di un indennizzo monetario, occorre che la decisione della Corte sia tempestiva. Essa già giunge dopo la lunga trafila dell’esaurimento delle vie interne. Ma a quel periodo di tempo si aggiunge quello incredibilmente lungo dell’attesa della sentenza della Corte. Il tempo di attesa non è solo lunghissimo (specie se si pensa che in gioco sono diritti fondamentali). Esso è anche imprevedibile e casuale. Negli ultimi quindici giorni, tra ottobre e novembre 2019, la Corte ha comunicato sentenze di Camera, contro la Slovacchia (ricorso del 2014), Belgio (ricorso del 2011), Russia (ricorso del 2009), Bulgaria (ricorso del 2009), Georgia (ricorso del 2010), Azerbajgian (ricorso del 2016), Ungheria (ricorso del 2015), Svizzera (2 ricorsi del 2016 e 2017), Grecia (ricorso del 2018), Croazia (ricorso del 2016), Moldova (ricorso del 2017), Turchia (ricorso del 2010). Come si vede, tempi non solo lunghi, ma anche molto diversi per ciascuna sentenza, senza che natura e importanza del caso offra una spiegazione. La spiegazione è piuttosto da ricercare nell’organizzazione della Corte, con le sue Divisioni di cancelleria separate per paese e lingua, con il diverso carico di lavoro e disponibilità di personale, ecc. Non si tratta quindi di poca produttività, ma di problemi strutturali della Corte, anche legati alla quarantina di diverse lingue in cui giungono i ricorsi e soprattutto alle decine di migliaia di ricorsi presentati annualmente. Nel corso del mio mandato, con difficoltà e resistenze da parte degli uffici amministrativi e dei giudici, è stato finalmente ammesso il sistema delle priorità nella trattazione dei casi. Ma se la Corte chiudesse ora l’accesso di nuovi ricorsi e decidesse di trattare solo i casi prioritari, sarebbe impegnata per anni! Vi è dunque una crisi della Corte, grave e non reversibile con gli espedienti di cancelleria recentemente introdotti. La crisi riguarda la capacità della Corte di incidere realmente, in particolare assicurando quello che si continua a dire essere pilastro del sistema: il ricorso individuale e il diritto dell’individuo di ottenere tutela. La Corte si dice «vittima del suo successo»; tendendo a segnalare però solo gli –indiscutibili- profili di successo.

    Eliminato ogni filtro ai ricorsi in entrata si è garantito accesso al giudice europeo ad ogni persona che ritenga di essere vittima di una violazione. Si tratta di sistema di grande valore e che deve essere preservato. Ma il suo valore positivo non è legato necessariamente al fatto che il ricorrente abbia diritto anche a una decisione della Corte. Oggi quel diritto non è garantito poiché i tempi lunghissimi rendono spesso inutile la sentenza che infine arriva. Ma non vi è la trasparenza di dire che non a tutte le richieste può esser data risposta.

    Vi è un numero altissimo di ricorsi ripetitivi che non dovrebbero venire alla Corte, che già si è pronunciata. Gli Stati dovrebbero prendere atto delle sentenze e rimuovere a livello interno le ragioni delle violazioni che continuano a verificarsi. Nei confronti degli Stati che in tal modo non danno esecuzione alle sentenze della Corte dovrebbe agire il Comitato dei Ministri, nel quadro del suo ruolo secondo lo Statuto del Consiglio d’Europa. Ma il Comitato non ha né l’autorevolezza, né i mezzi utili a tal fine.

    La Corte, per parte sua ha introdotto da tempo la “procedura pilota”, con le diverse varianti che conosciamo. Erroneamente si usa il termine “sentenza pilota”: pilota è la procedura che implica la sospensione della trattazione dei ricorsi simili. La sentenza non ha valenza diversa da quelle comuni.  La procedura pilota mi pare che abbia poca efficacia, a parte forse i casi in cui allo Stato si richieda di introdurre meccanismi di riparazione interna alle violazioni ripetitive. Comunque si tratta di strumento che espone la Corte al limite delle competenze del Comitato dei Ministri e non risolve il problema.

    b) Quanto al largo uso che la Corte fa del riconoscimento del margine di apprezzamento statale, rivendicato dai governi (e enfatizzato dal Protocollo n. 15), osservo che esso rimette il riconoscimento e la protezione dei diritti fondamentali al buon volere dei governi e delle maggioranze politiche che li sostengono nei parlamenti nazionali. La Corte sembra supporre una unità sostanziale delle società e della loro espressione politica. Sappiamo invece che così non è, particolarmente nelle questioni delicate in cui la Corte è indotta a riconoscere il margine di apprezzamento nazionale (che sarebbe meglio chiamare “governativo”). Il risultato è che alla fine si riconosce l’autonomia della maggioranza, mentre la natura dei diritti fondamentali e il ruolo della Corte dovrebbero assicurare la protezione delle minoranze, i cui membri sono quelli da proteggere in sede europea.

    È poi mia impressione che vi sia una certa contraddizione nella posizione della Corte, particolarmente evidente là dove essa afferma che il margine di apprezzamento nazionale deve essere più limitato qualora in gioco vi sia l’identità dell’individuo (il ricorrente), ad esempio in ordine alla libertà religiosa, e tuttavia afferma che il margine di apprezzamento sarà invece più ampio ogniqualvolta si tratti di casi aventi a che fare con la dimensione morale o etica. Ma allora il margine sarò ampio o stretto?

    La questione del ruolo della maggioranza apre anche un diverso ordine di problemi, che si lega a quello del significato e dell’accertamento del c.d. consenso europeo e la rivendicazione di sempre più ampio margine di apprezzamento nazionale da parte dei governi, con la disponibilità della Corte a riconoscerlo. Si tratta di rivendicazione che non riflette soltanto la attuale crescita del nazionalismo e la crisi europea, ma che è anche frutto di un fenomeno legato alla giurisprudenza della Corte. L’orientamento evolutivo della giurisprudenza della Corte la conduce, non solo ad aggiornare il contenuto della protezione, ma anche ad ampliarlo. Esso ha avuto, come contrappeso (e come via di composizione di contrastanti orientamenti esistenti tra i giudici della Corte), un ampiamento della portata del margine di apprezzamento nazionale, che lascia campo libero a notevoli differenze di tutela dei diritti convenzionali. La domanda che occorre ora porsi è se, nell’interesse della costruzione di un’area tendenzialmente omogenea nel livello di tutela dei diritti, il ruolo della Corte debba essere riportato all’affermazione rigida del livello minimo comune di tutela, invece che a quello diverso e forse opposto di stimolo a più elevati livelli di tutela, accompagnato però dall’ammissione di ampia differenza pratica nei diversi sistemi nazionali. L’origine storica della Convenzione con il suo Preambolo, l’ancora irrealizzato progetto di unificazione europea e le attuali contingenze politiche mi paiono spingere nella prima direzione.

    c) Sarò breve per quel che riguarda il nuovo strumento del parere della Corte introdotto dal Protocollo n. 16. Si tratta di parere non obbligatorio, né vincolante. Esso potrà essere reso accompagnato da opinioni dissidenti dei giudici rimasti in minoranza. Spero di sbagliare, naturalmente, ma non credo che esso contribuirà significativamente a prevenire violazioni della Convenzione in sede nazionale. Soprattutto se si considera che i pareri della Corte si fonderanno certo sulla propria giurisprudenza, che è già conoscibile e vincolante. Così mi pare sia avvenuto con il primo parere dato alla Corte di Cassazione francese. L’Arrêt n. 648, 4 ottobre 2019, successivo al parere della Corte europea, avrebbe ben potuto essere dello stesso tenore con la semplice considerazione della pertinente giurisprudenza della Corte (tra l’altro relativa allo stesso caso su cui ha finito per pronunciarsi la Corte di Cassazione). E rimarrà un rapporto non chiaro tra la giurisprudenza derivante dalle sentenze della Corte e i pareri che essa potrà esprimere, oltre che, come nel caso della Cassazione francese, tra i pareri successivamente espressi, le sentenze della Corte e la loro esecuzione.

    Naturalmente l’efficacia del nuovo strumento si dimostrerà o negherà con il tempo, cosicché la mia attuale impressione potrà dimostrarsi infondata.

       

    4. La conclusioni 

    Roberto Giovanni Conti 

    Le risposte fornite da Raimondi e Zagrebelsky suscitano un coacervo di sensazioni, più che prestarsi a delle vere e proprie conclusioni, dovendo l’esperienza da entrambi maturata nella Corte europea dei diritti dell’uomo essere contestualizzata per essere adeguatamente compresa.

    Il mandato più risalente nel tempo (2001-2010) di Zagrebelsky, maturato durante il novennio in cui i giudici nazionali (soprattutto quelli italiani) hanno “scoperto” che la CEDU facesse parte del sistema di protezione dei diritti fondamentali ed avesse una sua dignità autonoma rispetto alla Costituzione, al punto di garantire livelli di protezione alla stessa superiori. Scoperta originata traumaticamente tanto dal contenzioso in materia di irragionevole durata del processo  – padre naturale della c.d. Legge Pinto e del coacervo di questioni successivamente poste –  che da quello in materia di espropriazione. Da qui i primi tentativi volti  a riconoscere – da parte del giudice comune –  un’efficacia particolarmente penetrante della CEDU nel sistema interno – fino a riconoscere la diretta disapplicazione del diritto interno con essa contrastante –. Ciò accade fino alle ben note sentenze gemelle della Corte costituzionale nn.348 e 349 del 2007 che, per la prima volta, hanno messo ordine sul ruolo della CEDU e del suo giudice, cominciando a delineare un sistema nel quale la partita sulla CEDU si è cominciata a giocare a tre giudice comune, Corte costituzionale, Corte edu –.

    L’esperienza, assai più recente (2010-2019) e ancora viva nella riflessione di Raimondi, ha per converso avuto il suo svolgimento in un periodo durante il quale i giudici nazionali hanno iniziato a misurarsi concretamente con la giurisprudenza di quella Corte cominciando a maneggiarla ed ad interpretare il diritto interno in modo convenzionalmente orientato. In altri casi quegli stessi giudici hanno disubbidito alla CEDU, a volte inconsapevolmente, altre convintamente.

    Un’epoca, quest’ultima, ancora in progress, in cui non sono mancate – e non mancano – le interlocuzioni del giudice comune con la Corte costituzionale per verificare la solidità del parametro convenzionale e la sua idoneità a costituire la base per fondare il giudizio di incostituzionalità  di una norma interna con esso contrastante, ma sempre con la mediazione del parametro costituzionale (art.117 1^ c. Cost.) proprio in relazione alla summa dei principi fissati dalle ricordate sentenze gemelle e dalle successive pronunzie della Corte costituzionale, fra le quali spicca la n.49/2015, croce e delizia quando si discute del concetto di consolidamento della giurisprudenza della Corte edu.

    Se è questo il “contesto” delle due esperienze, è forse più agevole comprendere la diversità di rime fra alcune delle risposte. Quella più risalente di Zagrebelsky inevitabilmente meno condizionata dai più recenti indirizzi su importanti questioni, ordinamentali e di merito, espressi dalla Corte e per questo a tratti più improntate a fare emergere talune criticità, ancorché in modo costruttivo – in previsione, appunto, di una loro possibile attenuazione ed eliminazione -. L’altra, più recente, di Raimondi, più conciliante e “positiva”, fortemente ispirata dagli indiscutibili “successi” che la Corte edu ha conseguito negli ultimi anni in termini di effettività delle sue decisioni, di radicamento nei Paesi membri del Consiglio d’Europa e di acquisita credibilità all’interno delle giurisdizioni nazionali, anche di quelle tradizionalmente meno inclini a misurarsi con quel sistema di protezione dei diritti umani.

    Seguendo questa prospettiva Raimondi non ha mancato di indicare nella cooperazione tra i giudici – europei e nazionali – “l’assoluta priorità” del suo mandato, prima e dopo la nomina a Presidente della Corte, culminata nella conclusione di protocolli d’intesa con le Corti superiori italiane e fra queste, in particolare, con la Corte di Cassazione che ha fatto da apripista alle successive intese, capaci di alimentare e dare linfa vitale alla Rete delle Corti superiori europee gestita dalla Corte edu – v., diffusamente, A. Di Stasi, Corte di Cassazione e Corti europee; in A. Didone e F. De Santis (a cura di), I processi civili in Cassazione, Milano, 2018, pp. 356 ss.–.

    I frutti di questo dialogo sono tangibili.

    Certo, c’è ancora chi non nasconde un senso di fastidio verso la Corte di Strasburgo, non perdendo l’occasione per evidenziare gli errori nei quali è incorsa, le inesattezze, le differenze con la giustizia interna, “giusta” per antonomasia.

    Ma vi è anche chi non smette di pensare che le due giurisdizioni debbano camminare insieme, stare insieme, ragionare insieme, magari litigare insieme. Quest’ultimo clima è sicuramente il frutto del dialogo intrapreso dalla Corte edu e implementato anche dalla Corte di Cassazione.

    Ma alla base dei rapporti fra le giurisdizioni nazionali e quella della Corte edu  vi sono il modo con il quale la Corte edu esprime le proprie decisioni e il modo con il quale i giudici nazionali maneggiano quelle pronunzie.

    L’analisi di Zagrebelsky è stata sul punto particolarmente attenta evidenziando, per un verso, la necessità di una maggiore accortezza della Corte edu nel valutare gli effetti delle proprie decisioni da parte delle autorità nazionali e dei giudici e, per altro verso, sottolineando l’esistenza di pericolose oscillazioni nella giurisprudenza della Corte edu, non sempre orientate nel senso della progressiva  estensione dei diritti ed anzi capaci di determinare quel disorientamento sul valore della giurisprudenza del giudice di Strasburgo in cui si colloca e giustifica la questione del “consolidamento”.

    In questa prospettiva non sono mancati da Zagrebelsky alcuni rilievi in ordine alla politica espansiva dei diritti che la Corte edu ha affiancato ad un crescente ricorso al margine di apprezzamento in favore dei singoli Stati. Politica giudiziaria che  finirebbe con l’incentivare notevoli diversità di livelli di protezione di un medesimo diritto fra i diversi Paesi contraenti. Né sono commendevoli i tempi dei giudizi e la diversità di durata degli stessi– difficilmente comprensibile secondo Zagrebelsky–, al punto da ipotizzare una sorta di imprevedibilità nella durata di definizione di procedimenti che, involgendo la prospettata violazione di diritti fondamentali, dovrebbero invece avere una tempistica prevedibile e temporalmente coerente rispetto ai beni in gioco.

    Una serie di contraddizioni che reclamano per il futuro scelte operative di non facile individuazione, sembra dire Zagrebelsky, soprattutto quando constata che la Corte edu non ha la capacità di fare fronte all’enorme numero di ricorso che è chiamata ad esaminare, in assenza di un efficace meccanismo di filtri.

    Uno spaccato – almeno con riguardo al problema dei tempi della giustizia – certo non particolarmente rassicurante.

    Tali criticità strutturali, peraltro, non sembrano mettere comunque in discussione il ruolo centrale della Corte edu e l’efficacia della sua giurisprudenza, alla quale si affianca  quella della Corte di Cassazione che, pur con risorse non parametrate ai carichi di lavoro e nell’assenza di filtri, fronteggia anch’essa le sopravvenienze cercando di offrire una risposta di giustizia coerente rispetto alla sua funzione nomofilattica ma al tempo stesso propulsiva rispetto alla tutela dei diritti anche di matrice convenzionale.

    Sono costi, questi ultimi, non imputabili né alla Corte edu né al giudice di legittimità, sui quali tuttavia la discussione è sempre feconda, purché vi siano interlocutori capaci di comprenderne il senso e non di distorcerne il significato. Per questo è indispensabile difendere la Corte edu dagli attacchi – immeritati – che essa ha anche di recente subito, come ha ricordato Raimondi ( sia consentito, sul punto, rinviare a quanto esposto sulle pagine di Questione giustizia in R. Conti, La Corte Edu attaccata, ieri e oggi. Di chi è la colpa?).

    Una riflessione particolare meritano le risposte relative al tema dell’indipendenza della giurisdizione interna e della Corte edu. Sul punto, i due intervistati hanno confermato la centralità dei detti canoni, sintetizzando nelle risposte argomenti affrontati in maniera sistematica in recenti scritti – G. Raimondi, L’indipendenza delle corti nel diritto costituzionale, comparato ed europeo: la prospettiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Corti europee e democrazia, Rule of law, indipendenza e accountability, a cura di G. Pitruzzella- O. Pollicino e M. Bassini, Milano, 2019, 77; V. Zagrebelsky, Nozione e portata dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario e dei giudici Ruolo del Consiglio superiore della magistratura, in OsservatorioAIC.it, 3 dicembre 2019 –.

    Entrambi sono convinti che sia l’indipendenza delle Corti a costituire la pre-condizione per l’affermazione effettiva dei diritti fondamentali, qualunque ne sia la matrice, costituzionale, eurounitaria o convenzionale, poiché tale garanzia fa parte dei principi giuridici generali che derivano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

    La circostanza che l’indipendenza sia caratteristica riguardante tanto le giurisdizioni nazionali che quella della Corte edu avvicina, ancora una volta, le due esperienze per certi altri aspetti diverse. 

    Certo, si potrebbe sostenere che le ricordate oscillazioni giurisprudenziali all’interno della Corte edu non costituiscono un disvalore se riflettono una presa di coscienza nuova della Corte su una determinata questione, magari in relazione agli apporti forniti sulla questione concreta dalle giurisdizioni nazionali.

    Insomma, l’ampliamento delle occasioni di confronto, diretto o indiretto e dunque di dialogo della Corte edu con le giurisdizioni nazionali potrebbe essere la base giustificativa di taluni radicali mutamenti giurisprudenziali che esaltano, in ogni caso, il ruolo della Grande camera della Corte edu, come luogo elettivo nel quale fissare i termini della decisione modificativa del pregresso indirizzo, fornendole il crisma della certezza del precedente.

    Particolarmente rilevanti le opinioni, sul punto concordi, di Raimondi e Zagrebelsky sulle dinamiche interne alla Corte edu ed ai suoi giudici. Aspetti sui quali difficilmente si riflette e che, invece, rappresentano il vero DNA di quella giurisdizione.

    La fiducia che sostiene i singoli giudici, a prescindere dalle appartenenze nazionali perché alimentata da prospettive di fondo e “culture” differenti, aiuta a comprendere la diversità del giudice di Strasburgo da quello interno, ma al contempo lo avvicina alle corti nazionali, nelle quali le maggioranze nei collegi giudicanti si formano, talvolta, su dinamiche sovrapponibili a quelle testé descritte.

    L’avere fatto comprendere che il vincolo fra giudice e Stato di appartenenza viene superato dalla comunanza culturale che si va instaurando, volta per volta, fra giudici di diverse nazionalità costituisce la misura di quanto la Corte edu sia luogo giudiziario da rispettare, come qualunque altro giudice.

    Ma è proprio l’insistenza, da parte dei due giudici, sulla natura poliedrica e multinazionale della Corte edu a fare riflettere sul modo di esercizio della giurisdizione di un organo di giustizia sui generis, nel quale la fatica della ricomposizione delle differenze fra i livelli di protezione dei diritti dei vari Paesi contraenti che caratterizza il processo decisionale della Corte europea sembra essere la stessa della giurisdizione che si manifesta nelle decisioni del giudice nazionale. 

    Ma, appunto,  il giudice nazionale come si interfaccia, quale ruolo ha in questo processo?

    Un ruolo centrale, soprattutto se si guarda agli aspetti meno brillanti della Corte edu di cui si è già detto.

    La complessità del sistema di protezione dei diritti fondamentali rappresentato dalla CEDU e dalle modalità con le quali essa opera, anche per il tramite del suo “diritto vivente”, non è stata da nessuno dei due giudici sottaciuta, avuto riguardo all’esistenza di Carte costituzionali risalenti all’interno della gran parte dei Paesi UE. Ed è proprio qui che quella complessità ripiomba sul giudice nazionale.

    Il successo della Corte edu reca con sé l’individuazione di punti critici di non marginale rilevanza, alcuni dei quali attinenti al ruolo stesso della legge e del giudice nella protezione dei diritti, al punto da far ipotizzare che il futuro della giurisdizione comune sarà sempre più orientato a sagomare la giustizia del caso concreto sulla base di leggi “aperte” che lasciano un certo margine di libertà al giudice, fissando solo la cornice di riferimento poi concretamente riempita volta per volta (Zagrebelsky).

    C’è da avere paura di questa “discrezionalità” del giudice nazionale? Stiamo vivendo un’epoca in cui si stanno torcendo i capisaldi della democrazia, affidandoli alla imponderabile lotteria della giustizia e degli operatori chiamati, volta per volta, ad applicarla ovvero siamo alle porte di una nuova esperienza democratica fondata sui diritti fondamentali scolpiti nelle Carte dei diritti che va contaminando i sistemi nazionali in modo inarrestabile e nella quale l’elemento portante è rappresentato da una condivisione di ruoli, fra legislatori e giudici,  entrambi imprescindibili per il raggiungimento della migliore giustizia possibile?

    Temi sui quali la magistratura non potrà non interrogarsi proprio in ragione dell’avvertita consapevolezza che, non riuscendo la Corte edu ad operare con celerità per problemi strutturali, il peso maggiore rispetto al controllo di convenzionalità non potrà che ricadere sempre di più sul giudice nazionale. Per questo si torna ad insistere sulla necessità di una nuova stagione, una nuova Gardone che si volga  a riflettere in modo più attento sui temi del giudice rispetto all’interpretazione e alle interpretazioni delle fonti interne e sovranazionali, del significato che oggi assume la guarentigia della soggezione del giudice alla legge di cui all’art.101 Cost.,

    La strada del dialogo e della cooperazione sembra essere, per Raimondi, la certezza e al contempo la sfida del futuro per le Corti ed in questa prospettiva assume valore centrale il Protocollo n.16 annesso alla CEDU che, come è noto, ha introdotto il meccanismo della richiesta di parere preventivo in favore delle Alte Corti nazionali. Strumento sul quale fin dall’inizio – v. V. Zagrebelsky, Parere consultivo della Corte europea dei diritti dell’uomo: vera e falsa sussidiarietà, in La richiesta di pareri preventivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali, a cura di E. Lamarque, Torino, 2016, 91 – ebbe a nutrire riserve addirittura sul suo varo definitivo da parte dei Paesi membri e più ancora sulla sua concreta utilità e praticabilità.

    Il punto è estremamente delicato, essendo in corso i lavori preparatori del disegno di legge, di origine governativa, teso ad introdurre detto Protocollo nel sistema ordinamentale interno. I lavori preparatori innanzi alle commissioni parlamentari – https://www.camera.it/leg18/1104?shadow_organo_parlamentare=2803&id_tipografico=03 – hanno messo a nudo posizioni diverse -v., in particolare, l’intervento del Prof. Luciani – riportato in https://www.sistemapenale.it/it/documenti/massimo-luciani-audizione-su-autorizzazione-alla-ratifica-protocollo-15-e-protocollo-16-cedu - e, fra queste, quella dell’attuale Giudice italiano della Corte edu,  Raffaele Sabato, favorevole alla ratifica ed esecuzione di detto Protocollo.

    Raimondi ne ha qui puntualmente evidenziato i lati positivi.

    Zagrebelsky, confermando quanto già altre volte espresso sul punto,  ha insistito sulla scarsa utilità dello strumento, proprio in ragione delle sue caratteristiche – non obbligatorietà, non vincolatività – ma anche sulla non pericolosità dello stesso -v., in particolare, l’audizione del 19 novembre 2019, cit.– risultando comunque nel pieno dominio delle  – recte, di tutte le – Corti coinvolte farne  un uso accorto.

    Qui va solo evidenziato che le preoccupazioni circa un’indebita equiparazione di effetti fra il rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia e quello disciplinato dal Protocollo 16, pur autorevolmente prospettate nel corso delle audizioni non sembrano persuasive.

    Risulta, infatti, in modo inequivoco dalle riflessioni dei Saggi – a suo tempo nominati dal Consiglio d’Europa – precedenti al varo del Protocollo che tale equiparazione venne espressamente esclusa proprio attribuendo carattere non obbligatorio alla richiesta di parere del giudice nazionale e natura non vincolante al successivo parere della Corte, alla quale è riconosciuta, peraltro, la possibilità di non dare corso alla richiesta di parere – v. le linee guida approvate dalla Corte edu il 18 settembre 2017,  https://www.echr.coe.int/Documents/Guidelines_P16_ENG.pdf e, volendo, R. Conti, La richiesta di parere consultivo alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo XI CEDU ed il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia  dell’Unione europea. Prove tecniche di nomofilachia europea, in La richiesta di pareri preventivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali, cit., 97; id., Il parere preventivo della Corte Edu (post-Prot. 16) in tema di maternità surrogata –. Ciò sembra consentire una lettura del Protocollo inidonea a pregiudicare le regole fissate dalle sentenze c.d. gemelle del 2007, né a marginalizzare il ruolo della Corte costituzionale, che dovrebbe essere anzi essa stessa a pieno titolo parte del medesimo meccanismo. 

    Ancor meno persuasivi paiono i rilievi adombrati nel corso di alcuni audizioni a proposito della necessità di adottare il Protocollo 16 con legge costituzionale, non deponendo a favore di tale opzione né i contenuti del Trattato, non inclusivi di limitazioni di sovranità in ragione delle caratteristiche strutturali del procedimento e del contenuto del parere, né tanto meno la circostanza che la CEDU fu introdotta in Italia con legge ordinaria, rendendo pertanto incomprensibile l’opzione anzidetta rispetto ad una modifica aggiuntiva che ha sicuramente un’efficacia ridotta rispetto a quella prodotta dalle sentenze della Corte edu.

    Non sembra allora potersi dubitare che l’analisi del come si atteggerà lo strumento del parere preventivo non può essere fatta in vitro, ma richiederà l’esame in vivo della giurisprudenza che andrà formandosi nelle Corti nazionali e in quella di Strasburgo. Sarebbe dunque un errore pregiudicare il nostro Paese impedendo di fornire, attraverso i propri organi giurisdizionali, il proprio apporto a questo dialogo che si prospetta già come effettivo per i Paesi che hanno reso esecutivo il protocollo.

    La speranza è, dunque, che il dibattito parlamentare possa presto arricchirsi attraverso le voci degli organi giurisdizionali che dovrebbero appunto alimentare la cooperazione virtuosa fra le Corti al quale si dirige il Protocollo n.16, come ha opportunamente sollecitato Raimondi.

    Intanto, non resta che ringraziare i nostri due Giudici, nazionali ed europei, per avere scritto  nel corso dei loro anni trascorsi alla Corte edu e, qui, a quattro mani, delle  pagine destinate a rimanere nel patrimonio  di tutti gli operatori di giustizia.

     

     Dopo la marcia delle mille toghe a Varsavia  «per noi giudici polacchi un futuro ancora a rischio»​

    Dopo la marcia delle mille toghe a Varsavia

    «per noi giudici polacchi un futuro ancora a rischio»

    Parla Monika Frackowiak, giudice distrettuale di Poznan, sull’attacco all’indipendenza della magistratura in Polonia.

    di Marcello Basilico

    Sono più didieci anni che lo Stato di diritto in Polonia è sotto scacco. Nell’ultimo lustro nel mirino delle istituzioni politiche è soprattutto la giustizia. L’indipendenza della magistratura e del suo organo di autogoverno sono visti come una minaccia per il coronamento delle politiche governative. Le iniziative dirette a controllare la Corte costituzionale e il Consiglio giudiziario, a rimuovere un’intera generazione di giudici, a minacciare la loro libertà di espressione e di giudizio sono state censurate ripetutamente anche a livello europeo. Ma non sembra che questi moniti e le resistenze interne riescano al momento a frenare il regime. Fare il giudice in Polonia diventa così ogni giorno più difficile.  

     

    Noi sappiamo, soprattutto dalla lettura dei quotidiani, che le interferenze del Governo polacco dell’amministrazione della giustizia sono state numerose. Puoi sintetizzarci le principali e più allarmanti?

    «Noi lo constatammo già a novembre 2015, quando il partito "Legge e Giustizia” ottenne la maggioranza nel Parlamento polacco. La prima cosa che fecero, fu di prendere il controllo sulla Corte costituzionale polacca. E’ un’istituzione essenziale nell’ordine legale polacco, visto che giudica sulla conformità delle leggi approvate dal Parlamento in relazione alla nostra Costituzione. Una volta che dipenda dalla politica del partito maggioritario, come avviene ora, l’attuale Corte costituzionale non può che confermare la legalità della nuova legge (anche quando questa sia apertamente contraria alla Costituzione)».

     Dopo questo primo passo ne sono venuti altri.

    «Nel 2017 è stata approvata la nuova legge sulle corti territoriali (con competenze di primo e secondo grado – n.d.r.), che permette al ministro della giustizia di revocare presidenti e vice presidenti di qualsiasi tribunale in Polonia senza necessità di motivare.  Attualmente una vasta maggioranza di uffici giudiziari polacchi è amministrata da presidenti designati direttamente dal Ministero della giustizia. Il presidente d’un ufficio ha enormi competenze nel lavoro di ogni giorno dei giudici (principalmente grazie alla nuova legge del 2017). Alcuni di loro usano queste prerogative non correttamente, contro i giudici che parlano pubblicamente o che assumono delle decisioni contrarie alla volontà del Governo. Ma il problema più preoccupante è la composizione del nuovo Consiglio nazionale della magistratura, che ora è divenuto un corpo completamente politicizzato. Oltre a occuparsi della nomina e della carriera dei giudici, il Consiglio decide anche su alcune questioni amministrative importanti, operando ad esempio come organo di seconda istanza nel caso in cui un giudice agisca in difromità ad una decisione del presidente)».  

     

    Abbiamo letto anche di iniziative di epurazione generalizzate nei confronti di magistrati. Di cosa si è trattato?

    «Nel 2017 è stata abbassata l’età pensionabile dei giudici delle corti territoriali, da 67 a 65 per gli uomini e a 60 per le donne, e dei giudici della Corte Suprema, da 70 a 65. Grazie all’intervento della Commissione europea, l’età pensionabile dei giudici delle corti territoriali è stata resa uguale per uomini e donne, ma nel frattempo alcune colleghe erano gia state costrette ad andare in pensione e non sono più rientrate in servizio. Riguardo i giudici di Corte Suprema, dopo che la Corte Europea di Giustizia si è occupata a ottobre 2018 delle misure polacche sull’età pensionabile (è l’ordinanza 19.10.2018, c-619/18 della vice presidente CGUE, nella procedura d’infrazione aperta dalla Commissione U.E- - n.d.r.), le autorità polacche hanno fatto un passo indietro e i vecchi giudici di Corte Suprema sono tornati a giudicare».

     Vi sono stati casi ripetuti di mancato rispetto delle sentenze delle Corte europee da parte del Governo della Polonia. Quali sono stati i più gravi, a tuo parere?

    «Pensiamo alla più importante decisione della Corte di giustizia, quella che riguarda il Consiglio Giudiziario Polacco e la sezione disciplinare, pubblicata il 19.11.2019 (Corte giust. 19.11.2019, cause riunite c-585, 624 e 625-18 – n.d.r.). Vi si è affermato che ogni corte giudiziaria che sia chiamata a valutare l’operato di un’altro organo giudiziario deve accertarne innanzi tutto l’indipendenza, specialmente quando si tratti di un giudice delle più alte istanze. Gli elementi che sono state indicati dalla Corte europea come misura dell’indipendenza rendono evidente che la nuova sezione disciplinare, costituita presso la Corte Suprema polacca, non é un organo che dia garanzie d’imparzialità. La decisione del 19 novembre scorso ha riguardato anche la legittimazione del Consiglio Nazionale Giudiziario polacco e stabilito che i giudici designati da questo nuovo Consiglio devono essere sottoposti ad una valutazione che cosnenta di verificarne la loro effettiva indipendenza».

     Quale è stata la risposta del Governo polacco?

    «Una risposta adeguata del governo polacco sarebbe stata quella di promulgare una nuova legge per conformarsi alla decisione della Corte di giustizia. Invece il governo ha introdotto delle nuove disposizioni, chiamate „muzzle law”, che vietano ai giudici polacchi di applicare la sentenza della Corte del 19.11.2019. Grazie a queste nuove norme, un giudice che sollevi una questione di legittimazione di altro giudice designato per decisione del nuovo Consiglio Giudiziario polacco, potrebbe addirittura venire espulso! Tutti i giudici che hanno cercato di applicare la decisione della Corte di giustizia sono attualmente sotto procedimento disciplinare e penale con l’accusa di abuso di potere. Una nuova legge in tal senso è stata approvata dalla SEJM, la camera bassa del Parlamento polacco, a maggioranza del partito di governo, in un solo giorno. E’ stata poi respintta dal Senato, dove i partiti di opposizione hanno la maggioranza per un voto, ma recentemente la SEJM ha respinto a sua volta il rigetto del Senato. Quindi ora, a dispetto dell’opinione negativa della Commissione Venice (organo consultivo del Consiglio d’Europa – n.d.r.), sta solo aspettando la firma del Presidente».

     Il Consiglio della Magistratura polacco è stato sospeso dalla rete europea dei Consigli, perché si è ritenuto che non avesse più la necessaria indipendenza. Quali sono stati gli effetti di questo provvedimento per voi?

    «Sì, il Consiglio Giudiziario polacco è stato sospeso dall’European Networks of Councils for the Judiciary, ma i suoi membri non sembrano esserne molto preoccupati. Tuttavia, visto che la ENCJ è ben riconosciuta dalle istituzioni europee, come il Consiglio d’Europa, la Commissione Europea e la Corte di Giustizia Europea, quel provvedimento influenzerà sicuramente il loro approccio nei confronti del nostro Consiglio giudiziario».

     Cosa significa oggi fare il giudice in Polonia?

    «Sta diventando sempre più difficile. Le cosiddette riforme non hanno portato altro che un caos incredibile all’interno del nostro sistema giudiziario. Siamo oberati di lavoro: ad esempio io ho seicento processi aperti attualmente; ci sono circa ottocento scoperture nell’organico dei magistrati: il numero totale dei giudici polacchi sarebbe di 10.000. Siamo sotto pressione del Governo e dei media, che sono a loro volta sotto il controllo governativo. Recentemente il Presidente polacco si è appellato ai minatori del carbone dicendo loro che intende mettere ordine coi giudici! C’è stata una campagna diffamatoria organizzata dal vice ministro della giustizia contro alcuni nostri colleghi membri dell’associazione Iustitia e Themis. Alcuni account twitter anonimi hanno pubblicato dei dati sensibili riguardanti dei giudici, accessibili solo dai presidenti delle Corti e dal Ministro della giustizia. E ogni magistrato polacco è consapevole del fatto che giudicare un caso di rilievo politico può dare il via a una campagna diffamatoria contro di lui ed esporlo a un procedimento disciplinare».

    L’11 gennaio scorso la marcia delle mille toghe di Varsavia ha raccolto magistrati da venti paesi europei. Venticinquemila persone almeno hanno sfilato pacificamente in difesa di una giustizia indipendente in Polonia. Il risultato dell’evento ha risposto alle vostre aspettative? Quali pensi che potranno essere gli effetti della manifestazione?

    «E’ stato un evento meraviglioso, oltre la nostra immaginazione. I giudici polacchi che hanno partecipato alla marcia erano non meno di duemila e poi c’erano migliaia di altri operatori giudiziari, tra cui avvocati e procuratori. E siamo veramente grati al supporto dei nostri amici europei, dopo tutto apparteniamo alla stessa famiglia europea di valori. Sia per i magistrati polacchi che per quelli europei è stato uno dei momenti più toccanti della loro carriera. Siamo ancora in contatto e sono certa che questo evento avrà altri effetti per l’intera Europa in futuro. Ma per la situazione attuale in Polonia non avrà nessun impatto, anche se ovviamente il Governo è rimasto scioccato dall’eco che la marcia ha avuto in tutto il mondo. Ho paura che sfortunatamente i giorni più difficili siano ancora davanti a noi.  Tuttavia sono sicura che alla lunga il ruolo del diritto avrà la meglio».  

     ***

    Monika Frackowiak ha 45 anni e lavora come giudice nella Corte distrettuale di Poznan. Fa parte dell’associazione di giudici polacchi Iustitia ed è componente del board di Medel (Magistrats Européens pur la Démocratie et les Libertés). E’ stata tra le organizzatrici della „marcia delle mille toghe” svoltasi a Varsavia l’11 gennaio 2020, che ha visto la partecipazione di venticinque associazioni di magistrati.   

     La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? Intervista in tre domande

    La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?

    Intervista di Roberto Giovanni Conti

    Prof. Paola Mori – ord.dir.Unione europea Univ.Catanzaro

    Prof. Bruno Nascimbene – già ord. Dir.Un.Europea Univ.Statale di Milano

    Prof. Roberto Mastroianni – ord.Dir.Unione europea Univ.Statale di Napoli

    1) Le recenti prese di posizione della Corte costituzionale italiana sul ruolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Corte cost.n.269/2017, Corte cost.n.20/2019) sono secondo lei la spia di una mutata sensibilità della Consulta rispetto al ruolo del giudice comune nel processo di protezione dei diritti fondamentali e, se si, quale le sembra la direzione che la Corte costituzionale ha inteso intraprendere sul punto?

    2) A lei pare che la Corte costituzionale, con le sentenze indicate al quesito n.1, abbia inteso porre le basi per un processo di “costituzionalizzazione” della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, se sì, crede che questo processo possa in concreto arricchire o depotenziare il ruolo della Carta UE, dei giudici comuni e della Corte di giustizia?

    3) A suo giudizio le sentenze nn.269/2017 e 20/2019 della Corte costituzionale consentono tuttora – e in che misura – il potere di disapplicazione della norma interna contrastante con la Carta UE da parte del giudice comune?

    Introduzione di Roberto Giovanni Conti

    Qualche anno fa avevamo provato a mettere in guardia dai pericoli insiti nella enfatizzazione ed estremizzazione del ruolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel sistema interno e, soprattutto, nelle vicende non “coperte” dal diritto eurounitario – R. Conti, L’uso fatto della Carta dei diritti dell’Unione da parte della Corte di Cassazione, in La Carta dei diritti dell’Unione europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), a cura di L. D’Andrea, G. Moschella, A. Ruggeri e A. Saitta, Torino, 2016,194. –

    Più recentemente il Prof.Augusto Barbera, in occasione di un incontro di studio tenuto a Siviglia, prefigurava possibili nuovi scenari sull’efficacia della Carta UE, espressamente riconoscendo la necessità di una riconsiderazione e riparametrazione della sua portata. Ciò in relazione alla sostanziale coincidenza dei contenuti della Carta UE con i diritti protetti dalla Costituzione ed all’uso, a suo dire smodato, di quello strumento fatto fino a quel momento dai giudici comuni, al quale occorreva porre rimedio riaccentrando innanzi al giudice costituzionale il contratto di compatibilità dell’ordinamento nazionale con la Carta stessa – v. Barbera A., La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di Giustizia, in https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegniseminari/SIVIGLIABARBERA.pdf –.

    Questa prospettiva aveva già trovato degli autorevoli punti di convergenze – M. Cartabia, Convergenze e divergenze nell’interpretazione delle clausole finali della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in http://www.rivistaaic.it/convergenze-e-divergenze-nell-interpretazione-delle-clausole-finali-della-carta-dei-diritti-fondamentali-dell-unione-europea.html.–

    In questa cornice matura il più famoso obiter dictum della storia della Corte costituzionale, espresso nella sentenza n.269/2017.

    Fiumi d’inchiostro hanno accompagnato quella pronunzia ed i suoi seguiti della giurisdizione comune.

    Le interviste che ospita la Rivista, alimentate dalle opinioni di tre noti studiosi del diritto dell’Unione europea – Paola Mori, Bruno Nascimbene e Roberto Mastroianni – si innestano nelle numerose questioni emerse nel dibattito giuridico in seguito alle pronunzie che la Corte costituzionale ha successivamente adottato, mettendo progressivamente a fuoco la portata apparsa ai più deflagrante di quell’obiter.

    Per una maggiore fruibilità delle interviste –  oggi  pubblicate  con la risposta alla prima domanda – si procederà in successione alla pubblicazione,  Venerdì 27, delle ulteriori risposte, riservando a Sabato 28 le repliche, le conclusioni nonchè le interviste integrali in formato pdf – scaricabile su pc –in modo da consentire ai lettori la possibilità di scaricare in un unico file il testo integrale.

    Sarà possibile, in ognuna delle interviste parziali pubblicate, rinviare alle precedenti risposte ed alle successive, cliccando sull’apposito link.

    Roberto Giovanni Conti

    ***

    1) Le recenti prese di posizione della Corte costituzionale italiana sul ruolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Corte cost.n.269/2017, Corte cost.n.20/2019) sono secondo lei la spia di una mutata sensibilità della Consulta rispetto al ruolo del giudice comune nel processo di protezione dei diritti fondamentali e, se si, quale le sembra la direzione che la Corte costituzionale ha inteso intraprendere sul punto?

    Prof. Paola Mori

    La giurisprudenza inaugurata con il ben noto obiter dictum contenuto nella sentenza 269/2017 mi sembra confermi in termini inequivocabili («le violazioni dei diritti della persona postulano un intervento erga omnes di questa Corte» sentenza 269, par. 5.2) la volontà della Consulta di accentrare in sé il controllo del rispetto dei diritti fondamentali, quale che ne sia la fonte e dunque anche con riguardo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

    Con specifico riferimento alla Carta questa conclusione si sarebbe resa indispensabile, secondo i giudici costituzionali, dopo che il Trattato di Lisbona ha attribuito alla Carta effetti giuridici vincolanti, in quanto essa sarebbe «dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto tipicamente costituzionale» e che quindi i principi e i diritti in essa enunciati «intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana». Pertanto, la Corte costituzionale si è riservata di giudicare «alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato», allo scopo di evitare di “trasmodare” «in una sorta di inammissibile sindacato diffuso» (ivi, par. 5.3).

    Aggiungerei che un ulteriore, non detto, ma forse non meno importante, motivo di allarme per la Consulta di vedere erodere la propria influenza, va ricercato nell’estensione, al termine del periodo di transizione di cinque anni stabilito dal Protocollo (n. 36) sulle disposizioni transitorie, delle competenze della Corte di giustizia all’ambito della cooperazione penale e giudiziaria in materia penale e la conseguente applicazione della Carta agli atti europei adottati in questi settori; un vasto ambito che sta dando luogo ad una giurisprudenza europea sempre più ricca. Così come sempre più importante sta diventando il sindacato della Corte di giustizia sul rispetto dei valori fondamentali dell’Unione e dello Stato diritto anche sotto il profilo dell’indipendenza della magistratura e delle autorità indipendenti.

    Ora, fatti i debiti distinguo, peraltro più volte sottolineati dalla stessa Corte costituzionale (sentenza 348/2017), un fil rouge mi pare legare questa più recente giurisprudenza costituzionale sulla Carta a quella sulla CEDU. Una sorta di continuità sistemica, ma forse anche ideologica (nazionalismo, o peggio sovranismo, costituzionale?), che oltre che nell’accentramento del sindacato di costituzionalità (e nell’aspirazione a porsi come giudice primo e ultimo del sindacato sui diritti), sembra riflettersi anche nelle modalità e nei contenuti argomentativi.

    Ricordo rapidamente come in passato, fino alla riforma del titolo V della Costituzione, la Consulta escludesse, salvo sporadiche eccezioni (sentenza 388/1999 «…al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione»), la rilevanza della CEDU nella determinazione del contenuto dei diritti fondamentali (per un quadro complessivo della giurisprudenza precedente, sentenze 348 e 349/2007, nonché, un mio scritto giovanile: Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Patto delle Nazioni Unite e Costituzione italiana, in Rivista di diritto internazionale, 1983, p. 306-352).

    Con le sentenze gemelle 348 e 349/2007 e con la giurisprudenza successiva la Corte costituzionale ha definito la funzione della CEDU alla luce del nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost. il quale, «se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale». Secondo questa giurisprudenza, il giudice comune ha sì l’obbligo di saggiare la possibilità di un’interpretazione conforme alla disposizione internazionale, ma non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi. «Il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. … viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU». E proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione.

    Se nelle sentenze gemelle la particolare natura e funzione delle norme CEDU viene ancorata ad un parametro formale, ovvero all’art. 117, primo comma Cost., nella giurisprudenza successiva la Consulta sembra accentuare l’aspetto sistemico. La Corte costituzionale, infatti, non solo ribadisce la supremazia assiologica della Costituzione sulla CEDU (sentenze 49/2015 e 25/2019), ma, soprattutto per quanto qui interessa, rivendica il «proprio infungibile ruolo» nella «valutazione “sistemica e non frazionata” dei diritti coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, effettuando il necessario bilanciamento in modo da assicurare la “massima espansione delle garanzie” di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca» (sentenze 170/2013, par. 4.2, e 25/2019, par. 13), mentre «alla Corte europea spetta di decidere sul singolo caso e sul singolo diritto fondamentale» (sentenza 317/2009, par. 7).

    Insomma si chiarisce e definisce la volontà, all’origine delle sentenze gemelle, di ordinare il sindacato sui diritti fondamentali sanciti nella CEDU in modo accentrato nella Corte costituzionale, evitandone il sindacato diffuso (e l’eventuale disapplicazione delle norme di leggi incompatibili con la CEDU) da parte dei giudici di merito e di legittimità (in specie 348/2007, par. 4.3).

    Per inciso, vale la pena di notare che nella sentenza 349/2007, par. 6.1, la Corte costituzionale, sia pure con riferimento alla CEDU, ha «sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre un’attribuzione di competenza limitata all’interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità».

    Sul punto varrebbe la pena di spendere qualche maggiore riflessione che la natura di questo breve intervento non consente. Mi limito solo ad evidenziare, con riguardo all’ordinamento dell’Unione, che se è indubbiamente vero che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei Trattati» (art. 6, par. 1, TUE), è anche vero che le cessioni di sovranità riguardano, sì, materie, ma anche funzioni (art. 13 TUE, in generale; normativa, art. 288 TFUE; e soprattutto, per quanto qui interessa, giurisdizionale, art. 19 TUE etc.). Pertanto, dato che la Carta UE in forza del Trattato di Lisbona è a tutti gli effetti parte del diritto primario dell’UE (art. 6 TUE), essa non può che formare oggetto di interpretazione e di applicazione da parte della Corte di giustizia. E, ovviamente, godere anch’essa delle fondamentali garanzie costituzionali che accompagnano la partecipazione italiana al processo di integrazione europea (in specie art. 11 Cost.).

    Ritornando al tema principale, mi sembra che la recente giurisprudenza costituzionale sulla Carta non costituisca altro che un’applicazione dei menzionati orientamenti giurisprudenziali relativi alla CEDU e agli altri trattati internazionali in materia di diritti umani. Manifesti, in altri termini, un’inequivoca volontà di accentrare nella Corte costituzionale il sindacato sui diritti fondamentali, anche quando trovano la loro fonte nel diritto dell’Unione (condivido dunque con Ruggeri, Giudice o giudici nell’Italia postmoderna, in Giustizia insieme, 10 aprile 2019, l’idea che siamo in presenza di un «forte rigurgito di “riaccentramento” del sindacato presso la Consulta»).

    Insomma una manifesta indisponibilità da un lato ad amettere il sindacato diffuso da parte dei giudici comuni, dall’altro lato ad accettare senza riserve la competenza della Corte di giustizia in quest’ambito (sul ruolo della Corte di Lussemburgo in materia v. Tizzano, Qualche considerazione dal versante lussemburghese a proposito di diritti fondamentali, in Foro. it., 2017, V, 73 ss.). Ma questo implica anche una sorta di indistinta omologazione della Carta ai trattati internazionali in materia, di varia origine e di diversi ambiti, soggettivi e oggettivi, di efficacia. Sul punto ritornerò nella risposta al prossimo quesito.

    Per contro, questa stessa giurisprudenza mi sembra introdurre alcune significative deviazioni rispetto a quella consolidatasi a partire dalla sentenza Granital (Corte cost. sentenza 170/1984) sia con riguardo alle nome dell’Unione dotate di efficacia diretta, sia con riguardo a quelle prive di tale efficacia. Si tratta di deviazioni che rischiano di compromettere l’autonomia e il primato del diritto dell’Unione, così come il ruolo che l’art. 19 TUE riserva alla Corte di giustizia e ai giudici nazionali.

    Prof. Bruno Nascimbene

    Con riferimento alla prima domanda, le sentenze 269/2017 e 20/2019 (sebbene la seconda attenui il rigore, per quanto riguarda l’accentramento di funzioni nella Corte cost. rispetto alla prima) paiono voler arginare l’effetto di spill-over della Carta dei diritti fondamentali UE provocato dai giudici ordinari. Augusto Barbera nel 2017 scriveva quanto segue: “Spinge in questa direzione il fascino esercitato dalla Carta, ma anche la possibilità che si apre al Giudice di disapplicare la norma nazionale contrastante con la Carta di Nizza anziché sollevare una questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale per violazione di norme della Costituzione italiana. Tuttavia – ecco il punto – in queste decisioni non sempre si è tenuto conto che in base all’art.51 la Carta dovrebbe riguardare gli stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Dalla inosservanza di questo confine – certo non facilmente delimitabile – deriva un ripetuto effetto di “traboccamento” della Carta , un vero e proprio spill-over della stessa (cfr. https://www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/4_2017_Barbera.pdf pag. 4). Un orientamento, questo, che sembra confermare quello della Corte costituzionale: accentrare il vaglio di legittimità di una norma nazionale in contrasto con la Costituzione e con la Carta UE al fine di evitare un pregiudizio alla Costituzione.

    Si tratta di un atteggiamento che evoca “il predominio assiologico della Costituzione” sulle fonti esterne all’ordinamento, come già ebbe a dire la Corte costituzionale nella sentenza 49/2015 con riferimento alla CEDU. Nella predetta sentenza la Corte (ma riferendosi alla CEDU) sembra riconoscere maggiori poteri ai giudici comuni: “quando il giudice comune si trova di fronte ad un orientamento consolidato della Corte europea della cui conformità a Costituzione dubita, è tenuto a sollevare questione di costituzionalità sulla legge di ratifica della Convenzione; mentre allorchè dubiti della costituzionalità di un orientamento non consolidato potrebbe provvedere egli stesso alla sua disapplicazione, privilegiando l’interpretazione conforme a Costituzione della norma da applicare al caso di specie”. Ma, osservo, la CEDU non è il diritto UE, non ne ha l’efficacia, e un parallelismo tra le due fonti è possibile, ma le conseguenze sono diverse, dovendo distinguere le norme con effetto diretto dalle altre.

    A parte la censurabile distinzione fra giurisprudenza consolidata e non consolidata (definizione, questa, che non è tratta dal testo della Convenzione nè dalla giurisprudenza interpretativa), se un confronto deve essere fatto, mi sembra che questo possa avvenire fra “diritto UE (compresa la Carta) direttamente applicabile” e “Cedu-diritto UE non direttamente applicabile”: nel primo caso, salvo il rinvio pregiudiziale, dovrebbe decidere il giudice comune, rimettendo la questione alla Corte cost. in casi eccezionali (dopo il rinvio pregiudiziale, se necessario). Nel secondo caso, non essendo la CEDU direttamente applicabile ed essendo il diritto UE in questione non direttamente applicabile, ove vi sia un conflitto con una norma nazionale non risolvibile attraverso l’interpretazione conforme, il giudice comune dovrebbe rinviare alla Corte cost. (salvo, sempre, il rinvio pregiudiziale).

    Ritengo centrale il ruolo del giudice comune, anche per i motivi (e i riferimenti) di cui alla risposta alla domanda n. 3 (vedi oltre). Credo che si possa ravvisare, invece, nell’atteggiamento della Corte cost., un mutamento di sensibilità. Forse è più formale, che sostanziale, ma il mutamento mi sembra proprio sussistente.

    Prof. Roberto Mastroianni

    Certamente lo sono. Con le pronunce richiamate, nonché con la più recente sentenza n. 63 del 2019, a Consulta ha voluto, sul solco di altre corti costituzionali, riprendersi uno spazio ed un ruolo centrale nell’applicazione del diritto dell’Unione quando questo interviene nella disciplina e nel controllo giurisdizionale del rispetto dei diritti fondamentali. Il sistema precedente – per comodità chiamiamolo “sistema Onida” – che le sentenze recenti tendono a superare, riconosceva al giudice comune i “pieni poteri”, attribuendo ad esso, eventualmente in dialogo con la Corte di giustizia qualora ciò si rivelasse necessario, il ruolo di garante principale della immediata ed uniforme applicazione delle regole europee dotate di diretta efficacia. Qualora quest’ultime fossero, come avviene di frequente, principi del diritto dell’Unione in materia di diritti fondamentali, da Lisbona in poi ricavabili in primis dalla Carta, spettava al giudice nazionale intervenire in maniera immediata, se necessario provvedendo alla disapplicazione della norma interna incompatibile con il diritto in questione. Il coinvolgimento della Corte costituzionale, indispensabile invece in caso di conflitto con regole europee non direttamente efficaci, veniva così escluso, ed eventuali questioni di legittimità costituzionale ciò nonostante sollevate non potevano che subire la declaratoria di inammissibilità per difetto di rilevanza. L’esigenza di garantire la conoscibilità delle regole realmente applicabili veniva rimessa ai meccanismi consolidati di intervento legislativo attraverso le leggi europee annuali (legge 234 del 2012, art. 30, comma 3, lett. a). L’unica eccezione a questa regola generale risultava il caso della invocazione della c.d. teoria dei controlimiti, in quanto solo la Corte costituzionale può dichiarare l’illegittimità costituzionale in parte qua della legge di esecuzione del Trattato, qualora una norma dell’Unione o una pronuncia della Corte di giustizia adottata per la sua interpretazione si pongano in asserito contrasto con principi supremi della Costituzione o con diritti fondamentali da questa tutelati.

    Diversa la soluzione, in quel consolidato quadro dei rapporti tra ordinamenti, in presenza di norme europee non dotate delle caratteristiche proprie della diretta efficacia (perché non chiare, precise ed incondizionate o perché si tratta di fonti europee, come le direttive, che non possono per loro stesse caratteristiche essere invocate nei rapporti interindividuali). In questo caso, non potendo attivarsi il meccanismo principale di garanzia del primato del diritto dell’Unione (la disapplicaizone della regola interna difforme), spettava alla Corte costituzionale intervenire eliminando con effetti erga omnes la legge anti-europea.

    Questa ricostruzione, fondata su una coraggiosa interpretazione dell’art. 11 Cost. e fedele rispetto alle esigenze di effettività ed immediatezza nella tutela dei diritti, pilastri portanti dell’ordinamento dell’Unione, ha retto per molti anni ed è stata ribadita anche di recente (cfr. sentenza n.111 del 2017). La stessa appare tuttavia oggi superata con il filone giurisprudenziale più recente, inaugurato dalla sentenza n. 269 del 2017. La Corte costituzionale sostiene ora che qualora il contrasto con la norma interna riguardi una disposizione della Carta (o di atti derivati che ad essa sono collegati, come il caso, oggetto della sentenza n. 20 del 2019, della direttiva 2000/78), la distinzione tra norme dotate o meno di efficacia diretta (che pure rileva nel contesto della Carta stessa: cfr. art. 52, par. 5) non sia più determinante, in quanto in ogni caso la soluzione dell’antinomia su ricordata ritorna ad essere affare della Corte costituzionale. Non è questa la sede per analizzare a fondo i motivi di questa scelta, certamente rivoluzionaria e non estranea ad alcuni ripensamenti imputabili alla stessa giurisprudenza europea (sentenza Melki e Abdeli e successive). Quello che appare necessario rilevare è che dopo queste pronunce la Corte non ritiene più di opporre la barriera di inammissibilità alle questioni di legittimità costituzionali che coinvolgono le regole della Carta, anche se dotate di tutte le caratteristiche per produrre effetti diretti nell’ordinamento interno. Rimane la possibilità, enunciata dalla sentenza n. 20 del 2019 e ribadita con chiarezza dalla sentenza n. 63 a correzione di una posizione diversa enunciata in un obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269 del 2017, non solo di rivolgersi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sia prima che dopo la pronuncia della Corte costituzionale, per l’interpretazione delle regole della Carta, ma anche, a quanto pare, in ogni momento di disapplicare la regola interna difforme in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta.
    Su questo tornerò nella risposta all’ultimo quesito.

     La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? La seconda domanda

    La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?

    Intervista di Roberto Giovanni Conti

    Prof. Paola Mori – ord.dir.Unione europea Univ.Catanzaro

    Prof. Bruno Nascimbene – già ord. Dir.Un.Europea Univ.Statale di Milano

    Prof. Roberto Mastroianni – ord.Dir.Unione europea Univ.Statale di Napoli


    2) A Lei pare che la Corte costituzionale, con le sentenze indicate al quesito n. 1, abbia inteso porre le basi per un processo di “costituzionalizzazione” della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, se sì, crede che questo processo possa in concreto arricchire o depotenziare il ruolo della Carta UE, dei giudici comuni e della Corte di giustizia?

     

        Prof.Paola Mori

            In effetti credo che il rischio di costituzionalizzazione o subcostituzionalizzazione, ovvero di incorporazione della Carta sia evidente. E sia la conseguenza più grave di questa giurisprudenza. Il fenomeno emerge in modo molto chiaro nella sentenza 20/2019 (sul punto v. le considerazioni di Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta: questo matrimonio s’ha da fare o no? in Giustizia insieme, 4 marzo 2019; Id., Qualche riflessione, a terza lettura, sulla sentenza n. 269/2017, in Rivista di diritti comparati, 2018, p. 280 ss.).

            Il caso riguarda la violazione delle normativa europea sulla privacy della disciplina concernente l’obbligo a carico delle Pubbliche amministrazioni di pubblicare sui loro siti la documentazione attestante i compensi e i rimborsi ricevuti dai dirigenti pubblici per l’espletamento dei loro incarichi nonché le dichiarazioni relative ai redditi e ai dati patrimoniali degli stessi e dei loro familiari. L’incidente di costituzionalità era stato sollevato (prima della pronunzia della 269/2017) dal TAR del Lazio il quale, oltre la violazione di alcuni parametri costituzionali interni (articoli 2, 3, 13 e 117 Cost.), aveva prospettato quella degli articoli 7, 8, 52 della Carta, dell’art. 8 CEDU e di alcune norme della direttiva 95/46/CE sul trattamento dei dati personali (poi sostituita dal Regolamento 2016/679/UE).

            Il TAR Lazio pur «consapevole» che in un caso molto simile la Corte di giustizia (sentenza 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk), ha ritenuto che gli articoli 6, par. 1, lett. c), e 7, lett. c) ed e), della direttiva 95/46/CE – che hanno «trovato conferma» nelle disposizioni del regolamento n. 2016/679/UE – sono direttamente applicabili, ha tuttavia escluso che la norma contestata sia suscettibile di essere disapplicata «per contrasto con normative comunitarie», posto che non sarebbe individuabile una «disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio».

            Ciò trova spiegazione nel fatto che, in linea con una giurisprudenza consolidata, nella sentenza Österreichischer Rundfunk la Corte di giustizia, pur ritenendo direttamente applicabili le norme rilevanti della direttiva (punti 100-101 e punto 1 del dispositivo), ha affidato al giudice del rinvio il compito di apprezzare se l’ingerenza alla vita privata sia necessaria e proporzionata alla realizzazione della finalità legittima perseguita (punto 88 e punto 2 del dispositivo).

            A fronte di questa difficoltà il TAR, anziché procedere esso stesso all’operazione di ponderazione degli interessi, eventualmente rinviando in caso di dubbi interpretativi la questione alla Corte di giustizia, ha scelto di rimettere la questione alla Corte costituzionale.

            Dato che la questione si colloca indubitabilmente nell’ambito di attuazione del diritto UE, la Corte costituzionale avrebbe ben potuto/dovuto rinviare essa stessa alla Corte di giustizia. Il giudice delle leggi ha invece ritenuto che «la “prima parola” che questa Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco» (par. 2.3). E dunque, «avendo la facoltà di decidere l’ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 148 e n. 66 del 2018), ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3 Cost., evocato sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza».

            Il diritto dell’Unione e la giurisprudenza della Corte di giustizia passano dunque in secondo piano, vengono applicati solo indirettamente, e diventano funzionali all’interpretazione dell’art. 3 Cost.: «lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal legislatore sulla questione della pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti amministrativi va condotto alla stregua del parametro costituzionale interno evocato dal giudice a quo (art. 3 Cost.), come integrato dai principi di derivazione europea» (par. 3.1). 

            In altri termini il diritto dell’Unione viene privato di qualsiasi autonoma rilevanza: la Consulta non solo ignora il problema della diretta applicabilità o efficacia diretta della norma europea (peraltro affermata dalla Corte di giustizia. Non solo, ma quid qualora la questione fosse posta con riferimento al regolamento 2016/679/UE, atto che per definizione è direttamente applicabile?), ma non tiene neppure conto della propria giurisprudenza sul punto, consolidatasi da Granital in poi.

            La Corte costituzionale rivendica invece il dovere di «esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale». Non solo, ma disvela anche l’ambizione di voler «contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti» (critico Bronzini, La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?, in Questione giustizia, 4/2018).

            Ora, è chiaro che le tradizioni costituzionali comuni esprimono quei valori che emergono dalle giurisprudenze nazionali in materia di diritti fondamentali e che si sono formati in applicazione delle rispettive costituzioni. Ma spetta solo alla Corte di giustizia il compito di enuclearne la definizione condivisa, il contenuto comune a tutti gli Stati membri. Solo attraverso questa elaborazione può comporsi quel patrimonio costituzionale europeo che consente la formazione di quella fiducia reciproca tra gli Stati membri, che costituisce un principio cardine (la «pietra angolare», CGUE, parere 2/13) del sistema dell’Unione  (v. ancora Tizzano, op. cit., 76).

            In questo caso i termini della questione sono del tutto diversi: in una fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione la Consulta semplicemente utilizza come parametro di costituzionalità l’art. 3 Cost.

            Molto simile è lo schema argomentativo seguito dalla Corte costituzionale nella più recente sentenza 63/2019. Qui la questione riguardava la legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 di attuazione della direttiva 2013/36/UE relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, per il profilo del mancato riconoscimento della retroattività in mitius delle sanzioni previste per la fattispecie di abuso di informazioni privilegiate.

            Un caso del genere avrebbe presupposto che in primo luogo il giudice comune avesse esperito il tentativo di interpretare la norma nazionale in modo conforme alla direttiva e alla Carta; poi, in caso di dubbi interpretativi, egli avrebbe dovuto rinviare alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE o, nel caso in cui avesse ritenuto la disposizione legislativa incompatibile con il diritto dell’Unione, sollevare questione di costituzionalità per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alle disposizioni dell’Unione rilevati. Invece la Corte d’appello di Milano ha individuato come parametri l’art. 3 e l’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU. Solo in un breve passaggio della motivazione è fatto riferimento all’art. 49, par. 1, della Carta.

            A questo proposito va osservato che l’Avvocatura generale dello Stato aveva eccepito l’inammissibilità della questione relativa al possibile contrasto con l’art. 49, par.1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in quanto un tale contrasto avrebbe piuttosto potuto formare oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE. La Corte costituzionale ha però respinto l’eccezione sul rilievo che l’art. 49, par. 1, della Carta non è stato richiamato nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione ma solo nella motivazione e ha inoltre ribadito i principi affermati nelle sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019 secondo cui «a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti».

        Il profilo che desta particolare perplessità è l’individuazione del «duplice, e concorrente fondamento» del principio di retroattività della lex mitior in materia penale. «L’uno – di matrice domestica – riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. ... L’altro – di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo …, nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell’art. 11 Cost.» (par. 6.1).

            La Carta, per quanto rilevante anche ai sensi dell’art. 11 Cost., viene dunque inquadrata tra le, e assimilata alle, garanzie che «il diritto internazionale dei diritti umani», insieme alla Costituzione, assicura alla materia penale (par. 6.3).

            Il diritto internazionale dei diritti umani, ovvero un grande, unico, calderone in cui bolle «una pluralità di basi normative», accomunata dalla «ratio della garanzia» e dal «limite della tutela assicurata,…non assoluta, ma aperta a possibile deroghe» che siano giustificabili al metro del vaglio positivo di ragionevolezza richiesto dalla giurisprudenza costituzionale, in una ponderazione dei vari interessi di rango costituzionale in gioco.

            Non può non notarsi che questa giurisprudenza sembra clamorosamente ignorare le diversità tra la Carta e i Trattati UE, da un lato, e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e gli altri trattati in materia, dall’altro lato (tra l’altro la lunga motivazione è prevalentemente dedicata all’esame della giurisprudenza CEDU e molto poco al diritto dell’UE. Mentre è solo l’art. 49, par. 1, a sancire espressamente il principio della lex mitior e forse proprio per questo tanto più importante sarebbe stato interpellare la Corte di giustizia sulla sua interpretazione). Diversità che invece era stata evidenziata nella sentenza 348/2007, sia pure sotto il solo profilo dell’efficacia diretta delle norme dell’Unione.

            Ebbene, non possono ignorarsi le profonde differenze tra la Carta e la CEDU; differenze che riguardano l’origine e l’ambito spaziale in cui si collocano, la diversa natura ed efficacia normativa, la diversa funzione e, last but not least, il diverso modus operandi.

            La CEDU è e resta un accordo internazionale, sia pure di altissimo significato valoriale, che vincola un grande numero di Stati europei, quarantasette, non sempre omogenei tra loro culturalmente, socialmente, politicamente, economicamente (alcuni dei quali addirittura ingaggiati tra di loro in un conflitto armato) impegnandoli al rispetto di uno standard minimo di tutela dei diritti fondamentali della persona. Il sistema di garanzia in essa previsto è finalizzato ad esercitare un controllo esterno sugli Stati parti che si aggiunge ai meccanismi interni in un rapporto di sussidiarietà (di cui sono espressione la regola, prettamente internazionalistica, del previo esaurimento dei ricorsi interni e il riconoscimento di ampi margini di apprezzamento per gli Stati parti). Come gli altri trattati internazionali in materia, la Convenzione detta standard minimi di tutela dei diritti e proprio per questo motivo è corredata dalla tipica clausola di salvaguardia del più alto livello di protezione (art. 53 CEDU, che ha una funzione molto diversa dall’art. 53 Carta), allo scopo di consentire agli Stati di applicare lo standard di protezione più alto derivante dalle loro Costituzioni e quindi di evitare una riduzione del livello di protezione dei diritti fondamentali (da qui la nota teoria della “massimizzazione delle tutele”). Il che ovviamente non esclude l’eventualità che determinati diritti, quali risultanti alla luce della giurisprudenza dalla Corte di Strasburgo, ricevano una tutela più ampia di quella offerta dalla Costituzione (Corte cost. 25/2019)

            Ben diversa è la natura e la funzione della Carta. Essa non è un trattato internazionale, non è il frutto di un negoziato internazionale, bensì dell’elaborazione da parte di un organismo di altissimo livello, la Convenzione, rappresentativo di istanze di varia natura: dei Governi nazionali, del Presidente della Commissione, del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, della Corte di giustizia e di altri organismi dell’Unione. Dopo essere stata solennemente proclamata dalle tre Istituzioni politiche dell’Unione nel 2000, ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi in forza dell’art. 6, par. 1, TUE quale modificato dal Trattato di Lisbona. E dunque, fa oggi parte a tutti gli effetti dell’ordinamento giuridico dell’Unione ed è accompagnata dalla garanzia di quel principio fondamentale della nostra Costituzione sancito nell’art. 11.

            Come ricordato dalla Corte di giustizia nel parere 2/13 (punto 167 ss.) e più recentemente nella sentenza 24 ottobre 2018, C-234/17, XC (punto 36 ss.), «il diritto dell’Unione si caratterizza per il fatto di derivare da una fonte autonoma, costituita dai Trattati, per il suo primato sul diritto dei singoli Stati membri, nonché per l’effetto diretto di tutta una serie di disposizioni applicabili ai cittadini di detti Stati membri nonché agli Stati stessi. Al centro di tale costruzione giuridica si collocano proprio i diritti fondamentali, quali riconosciuti dalla Carta – che, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, TUE, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati».

            La Carta è dunque la fonte autonoma dei diritti fondamentali dell’Unione il cui rispetto si impone, per espressa previsione del suo art. 51, alle Istituzioni e agli organi dell’Unione, costituendo il presupposto della legittimità dei loro atti, e agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, ogniqualvolta ci si trovi nell’ambito di competenza del diritto dell’Unione sono le norme della Carta a costituire il parametro di riferimento, lo standard comune, per la definizione dei diritti garantiti e la Corte di giustizia ne è il suo giudice (CGUE 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni). Non solo, ma la Corte di giustizia, dimostrando profonda coerenza sistematica con la propria giurisprudenza, ha riconosciuto gli effetti diretti, anche orizzontali, delle disposizioni della Carta che sanciscono un diritto di «carattere allo stesso tempo imperativo e incondizionato» che non richiede una concretizzazione ad opera delle disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale (CGUE 17 aprile 2018, C-414/16, Egenberger, punto 76; 6 novembre 2018, C- 684/16, Max-Planck, punto 74 ss., entrambe in materia di diritti sociali!).

            Mi sembra che queste conclusioni non possano esser smentite neppure da altre due considerazioni.

            Mi riferisco, in primo luogo, alla giurisprudenza Åkerberg Fransson in cui la Corte di giustizia ha riconosciuto che qualora il caso riguardi un settore, al momento dei fatti, non armonizzato o armonizzato solo parzialmente, gli Stati membri e i loro giudici potranno «applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione» (CGUE 26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, punti 29 e 47, e 5 dicembre 2017, C-42/17, M.A.S., M.B.). Tale giurisprudenza trova fondamento nel fatto che, in presenza di normative dell’Unione di armonizzazione parziale, o in mancanza di armonizzazione, gli Stati membri conservano una sfera di discrezionalità, più o meno ampia a seconda dei casi, che però deve essere esercitata in coerenza con il sistema dell’Unione. È ovvio che tale ultima verifica è di competenza della Corte di giustizia e non delle varie Corti costituzionali o Corti supreme degli Stati membri. È infatti la Corte di giustizia il garante esclusivo del «rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati» secondo quanto previsto dall’art. 19 TUE. E quest’ultima constatazione sembra verosimilmente implicare l’opportunità o la necessità di interpellare la Corte di giustizia in via pregiudiziale, così da consentire un dialogo proficuo tra i giudici europei e quelli nazionali.

            In secondo luogo mi sembra che l’autonomia della Carta non possa essere smentita dalla circostanza che essa «riafferma … i diritti derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri…» (Preambolo, par. 5). L’indiscusso carattere ricognitivo della Carta non ne esclude infatti il valore innovativo nella misura in cui essa codifica in maniera sistematica e in un unico testo, diritti sanciti in atti di cui non sempre identico è il contenuto precettivo; così come non identica è la loro originaria portata normativa, trattandosi in alcuni casi di convenzioni internazionali, in altri di dichiarazioni solenni. E di diversa ampiezza sono poi gli ambiti soggettivi di applicazione degli atti di riferimento.

            E neppure vale a smentire l’autonomia della Carta il rinvio alle “fonti” delle sue disposizioni previsto dall’art. 6, par. 1, TUE il quale, rimandando alle Spiegazioni, richiede che i diritti, le libertà e i principi della Carta siano interpretati alla luce dei corrispondenti diritti risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni o sanciti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Al contrario, più che come un vincolo interpretativo, quel rinvio sembra infatti avere la funzione di garantire la necessaria elasticità del sistema, nella misura in cui consente all’interprete l’opportuno adeguamento dei diritti e dei principi garantiti all’evoluzione dei sistemi giuridici di riferimento, in una dinamica virtuosa di coordinamento e complementarietà degli stessi. Ma ancora una volta questo compito non può che essere della Corte di giustizia in dialogo con i giudici nazionali. E d’altro canto, la giurisprudenza della Corte di giustizia mostra di mantenere un approccio flessibile e discrezionale nel riferimento a quelle fonti, in maniera tale da salvaguardare l’autonomia e la specificità del diritto dell’Unione (CGUE 15 febbraio 2016, C‑601/15 PPU, J.N., punto 47), nel dialogo continuo con i giudici nazionali.

            Un’ultima riflessione. Vero è che i diritti sanciti nella Carta trovano riconoscimento nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e negli atti internazionali in materia. Così come è altrettanto vero che i diritti fondamentali esprimono tutti i medesimi valori, integrandosi e arricchendosi reciprocamente in una dinamica virtuosa. Va detto però che non necessariamente tali diritti hanno identico contenuto e portata nei diversi ordinamenti. Osservo, infatti, che, in linea di principio, e con l’esclusione del diritto alla vita e il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, neppure i diritti fondamentali hanno una portata assoluta in quanto devono confrontarsi con altri diritti e interessi rilevanti e la loro definitiva portata varia in funzione dei cambiamenti e dell’evoluzione del sistema in cui vivono. Ora, questa operazione ermeneutica non può che essere contestualizzata nell’ordinamento specifico, ovvero quello competente, alla luce delle caratteristiche e degli obiettivi propri di tale ordinamento e dunque, nell’ambito di competenza dell’Unione, in base agli obiettivi dei Trattati quali enunciati nell’art. 3 TUE (Tizzano, op.cit., 75; CGUE 20 marzo 2018, C-524/17, Menci, punto 41).

            In un ordinamento come quello dell’Unione che è profondamente integrato a quello dei suoi Stati membri, questo compito è in primo luogo affidato alla Corte di giustizia. Sarà poi il giudice nazionale ad applicare nello specifico procedimento il principio di diritto enunciato a Lussemburgo, coordinandolo con i principi e la normativa nazionali.

            La Corte di giustizia ha costantemente valorizzato il ruolo interpretativo che il giudice nazionale è chiamato a svolgere nell’applicazione al caso concreto del principio di diritto da essa enunciato, lasciandogli ampi margini di discrezionalità nella determinazione del contenuto stesso della legge applicabile e nella formazione della giurisprudenza anche ai fini della definizione dei requisiti di prevedibilità e determinatezza della norma giuridica (tra le molte, CGUE sentenza del 28 marzo 2017, C‑72/15, Rosneft, punti 162 e 167; 5 dicembre 2017, C-42/17, M.A.S. e M.B., punto 59. Diversamente, la Corte costituzionale nella sentenza 115/2018, par. 11, ha affermato che «nel diritto scritto di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo». In argomento v. anche Mori, Il principio di legalità e il ruolo del giudice comune tra Corte costituzionale e Corti europee, in Il Diritto dell’Unione europea, 2018, p. 97-119).

            Alla luce di queste considerazioni il dialogo tra le giurisdizioni nazionali, in particolare quelle di ultima istanza, e la Corte di giustizia attraverso la procedura del rinvio pregiudiziale, proprio perché consente una continua, effettiva osmosi tra i valori giuridici europei e quelli nazionali, assume importanza essenziale e trova la sua garanzia nei Trattati istitutivi e, per l’Italia, nell’art. 11 Cost.

     

        Prof.Bruno Nascimbene

        1.Con riferimento alla seconda domanda, osservo.

            È possibile che la Corte costituzionale abbia avviato una "presunta costituzionalizzazione" della Carta. Un elemento in tal senso sarebbe rappresentato dalla sentenza 20/2019, par. 2.3: “Questa Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti” . La Corte rivendica una competenza (e quindi sembra “costituzionalizzare” la Carta) quando si tratti di diritti e principi fondamentali. L’affermazione della Corte è stata criticata perché riprende, “ma con toni più distensivi quanto già detto nella 269”.

             La critica si riferisce anche al ruolo che la Corte si attribuisce di “contribuire” a fornire una interpretazione ed effettività dei diritti fondamentali in armonia con le tradizioni costituzionali comuni. Non è, invero, la Corte cost., ma la Corte di giustizia ad accertare ed interpretare, ai fini della tutela di tali diritti, le tradizioni comuni: così come interpreta e applica la Carta (cfr. Bronzini in  http://questionegiustizia.it/articolo/la-sentenza-n-202019-della-corte-costituzionale-it_04-03-2019.php). Critica condivisibile. Non sarebbe, invero, corretto, “nazionalizzare” o “costituzionalizzare” la Carta al fine di attribuire alla Corte cost. un ruolo che è invece della Corte di giustizia. L’armonia deve essere reciproca, il dialogo deve essere prioritario, altrimenti l’integrazione (anche fra le Corti) ne risulterebbe compromessa. 

             Le idee “sovraniste” non debbono pregiudicare dialogo e integrazione, anche nei rapporti fra Giudici. Il ricorso alla teoria dei controlimiti deve essere eccezionale, e non può certo essere evocato a sostegno di quelle idee: sempre più diffuse, almeno in questo momento storico.

     

        Prof.Roberto Mastroianni

            La recente giurisprudenza della Corte costituzionale apre la strada ad un processo non tanto di “costituzionalizzazione” (la Carta è già per sua stessa natura un testo di portata costituzionale, produttivo di effetti giuridici nell’ordinamento nazionale non solo in base all’ordine di esecuzione contenuto nella legge di esecuzione del Trattato di Lisbona, ma soprattutto grazie alla copertura dell’art. 11 Cost.), ma di “internizzazione” della Carta, nel senso che questa concorre con i parametri interni per la soluzione delle medesime antinomie a livello costituzionale. Questa è palesemente la portata della più recente sentenza n. 63 del 2019, con la quale la Corte ha deciso la questione di legittimità costituzionale relativa ad una norma (art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72) in tema di divieto di retroattività in melius di una nuova e più favorevole disciplina sanzionatoria dell’abuso di informazioni privilegiate. La Consulta ha accolto le questioni, sollevate anche con riferimento a parametri europei, utilizzando esclusivamente un parametro interno (art. 3 Cost.), letto ed interpretato tuttavia alla luce della Carta, della CEDU e della giurisprudenza delle corti europee, oltre ovviamente a quella della Corte costituzionale.

            La sentenza dimostra che l’utilizzo combinato delle fonti “costituzionali” può portare a risultati virtuosi, attraverso un reciproco arricchimento delle fonti coinvolte e quindi del rispettivo ruolo delle Corti. Più difficile è giungere al medesimo risultato qualora le varie fonti non convergano verso il medesimo risultato – vale a dire la maggiore tutela del diritto fondamentale in questione, nel caso della sentenza n. 63 il principio di eguaglianza -  ma servano ad operare un bilanciamento tra più diritti fondamentali coinvolti nella medesima fattispecie (ad es., diritto all’informazione e tutela della privacy). In questo caso è ovviamente più complicato puntare alla “maggior tutela”, in quanto la più ampia protezione di un diritto porta inevitabilmente alla compressione di un altro. In casi del genere, qualora la fattispecie rientri nel campo di applicazione sia della Carta, sia della Costituzione nazionale, le scelte delle diverse corti, anche riferite a diritti “sulla carta” identici, potrebbe essere divergenti, ponendosi in ipotesi un delicato problema di scelta tra soluzioni non necessariamente sovrapponibili.

            In ogni caso, il ruolo della Carta e dei giudici nazionali sarebbe depotenziato qualora si escludesse in linea di principio la capacità delle prima di attribuire direttamente posizioni giuridiche invocabili in giudizio e il potere/dovere del giudice comune di svolgere il suo ruolo consolidato di ”giudice naturale” del diritto europeo, chiamato a dare immediata e piena tutela i diritti che quest’ultimo intende attribuire. Ruolo che porta necessariamente all’immediata tutela dei diritti consacrati nella Carta, se necessario disapplicando le regole interne con essa incompatibili. Tuttavia, questo risultato, di certo non in linea con la posizione sostenuta dalla Corte di giustizia in numerose pronunce (ad esempio nella sentenza 24 ottobre 2018, causa C-234/17, XC e altri), sembra oggi da escludere alla luce della più recente posizione assunta dalla Corte costituzionale nella sentenza 63 del 2019.

     

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