GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

     La democrazia non può avere paura della verità

    La democrazia non può avere paura della verità

     La democrazia non può avere paura della verità

    Intervista di Maria Elena Vincenzi a Claudia Pinelli

     Sommario:  1. La scelta del tema. - 2. Intervista. – 3. Conclusioni

    1. La scelta del tema

    Giuseppe Pinelli, ferroviere e anarchico, fu fermato il 12 dicembre del 1969 insieme ad altri compagni, qualche ora dopo la strage di Piazza Fontana con l’accusa di essere coinvolto nell’attentato. Tre giorni dopo, il 15 dicembre, scadute da tempo le 48 ore previste dalla legge perché il fermo non era stato convalidato dal magistrato, Pinelli precipitò da una finestra del quarto piano della questura di Milano e morì.

     La questura parlò inizialmente di un suicidio, lasciando intendere che Pinelli, colpevole, avesse preferito morire. Alla fine, dopo smentite, imbarazzi e processi, la versione ufficiale fu quella di un malore. Mentre le inchieste su piazza Fontana hanno dimostrato l’innocenza di Pinelli, nessuno è mai stato perseguito per il decesso dell’anarchico.  

     La morte di Pinelli, in un periodo cruciale della storia d’Italia, è stato sempre un tema molto controverso e simbolo della divisione del Paese.

     Nel 2009, a 40 anni dalla morte, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, invitando la vedova al Quirinale, disse che Pino Pinelli era vittima due volte “prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un’improvvisa, assurda fine”.

     Ma Pino Pinelli era anche marito e padre di due figlie. Ha lasciato due bambine e una giovane donna che per tutta la vita hanno ricordato il padre e cercato la loro verità.   

      2. Intervista

     Sono passati cinquant’anni esatti dalla morte di suo padre. Sua madre, lei e sua sorella vi siete sempre impegnate per ottenere giustizia e per mantenere viva la memoria. Qual è il suo bilancio?

    “La morte di Giuseppe Pinelli è ancora scomoda. In tanti anni qualche passo avanti è stato fatto, ma quello che è accaduto a mio padre rivela delle responsabilità da parte dello Stato che sono evidenti, eppure, ancora non vengono ammesse nella loro completezza. Una democrazia compiuta non può avere paura della verità. Di Pino Pinelli se ne può parlare, della sua vita, dei suoi valori, del suo impegno, ma parlare della sua morte è tuttora difficile”.

     Che cosa ricorda di quella notte?

    “Io avevo otto anni, mia sorella nove, stavamo dormendo quando mia madre, Licia, ci sveglia e ci veste. Arrivano degli amici che ci portano a casa loro. So, dai racconti di mia mamma, che poco prima alla porta avevano suonato dei giornalisti che le avevano dato la notizia. Mia madre, dopo averli cacciati, ha chiamato la questura e le ha risposto il commissario Calabresi. Lei ha chiesto per quale motivo non fosse stata avvisata e si è sentita rispondere: “Sa, signora, avevamo tanto da fare”.

     La questura inizialmente parlò di suicidio, per poi ritrattare. Lei che idea si è fatta?

    “Io in quella stanza non c’ero. La questura di Milano era sicura di avere le risposte, di avere i colpevoli per la strage di Piazza Fontana. La morte di mio padre, invece, ha smontato tutta la loro ricostruzione, ha inceppato il meccanismo. Mio padre era un anarchico ed era uno dei facili capri espiatori, come lo sono stati altri suoi compagni che sono stati detenuti anche se innocenti. Nel 1975, poi, è arrivata una sentenza che attribuiva a un malore la morte di mio padre.  Io non lo so, non posso dire che non credo a questa ricostruzione, certo prima di allora non si era mai sentito parlare di malore. E’ vero che era in stato di fermo da oltre 72 ore, illegalmente, senza cibo e sonno. Ma è strano che un uomo che si sente male cada da una finestra, piuttosto che accasciarsi a terra. E’ sembrata una soluzione alla Ponzio Pilato” 

     Oltre alla polizia, c’era la magistratura. Quale atteggiamento avete percepito da parte dei giudici?

    “A fronte di tanti magistrati che hanno cercato di fare il loro lavoro sulle stragi, per Pinelli ci sono state solo archiviazioni. Su piazza Fontana ormai si sa tutto proprio perché ci sono stati giudici coraggiosi che ci hanno provato, anche se i colpevoli non hanno mai pagato. Mia madre, che credeva nella giustizia e ha sempre cercato la verità nei tribunali, subito dopo la morte denunciò per diffamazione il questore di Milano, Marcello Guida. La cosa fu ben presto archiviata perché il fatto non costituiva reato: il questore poteva fare e dire ciò che voleva. Non è mai stato chiamato a rispondere di questo, così come nessuno è mai stato chiamato a rispondere del fermo illegale di Pino o della prima, falsa, versione del suicidio. Nel 1972, il procuratore generale di Milano affidò al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio una nuova inchiesta: morto il pg, però, quel magistrato si trovò solo con una vicenda delicatissima tra le mani. Dopo tre anni, ha chiuso. Pinelli, d’altronde, era un granellino, l’indagine importante era quella sulla strage di piazza Fontana. E chiunque si fosse occupato di mio padre non avrebbe fatto carriera, né in magistratura né in politica”.

     Insomma, la “vostra” giustizia non è mai arrivata?

    “La storia la scrivono i vincitori e gli storici si basano sulle sentenze. E noi non siamo mai entrate in un’aula di tribunale. Come al solito, è tutto sulle spalle delle famiglie, anche se noi abbiamo potuto contare su tante persone. Bisogna trovare la forza di reagire alle ingiustizie, ma bisogna anche avere la forza economica per pagare avvocati, perizie. Noi non abbiamo avuto nemmeno la possibilità di fare una perizia con consulenti di parte, siamo sempre state difese da legali che non hanno chiesto denaro”.

     Oggi, cinquant’anni dopo, cosa rimane? Siete pacificate?

    “Non ho bisogno di pacificarmi. Quella che un tempo è stata rabbia, è diventata qualcosa di positivo. Il nostro non è stato un lutto esclusivamente privato, è stato di tutti. E quello che ha fatto mia madre, lo ha fatto per Pino e per noi. Per me e per mia sorella, per permetterci di avere una vita. Da bambina ho sempre pensato che prima o poi qualcuno ci avrebbe chiesto scusa, ma per avere un riconoscimento ci sono voluti 40 anni: nel 2009 Napolitano ha invitato mia madre al Quirinale e ha parlato di Pino, finalmente, come vittima. Per lei è stato molto importante. E anche per noi. Lo ha fatto anche Mattarella. In questi giorni, ho letto da qualche parte la parola “riabilitazione”: Pino non deve essere riabilitato, Pino era un innocente”.  

    Lei e sua sorella fate molte attività anche nelle scuole. Incontrate tanti giovani. Che cosa pensano? Conoscono questa parte di storia?

    “Sì, la morte di Pino è sentita ancora come una cosa vicina, non da commemorare. C’è ancora tanta attenzione, curiosità. Ai ragazzi dico sempre di continuare ad avere una mente critica. Io non voglio togliere la fiducia nelle istituzioni, dico solo che non si deve pensare che siano immutabili, ferme, distanti. Una democrazia non può avere paura della verità, deve riconoscere anche i propri errori perché solo così diventa compiuta. Ecco, questo a noi non è successo”.

    La cronaca, anche recente, dimostra che ancora è difficile per lo Stato processare se stesso.

    “Purtroppo sì. Lo Stato continua a fare fatica a mettersi in discussione. Nei casi più recenti, fortunatamente, qualcuno ha parlato, facendo saltare le coperture. Per noi non è stato così. Nessuno, nemmeno dopo anni, ha rotto il silenzio su Pino”.

     Claudia, un’ultima domanda. Perché lei chiama suo padre Pino?

    “Io sono Claudia Pinelli, figlia orgogliosa di Giuseppe e Licia. Però devo vivere la mia vita, certe volte sento il bisogno di mantenere un distacco emotivo. Voglio portare avanti la sua testimonianza e mi impegno per questo insieme a mia sorella, ma bisogna anche mantenere un equilibrio per permettere alla vita, la propria, di andare avanti.”

      

    3. Conclusioni

     “Una democrazia non può avere paura della verità”. Sono parole forti quelle di Claudia Pinelli. E fanno pensare perché, ancora oggi, a distanza di 50 anni dai fatti che la hanno coinvolta personalmente, la cronaca giudiziaria ci rimanda casi in cui lo Stato fatica a riconoscere a fare i conti con le proprie responsabilità.

    La storia di Claudia è quella di una donna, di una figlia, rimasta orfana ad appena 8 anni, che insieme alla madre e alla sorella, si impegna per ricordare il padre. Non vuole parlare di commemorazione perché Pino Pinelli è ancora vicino. 

    E’ la storia di tre donne vittime che hanno saputo trasformare il loro lutto, che pure ha avuto una carica non solo simbolica ma anche politica fortissima, in un’occasione di riflessione per la società civile. E forse un’occasione per la nostra democrazia di guardarsi un po’ dentro. Non è stato facile: il primo riconoscimento ufficiale è avvenuto quando erano passati 40 anni dalla morte di suo padre. Ma è arrivato. Ed è una lezione che è importante continuare a portare in giro. Perché, come dice lei, “la democrazia deve saper riconoscere anche i propri errori”. 

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    CATEGORIA LE INTERVISTE DI GIUSTIZIA INSIEME

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