Il referendum abrogativo parziale dell’art. 9, comma 1, lett. b), e dell’intero art. 9, comma 1, lettera f), della l. 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di cittadinanza, per consentire a tutti gli stranieri maggiorenni extraeuropei di ottenere la cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza legale in Italia
V. A. Poso. Su iniziativa di +Europa e altri partiti (Possibile, Radicali Italiani, Partito Socialista Italiano, Rifondazione Comunista) e di molte associazioni di varia formazione e operanti in campo sociale e solidaristico (con il fattivo sostegno anche della CGIL, impegnata nella promozione dei quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche ) è stato promosso il referendum abrogativo di alcune disposizioni normative del comma 1 dell’art. 9, l. 5 febbraio 1992, n. 91 (dopo la comunicazione in data 4 settembre 2024 dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 208 del 5 settembre 2024).
Questa la denominazione proposta dai promotori: «Cittadinanza italiana: Abrogazione delle disposizioni che non permettono la concessione della cittadinanza italiana allo straniero maggiorenne non appartenente a uno Stato membro dell’Unione europea dopo cinque anni di residenza legale nel territorio della Repubblica».
Questo il quesito referendario «“Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole "adottato da cittadino italiano" e "successivamente alla adozione"; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: "f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.", della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza"?».
Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato da + Europa, sintetizza in maniera efficace il significato di questo referendum e gli obiettivi da realizzare con l’esito positivo del voto: «Grazie a questo referendum verranno ridotti da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli e alle proprie figlie minorenni.
Questa semplice modifica rappresenterebbe una conquista decisiva per la vita di molti cittadini di origine straniera (secondo le stime si tratterebbe di circa 2.500.000 di persone) che, in questo Paese, non solo nascono e crescono, ma da anni vi abitano, lavorano e contribuiscono alla sua crescita. Partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani. Diritti oggi negati».
Vi chiedo, di illustrare la disciplina normativa oggetto di questo referendum. Innanzitutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica e delle condizioni che legittimano la concessione della cittadinanza, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto, di integrazione e inclusione, poste a fondamento della l. n. 91/1992.
G. D’Amico. Il criterio principale di acquisto della cittadinanza italiana è definito dalla legge n. 91/1992 nel c.d. ius sanguinis e cioè dalla nascita da un genitore di cittadinanza italiana. Si afferma infatti che è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini. Limitata operatività ha nel nostro ordinamento il c.d. ius soli, e cioè la rilevanza della nascita sul territorio ai fini dell’acquisto della cittadinanza. Si tratta del caso di chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono. In tal modo si vuole evitare la condizione di apolidia in cui potrebbe incorrere il minore. Si prevede inoltre che sia considerato cittadino per nascita anche il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza. Si tratta dunque di ipotesi che hanno un ambito di operatività assai limitato.
Connessa allo ius sanguinis è anche l’ipotesi dell’acquisto della cittadinanza per adozione, che vede legare la condizione di parentela all’acquisizione della cittadinanza italiana: i minori stranieri che siano stati adottati da un/a cittadino/a italiano/a diventano cittadini per effetto della trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile. Gli adottati maggiorenni, invece, possono chiedere la cittadinanza trascorsi cinque anni dall’adozione. Quest’ultima previsione è oggetto del quesito referendario volto ad ampliarne la portata anche oltre l’ambito dell’adozione.
Vi sono poi altre modalità di acquisto della cittadinanza, tra cui quella per matrimonio: possono acquisire la cittadinanza italiana gli stranieri (o gli apolidi) che contraggono matrimonio o un’unione civile con un cittadino italiano o una cittadina italiana, quando, dopo il matrimonio o l’unione, risiedano legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio o dell’unione se residenti all’estero. In entrambi i casi, non devono essere intervenuti lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non deve sussistere la separazione personale dei coniugi.
Si può acquistare la cittadinanza anche per naturalizzazione e cioè decorso un certo numero di anni di residenza legale sul territorio come condizione di acquisto della cittadinanza. In Italia tale periodo è tra i più lunghi, se comparato con gli Stati dell’Unione europea, perché è stato fissato a 10 anni.
F. Biondi Dal Monte. In via generale, le varie modalità di acquisto della cittadinanza possono essere classificate tra i casi c.d. per beneficio di legge e quelli per concessione. Nel primo caso, il soggetto in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge ha diritto, se intende usufruirne, di acquistare la cittadinanza: si tratta dunque di casi a cui corrisponde un diritto soggettivo tutelabile dinanzi al giudice ordinario. Nei casi di concessione, invece, la cittadinanza è acquisita a seguito di una valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione, in relazione alla quale l’interessato può vantare soltanto un interesse legittimo.
Tra i casi classificabili come beneficio di legge rientra quello dello straniero o apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, se, oltre a dichiarare di voler acquistare la cittadinanza, si trovi in una delle seguenti condizioni: a) aver prestato effettivo servizio militare per lo Stato italiano (con dichiarazione preventiva di voler acquistare la cittadinanza italiana); b) aver assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero (con dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza italiana); c) residenza da almeno due anni nel territorio della Repubblica al raggiungimento della maggiore età, con dichiarazione, entro un anno dal compimento dei 18 anni, di voler acquistare la cittadinanza italiana.
Altro caso molto importante di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge è quello dello straniero che sia nato in Italia e vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. L’art. 4 della legge n. 91/1992 prevede che tali stranieri possano chiedere la cittadinanza entro un anno dal compimento dei 18 anni.
Vari sono stati i problemi legati alla dimostrazione della residenza legale sul territorio fino al compimento della maggiore età, che può essere inficiato da eventuali interruzioni nelle registrazioni anagrafiche, o dalla mancata richiesta dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza entro il termine di un anno dalla maggiore età. Positiva la disciplina adottata con il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98, e volta a semplificare il procedimento di acquisto della cittadinanza italiana per lo straniero nato in Italia, al quale non devono essere imputati eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione, purché egli possa comunque dimostrare la sua presenza effettiva in Italia fino alla maggiore età con idonea documentazione (ad esempio pagelle scolastiche, certificazioni di vaccinazioni sanitarie, ecc.). Inoltre, al fine di favorire la conoscenza di tale modalità di acquisto della cittadinanza, il d.l. n. 69 del 21 giugno 2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n.98, all’art. 33,comma 2, ha anche introdotto un obbligo per gli ufficiali di stato civile di comunicare agli interessati, nei sei mesi precedenti il compimento della maggiore età, la possibilità di esercitare il diritto all’acquisto della cittadinanza entro il compimento del diciannovesimo anno di età. In mancanza di tale comunicazione, il diritto all’acquisto della cittadinanza può essere esercitato anche dopo la scadenza di detto termine.
Dall’altro lato, tra i casi di cittadinanza per concessione vi sono, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 91/1992: i) il caso dello straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera c); ii) il caso dello straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione; iii) il caso dello straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato; iv) il caso del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; v) il caso dell’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica; infine vi) il caso dello straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
Tale ultima previsione, secondo la proposta referendaria, verrebbe ad essere abrogata e verrebbe altresì modificata la previsione relativa al maggiorenne adottato, per estenderla a tutti gli stranieri riducendo quindi conseguentemente la residenza da 10 a 5 anni.
V. A. Poso Si tratta, comunque, di una modifica – quella prospettata dal referendum – che è limitata solo a ridurre il requisito minimo di residenza legale dello straniero extracomunitario in Italia. Per una maggiore comprensione del quesito referendario ci illustrate, in termini generali, se e quali sono le differenze, con riferimento agli stranieri di Stati non appartenenti all’Unione Europea, per ottenere la cittadinanza italiana, rispetto ai cittadini europei?
F. Biondi Dal Monte. Come anticipato, l’art. 9 della legge n. 91/1992, introduce varie differenze nella durata della residenza legale interrotta ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, differenziando da un minimo di 3 anni ad un massimo di 10 anni. Per i cittadini di altri Stati dell’Unione europea, anche alla luce del favor per la cittadinanza europea, tale durata è estesa fino a 4 anni. La residenza deve essere legale e continuativa e pertanto la persona deve essere iscritta all’Anagrafe senza periodi di residenza all’estero o di irreperibilità in Italia.
G. D’Amico. Anche i cittadini dell’Unione possono incontrare le difficoltà comuni ad altre categorie di straniero: e cioè il possesso di un determinato livello di reddito, la conoscenza della lingua italiana e l’assenza di precedenti penali e/o condanne, con sentenza definitiva per alcune tipologie di reato, o la sussistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica Italiana.
V. A. Poso Ci sono molti altri aspetti della cittadinanza italiana e dei requisiti necessari per ottenerla, anche nella prospettiva di alcune riforme preannunciate. Iniziamo dal requisito dello ius sanguinis, con uno sguardo anche alla legislazione degli altri Stati europei.
G. D’Amico. Negli ultimi mesi si sono susseguite alcune iniziative legislative che si sono concretizzate, dapprima, nell’approvazione di un disegno di legge e, poi, nell’adozione di un decreto-legge di cui parlerà la prof.ssa Biondi Dal Monte. Il 28 marzo 2025 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge in tema di cittadinanza, che introduce il principio del “legame effettivo” tra la persona e lo Stato ai fini dell’acquisto della cittadinanza, condizionandola dunque alla sussistenza di un effettivo vincolo con il Paese che la conferisce. Tale legame viene considerato effettivo se la persona può vantare una “residenza qualificata” in Italia, caratterizzata da un periodo di tempo sufficientemente lungo (pari almeno a due anni continuativi).
F. Biondi Dal Monte. Parallelamente il Consiglio dei ministri ha anche approvato un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti in materia di cittadinanza, d.l. 28 marzo 2025, n. 36, pubblicato nella G.U. n. 73 del 28 marzo 2025 (il relativo d.d.l. di conversione in legge, che è stato approvato, con modificazioni, il 15 maggio dal Senato e, in via definitiva, il 20 maggio dalla Camera dei deputati, è in corso di pubblicazione sulla G.U.), che anticipa l’entrata in vigore di alcune delle norme previste nel richiamato disegno di legge e relative alla limitazione nella trasmissione automatica della cittadinanza iure sanguinis. Le nuove previsioni stabiliscono che i discendenti di cittadini italiani, nati all’estero, saranno automaticamente cittadini solo per due generazioni: solo chi ha almeno un genitore o un nonno nato in Italia sarà cittadino dalla nascita. I figli di italiani acquisteranno automaticamente la cittadinanza se nascono in Italia oppure se, prima della loro nascita, uno dei loro genitori cittadini ha risieduto almeno due anni continuativi in Italia. Tali limiti valgono solo per chi ha un’altra cittadinanza, per evitare casi di apolidia, e si applicano a prescindere dalla data di nascita (prima o dopo l’entrata in vigore del decreto-legge).Saranno comunque esaminate secondo la previgente normativa le richieste di riconoscimento della cittadinanza documentate e presentate entro le 23.59 (ora di Roma) del 27 marzo 2025.
V. A. Poso. E poi lo ius scholae, che ritorna spesso nelle riforme proposte da alcuni partiti e movimenti. Cosa significa, concretamente, e quanto lo ritenete realizzabile?
F. Biondi Dal Monte. La legge n. 91/1992 è stata al centro di numerose proposte di modifica finalizzate prevalentemente a adeguare la disciplina alle nuove istanze provenienti dalla società civile, che ha visto stabilizzare la presenza dei cittadini stranieri in Italia, aumentare il numero dei nati da genitori stranieri e i nuclei familiari, incrementare il numero degli alunni stranieri nelle scuole italiane.
Tra queste, meritevoli di particolare attenzione sono le proposte riguardanti la possibilità di acquisto della cittadinanza per i minori entrati sul territorio nei primi anni di vita o comunque prima della maggiore età (c.d. ius domicilii) e per coloro che avessero frequentato e/o concluso uno o più cicli di istruzione in Italia (c.d. ius scholae o anche ius culturae). Tale ultimo caso, declinato in vario modo nelle differenti proposte di modifica, ha il pregio di valorizzare il percorso di effettiva integrazione della persona sul territorio e la sua partecipazione alla vita scolastica, sostituendo a criteri per lo più statici una condizione che ha il pregio di valorizzazione anche un profilo “dinamico” della vita della persona sul territorio.
Al di là delle varie opzioni normative, le proposte di riforma pendenti testimoniano la necessità di valorizzare la presenza stabile e strutturale dei cittadini stranieri nella società contemporanea e le seconde e terze generazioni di migranti, privilegiando il legame di fatto sviluppato tra l’individuo e lo Stato rispetto a una rigida applicazione di convenzioni formali.
G. D’Amico. Senza entrare nel merito di proposte di riforma che finora non hanno mai superato l’esame nella commissione parlamentare competente, si tratta di progetti che perseguono l’obiettivo di riconoscere la cittadinanza italiana a giovani che hanno concluso un percorso di formazione in Italia al punto da doversi ritenere perfettamente integrati nel contesto sociale e culturale italiano, e che anzi percepiscono come assai sfumato il rapporto di appartenenza con il paese di origine dei loro genitori. Peraltro, siffatte proposte si collocano su una posizione intermedia tra coloro che immaginano il riconoscimento della cittadinanza per ius soli e quanti invece si oppongono a qualsiasi modifica della legge n. 91. Proprio per questa ragione quelle anzidette sono proposte intorno alle quali potrebbe coagularsi in Parlamento un consenso trasversale. Si tratta quindi di iniziative che, a mio avviso, devono essere sostenute e incentivate.
V. A. Poso. Qual è lo stato dell’arte della normativa degli altri Stati europei sullo ius scholae?
G. D’Amico. Il tema della comparazione con quanto stabilito in altri ordinamenti è un leit-motiv di ogni dibattito su possibili riforme (siano esse legislative o costituzionali). Spesso però l’argomento comparativo viene utilizzato per sostenere la propria posizione o per screditare quella della parte avversa, senza il necessario approfondimento sull’utilità della comparazione e soprattutto sulla sua fattibilità.
Al riguardo, infatti, merita di essere precisato che solitamente l’asserita comparazione si riduce a una rassegna di diritto “straniero”, senza cioè che siano adeguatamente approfonditi i contesti storici, culturali, politici e sociali in cui la normativa esaminata è sorta e si è evoluta. Faccio solo un esempio per rendere maggiormente esplicito il senso di quanto sto dicendo: se si volessero trarre dall’esperienza legislativa della Francia (che pure è un Paese vicino culturalmente, oltre che geograficamente, all’Italia) indicazioni utili sul tema della cittadinanza, bisognerebbe inevitabilmente fare i conti con una realtà che, per ragioni legate al passato coloniale e a più recenti politiche di “ghettizzazione” nelle grandi città metropolitane, si presenta profondamente diversa da quella italiana, al punto da rendere fuorviante o comunque assai problematica l’“importazione” di modelli legislativi.
F. Biondi Dal Monte. Nel merito degli ordinamenti di singoli Paesi, occorre precisare che in alcuni Paesi (come ad esempio in Germania e in Francia), pur non essendo previsto un legame tra la concessione della cittadinanza e la frequenza del sistema scolastico, non mancano alcuni modi di ottenimento della cittadinanza legati, ad esempio, ad un livello eccezionale di integrazione, anche dimostrabile con il raggiungimento di risultati scolastici di lato livello (Germania) o alla conclusione del ciclo scolastico obbligatorio (Francia, sia pure in presenza di alcune ulteriori condizioni).
Quanto poi a forme “più dirette” di riconoscimento della cittadinanza per ius scholae, esse sono previste in Grecia (che presenta la normativa maggiormente simile a quella che si vorrebbe introdurre in Italia) e in Portogallo, ma anche in Lussemburgo e in Slovenia (sebbene siano previsti anche altri requisiti).
A prescindere però dai punti di contatto e di differenza delle legislazioni di questi Paesi rispetto a quella che si vorrebbe introdurre in Italia, occorre ribadire che la comparazione non deve essere intesa come uno strumento per legittimare un’acritica trasposizione di modelli legislativi nati da esperienze diverse da quella italiana ma come un ausilio per testare la validità di soluzioni normative già sperimentate in altri ordinamenti.
V. A. Poso. Ritornando, in particolare, alle disposizioni oggetto del quesito referendario, come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria? La ritenete sufficiente? Può essere l’occasione di una riforma organica della cittadinanza?
F. Biondi Dal Monte. Il quesito referendario ha il pregio di sollecitare una riflessione sul tema e stimolare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. Tuttavia, mi pare che il disegno di legge approvato a fine marzo da parte del Consiglio dei Ministri – e ancora di più il d.l. n. 36 del 2025 – vada in una direzione differente rispetto ad una riforma organica della materia, concentrandosi solo su alcuni profili ritenuti meritevoli di attenzione. Si evidenzia comunque che, nelle premesse al d.l. n. 36/2025, la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure per evitare “un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l’ordinata funzionalità degli uffici consolari all’estero, dei comuni e degli uffici giudiziari” è affermata “nelle more dell’approvazione di una riforma organica delle disposizioni in materia di cittadinanza”. L’auspicio è pertanto quello di favorire un ampio confronto parlamentare sul disegno di legge annunciato a fine marzo, affinché in quella sede possano essere ampliati gli obiettivi della riforma.
Occorre dunque distinguere tra l’effetto diretto della richiesta referendaria che non può non investire solo alcune (poche) disposizioni e l’effetto (per così dire) indiretto, individuabile nell’apertura di un dibattito pubblico su una questione che dovrebbe occupare un ruolo centrale nell’agenda politica del Parlamento e del Governo.
G. D’Amico. La richiesta referendaria ha – com’era inevitabile – un carattere “parziale”, incidendo solo su alcune specifiche e ben circoscritte disposizioni. D’altra parte, non poteva avvenire diversamente. Se infatti fosse stato richiesta l’abrogazione totale dell’intera legge n. 91, siffatto quesito sarebbe incorso in una facilmente prevedibile inammissibilità, incidendo su una normativa costituzionalmente necessaria.
Ad analogo esito sarebbe andata incontro anche una richiesta che avesse investito più disposizioni della legge in parola, senza che fosse rinvenibile una matrice razionalmente unitaria.
Quanto poi al fatto che la richiesta referendaria possa essere l’occasione per una riforma organica della cittadinanza, credo che a questo esito possa giungersi solo nel caso di raggiungimento del quorum nella consultazione referendaria e di prevalenza dei voti favorevoli all’abrogazione delle disposizioni oggetto del quesito. Provo a spiegarmi meglio. Non v’è dubbio che la richiesta di referendum abbia contribuito a “rispolverare” il tema della modifica della legge sulla cittadinanza portandolo al centro del dibattito pubblico, ma basterebbe il mancato raggiungimento del quorum per farlo nuovamente cadere nel dimenticatoio per poi riemergere magari in occasione di qualche tornata elettorale.
V. A. Poso. È opportuno, credo, fare una riflessione sulla giurisprudenza delle Alte Corti, anche sovranazionali, per gli aspetti che possono interessare il tema oggetto del quesito referendario.
G. D’Amico. L’esame, sia pure superficiale, della giurisprudenza delle altre Alte Corti, sconta quel limite di cui sopra si è detto a proposito della comparazione. In altre parole, l’utilità della pronuncia di questa o quella Corte costituzionale o Corte Suprema o Tribunale costituzionale va sempre valutata alla luce del contesto di riferimento. Non si vuole qui negare in radice che l’argomento comparativo sia o possa essere un proficuo supporto per il giudice interno, ma si intende solo sottolineare l’importanza di un suo uso accorto. Nel caso di specie, questa preoccupazione tende a sfumare a seconda del livello di regolazione preso in esame. In altre parole, se si guarda al livello costituzionale della disciplina in materia non può che rilevarsi una comprensibile affinità tra le normative di Paesi diversi e quindi tra le giurisprudenze delle relative Corti Supreme; se invece, si scende al livello della legislazione primaria o organica (là dove essa è prevista) si colgono in tutta evidenza le diverse sfumature e quindi l’inevitabile divergenza delle relative giurisprudenze costituzionali.
F. Biondi Dal Monte. Muovendo dalla prospettiva in parola, non può non sottolinearsi l’importanza della pronuncia della Corte internazionale di giustizia nel caso Nottebohm del 1955, nel quale per la prima volta è stata sottolineata l’esistenza di limiti alla discrezionalità dei legislatori statali in materia di cittadinanza. Limiti, che, com’è facilmente comprensibile, si rendono necessari per evitare quei conflitti (sia positivi sia negativi) che possono sorgere tra le normative di Stati diversi nel caso in cui la loro applicazione comporti o il riconoscimento in capo a un individuo di plurime cittadinanze o, all’opposto, il mancato riconoscimento di alcuna cittadinanza e quindi la condizione di apolidia. Di qui l’esigenza pratica di rinvenire un nucleo fondamentale del diritto alla cittadinanza e legare il vincolo di cittadinanza tra la persona/cittadino e lo Stato all’esistenza di legami effettivi e genuini (genuine link).
Senza entrare nel merito delle decisioni di alcune Corti sovranazionali, merita di essere richiamato il fatto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non menziona siffatto diritto, che, nondimeno, ha trovato spazio (e riconoscimento) nella giurisprudenza della Corte EDU per il tramite dell’art. 8 della Convenzione. A fronte delle difficoltà che la Corte EDU ha incontrato nel riconoscere e garantire la cittadinanza come diritto fondamentale, si segnala invece come la Corte interamericana dei diritti umani abbia svolto da tempo un’opera di costante “rafforzamento” della configurazione della cittadinanza come diritto umano, sottolineando i limiti internazionali che la discrezionalità degli Stati incontra. Particolarmente interessanti anche alcune pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea in relazione al legame tra acquisizione/perdita della cittadinanza di uno Stato membro e cittadinanza dell’Unione.
V. A. Poso. Passiamo all’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024 che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 9, comma 1, lett. b) e lett. f), della l. n. 91/1992 (nei termini più sopra illustrati) al quale è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”: così semplificando la denominazione proposta dai promotori, della quale abbiamo detto sopra, e aggiungendo alla originaria proposta avanzata dalla Cassazione (con l’ordinanza interlocutoria del 2 dicembre 2024), per la migliore comprensione del quesito, il rifermento numerico ai tempi dimezzati, da 10 a 5 anni.
Nessun problema si pone per i requisiti di ammissibilità del referendum abrogativo individuati dalla Cassazione e per gli obiettivi perseguiti dai promotori chiaramente diretti a realizzare il dimezzamento dei tempi necessari per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli stranieri extracomunitari. Altrettanto penso si possa dire del carattere immediatamente e univocamente comprensibile ai cittadini chiamati al voto dell’oggetto del quesito referendario come individuato dalla sintetica denominazione adottata. Avete qualche osservazione e precisazione al riguardo?
F. Biondi Dal Monte. In proposito, occorre ricordare che l’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di cassazione è chiamato a svolgere un controllo sulla regolarità della richiesta referendaria che quindi non si sovrappone a quello della Corte costituzionale ma ne costituisce la premessa logica. La verifica della conformità a legge della richiesta non può infatti che precedere l’esame della sua ammissibilità che, come vedremo, comporta un sindacato anche sul quesito referendario.
Quanto poi alla denominazione del quesito, mi sembra evidente come la formula approvata dall’Ufficio centrale sia decisamente più comprensibile per l’elettorato.
G. D’Amico. Anche a mio avviso, l’Ufficio centrale per il Referendum non era chiamato a particolari approfondimenti per licenziare la richiesta referendaria, che si presentava lineare e di agevole comprensione. Per quanto possa apparire paradossale, semmai la denominazione originaria della stessa poteva indurre a qualche fraintendimento, essendo troppo legata, dal punto di vista letterale, alle disposizioni della legge n. 91 del 1992.
V. A. Poso. Con la sentenza n.11 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della norma e per le parti indicate oggetto del quesito.
La Corte Costituzionale, dopo aver rilevato che le disposizioni oggetto della richiesta referendaria sono estranee alle materie per le quali l’art. 75, comma 2, Cost. preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo, ha affermato di essere chiamata a valutare il rispetto dei soli requisiti concernenti la formulazione del quesito, non venendo in rilievo limiti concernenti l’ambito materiale investito dal quesito referendario. E richiama i principi espressi nella sentenza n. 16 del 1978.
Quali sono le Vostre valutazioni, di carattere generale, in merito al rispetto della norma costituzionale?
G. D’Amico. La sentenza n. 11 del 2025, pur non affermando principi nuovi, presenta profili di unicità nel panorama giurisprudenziale relativo alle norme sulla cittadinanza.
Se è vero, infatti, che la Corte, più volte e anche in tempi recenti, è stata investita di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto norme della legge 5 febbraio 1992, n. 91(si pensi, tra le più recenti, alla sentenza n. 25 del 2025, in merito all’esonero dalla prova di conoscenza della lingua italiana del richiedente affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico, alla sentenza n. 195 del 2022, sulle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, e alla sentenza n. 258 del 2017 sull’obbligo di prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica per le persone affette da disabilità), con la decisione qui esaminata il Giudice delle leggi è stato chiamato per la prima volta ad affrontare un giudizio di ammissibilità di un referendum sulla legge in parola. A ciò si aggiunga che mai prima d’ora la Corte era stata investita di una questione attinente alla durata temporale del periodo di residenza in Italia affinché uno straniero potesse acquistare la cittadinanza italiana. È inutile aggiungere che la rilevanza di questa novità deriva dall’attualità del tema nel dibattito pubblico italiano, in cui ormai da anni si discute, in modo – a dire il vero – più propagandistico che reale, di ius soli e/o di ius scholae.
Nel giudizio definito con questa sentenza la Corte non era certamente chiamata ad occuparsi di questi profili, né, più semplicemente, a giudicare sulla costituzionalità della normativa vigente. Peraltro, per giurisprudenza costante (in realtà, più declamata che praticata), esula dalla valutazione di ammissibilità del referendum il sindacato sulla legittimità costituzionale della relativa norma di risulta.
Nel caso di specie, la domanda dei richiedenti ha ad oggetto l’abrogazione dell’intera disposizione di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 9 della legge de qua e di alcune parole della lettera b) del medesimo comma. Entrambe le disposizioni elencano alcuni dei soggetti a cui può essere concessa la cittadinanza italiana. In particolare, la lettera f) menziona lo «straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica». La lettera b) si rivolge invece allo «straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione».
È evidente che la prima delle due disposizioni reca la disciplina generale per la concessione della cittadinanza allo straniero, stabilendo un periodo di residenza legale di almeno dieci anni, mentre la seconda costituisce una delle previsioni speciali che consentono agli stranieri che si trovino in particolari condizioni (ad esempio, maggiorenni adottati da cittadini italiani, cittadini di Stati membri U.E., apolidi e rifugiati) di ottenere la cittadinanza anche dopo un periodo di residenza legale inferiore ai dieci anni (rispettivamente, cinque, quattro e cinque anni).
L’intento dei promotori è dunque quello di abrogare la norma generale, sostituendo a questa la previsione di cui alla lettera b), che diventerebbe tale in virtù dell’abrogazione dei riferimenti, ivi contenuti, all’adozione da parte di un cittadino italiano.
F. Biondi Dal Monte. La Corte costituzionale ha confermato che, in caso di approvazione del referendum abrogativo, verrebbe a essere modificato esclusivamente il tempo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda di cittadinanza – pari a cinque anni – restando invece fermi i soggetti che potranno fare la richiesta, i restanti requisiti per presentarla (la residenza nel territorio della Repubblica e, ai sensi dell’art. 9.1 della l. n. 91/1992, l’adeguata conoscenza della lingua italiana), nonché la natura di «atto squisitamente discrezionale di “alta amministrazione”» del provvedimento concessorio.
Profilo importante della decisione, è anche la considerazione che la normativa di risulta non è estranea alla cornice normativa di riferimento. La Corte chiarisce infatti che lo stesso quinquennio di residenza legale sul territorio nazionale – oltre a essere stato per lungo tempo, nell’ordinamento giuridico italiano, il requisito temporale la cui sussistenza era necessaria allo straniero per poter richiedere la cittadinanza italiana (art. 4, comma primo, numero 2, della legge n. 555 del 1912) – è il requisito già oggi necessario ove vogliano richiedere la cittadinanza italiana gli stranieri maggiorenni adottati da cittadino italiano (ai sensi dell’altra disposizione oggetto della richiesta referendaria, l’art. 9, comma 1, lettera b), gli apolidi (art. 9, comma 1, lettera e), nonché coloro che siano stati riconosciuti rifugiati (art. 16): i cinque anni di residenza legale, pertanto, non sono una cifra che «figura in tutt’altro contesto normativo» (sentenza n. 36 del 1997) ma, al contrario, sono cifra già utilizzata dal legislatore per le medesime esigenze (sentenza n. 26 del 2017). Ciò esclude anche la natura manipolativa del quesito, perché l’approvazione della richiesta referendaria non genererebbe «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (sentenza n. 26 del 2017). Secondo la Corte, la normativa di risulta, al contrario, sarebbe pienamente in linea non solo con i princìpi (sentenza n. 49 del 2022), ma anche con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio già utilizzato dal legislatore (sentenza n. 13 del 1999) e del quale non muterebbe i «tratti caratterizzanti» (sentenza n. 10 del 2020).
V. A. Poso. Secondo la Corte costituzionale, la combinazione delle due diverse abrogazioni, avrebbe l’esito di consentire a tutti gli stranieri maggiorenni extracomunitari di ottenere, previa richiesta, la concessione della cittadinanza italiana, rendendo il quesito «omogeneo, chiaro e univoco» (punto n. 5 del Considerando in diritto). Condividete questa valutazione espressa anche alla luce delle precedenti sentenze n. 16 del 1978, n. 49 del 2022 e n. 50 del 2022?
F. Biondi Dal Monte. Sì, come affermato dalla Corte, è ammissibile anche la formulazione di quesiti che abbiano a oggetto singole parole o singole frasi, eventualmente anche prive di un autonomo significato normativo (sentenza n. 32 del 1993), come nel caso in questione. Tale tecnica – pur potendo portare a «importanti sviluppi normativi» (sentenza n. 49 del 2022), in quanto «abrogare non significa non disporre, ma disporre diversamente» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008) – non deve però trasformare il referendum abrogativo ex art. 75 Cost. in referendum propositivo. E infatti nel caso di specie, la richiesta non è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999). Non risulta dunque superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito, la quale del resto è in certa misura inevitabile, senza che per ciò solo il referendum dismetta il proprio carattere abrogativo.
G. D’Amico. La parte in diritto della motivazione della sentenza n. 11 si apprezza per la sua sintesi; la Corte, infatti, liquida rapidamente il problema dell’eventuale esistenza di limiti concernenti l’ambito materiale investito dalla richiesta referendaria, affermando perentoriamente che non vengono in rilievo nel caso di specie. Si aggiunga che siffatto approccio è anche giustificato dal carattere parziale e, tutto sommato, marginale dell’intervento abrogativo richiesto, limitato – come si è detto – a due disposizioni. Ben altro discorso si sarebbe reso necessario in presenza di un quesito di più ampia portata, che probabilmente avrebbe reso inevitabile il riconoscimento della legge in parola come costituzionalmente necessaria. Ciò nondimeno, la domanda referendaria non si rivolge affatto ad aspetti di dettaglio della legge, bensì a una delle norme centrali (appunto la previsione generale per gli stranieri extracomunitari), incidendo sul requisito temporale della residenza legale.
Il Giudice delle leggi si sofferma quindi sul «rispetto dei soli requisiti concernenti la formulazione del quesito», sottolineandone l’omogeneità, la chiarezza e l’univocità, oltre all’esistenza di una matrice razionalmente unitaria. Esclude poi che l’effetto abrogativo richiesto possa determinare una modificazione in peius della posizione dello straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano. Aggiunge che non è superata la «soglia di tollerabile manipolatività», mancando quei «connotati di manipolatività [del quesito] idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale». La disciplina vigente non è, infatti, sostituita con un’altra diversa ed estranea al contesto normativo.
Si tratta di considerazioni che non possono non essere condivise anche perché in linea con la giurisprudenza consolidata della Corte che, nell’ambito dell’ammissibilità referendaria, non brilla per la coerenza delle posizioni assunte nel tempo e soprattutto si segnala per un atteggiamento tendenzialmente restrittivo nei confronti delle richieste popolari di abrogazione di leggi.
V. A. Poso. C’è da dire, anche, concordando con la posizione difensiva espressa dai promotori e condivisa dalla Consulta, che la parziale abrogazione dell’art. 9, comma 1, lett. b), non determinerebbe alcuna modifica in peius della posizione dello straniero maggiorenne adottato da un cittadino italiano perché lo rende legittimato a richiedere la concessione della cittadinanza italiana solo dopo cinque anni di residenza in Italia, mentre in base alla normativa vigente i cinque anni decorrono dall’adozione, anche per il caso in cui si tratti di soggetto già legalmente in Italia.
F. Biondi Dal Monte. Sì, certamente, la posizione dello straniero maggiorenne adottato da un cittadino italiano non subirebbe alcuna modifica in peius, poiché questi potrebbe comunque richiedere la concessione della cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza in Italia.
G. D’Amico. Concordo con la risposta della prof.ssa Biondi Dal Monte e aggiungo che la disposizione oggi vigente (art. 9, comma 1, lettera b) prevede la concessione della cittadinanza «allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione». Di conseguenza, nel quadro normativo attuale, il periodo di cinque anni di residenza in Italia si calcola a partire dall’adozione mentre, qualora fosse approvata l’abrogazione referendaria, si calcolerebbe a prescindere dal momento dell’adozione, ben potendo quindi essere anteriore a quest’ultima.
V. A. Poso. E tuttavia potrebbe ritenersi contraddetta la natura abrogativa dell’istituto referendario (v. sentenza n. 59 del 2022) proprio dalla combinazione di due abrogazioni, una parziale e una totale, per dar vita alla norma di risulta che abbiamo sopra illustrato. La Corte Costituzionale lo esclude (punto n. 6 del Considerando in diritto) richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali.
G. D’Amico. La motivazione svolta sul punto dalla Corte mi pare condivisibile. La constatazione che la normativa di risulta venga fuori dalla combinazione di due abrogazioni, una parziale e una totale, non mi sembra di per sé un argomento per escludere in generale l’ammissibilità di una richiesta referendaria e, nel caso di specie, di quella qui in esame.
F. Biondi Dal Monte. Anch’io condivido la posizione assunta dalla Corte sul punto. D’altra parte, a voler ragionare in termini diversi si finirebbe con il negare l’ammissibilità della gran parte dei quesiti referendari e con il ritornare quindi a una logica formalistica per cui con il referendum ex art. 75 Cost. si può solo chiedere la rimozione di una o più disposizioni senza che si possa produrre alcun effetto di riespansione di una previsione già esistente.
V. A. Poso. Una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999), con riferimento non solo al dimezzamento dei tempi necessari per formulare la richiesta di concessione della cittadinanza, ma anche alla parificazione dei soggetti adottati, ai fini del requisito della residenza legale in Italia.
Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
F. Biondi Dal Monte. A mio parere, la soglia di tollerabile manipolatività non è affatto superata per le ragioni indicate nella sentenza e richiamate nella domanda. Anzi il caso in esame mi sembra costituire una vicenda emblematica del funzionamento del meccanismo di espansione della portata applicativa di una disposizione già presente nel sistema a seguito dell’abrogazione di un’altra previsione normativa.
G. D’Amico. Condivido anch’io la tesi per cui, nel caso di specie, non è superata la «soglia di tollerabile manipolatività», mancando – come testualmente dice la Corte – quei «connotati di manipolatività [del quesito] idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale». La disciplina vigente non è, infatti, sostituita con un’altra diversa ed estranea al contesto normativo.
Se tutto ciò è vero, come in effetti lo è, non può però negarsi che l’eventuale abrogazione referendaria finirebbe con l’appiattire i requisiti temporali voluti dal legislatore. La legge n. 91 del 1992 si caratterizza, infatti, per l’aver previsto una variegata gamma di termini di durata della residenza legale, distinguendo tra le varie ipotesi al fine di differenziare la posizione dei soggetti a seconda delle loro caratteristiche. Si pensi, al riguardo: ai due anni di residenza legale richiesti allo straniero o apolide, al raggiungimento della maggiore età, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado siano stati cittadini per nascita (art. 4, comma 1, lettera c); alla residenza ininterrotta fino alla maggiore età per lo straniero nato in Italia (art. 4, comma 2); ai due anni per il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano (art. 5, comma 1), che possono diventare uno in presenza di figli (art. 5, comma 2) e così via dicendo.
Da questo punto di vista, eliminando il termine lungo di residenza decennale, l’abrogazione referendaria schiaccerebbe verso il basso l’articolazione temporale voluta dal legislatore.
Poteva questa considerazione indurre alla Corte a una decisione di inammissibilità? Probabilmente, sarebbe stato eccessivo questo esito. Nondimeno, resta il fatto che l’eventuale accoglimento del quesito referendario dovrebbe indurre il legislatore a rimettere mano all’articolazione temporale di cui si è appena detto.
V. A. Poso. Escludete, quindi, mi pare di capire, che l’approvazione della richiesta referendaria verrebbe a generare «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020), in base alle considerazioni espresse prima?
G. D’Amico. Mi sento di poter escludere categoricamente che l’approvazione della richiesta referendaria possa generare un assetto normativo nuovo. Come ho cercato di evidenziare nella precedente risposta, l’eliminazione di quella “distribuzione”, voluta dal legislatore quanto ai periodi di residenza, non determina affatto un assetto sostanzialmente nuovo della disciplina di cui qui si discute.
F. Biondi Dal Monte. Non vi è dubbio che l’abrogazione referendaria comporti, per sua stessa natura, un quid novi. D’altra parte, se così non fosse, non avrebbe ragion d’essere. Ciò nondimeno, nel caso di specie, la regola nuova della residenza legale protratta per cinque anni sarebbe il frutto della espansione di una previsione già presente nel tessuto normativo in parola. Mi sento quindi di escludere che si possa determinare un assetto normativo sostanzialmente nuovo.
V. A. Poso. Quindi, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte.
F. Biondi Dal Monte. Sì, è proprio così. Non mi pare che si possa rilevare alcuno stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo.
G. D’Amico. Sono d’accordo con la prof.ssa Biondi Dal Monte. Ritengo infatti che l’osservazione da me fatta in merito allo “schiacciamento” dei tempi di durata della residenza legale, determinato dall’eventuale abrogazione referendaria, non produca alcuno stravolgimento.
V. A. Poso. Già subito dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si potevano prospettare per evitare il voto popolare erano assai problematici. A maggior ragione, ora, che siamo ormai prossimi al voto. La mia domanda, quindi, è davvero retorica. Si fa, così, per discutere: quale potrebbe essere l’intervento del legislatore (non solo quello demolitorio, ovviamente) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
G. D’Amico. Siamo ormai a ridosso della consultazione referendaria. Di conseguenza, qualsiasi tentativo di bloccarla mi parrebbe velleitario e destinato all’insuccesso. In linea puramente teorica, un intervento legislativo idoneo a evitare il referendum avrebbe potuto essere quello volto a modificare il termine di durata della residenza legale di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 9 o addirittura a riscrivere l’intero impianto della legge n. 91 del 1992. È facile però rilevare che nessuno di questi interventi era nell’agenda politica del Parlamento e del Governo
F. Biondi Dal Monte. Condivido quanto detto dal prof. D’Amico e aggiungo che il d.l. n. 36 del 2025 è stato già convertito in legge, come abbiamo detto sopra, con l’approvazione del 20 maggio 2025 da parte della Camera dei deputati. Certo, la conversione del disegno di legge poteva essere l’occasione per intervenire sulla materia oggetto del referendum in esame, ma così non è stato.
V. A. Poso. Mi sembrano ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare, trattandosi di norma di risulta auto-applicativa. Potrebbe essere, questo referendum, l’occasione per un intervento del legislatore diretto a riformare integramente la normativa sulla cittadinanza italiana? Quali sono, secondo Voi, i punti essenziali di una riforma che risponda alla migliore integrazione degli stranieri extracomunitari nel contesto politico, sociale ed economico esistente?
F. Biondi Dal Monte. Sinceramente mi auguro che l’esito positivo di questa consultazione referendaria dia avvio a un percorso riformatore della legge n. 91 del 1992. A mio avviso, una riforma organica della legge sulla cittadinanza dovrebbe valorizzare, al di là della propaganda politica, l’esistenza di quei legami effettivi tra la persona e la comunità italiana. Nell’individuazione dei presupposti per il riconoscimento della cittadinanza, dovrebbero dunque essere privilegiati alcuni indici di integrazione sul territorio, eliminando ogni inutile aggravamento burocratico per gli stranieri che risiedono da tempo in uno Stato o che, addirittura, vi sono nati. Si tratta di un processo che deve prioritariamente compiersi in via politica e dal quale dipenderà la coesione sociale delle future società democratiche. I progetti di riconoscimento della cittadinanza in base al c.d. ius scholae vanno sicuramente in questa direzione.
G. D’Amico. L’auspicio è che la stagione referendaria attuale non finisca con l’essere un fuoco di paglia, destinato a spegnersi nel breve volgere di qualche settimana, specie se – come temo – non si raggiungerà il quorum di validità. Più in generale, mi pare sia emersa in gran parte della dottrina, oltre che tra gli operatori del settore, l’esigenza di una completa riscrittura della legge n. 91 del 1992, approvata in un contesto sociale e politico completamente diverso da quello attuale. In particolare, credo che la riscrittura della legge sulla cittadinanza non possa prescindere da una visione d’insieme (e quindi dalla considerazione) del fenomeno migratorio. È chiaro però che finché quest’ultimo verrà affrontato solo in termini di gestione dell’ordine pubblico, ogni speranza di mettere mano a una riforma organica di questa legge resterà nel libro dei sogni.