La prima magistrata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione
Intervista di Paola Filippi a Margherita Cassano
Il 26 novembre 1947, nel corso della seduta antimeridiana dell'Assemblea Costituente l’onorevole Maria Federici diceva “Ora anche qui, onorevoli colleghi, facciamo la prova, vediamo se la donna è veramente in grado di coprire le cariche che sono inerenti all'alto esercizio della Magistratura. A tutto quanto è stato detto, io potrei rispondere che una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenze umane e un'esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possano nuocere, sono requisiti preziosi che possono agevolare l'amministrazione della giustizia. Potrei rispondere che le donne avranno la possibilità di fare rilevare attraverso un lungo tirocinio la loro capacità; saranno sottomesse e sottoposte ai concorsi e a una rigida selezione. Le donne che si presenteranno a chiedere di salire i gradi della Magistratura devono avere in partenza (e li avranno) i requisiti che possono dare loro una certa garanzia di successo”.
Il 15 luglio 2020 Margherita Cassano è stata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione. Per la prima volta è Presidente aggiunto della Suprema Corte una donna. Dal discorso dell’onorevole Federici sono passati 73 anni.
Margherita Cassano non è una magistrata come le altre, come bene sanno quelli che la conoscono, ha una marcia in più. Prima sostituto procuratore con Pier Luigi Vigna a Firenze, poi giudice. Sin dall’inizio della carriera si è interessata della formazione dei magistrati, quando la scuola era una chimera e la formazione era vissuta in termini di autogestione – i più anziani ricorderanno la famosa “cassetta degli attrezzi”.
La funzione giurisdizionale l’ha sempre esercitata calandola nel sociale, sempre pronta a denunciare le storture di una giustizia ingiusta se non alla portata di tutti.
La dirigenza la declina come funzione al servizio della collettività. Ha improntato l’esercizio delle sue funzioni ai principi della professionalità e credibilità. In coerenza con quello che ha scritto, con Paolo Borgogna, nel 1997, nel saggio Il giudice e il principe: “L'indipendenza della magistratura non è un valore in sé: è un bene strumentale al fine dell'affermazione di legalità e del principio di uguaglianza. La vera legittimazione dei giudici si fonda sulla loro professionalità e credibilità. È soltanto attraverso l'introduzione di controlli seri nei confronti dell'operato dei giudici - che non si trasformino però in controlli politici - che potremo avere dei giudici liberi e all'altezza dei loro compiti: una magistratura indipendente, che sia sentita come patrimonio comune di tutti i cittadini”.
È stata tra le prime quattro donne ed essere eletta consigliera del CSM, nel 1998, insieme a Silvana Iacopino Cavallaro e Manuela Romei Pasetti – dopo Elena Paciotti la prima eletta nel 1990.
Questa intervista come quella a Gabriella Luccioli è dedicata alle magistrate che si accingono a iniziare una carriera che auspichiamo “accessibile” in maniera paritaria in tutte le sue declinazioni. La Sua nomina è un passo significativo verso la parità che, come Ella stessa scrive, potremmo ritenere raggiunta solo “quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna come membro del CSM, come Presidente di Corte d’appello, come Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione”.
Sul filo rosso delle domande Margherita Cassano ci descrive la magistratura degli anni Ottanta. Si sofferma sul ruolo che le donne hanno avuto nel processo di cambiamento e sotto questo profilo ci testimonia la loro empatia nei confronti dei destinatari della risposta di giustizia, la loro disponibilità a cogliere i nessi tra vicende giudiziarie e dimensione sociale, la loro attitudine a ricercare il punto di equilibrio tra repressione e reinserimento sociale.
Richiama la nostra attenzione sullo scarso numero di donne nel settore requirente quanto alla dirigenza e ricorda come presso la Procura generale della Corte di cassazione e la Procura Nazionale antimafia le donne non abbiano ancora mai rivestito ruoli direttivi o semidirettivi.
Chiude l’intervista con una sollecitazione che ci dà la cifra di come svolgerà i suoi compiti in Corte: “il dirigente di ufficio giudiziario, per assolvere al meglio il suo compito, deve rifuggire da logiche di esercizio dell’attività giudiziaria come “potere” e deve essere sempre animato dalla consapevolezza che è chiamato a rendere un servizio con la massima umiltà, animato dalla consapevolezza del limite, da curiosità intellettuale, grande disponibilità umana, empatia, entusiasmo per un lavoro che è davvero un privilegio svolgere e che ci arricchisce quotidianamente”.
Come è cambiata la magistratura dagli anni ottanta ad oggi? Cosa è cambiato in meglio e cosa è cambiato in peggio?
Nel corso dei decenni trascorsi dall’entra in vigore della Costituzione abbiamo assistito ad una trasformazione sociale imponente non solo della magistratura, ma di tutti gli attori del processo. Per rendersene conto basta rileggere le pagine del libro Diario di un giudice, scritto nel 1955 da Dante Troisi. Un libro che, quando uscì, suscitò polemiche che investirono persino il Parlamento e che costò al suo autore un procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione della sanzione della censura. Nel Diario Dante Troisi parla di sé, di un uomo oppresso dal proprio lavoro di giudice e che avverte un senso di progressiva estraneità al corpo professionale cui appartiene. Descrive una magistratura pervasa da una forte vocazione burocratica, i cui componenti cercano di non avere fastidi per avanzare nella carriera scandita dai concorsi interni. Illustra processi penali instaurati nei confronti degli appartenenti ai ceti più umili, definiti con condanne esemplari per fatti di minima offensività. Parla, soprattutto, di aule di giustizia in cui si affacciano per lo più poveri uomini e donne afflitti da una miseria materiale e culturale desolante.
Tanti altri sono gli avvenimenti che si possono ripercorrere per segnalare il cambiamento avvenuto.
Sono trascorsi circa sessanta anni dall’accusa di leggerezza e scarsa obiettività mossa da un Presidente di Corte d’Appello ad un pretore del proprio distretto solo perché aveva osato iniziare un processo contro un cattedratico dell’Università e dalla sottoposizione a procedimento disciplinare di trentanove magistrati, colleghi di quel pretore, per avere firmato un documento di protesta contro “l’intollerabile intrusione sindacatoria del Presidente della Corte d’Appello”.
Al medesimo periodo risale lo scandalo giudiziario, che indignò l’opinione pubblica, per il nulla osta al rinnovo del passaporto rilasciato da un pubblico ministero ad un importante industriale tessile imputato di bancarotta fraudolenta che, grazie a tale rinnovo, espatriò in Libano.
Meritano di essere ricordate la condanna per diffamazione ai danni del capo del Sifar di due giornalisti che avevano osato denunciare le deviazioni di un apparato di fondamentale importanza per la difesa dello Stato, nonché l’avocazione e la successiva archiviazione, nell’interesse del Paese, delle indagini relative ad un colonnello del Sifar e alla scomparsa dalla sua abitazione di alcuni importanti documenti sull’arruolamento illegale di taluni agenti.
Sembra appartenere all’archeologia giudiziaria il processo per il reato di pubblicazione di atti osceni instaurato contro alcuni studenti e il preside di un liceo milanese, colpevoli di avere pubblicato, sul giornale scolastico, un’indagine sulla vita affettiva delle ragazze di oggi in cui si potevano leggere le seguenti risposte “scandalose”, ritenute dall’accusa, un incitamento alla corruzione di fanciulli ed adolescenti: «sarebbe necessario impostare il problema sessuale su basi serie, cioè introdurre un’educazione sessuale anche nelle scuole, per chiarire le idee su certi problemi fondamentali che ognuno ad una certa età si trova a vivere, in modo che il problema sessuale non sia un tabù, ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza».
Che cosa, negli anni successivi, ha prodotto il cambiamento?
È la Costituzione che pone le robusta fondamenta su cui, nei decenni successivi, si costruisce lo statuto di autonomia ed indipendenza della magistratura che oggi tutti noi conosciamo: autonomia ed indipendenza da ogni altro potere (art. 104), soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101), accesso alla magistratura tramite concorso (art. 106), inamovibilità (art. 107), istituzione di un Consiglio Superiore della Magistratura competente per assegnazioni, promozioni, trasferimenti e procedimenti disciplinari.
Non tutti questi principi costituzionali hanno, però, avuto immediata attuazione.
Il CSM iniziò ad operare nel 1959, ossia a distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale.
Fu nel 1963 che, grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale, venne abrogata la norma che subordinava l’azione del CSM all’iniziativa del Ministro.
Soltanto nel 1975 venne adottata una riforma del sistema elettorale del CSM che sottraeva ai magistrati di cassazione una posizione assolutamente dominante all’interno dello stesso.
Furono, soprattutto, le leggi che, a partire dal 1963, abolirono i concorsi e introdussero i c.d. “ruoli aperti” per la progressione in carriera a provocare il “progressivo smantellamento dei vecchi strumenti di selezione”, come efficacemente osservato dal prof. Carlo Guarnieri.
Il complesso di questi fattori strutturali, di fondamentale importanza per l’assetto democratico dello Stato, non è, però, da solo, sufficiente a spiegare la successiva trasformazione della magistratura, favorita indubbiamente dal ricambio generazionale e dall’ingresso di magistrati dotati di una nuova sensibilità culturale.
Una conferma di tale affermazione può essere tratta dall’analisi dell’elaborazione giurisprudenziale negli anni cinquanta, anni bui in cui i magistrati chiamati a dare effettività ai nuovi principi contenuti nella Carta fondamentale si erano formati sotto la dittatura fascista, erano pervasi dalla paura della propria indipendenza, una sorta di vera e propria agorafobia per dirla con le parole di Calamandrei, ed esprimevano prospettive culturali anguste o totalmente confliggenti con il nuovo quadro costituzionale di riferimento. In questo contesto non deve, quindi, stupire che le sentenze affermassero che è un modo lecito di salvaguardare l’unità familiare picchiare la propria moglie a scopo di correzione oppure che il costante rifiuto delle prestazioni sessuali da parte di un coniuge costituisce il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Del pari non deve meravigliare che un’austera rivista giuridica annotasse che la disparità di trattamento dei coniugi nel codice civile non è altro che il provvidenziale riflesso di una legge naturale.
In quegli stessi anni la Corte Costituzionale dichiarava la legittimità costituzionale dell’art. 559 cod. pen. che puniva la moglie adultera e il suo correo, mentre il marito adultero andava esente da pena, salvo che tenesse una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove (art. 560 cod. pen.). Si dovrà attendere il 1968 prima che la Consulta, mutando indirizzo, cancelli questa vergogna dal nostro codice penale.
Questi esempi dimostrano che i principi, anche i più alti e nobili come quelli sanciti dalla nostra Costituzione, hanno bisogno per vivere ed alimentarsi di donne ed uomini culturalmente adeguati che sin dai tempi della loro formazione scolastica abbiano assimilato i valori su cui si fonda una democrazia ed abbiano imparato ad affinare la loro sensibilità.
È ciò che avviene verso la fine degli anni sessanta, un decennio che si apre con il boom economico e si chiude con l’esplosione della scolarità. Donne ed uomini di diversa estrazione sociale, culturale, geografica hanno finalmente l’opportunità di accedere all’istruzione scolastica superiore, quindi all’università e da lì, superato il concorso, fanno ingresso in magistratura, dove portano nuova linfa e fermento di idee e di sensibilità che consentono un’attenta lettura della legislazione ordinaria nella prospettiva costituzionale e avviano un dialogo proficuo con la Corte Costituzionale, divenuto nel corso degli anni sempre più intenso.
Sul finire degli anni sessanta muta, quindi, la provenienza sociale dei nuovi magistrati e, contemporaneamente, mutano le culture anche grazie all’apertura alle donne, avvenuta nel 1963, dopo una lunga e dura battaglia condotta da due giovani laureate in giurisprudenza. E’ una battaglia destinata a suscitare approfonditi dibattiti in dottrina, ma che non ha grande eco nell’opinione pubblica. Occorreva superare pregiudizi forti e radicati, se è vero che qualche decennio prima studiosi considerati aperti e avveduti diffidavano dal rischio di sciogliere ogni freno all’attività femminile, e sconvolgere a mente fredda la società, in quanto la donna è essere tanto delicato e sublime da temere o sdegnare le lotte della vita, epperò da doversi circondare piuttosto di culto che di diritti. Ancora nel 1953 Piero Calamandrei doveva polemizzare contro coloro che sostenevano che alle donne mancherebbe proprio quel requisito psicologico che è richiesto in maniera specifica per l’ufficio del giudice; cioè il raziocinio, l’attitudine a sillogizzare che nelle donne sarebbe soverchiata dal sentimento.
Oggigiorno queste considerazioni possono far sorridere e fare pensare che abbiano unicamente una valenza storica. Non è così, occorre conservare memoria di queste vicende, poiché nessun traguardo può mai dirsi definitivamente conseguito. I magistrati più giovani devono avere precisa consapevolezza del lungo e tormentato cammino che li ha preceduti per non disperdere un patrimonio di valori e continuare a dare ad essi compiuta attuazione attraverso un dibattito arricchito dalla pluralità delle opinioni e dei punti di vista.
È questa un’esigenza che si avverte particolarmente dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario che ha profondamente inciso sul reclutamento dei magistrati e ha trasformato il relativo concorso, rendendolo di “secondo grado”, ossia aperto esclusivamente a chi possiede specifici titoli legittimanti. Questa innovazione, insieme con la riforma degli studi universitari in giurisprudenza, ha comportato un progressivo allungamento dei tempi di accesso alla professione (oltre i trent’anni) e difficoltà obiettive per coloro che versano in situazioni economiche disagiate, in assenza di un organico sistema di sussidi e di altre forme di sostegno. Tale situazione, di cui troppo poco si dibatte, rischia di avere obiettive ricadute sulla rappresentatività sociale della magistratura e di trasformare nuovamente il corpo professionale in una espressione dei ceti sociali più abbienti con intuibili riflessi sulla ricchezza dell’attività interpretativa che trae sicura linfa dalla molteplicità delle visioni culturali e delle esperienze di vita.
In questo contesto problematico un prezzo ancora più pesante rischia di essere pagato dalle donne, attesa la difficoltà di conciliare il lungo percorso degli studi, le scelte di vita personali, le prime fasi di conferimento delle funzioni giudiziarie che possono comportare un significativo allontanamento dal neo-costituito nucleo familiare o la disgregazione dello stesso, tanto più drammatica in presenza di figli in tenera età.
Negli anni ottanta, quando Tu sei entrata in magistratura, iniziava progressivamente ad aumentare il numero delle donne che vincevano il concorso, era l’inizio della curva che sta portando alla femminilizzazione della magistratura italiana. Quanto le donne hanno cambiato la magistratura?
Ogni corpo professionale si arricchisce e cresce se all’interno di esso hanno modo di confrontarsi sensibilità, culture, esperienze diverse. La molteplicità e pluralità dei punti di vista è fondamentale per alimentare l’attività di interpretazione della legge, divenuta oggi sempre più complessa nell’articolato contesto delle fonti normative di livello nazionale e sovranazionale e dei principi elaborati dalle Corti. Ritengo, perciò, che costituisce un fattore imprescindibile di crescita il confronto costante anche all’interno della magistratura, di uomini e donne, animati dalla comune consapevolezza della grande responsabilità che grava su di loro e della necessità di fornire risposte meditate, razionali, complete alle domande di giustizia mediante provvedimenti motivati in modo sintetico, esauriente, logico e caratterizzati da un linguaggio chiaro e incisivo.
Tanto premesso ritengo che la presenza delle donne in magistratura – così come negli altri “mestieri” – abbia contribuito ad un significativo mutamento nel modo di intendere e vivere l’attività giudiziaria, l’organizzazione dell’ufficio, le relazioni interpersonali con i colleghi, gli avvocati, il personale amministrativo, gli utenti. Costituiscono un patrimonio squisitamente femminile la particolare attenzione riservata alle dinamiche psicologiche, alle “sfumature” dell’esistenza, la valorizzazione dei diversi apporti professionali che possono essere forniti da ciascuno, il rifiuto di qualsiasi forma di personalismo e la tensione ideale verso il conseguimento di un risultato che possa dirsi realmente corale e faccia sentire ciascuno partecipe di una determinata scelta.
Nelle colleghe con le quali ho avuto la fortuna di collaborare ho colto spesso anche un’apprezzabile empatia nei confronti delle persone che vivono spesso esperienze drammatiche e una immediata disponibilità a cogliere i nessi tra vicende giudiziarie e dimensione sociale in cui esse si collocano, a cercare, in collaborazione con le altre istituzioni interessate e nel rispetto delle diverse competenze, un punto di equilibrio tra esigenze preventive, esigenze repressive, finalità di rieducazione e di reinserimento sociale. Penso, in proposito, alle costruttive esperienze vissute nell’ambito dei tavoli tecnici per le tossicodipendenze e nei gruppi di lavoro tesi a dare piena attuazione alla riforma che ha disposto la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Alludo anche ai numerosi Protocolli stipulati per promuovere interventi integrati, tempestivi e corretti a tutela di donne e minori vittime di abusi e di maltrattamenti e per contribuire a diffondere la cultura del rispetto di ogni persona in quanto tale.
Mi riferisco, infine, alla innovativa sperimentazione degli sportelli di prossimità, volti a fornire, nel settore della volontaria giurisdizione, servizi alle fasce più deboli della popolazione presenti in territori geograficamente isolati.
Mentre la presenza femminile tra i magistrati in servizio è in costante crescita ormai da anni, al vertice della piramide il numero delle donne continua ad essere esiguo. Secondo te quali sono le ragioni per cui non riusciamo a rompere il tetto di cristallo. Dipende dal sistema di selezione votato ad optare per il dirigente maschio? Sono retaggi del tardivo ingresso delle donne? O dipende da un generalizzato e diffuso disinteresse, tutto femminile, ad assumere incarichi dirigenziali?
La risposta a questa terza domanda richiede una risposta articolata.
L’accesso sempre più ampio e significativo delle donne ad incarichi direttivi, in passato appannaggio pressoché esclusivo degli uomini, è legato indubbiamente ad un dato anagrafico, a sua volta correlato all’ordinario sviluppo della vita professionale del magistrato a seguito di reclutamento mediante un concorso nazionale che assicura uguali opportunità a uomini e donne.
Al contempo, però, è stata indubbiamente favorito dalla riflessione, maturata ai vari livelli nelle diverse articolazioni del governo autonomo della magistratura, nell’associazionismo giudiziario, nel mondo accademico e, più in generale, nella società civile, sull’importanza della rappresentanza di genere. Ricordo che risalgono alla metà degli anni ottanta le prime iniziative volte ad istituire, all’interno del CSM, un Comitato per le pari opportunità e a promuovere un’analisi attenta e approfondita sulle cause sottese alla autoesclusione delle donne dalla partecipazione ai concorsi per il conferimento di incarichi direttivi, nonché a studiare forme ottimali di organizzazione del lavoro nei diversi ambiti, sì da consentire alle magistrate di conciliare al meglio l’attività giudiziaria con gli impegni familiari.
Grazie a questo rilevante salto di qualità culturale sono state poste le basi per le successive nomine di magistrate quali Presidenti di Sezione in Corte di cassazione (attualmente in Corte di Cassazione le Presidenti titolari delle Sezioni penali costituiscono la metà del totale a differenza che nell’ambito civile), Presidenti di Corte d’Appello (queste ultime salite in breve volgere di tempo da tre a dodici), Presidenti di Tribunale (l’ambito della maggiore rappresentanza).
Ritengo che un fattore di accelerazione dell’accesso delle donne a incarichi dirigenziali sia individuabile anche nell’improvviso abbassamento dell’età pensionabile da settantacinque a settant’anni che ha comportato la scopertura di un rilevante numero di posti e il collocamento anticipato a riposo di una significativa fascia di magistrati compresa tra i sessantasei e i settant’anni i quali, a causa della riforma, avevano perso la legittimazione a concorrere.
Merita, invece, attenta riflessione la circostanza che all’interno della Procura generale della Corte di cassazione e della Procura Nazionale antimafia le donne non rivestano ruoli direttivi. Tale dato deve essere correlato alla netta sotto-rappresentanza delle magistrate quali Procuratori generali e Procuratori della Repubblica. E’ legittimo domandarsi, al riguardo, se l’evidente e obiettivo divario di presenze di donne in posti dirigenziali tra settore requirente e giudicante sia ascrivibile, almeno in parte, alle intrinseche connotazioni dell’attività requirente.
Sono, infine, convinta, anche se non disponiamo di attendibili evidenze empiriche in proposito, che sia tuttora ampiamente diffusa la tendenza delle colleghe alla autoesclusione o per la difficoltà di conciliare la dimensione lavorativa con quella familiare o per diverse priorità e scelte di vita.
Sei stata la seconda consigliera togata del CSM, primo presidente donna della Corte d’Appello di Firenze e ora la prima donna presidente aggiunto della Corte di cassazione. Possiamo dire che il tetto di cristallo lo hai neutralizzato?
Come ho già avuto modo di osservare in altre sedi, la vera parità sarà raggiunta quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna come membro del CSM, come Presidente di Corte d’appello, come Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione.
Vorrei, piuttosto, concludere questa intervista con alcune considerazioni sul mutato ruolo del dirigente di un ufficio giudiziario che si sono progressivamente sviluppate ed arricchite grazie ad interventi del legislatore e della Consulta, resi necessari dall’adeguamento al quadro di riferimento costituzionale, a partire dai principi di autonomia e indipendenza della magistratura, strumentali a garantire il principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e a sottrarre la giurisdizione alle logiche delle maggioranze politiche.
La prima forma di attuazione dell’art. 107, terzo comma, della Costituzione, in base al quale i magistrati si distinguono fra loro soltanto per le funzioni svolte si è avuta con la legge 24 maggio 1951, n. 392, che ha incrinato il precedente assetto gerarchico.
Una decisione della Corte Costituzionale (sentenza 18 luglio 1973 n. 143), che ha dichiarato, in parte, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38 r.d. 12/1941, ha escluso qualsiasi rapporto di subordinazione o di dipendenza gerarchica dei magistrati anche all’interno dell’ufficio. Con la medesima sentenza la Corte ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della predetta norma limitatamente alla omessa previsione della motivazione scritta, da parte del dirigente dell’Ufficio giudiziario, su istanza dell’interessato, delle ragioni di revoca dell’originario provvedimento di assegnazione sì da potere poi promuovere l’intervento del C.S.M. a tutela dell’indipendenza del magistrato.
Il d. lgs. 51/1998, a sua volta, nel modificare gli artt. 42-bis, 47 e 47-quater ord. giud., ha attribuito un inedito rilievo all’attività dei presidenti di sezione nella collaborazione con il dirigente dell’Ufficio, attribuendo loro specifici compiti di organizzazione del lavoro, sorveglianza sui servizi di cancelleria, vigilanza sui magistrati componenti la sezione, scambio di informazioni in ordine agli orientamenti giurisprudenziali maturati all’interno della stessa.
A sua volta il CSM ha concorso al superamento della figura tradizionale del dirigente quale soggetto sostanzialmente “irresponsabile” e dotato di poteri insindacabili, mettendo in luce il poliformismo delle funzioni che spaziano da quelle di amministrazione della giurisdizione a anche quelle di organizzazione del servizio.
In tal modo è stata delineata una nozione ampia di dirigenza non più incentrata sull’idea tradizionale di “uomo solo al comando”, bensì sorretta dalla consapevolezza che l’incisiva strutturazione dell’ufficio nelle sue diverse articolazioni, il corretto funzionamento dell’attività giudiziaria e dei servizi amministrativi, la complessiva capacità di fornire una risposta sollecita e, al contempo, meditata alle domanda di giustizia non dipendono dall’impegno del solo dirigente, ma sono, piuttosto, il frutto dello sforzo ideativo e progettuale dei presidenti di sezione e di tutti gli altri componenti dell’ufficio, chiamati a fornire il loro corale contributo propositivo in una dimensione collaborativa. Sotto quest’ultimo profilo assume specifico rilievo la capacità del dirigente di stimolare in tutti i componenti dell'ufficio le motivazioni necessarie a renderli partecipi delle scelte da compiere, possibilmente d’intesa anche con l’avvocatura, interlocutore ineliminabile della magistratura.
Un impulso decisivo ad un radicale mutamento di prospettiva del ruolo del dirigente è stato, da ultimo, fornito dal novellato art. 111 della Costituzione che, nel sancire il principio di ragionevole durata, ha sottolineato il nesso inscindibile tra fattore tempo e organizzazione come precondizione di effettività di una risposta giudiziaria che sappia coniugare efficienza, tempestività, qualità delle decisioni all’esito di un processo che ponga al centro il rispetto del diritto di difesa e il contraddittorio.
È quindi possibile affermare che, dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, al dirigente di un ufficio giudiziario sono richieste non solo conoscenze tecnico-giuridiche e ordinamentali, ma anche sensibilità ed attenzione al tema dell’organizzazione quale dimensione complessa che opera su molteplici livelli e di cui il magistrato si rende garante proprio in virtù dell’incarico direttivo conferitogli.
Organizzare significa razionalizzare l’attività istituzionale, impegnarsi per fornire una risposta meditata e, allo stesso tempo, tempestiva alla domanda di giustizia, assicurare l’accesso e la trasparenza dei dati disponibili, delle informazioni, delle decisioni e delle logiche ad esse sottese, garantire l’efficienza del servizio pubblico rafforzando, in tal modo, la legittimazione dell’ufficio, di quanti vi operano e, più in generale, dell’intera magistratura.
Vuol dire, anche, rendere conto della propria azione all’intera collettività, dei risultati conseguiti e delle criticità perduranti, sì da superare lo schermo di diffidenza e di sfiducia che spesso connota i rapporti tra giustizia e cittadino.
Implica, infine, la ricerca della collaborazione delle altre realtà istituzionali e sociali operanti sul territorio in modo da fornire un ventaglio di risposte molteplici, ma tutte concorrenti al medesimo obiettivo.
Sottopongo alla vostra valutazione critica queste riflessioni nella convinzione che il dirigente di ufficio giudiziario, per assolvere al meglio il suo compito, deve rifuggire da logiche di esercizio dell’attività giudiziaria come “potere” e deve essere sempre animato dalla consapevolezza che è chiamato a rendere un servizio con la massima umiltà, animato dalla consapevolezza del limite, da curiosità intellettuale, grande disponibilità umana, empatia, entusiasmo per un lavoro che è davvero un privilegio svolgere e che ci arricchisce quotidianamente.