di Paola Ghinoy
Sommario: 1. La questione affrontata - 2. La certezza del diritto come valore - 3. I casi di “imprevedibilità strutturale” della decisione: 3.1. Le questioni nuove - 3.2. Le clausole generali - 3.3. L’adeguamento a principi sovranazionali specifici e determinati – 3.4. La mancata rispondenza sopravvenuta delle norme al contesto di riferimento – 4. Il ruolo del giudice del lavoro
1. La questione affrontata [1]
La domanda che mi viene posta dal moderatore è la seguente: «Nella loro attività interpretativa i giudici possono esprimere una volontà soggettiva in conflitto con quanto dichiarato dalla “legge”? Se ciò è possibile, come possono farlo rispettando l’etica costituzionale della funzione giudiziaria?
Prendendo a prestito le parole di Omar Chessa “la discrezionalità chiamata in causa dai concetti valutativi incorporati nel diritto deve essere esercizio di ratio e non di voluntas”.
Del resto, l’onere della motivazione impone al giudice di prendere in considerazione, e di confrontarsi, con le diverse concezioni e interpretazioni accreditate nel dibattito teorico e giurisprudenziale e gli prescrive di fornire argomenti coerenti, pertinenti, idonei a sorreggere la valutazione alla quale egli giunge.
Così Gino Scaccia che, che riferendosi proprio al giudice, con una sintesi felice precisa: “La sua discrezionalità soggettiva è in tal modo contenuta dall’esigenza di oggettivizzarsi in un percorso motivazionale basato sulla coerenza tra le parti del discorso, la plausibilità rispetto ai paradigmi interpretativi e applicativi preminenti, la corrispondenza delle conclusioni raggiunte a una complessiva ragionevolezza”.
Per altro verso, l’elasticità dei concetti giuridici e la difficoltà per il giudice di riempire la cornice dispositiva attingendo a principi consolidati e stabili paradigmi culturali, porta ad ampliare i confini della creatività giurisprudenziale: soprattutto in questi casi il giudice è tentato di essere infedele alla legge ingiusta forzando gli strumenti dell’interpretazione, pur di ricondurla a un ideale di equità e ragionevolezza, ma incontra i limiti sistemici della separazione dei poteri.
In conclusione, quali sono i presupposti e limiti della discrezionalità del giudice-interprete?»
La domanda è fondamentale e investe i presupposti e limiti della discrezionalità del giudice-interprete. Gli interventi sul tema di Riccardo Del Punta, anche fortemente critici rispetto a certe impostazioni interpretative, non sono mancati, e hanno avuto il pregio di invitare anche noi magistrati ad un’auto-analisi e ad interrogarci sulla nostra identità di giuristi. [2]
Cercherò quindi di affrontare questi temi, senza la pretesa di rispondere esaurientemente, ma esponendo il frutto di una riflessione che mi ha accompagnato nel corso della mia vita professionale e che ancora mi accompagna.
2. La certezza del diritto come valore
Siamo tutti consapevoli del valore della certezza del diritto e della prevedibilità della decisione.
Ricordava Norberto Bobbio che il diritto o è certo o non è diritto. Un diritto non prevedibile lede il principio di eguaglianza, in quanto la difformità di decisioni su casi simili implica che due situazioni uguali vengano trattate in modo difforme. La certezza del diritto è insomma, per Bobbio, ma non solo per lui, il fondamento dell’eguaglianza e della legalità. Una sollecitazione forte alla prevedibilità delle decisioni viene anche dagli economisti, che ricordano come l’alea dei giudizi scoraggia gli investimenti dall’interno e dall’ esterno del Paese.
Assai significativo è che il Presidente della Repubblica, che è anche il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, alla cerimonia d’inaugurazione della terza sede della Scuola Superiore della Magistratura a Castel Capuano lo scorso 15/05/2023 abbia sentito il bisogno di sottolineare la funzione dichiarativa assolta dalla giurisprudenza, con esclusione di qualunque efficacia direttamente creativa. Ha altresì ribadito che l’uniformità delle decisioni non rappresenta un limite all’attività decisionale, ma ne costituisce un punto di approdo, in quanto è diretta a promuovere la prevedibilità delle decisioni e, dunque, la loro comprensibilità e la loro autorevolezza.
Non possiamo sottrarci a tale richiamo.
Ho quindi potuto particolarmente apprezzare nel corso delle mie funzioni di Consigliere della Corte di Cassazione gli sforzi effettuati per la sua attuazione.
Un particolare rilievo in tal senso ha rivestito la rigorosa applicazione del terzo comma dell’articolo 374 cpc, introdotto dal d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, secondo cui «se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». Si tratta di una norma introdotta nella prospettiva della prevenzione e del superamento dei contrasti, quindi del rafforzamento della funzione nomofilattica assegnata dall’articolo 65 della legge di ordinamento giudiziario alla Corte di cassazione e, in particolare, della garanzia della uniforme interpretazione e applicazione del diritto oggettivo. La norma, come è stato scritto, presenta una forte valenza di principio [3], perché con essa si afferma, per la prima volta nel nostro ordinamento, «un (sia pur circoscritto) valore legale del precedente», prevedendosi un vincolo di coerenza al quale la sezione semplice della Corte di cassazione è tenuta ad attenersi nel concreto esercizio della giurisdizione.
La ricerca dell’uniformità delle decisioni ha condotto nella Sezione lavoro della Corte di Cassazione anche ad un significativo sforzo organizzativo, con la divisione dei collegi in aree tematiche e lo spoglio accurato delle sopravvenienze, al fine di trattare questioni omogenee in specifiche udienze “dedicate”, così da evitare contrasti inconsapevoli ed armonizzare le soluzioni di casi analoghi.
3. I casi di “imprevedibilità strutturale” della decisione
Vi sono tuttavia situazioni ed altri contesti per i quali esiste una sorta di “imprevedibilità strutturale” della decisione (secondo la locuzione utilizzata da Oronzo Mazzotta) [4]. Casi che mettono l’interprete di fronte a situazioni non risolvibili sulla base del richiamo ai precedenti e che come tali impegnano il Giudice ad uno sforzo interpretativo autonomo.
Casi che, a ben vedere, mettono in crisi la “giustizia predittiva”, pur nelle sue elaborazioni più attente [5].
3.1. Tra i primi vi è la decisione delle questioni nuove, in relazione alle quali non si è ancora consolidato un orientamento di merito né tantomeno è intervenuto un chiarimento di legittimità.
Per queste ipotesi potrà giovare il rinvio pregiudiziale introdotto con il D.lgs n. 149 del 2022, la c.d. riforma Cartabia, all’art. 363-bis c.p.c.
In base a tale nuovo istituto, il giudice di merito può rimettere alla Corte di cassazione la soluzione di una questione esclusivamente di diritto, necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e che non sia stata ancora risolta dalla Corte di cassazione, a condizione che la questione presenti gravi difficoltà interpretative e sia suscettibile di porsi in numerosi giudizi.
La decisione della Cassazione è vincolante solo nell’ambito del processo in cui viene resa, ma non vi è dubbio che essa costituirà un precedente di riferimento anche per i giudici che comunque si troveranno ad affrontare la medesima questione.
Tale istituto non sarà comunque risolutivo dei possibili contrasti, considerato che il principio di diritto reso dalla Cassazione potrà operare solo con riguardo alla questione devoluta, che risente della ricostruzione della fattispecie e delle allegazioni e conclusioni delle parti in quel giudizio, sicché non potrà essere idoneo a dirimere tutte le possibili questioni analoghe.
3.2. Altra ipotesi di c.d. imprevedibilità strutturale della decisione è quella determinata dall’applicazione delle clausole generali, ovvero di quelle fattispecie in cui il criterio di valutazione non è individuato, ma richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione richiama tacitamente (per il diritto del lavoro particolare rilievo assumono tra le altre la buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e la giusta causa di risoluzione del rapporto) [6]. Rispetto ad esse è lo stesso legislatore che ha costruito una sorta di indeterminatezza intenzionale, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo.
Il legislatore con l'art. 30, co. 1, della L. n. 183 del 2010 ha inteso limitare la discrezionalità interpretativa del giudice del lavoro nei casi nei quali le disposizioni di legge in tema di rapporto di lavoro privato o pubblico contengano clausole generali, escludendone il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.
Ciò non esclude tuttavia che nel caso delle clausole generali il giudice di merito debba operare in concreto, determinando soluzioni non puntualmente prevedibili ex ante, con la conseguenza che la mediazione fra i contrapposti interessi delle parti deve necessariamente essere operata sul campo e con riferimento ad una specifica fattispecie.
Non si può in proposito far altro che affidarsi alla tipizzazione giurisprudenziale creatasi nel tempo, al fine di appagare quelle esigenze di uniformità che consentono, a loro volta, di assicurare una certa prevedibilità della decisione, sempre che non sopravvengano modifiche negli stessi parametri esterni da applicare.
3.3. Si può poi presentare la necessità di adeguamento a principi sovranazionali che impongano la disapplicazione di norme in contrasto.
Ancora di recente, nella sentenza del 19 settembre resa in Causa C-113/22, nell’affermare che deve essere considerata discriminatoria – e in quanto tale lesiva dei principi di diritto comunitario – la normativa spagnola che prevede una integrazione della pensione di invalidità soltanto per le madri e non anche per i padri, la Corte UE ha ribadito al punto 41 della motivazione che quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. In tale ipotesi, continua la Corte UE, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria.
Ciò è quanto è avvenuto in Italia nel caso del caso dell’assegno per il nucleo familiare disciplinato dall’art. 2 del d.l. 69/1988 convertito in l. 153/1988, in relazione al quale dopo gli interventi della Corte di Cassazione, della Corte UE , ancora della Corte di Cassazione ed infine della Corte Costituzionale con la sentenza n. 67/2022, si è definitivamente chiarito l’ obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna che escludeva di prendere in considerazione i familiari del soggiornante di lungo periodo che risiedano in un paese terzo.
In tali casi, che non sono limitati alla normativa antidiscriminatoria ma attengono a tutte le direttive che pongano principi specifici e determinati, si può realizzare, per definizione e sino ad un nuovo intervento del legislatore, uno scollamento ad opera dei giudici rispetto alle decisioni adottate nel rispetto della normativa nazionale, non più coerente con i principi del sistema complesso di norme nel quale ci troviamo ad operare.
3.4. Esiste poi un’ulteriore specie d’ imprevedibilità che deriva dal legislatore stesso, in particolare quando quest’ultimo non è intervenuto (non ancora, o non ha la forza politica per intervenire) su una determinata situazione o su un determinato istituto del quale sia acclarato il superamento.
Si pongono infatti casi in cui le norme, quali risultanti per effetto dell’interpretazione che si è andata consolidando, non rispondono più al mutato contesto sociale sottostante.
Si pensi al recente dibattito sulla natura precettiva dell’art. 36 della Costituzione e all’ammissibilità dell’intervento giudiziale sull’ammontare delle retribuzioni previste dai contratti collettivi.
L’art. 36 della Costituzione, com’è noto, stabilisce il diritto di ogni lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.
La norma comprende quindi due principi: quello della proporzionalità e quello della sufficienza della retribuzione; il primo legato alla funzione corrispettiva, e più propriamente al sinallagma contrattuale, e il secondo espressione della funzione sociale della retribuzione e, quindi, del valore sociale assegnato al lavoro dalla Carta costituzionale. Si tratta di due facce ricomposte in una nozione unitaria di retribuzione che tiene insieme le due funzioni, rispondenti rispettivamente a una logica economicistica e a una logica sociale.
In merito alla rispondenza dei trattamenti economici con i principi di proporzionalità e sufficienza previsti dall’art. 36 Cost., la giurisprudenza ha tradizionalmente utilizzato, quale parametro per esprimere un giudizio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione riconosciuta ai lavoratori, le tabelle retributive previste dalla contrattazione collettiva.
La scelta della Costituente fu infatti quella di non attribuire espressamente alla legge il compito di stabilire un salario minimo al fine di non ostacolare l’azione sindacale. Nell’impianto costituzionale, i contratti collettivi stipulati a norma dell’art. 39, vale a dire dalle organizzazioni sindacali registrate e dotate di personalità giuridica, avrebbero dovuto avere efficacia erga omnes, vale a dire efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto stesso si riferisce.
La mancata attuazione dell’art. 39 aprì il problema dei tanti lavoratori che non potevano beneficiare dell’applicazione di un contratto collettivo in quanto il datore di lavoro, non affiliato ad alcuna associazione datoriale, non era giuridicamente tenuto alla sua applicazione.
La giurisprudenza, tuttavia, nel corso del tempo ha posto la diretta percettività dell’art. 36 della Costituzione, in maniera del tutto svincolata dall’art. 39. Nel caso della mancanza di una retribuzione pattuita dalle parti, è il giudice che la determina in esecuzione dell’art. 2099 c.c., ricavandola proprio dai minimi tabellari di cui ai contratti collettivi. La retribuzione prevista dalla norma collettiva era ritenuto il parametro più idoneo a specificare (nei confronti dei non iscritti) la retribuzione prevista dall'art. 36 Cost.
Nel nostro ordinamento vi sono, del resto, numerose norme che assurgono a parametro di legalità i trattamenti economici e normativi previsti dai CCNL di settore sottoscritti dalle OOSS comparativamente più rappresentative. Tali CCNL, ad esempio, sono il termine di riferimento della legittimità del trattamento retributivo del socio lavoratore di cooperativa (si veda l’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248/2007 convertito in L. 31/2008). L’ art. 30 IV comma del codice degli appalti vigente (D. Lgs. 50/16) prevede che “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. La l. n. 199 del 29 ottobre 2016, legge sul caporalato, ha riformato l’art. 603 bis c.p., individuando un’elencazione degli indici di sfruttamento dei lavoratori, tra i quali vi è quello della “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
In definitiva, l’ordinamento giuridico conferma la valutazione data dalla richiamata giurisprudenza, secondo la quale il trattamento sancito dal CCNL costituisce parametro di legittimità rispettoso dei principi sanciti in via generale dall’art. 36 Cost.
La contrattazione collettiva tuttavia però ha cambiato volto: si è assistito a una progressiva frammentazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, alla moltiplicazione dei contratti collettivi sottoscritti per le stesse categorie (ad oggi ne risultano depositati presso il CNEL 1.037 tra lavoro pubblico e privato), alla deregolazione e aziendalizzazione, anche per via legislativa, della contrattazione, alla diffusione dei contratti c.d. “pirata”, siglati da organizzazioni sindacali prive di effettiva rappresentatività.
Il datore di lavoro privato del resto, nella sua libertà sindacale (e con l’eccezione delle società cooperative di cui si è detto), non incontra vincoli nella scelta della sigla sindacale cui aderire e del relativo contratto collettivo da applicare.
Ed allora, si comprende come i giudici di merito, ed ora anche la Corte di Cassazione (vedi da ultimo le sentenze n. 27771, 27713, 27769 del 2 ottobre 2023 e le altre rese all’esito della stessa udienza tematica del 14.9.2023) abbiano affermato che la presunzione di rispondenza delle previsioni dei contratti collettivi all’art. 36 della Costituzione è relativa e può essere superata qualora risulti in giudizio la prova contraria, che può emergere sulla base di indicatori economici e statistici. Non può infatti escludersi a priori che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di effettiva rappresentatività, risulti in concreto lesivo del principio di proporzionalità e/o di sufficienza. È dunque possibile far valere in giudizio l’insufficienza della retribuzione prevista dal CCNL applicato, con richiesta di applicazione di diversa retribuzione risultante da altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.
4. Il ruolo del giudice del lavoro
Mi pare che alla luce di tutto quanto detto si possa affermare che la messa in crisi dell’interpretazione consolidata in certi casi non costituisce una sfida persa della prevedibilità, ma una spinta dal basso all’adeguamento del sistema.
E in questo senso si apprezza il ruolo dell’attività giurisprudenziale di sviluppo del diritto positivo per la soluzione di nuovi problemi di decisione, come scriveva Luigi Mengoni.
Ne deriva che il sistema oggi deve leggersi come un insieme aperto al nuovo senza perdere la memoria del passato, che è cristallizzato nell’elaborazione acquisita in primo luogo, nonché ovviamente nella tavola dei valori costituzionali.
Sebbene le pressioni cui il giudice è sottoposto per smaltire il ruolo lo focalizzano sui parametri di produttività, è però essenziale che egli non perda l’attenzione al contesto sociale e sovranazionale in cui il sistema opera: in questa complessa e delicata attività di ricucitura il ruolo del giudice del lavoro è infatti ineliminabile, perché costituisce l’estremo terminale della giustizia ed è un essenziale mediatore sociale.
[1] Questo scritto costituisce il testo rivisto dell’ intervento tenuto alla Tavola Rotonda “Ideologie e tecniche nell’interpretazione del diritto del lavoro“ coordinata da Vincenzo Antonio Poso, tenutasi a Lucca nel Convento di San Cerbone il 24 settembre 2023 in occasione delle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, intitolate “Lavoro Persona Mercato, Sulla strada tracciata da Riccardo Del Punta”.
[2] V. R. Del Punta, Il giudice del lavoro tra pressioni legislative e aperture di sistema, in Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,461; R. Riverso-C. Ponterio, Quale Giudice del lavoro? In Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,720 ed ancora R. Del Punta, Il giudice e la Costituzione, in Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,723.
[3] V. “Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione civile” di Alberto Giusti, in https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/582/qg_2018-4_12.pdf.
[4] O. Mazzotta, L’interpretazione nel diritto del lavoro, istruzioni per l’uso, in Lavoro e diritto n. 2/3 del 2014, pgg. 263/272.
[5] V. L. Viola, La giustizia predittiva del lavoro, Lavoro Diritti Europa 2023, https://www.lavorodirittieuropa.it/images/VIOLA_1.pdf.
[6] V. E. Scoditti, Clausole generali e certezza del diritto, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/clausole-generali-e-certezza-del-diritto.