di Luigi Cavallaro [1]
Per strano che possa sembrare ai nostri giorni, bisogna ammettere che, nell’ambito della giurisprudenza del lavoro, l’enfasi sul ruolo “politicamente creativo” dell’interpretazione giudiziale, che costituisce un portato ormai diffusamente condiviso delle più recenti teorie dell’interpretazione del diritto, non ha per lungo tempo messo capo ad alcuna contrapposizione tra il giudice e il legislatore: al netto degli eccessi imputabili, nei primi anni ’70, a taluni pretori giustamente definiti “d’assalto”, la disciplina positiva dei rapporti di lavoro era stata per un buon quindicennio dalla metà degli anni ’60 di segno spiccatamente progressivo e volta all’inveramento di tutte le promesse che la Costituzione repubblicana aveva rivolto al mondo del lavoro; e sebbene gli anni ’80 fossero stati anni di riflusso e i primi ’90 perfino di magra, gli interventi normativi non avevano comunque intaccato il formidabile nucleo di tutele eretto a presidio dello statuto del lavoratore dipendente.
Non c’è dunque da stupirsi se, nella sua relazione al convegno nazionale del Centro Studi Domenico Napoletano dell’aprile 2014, Riccardo Del Punta rilevava come per almeno un cinquantennio il tema dell’interpretazione non aveva mai avuto motivo di porsi pubblicamente al dibattito: dominando nella giurisprudenza del lavoro una sorta di “concettualismo progressista”, in virtù del quale tutto il sistema giuslavoristico si poteva considerare logicamente deducibile da un unico principio ordinatore, quello di protezione del lavoratore subordinato in quanto soggetto debole, il criterio di verità del diritto del lavoro e la direzione di fondo dell’attività interpretativa erano affatto prevedibili, al punto che “il dichiarato, o presupposto, anti-cognitivismo di principio si risolveva […] in un cognitivismo di fatto”.
Questo stato di cose è bruscamente cambiato allorché, dopo l’adesione alla moneta unica (1992), il nostro ordinamento giuslavoristico ha cominciato ad aprirsi alle istanze liberalizzatrici provenienti dall’Unione Europea, in ossequio alle quali il legislatore interno ha progressivamente smantellato i presidi fondamentali intorno ai quali era stata eretta la cittadella fortificata del nostro diritto del lavoro: dall’introduzione del lavoro interinale (1997) alla liberalizzazione dei contratti a termine (2001), dalla c.d. legge Biagi (2003) al Collegato lavoro (2010), fino ad approdare alla c.d. riforma Fornero (2012), che ha infranto il tabù della reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall’art. 18 St. lav., e alla successiva e conseguente disciplina dei decreti delegati dal c.d. Jobs Act (2015): che, vale la pena ricordarlo, è un acronimo per Jumpstart Our Business Startups Act, ossia “legge per lo sviluppo delle nostre imprese in fase di decollo”, e non una riscrittura nella lingua d’Albione dell’italianissimo “Statuto dei lavoratori”.
Di fronte ad una valanga di così ampia portata, una parte della giurisprudenza del lavoro si è in effetti messa di traverso, cercando di sterilizzare o quanto meno di minimizzare le conseguenze delle innovazioni normative che riscrivevano al ribasso diritti e tutele; e richiamata da una dottrina che, assurta nel frattempo a consigliere del Principe, le rimproverava di non volersi far carico degli ulteriori valori ed obiettivi che il diritto del lavoro era andato in quegli anni introiettando, essa – Costituzione alla mano – ha fieramente e pubblicamente ribadito il suo non possumus: chi non ne avesse memoria, potrà utilmente rileggere la discussione che, una decina d’anni fa, vide opporsi sulle pagine della Rivista italiana di diritto del lavoro lo stesso Del Punta e due colleghi appartenenti a Magistratura democratica, Carla Ponterio e Roberto Riverso.
Una reazione irragionevole? A sentire molti e autorevoli interventi che si sono succeduti in queste due giornate di conversazione, parrebbe di sì. Pur con qualche distinguo, la dottrina mainstream mi pare infatti abbastanza consentanea sull’idea che le riforme dell’ultimo ventennio non avrebbero in alcun modo rovesciato il segno progressista della legislazione del lavoro, ma ne avrebbero piuttosto accompagnato la normale evoluzione da un modello tutto incentrato sulla protezione del lavoratore ad uno più attento alle sue istanze di libertà: un po’ come quei buoni genitori, che, via via che i figli crescono, rinunciano, magari con rammarico e certo con preoccupazione, a seguirli passo passo per proteggerli da ogni pericolo e si acconciano a concedere spazi sempre crescenti alla loro autonomia individuale. Del resto, non era forse dedicato all’auspicio di “un diritto del lavoro maggiorenne” il sottotitolo di un notissimo libro che Pietro Ichino pubblicò poco meno di trent’anni fa, in cui, con lucida antiveggenza, si prefiguravano le traiettorie ed i sentieri sui quali si sarebbero poi incamminate le riforme del nostro diritto del lavoro? E non è forse nel segno della riflessione di un filosofo progressista come Amartya Sen che lo stesso Riccardo Del Punta ha spiegato il senso complessivo delle riforme ultime, che – abbandonata l’assurda pretesa di ingabbiare i lavoratori a vita in occupazioni divenute inefficienti – si propongono piuttosto di affidare a percorsi formativi funzionali allo sviluppo delle loro capabilities la possibilità che essi trovino nuove e migliori occasioni di lavoro?
Per quanto, ripetiamo, autorevolmente sostenuta, si tratta invero di una tesi assai discutibile. Amartya Sen, prima d’essere filosofo, è stato (ed è) un insigne economista affatto interno al mainstream neoclassico ed insignito del premio Nobel per l’economia per i suoi contributi all’economia del benessere e alla teoria delle scelte sociali, tutti costruiti all’insegna del più rigoroso individualismo metodologico; e a guardarla bene, la sua teorica delle capabilities non è più che una riverniciatura nel linguaggio compassionevole della sinistra liberal anglosassone delle assai più becere teorizzazioni sul “capitale umano” di Gary Becker (altro premio Nobel per l’economia), con le quali condivide l’assunto di fondo secondo cui la disoccupazione troverebbe la sua causa causans in deficit riguardanti l’offerta di lavoro: una leggenda che gli economisti ortodossi si tramandano dai tempi di Adam Smith, alla cui Teoria dei sentimenti morali (1758) non a caso si è rifatto lo stesso Sen per argomentare l’idea che quei poveracci deficitari di “capitale umano” non andrebbero abbandonati a se stessi (come invece sostenuto da Becker), ma piuttosto aiutati a sviluppare le abilità e le competenze necessarie a trovare un’occupazione.
Un approccio del genere, che scarica sui disoccupati la responsabilità della loro disgraziata condizione, non solo oblitera che la disoccupazione contemporanea assai più grandemente dipende da problemi che concernono la domanda di forza-lavoro e la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro (come ha spiegato, inascoltata e anzi brutalmente zittita, una lunga tradizione del pensiero economico che da Marx, Keynes e Kalecki arriva ai nostri Sraffa, Garegnani e Pasinetti), ma soprattutto dimentica che la “libertà” dei lavoratori presuppone la piena occupazione: come scrisse Joan Robinson (una grande economista che fu discepola diretta di Keynes e non ebbe mai il Nobel per l’economia: et pour cause), “la prima funzione della disoccupazione […] è quella di mantenere l’autorità del padrone sul lavoratore comune. Il padrone è normalmente in posizione di dire: ‘Se non vuoi il lavoro, ci sono molti altri che lo vogliono’. Quando il lavoratore dice ‘Se non mi vuoi, ci sono molti altri che mi vogliono’, la situazione è radicalmente mutata.” Che è come dire che solo allora, cioè in condizioni di piena occupazione, i lavoratori possono efficacemente perseguire l’obiettivo della loro libertà.
Nemmeno può più sostenersi che l’abbassamento delle tutele del lavoro potrebbe comunque servire a conseguire la piena occupazione, come vent’anni fa affermavano non solo il mainstream neoclassico ma anche le maggiori istituzioni economiche internazionali, come il Fmi, l’Ocse e la Banca mondiale: una dopo l’altra, tutte, alla prova dei fatti, hanno dovuto ammettere che nessuna diminuzione delle tutele del lavoro ha effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche; e sempre più studi recenti (ma non di parte mainstream, naturalmente) hanno semmai evidenziato una significativa correlazione tra la diminuzione di quelle tutele e l’abbassamento dei salari: che è un altro dei problemi con cui le nostre società sono adesso chiamate drammaticamente a misurarsi.
Quando, in anni passati, mi son trovato, proprio qui a San Cerbone, ad argomentare queste e simili cose, Riccardo si arrabbiava: “Questi marxisti!”, diceva, sobbalzando sulla sedia. Salvo che questi sono i miei convincimenti personali; e non hanno mai avuto rilievo alcuno nella mia esperienza di giudice del lavoro.
Di più: non dovevano né potevano averne alcuno. Ho sempre pensato che avesse ragione Lodovico Mortara a sostenere che, quando si accosta al testo della legge, il giudice dovrebbe sempre dimenticare le sue opinioni personali e politiche; e non meno presente, nella mia esperienza, è stato un monito di Salvatore Satta, secondo cui il giudice che scegliesse di farsi legislatore si renderebbe responsabile di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Sono convincimenti che ho rafforzato nel corso degli anni (dei decenni, ormai) e che mi hanno indotto a distanziarmi sempre più dalle posizioni di certa magistratura sedicente “progressista”, a molti dei cui esponenti imputo precisamente un’idea dell’esercizio della giurisdizione che mi pare incompatibile con il comma 2° dell’art. 101 Cost.: prendere espressamente e sistematicamente le parti di qualcuno – si tratti del lavoratore, del migrante, del tossicodipendente o di chi altri si voglia – e piegare il testo della legge alla necessità di dargli ragione equivale a non essere più terzo rispetto alla vicenda processuale, dunque a non essere più un giudice; e pretendere di farlo in nome della Costituzione è perfino ridicolo, sol che si pensi che nella Costituzione c’è tutto e il suo contrario (con la sola eccezione del fascismo) ed è compito esclusivo del legislatore – salvo il controllo di legittimità costituzionale – bilanciare gli interessi che in ogni umana vicenda si contrappongono.
Per dirla con una battuta, l’idea che i giudici possano fare la rivoluzione mi pare non soltanto anticostituzionale, ma perfino antimarxista, se il marxismo può vantare ancora una qualche pretesa epistemica. La verità è che quando il conflitto di classe si riduce a controversia di lavoro, i lavoratori come classe hanno già perso; e il fatto che qualcuno di loro possa vincere semplicemente perché trova un giudice che prende sfacciatamente le sue parti dovrebbe ripugnare a chiunque abbia un’idea anche soltanto “borghese” dell’uguaglianza.
Si dirà che un’impostazione di questo genere, nella misura in cui pretende di contenere il soggettivismo giudiziale e di riaffermare la centralità del Parlamento nel circuito della produzione normativa, è affatto ideologica; e certo le si contrapporranno altre visioni, più sensibili alle antiche suggestioni dell’“uso alternativo del diritto”, secondo cui il giudice, lungi dall’acquietarsi al disposto della legge quale manifestazione della volontà politica del legislatore, dovrebbe piuttosto farsi interprete delle istanze di giustizia che emergono dalla realtà sociale, ricercando nei principi consegnati alla Costituzione e alle carte sovranazionali dei diritti il modo per soddisfarle anche a prescindere dalla diversa (o avversa) volontà del legislatore.
Ma qui bisogna intendersi. È indubbio che, su un piano astratto, la centralità del Parlamento o la centralità del giudice possono essere considerate opzioni ideologiche equivalenti. Ma se dall’astratto teorizzare scendiamo al concreto del dato normativo, subito ci accorgiamo che i nostri costituenti hanno operato al riguardo una scelta precisa: lo testimoniano gli artt. 70 ss. e 101, comma 2°, Cost., che, insieme all’art. 49 disegnano un sistema in cui alla politica legislativa di matrice parlamentare è riservata la posizione dominante, mentre a quella giurisdizionale una solo servente. Non ci può essere perciò contraddizione maggiore nell’invocare i principi costituzionali per sostituire al bilanciamento operato dal legislatore quello voluto dal giudice: posto che in tale bilanciamento si esprime la discrezionalità politica del legislatore (sulla quale nemmeno la Corte costituzionale dovrebbe intromettersi: art. 28, l. n. 87/1953), bisognerebbe semmai riconoscere non soltanto che la legge altro non è che “politica giuridicizzata”, ma soprattutto che la soggezione del giudice alla legge, di cui all’art. 101 comma 2° Cost., si esprime anche come soggezione a quella politica e all’ideologia che per suo tramite si manifesta: nient’altro che questo dice l’art. 12 prel. c.c. quando impone al giudice di interpretare la legge secondo l’“intenzione del legislatore”.
Insomma, se è vero che nessuna ideologia può parlare per leggi fintanto che resta minoritaria, non è meno vero che il giudice non può prestare ascolto ad una ideologia minoritaria senza con ciò stesso violare gli artt. 101 Cost. e 12 prel. c.c.; e se pure una sentenza oltre la legge di un giudice “progressista” può apparire come un passo in avanti verso l’uguaglianza sociale, costituisce al tempo stesso – lo notò opportunamente Uberto Scarpelli molti anni addietro – un passo indietro rispetto all’eguaglianza politica: “alle decisioni politiche prese dall’organo della rappresentanza politica, il Parlamento, tutti concorriamo, sia pure in maniera minima, indiretta ed esposta ad ogni sorta di pressioni e compressioni; il giudice che si svincoli dalla legge è invece per me, cittadino, il portatore di un potere autocratico, al quale io resto estraneo, un piccolo despota, benché certo, nel caso del giudice progressista, un despota illuminato.” Fermo restando che non bisogna essere storici di professione per sapere che gli attacchi più feroci al positivismo giuridico vennero portati nella Germania nazionalsocialista, dove il presidente del Volksgerichsthof amava ripetere che “le leggi sono da interpretare e da applicare sul fondamento della presupposizione della giustizia materiale e dell’ingiustizia materiale”, e che l’impiego di argomentazioni naturalistiche e/o moralistiche è da sempre appartenuto all’arsenale di quei giuristi conservatori che, di fronte alla minaccia rappresentata da legislatori progressisti, intendevano apprestare ostacoli e difese onde mantenere lo status quo.
Ecco perché, tornando in conclusione alla mia esperienza, una volta riconosciuti gli intenti “liberalizzatori” perseguiti dalla legislazione del lavoro nell’ultimo trentennio e, in specie, il ruolo residuale che, nel nuovo sistema normativo, avrebbe dovuto assumere la reintegrazione nel posto di lavoro rispetto all’indennizzo economico, di quelle leggi e dell’intenzione che le animava ho fatto nel mio lavoro scrupolosa applicazione, ad onta del mio personale e silenzioso dissenso. Che poi questo fatto mi abbia guadagnato presso molti colleghi, avvocati e professori universitari la nomea di giudice “di destra” è destino tanto singolare quanto inevitabile, del quale non posso che prendere atto. “Di destra sono quelle leggi”, mi verrebbe fatto di obiettare, ma Riccardo si arrabbierebbe e sobbalzerebbe ancora una volta sulla sedia: “Questi marxisti!”.
[1] Testo rivisto dell’intervento tenuto alla tavola rotonda “Ideologie e tecniche nell’interpretazione del diritto del lavoro”, in occasione delle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi “Lavoro Persona Mercato. Sulla strada tracciata da Riccardo Del Punta” (Lucca, Convento di San Cerbone, 23-24 settembre 2023).