Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Leggere Giovanni Tarello
Sommario: 1. Introduzione - 2. Filosofia del diritto - 3. Interpretazione - 4. Scienza giuridica - 5. Tarello su Tarello.
1. Introduzione
Giovanni Tarello è stato un maestro della filosofia analitica del diritto. Come Norberto Bobbio (si parva licet), Uberto Scarpelli, Luigi Ferrajoli… Ma bisogna precisare che quella di Tarello è una filosofia del diritto alquanto peculiare.
Scorro rapidamente le sue opere maggiori. Il primo studio italiano su Il realismo giuridico americano (1962). Il memorabile (per i giuslavoristi) Teorie e ideologie del diritto sindacale (1967). Una lunga serie di “studi di teoria e metateoria del diritto” raccolti con il titolo Diritto, enunciati, usi (1974). Una Storia della cultura giuridica moderna (1976). Il volume del Trattato Cicu-Messineo su L’interpretazione della legge (1980). La raccolta di saggi postuma, Cultura giuridica e politica del diritto (1988), che include tra le altre cose un corso di lezioni su La disciplina costituzionale della proprietà (1973) e una nota alla prima sentenza costituzionale (n. 16, 1978, relatore Paladin) sui criteri di ammissibilità del referendum abrogativo, Tecniche interpretative e referendum popolare (1978). La raccolta, ancora postuma, di studi storici sulla formazione del diritto processuale civile con il titolo Dottrine del processo civile (1989).
Ebbene, si può dire che tutti i lavori di Tarello siano – per dirla con Bobbio – opera di meta-giurisprudenza: analisi logica o, secondo i casi, storiografica delle dottrine dei giuristi.
Per leggere con soddisfazione intellettuale questi (ed altri) lavori, ci sono tre idee di Tarello che conviene conoscere previamente.
La prima riguarda la filosofia del diritto.
La seconda riguarda l’interpretazione.
La terza riguarda la “scienza giuridica”, cosiddetta, ossia la dottrina, la dogmatica.
2. Filosofia del diritto
In generale, Tarello concepisce il discorso filosofico – alla maniera del positivismo logico – come un discorso di secondo grado, o meta-discorso, il cui oggetto è costituito dai discorsi delle diverse scienze. La medesima idea, per menzionare un altro grande giurista, si ritrova in Alf Ross.
Le scienze hanno ad oggetto il mondo. La filosofia no: la filosofia ha ad oggetto le scienze stesse. Non esiste un mondo ulteriore (metafisico) oltre quello studiato dalle scienze, e oggetto di una conoscenza “più alta” (metafisica appunto).
Ciò comporta evidentemente una radicale riduzione delle varie discipline filosofiche a meta-scienze, o filosofie delle scienze (dell’una o dell’altra scienza). Vi sarà dunque una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della chimica, e via enumerando, fino a giungere alla filosofia del diritto (anzi: della scienza giuridica). Ma non può esservi una filosofia senza complementi di specificazione: la «panfilosofia scissa da qualsivoglia specifica disciplina scientifica o tecnica», secondo Tarello, è vaniloquio.
Da questo punto di vista, la filosofia del diritto non può che essere analisi linguistica, storiografica, sociologica, e politica della “giurisprudenza”, intesa qui nel senso classico di prudentia juris.
In questo modo, Tarello vuole accreditare, tra l’altro, l’idea che la filosofia del diritto sia ancillare al lavoro dei giuristi, e perciò non possa essere coltivata se non dai giuristi stessi. Insomma, il filosofo del diritto dovrebbe essere – per formazione intellettuale, interessi, e competenze – un giurista tra gli altri giuristi.
È ovvio che, da questo punto di vista, opere come i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, malgrado il nome, sono chiacchiere prive di qualsiasi interesse per gli studi giuridici. Questo modo di pensare, inoltre, conduce a screditare come irrilevante, e tendenzialmente estraneo alla filosofia del diritto bene intesa, almeno uno dei tradizionali e più coltivati settori di riflessione dei gius-filosofi professionisti: la cosiddetta filosofia della giustizia (che è, propriamente, un’etica normativa).
Ecco, dunque, che quasi tutti i lavori di Tarello si presentano come studi di meta-giurisprudenza analitica ed empirica.
(i) Meta-giurisprudenza analitica: nel senso che Tarello si avvale degli strumenti caratteristici dell’analisi del linguaggio, da lui stesso rielaborati nel saggio (un piccolo libro in effetti, poi rifuso nel volume del 1974) Introduzione al linguaggio precettivo (1968).
La filosofia analitica – si noti – non è “una filosofia” nel senso tradizionale (e volgare) di questa parola: non è una concezione del mondo e, ovviamente, neppure una scienza. Anzi si oppone fermamente a quel modo di filosofare che consiste nel blaterare dei massimi sistemi e/o pretende di attingere, oltre le scienze, alla essenza ultima del mondo: cosa di cui «si deve tacere», direbbe Wittgenstein. La filosofia – la sola “buona” filosofia – è l’analisi logica del linguaggio delle scienze (e, marginalmente, del linguaggio ordinario).
(ii) Meta-giurisprudenza empirica: nel senso che Tarello non fa un discorso sulla scienza giuridica in generale (come è d’uso fare, da parte di filosofi del diritto), ma compie una indagine concreta sopra le dottrine effettivamente elaborate dall’uno o l’altro gruppo circoscritto di giuristi in un determinato frangente.
Ne risulta definitivamente screditata come irrilevante e priva di interesse (almeno: irrilevante per i giuristi, irrilevante in una Facoltà di giurisprudenza) qualunque filosofia del diritto che non consista in, o non sia ultimamente finalizzata a, l’analisi delle dottrine giuridiche.
3. Interpretazione
L’opera fondamentale di Tarello in tema di interpretazione è ovviamente L’interpretazione della legge, del 1980 (anche se diversi frammenti erano già stati pubblicati in varie dispense degli anni precedenti, a sei mani, con Silvana Castignone e chi scrive). Ma già nel 1966 Tarello aveva pubblicato un breve saggio, “Il ‘problema dell’interpretazione’: una formulazione ambigua”, in cui metteva in discussione quel modo di vedere tradizionale secondo cui l’interpretazione è un’attività conoscitiva che si esercita su norme. È un modo di vedere oggidì generalmente screditato, ma tuttora presente nei modi di argomentare della dottrina e della giurisprudenza, per tacere delle inconsapevoli facezie di molti politici, secondo cui le leggi non si interpretano affatto, si applicano.
Sicché: (a) le norme preesistono all’interpretazione, e l’attività interpretativa consiste appunto nel prenderne conoscenza; (b) gli enunciati interpretativi (“Il testo normativo T significa S”) hanno valori di verità, cioè si danno interpretazioni vere e interpretazioni false. Per ogni testo normativo, vi è una interpretazione vera, tutte le altre essendo false. La cosiddetta “scienza giuridica” è un’impresa genuinamente scientifica, il cui prodotto è l’insieme delle interpretazioni vere. Da questo punto di vista, “il” problema dell’interpretazione ha natura non politica, ma epistemologica: qual è il metodo corretto per scoprire il “vero” significato dei testi normativi?
Tarello, per contro, delinea i tratti fondamentali di una teoria alternativa dell’interpretazione, scettica o realistica.
(i) In primo luogo, le norme non hanno significato per la banale ragione che sono esse stesse null’altro che significati: entità concettuali, per così dire, non linguistiche. Le norme sono altra cosa degli enunciati normativi che le esprimono: non sono quegli stessi enunciati, ma il loro contenuto di senso. Si osserva o si viola una norma, non un enunciato.
(ii) Pertanto, le norme sono non già l’oggetto dell’interpretazione, ma il suo prodotto. Non preesistono all’interpretazione, ma ne derivano. L’interpretazione consiste precisamente nella ascrizione di significato agli enunciati normativi delle fonti del diritto.
(iii) Senonché gli enunciati normativi, di solito, ammettono (non una sola interpretazione, ma) una pluralità di interpretazioni sincronicamente confliggenti e diacronicamente mutevoli, che dipendono dalla ambiguità e dalla vaghezza del linguaggio in cui le norme sono formulate, dalle circostanze di fatto in cui le formulazioni normative sono interpretate, dalla varietà di metodi interpretativi in uso, dalla molteplicità di elaborazioni dottrinali, e – s’intende – dalle idee di giustizia degli interpreti.
(iv) Ne segue che l’interpretazione non è né vera né falsa: tecnicamente, gli enunciati interpretativi non hanno valori di verità. Dire che una data interpretazione è vera e un’altra falsa è pura propaganda politica: di politica del diritto, s’intende.
Questo saggio di Tarello sull’interpretazione, recentemente ristampato (Lo Stato, n. 16, 2021), riveste uno speciale interesse poiché è, per molti aspetti, il lavoro seminale della “Scuola di Genova”.
4. Scienza giuridica
In gioventù, Tarello aveva studiato il realismo giuridico americano, cui aveva dedicato un libro nel 1962, e palesemente ne era rimasto profondamente influenzato. Il realismo di Tarello si caratterizza soprattutto per il cosiddetto “scetticismo delle norme” (e secondariamente per lo “scetticismo dei fatti”). Le sue tesi principali sono ben tratteggiate nel saggio cui accennavo sopra.
A farla breve: il diritto è indeterminato. Sicché la discrezionalità interpretativa è pervasiva. E, ovviamente, le questioni di interpretazione sono decise in ultima istanza dai giudici (o, più in generale, dagli organi dell’applicazione, giacché non tutto il diritto, specie il diritto costituzionale, è giustiziabile). Sicché in un certo senso – per dirla con i realisti americani – il diritto è quello che i giudici dicono che sia.
È facile congettura che questo modo di vedere sia condizionato dal sistema di common law e dalla regola del precedente vincolante. Ma vi è, nel realismo di Tarello e della sua Scuola, un tratto che lo distingue dal realismo americano. Mi riferisco all’idea che – almeno nella cultura giuridica continentale – la dottrina, la dogmatica, prima ancora della giurisprudenza, sia un’attività squisitamente nomopoietica, e che il diritto sia modellato, costruito, prima che dai giudici, dai giuristi.
È la dottrina, infatti, che fatalmente condiziona la giurisprudenza, elaborando concetti, metodi di interpretazione, proposte interpretative, schemi di argomentazione, costruzioni dogmatiche, norme implicite: determinando, in ultima analisi, la stessa forma mentis dei giudici. Vi sono intere parti del diritto vigente che sono Juristenrecht. Il diritto sindacale è un caso paradigmatico.
Le ricerche meta-giurisprudenziali di Tarello screditano definitivamente come falso e mistificatorio quel modo di vedere corrente secondo cui i giuristi-interpreti non creano diritto, e dunque non fanno politica, ma si limitano a prendere conoscenza del diritto che trovano bello e fatto ad opera del legislatore. Almeno in certe circostanze, il diritto nasce non dalla legge, ma proprio dalle costruzioni concettuali dei giuristi. «La dottrina giuridica – scrive Tarello, riferendosi in particolare alle dottrine gius-lavoristiche – interviene nel processo di creazione del diritto; e, in alcuni settori, interviene da protagonista».
Non vi è alcuna possibile confusione tra la rotazione della terra attorno al sole e la scienza astronomica che la descrive, giacché l’astronomia è conoscenza degli astri, ma non un astro essa stessa. E il movimento dei pianeti, a differenza della scienza astronomica, non è un’entità linguistica. Quando invece si tratta delle relazioni tra diritto e dottrina giuridica, siffatta confusione è possibile e di fatto si produce. Così è perché tanto il diritto quanto la dottrina giuridica altro non sono che linguaggi (discorsi).
In altre parole, è impossibile tracciare una distinzione netta tra il linguaggio del diritto e il linguaggio dei giuristi: essi sono soggetti ad un continuo processo osmotico. Il discorso dei giuristi non “verte su” il discorso delle fonti normative: piuttosto i giuristi modellano ed arricchiscono continuamente il loro oggetto di studio, come un violinista che interpolasse note apocrife nello spartito che sta eseguendo.
Insomma, l’interpretazione non è un’impresa conoscitiva, e la dogmatica, la dottrina, è non già conoscenza del diritto, ma parte costitutiva del diritto stesso, e quindi non “scienza giuridica”, ma oggetto di studio di una scienza giuridica bene intesa. Questo modo di vedere è pervasivo anche nei lavori storici di Tarello.
5. Tarello su Tarello
Concludo rileggendo, sine glossa, due paginette autobiografiche di Tarello. Si tratta della trascrizione, rivista dall’autore, di un intervento pronunciato ad un seminario della scuola analitica di filosofia del diritto, svoltosi a Camerino nel 1971.
«Come e perché mi sono dedicato a ciò che si chiama “filosofia analitica del diritto” è presto detto. Per un’esigenza che è venuta fuori nell’ambito di studi di diritto in una Facoltà di giurisprudenza, da problemi che venivano fuori da studi giuridici tecnici. La mia formazione non era inizialmente la formazione di un filosofo; e, devo dire, l’interesse “filosofico” (in qualsiasi senso di questa parola) è stato per me un interesse tardo.
Nel corso degli studi di giurisprudenza mi sono trovato di fronte a un’esigenza non già “morale” ma “metodologica” o, se vogliamo, funzionale: e precisamente l’esigenza di sgombrare la strada da concetti che mi sembravano o inutili o dannosi; dannosi o dal punto di vista della efficienza, o dal punto di vista politico-ideologico.
Nel corso di un tentativo di trovare le armi per liberarmi almeno di alcuni di questi concetti, che mi sembravano molto ingombranti, ho diretto la mia attenzione prima di tutto al c.d. “realismo giuridico americano”, che mi sembrava il recipiente degli strumenti più distruttori e bombardieri che, a livello metodologico, fossero a disposizione. Nello studiare e mettere insieme delle idee che mi sembrava di poter attribuire ai realisti americani, o a quelli che andavano sotto questa rubrica, mi sono accorto di aver formato un libro sul “realismo americano”, secondo un piano che era ben lontano dallo spirito dei membri di quel movimento della cultura giuridica. Avevo interpretato quel movimento come critica di due tipi di concetti (concetti sistematici e concetti dogmatici) e come critica dell’argomentazione giuridica; e il dare conto del lavoro metodo logico dei realisti americani mi suggeriva la possibilità di fare a meno del principale concetto in uso nella “teoria (generale) del diritto”.
Il principale concetto in uso nella teoria del diritto è quello di norma. A differenza di Bobbio e Scarpelli (questo discorso è anche un discorso sui tempi di una vicenda) il mio problema non era quello di chiarire e utilizzare il concetto di norma, ma quello di farne a meno.
Una serie di tentativi di studiare, da una parte, le operazioni degli operatori giuridici e, dall’altra parte, l’interpretazione giuridica, hanno avuto la loro motivazione (forse psicologica) nella possibilità che ravvisai, e nell’esigenza che provai, di incrinare il concetto di norma in quanto centro della ricostruzione teorica del diritto. Mi è sembrato successivamente, e questo è stato cronologicamente il momento e psicologicamente la ragione del mio accostamento agli studiosi “analitici”, che, portando il discorso da questo concetto di norma (che mi sembrava uno di quei termini che “non fanno senso”) ai documenti e al loro impiego, avrei potuto risolvere qualche problema metodologico.
Per cui direi che il perché del mio assumere un atteggiamento “analitico” è un perché molto diverso dal perché (ad esempio) di Scarpelli. Il quale Scarpelli, per la verità, è stato allora il mio punto di riferimento critico e perciò anche di ispirazione; cioè guardavo ai lavori di Scarpelli, e soprattutto non ai primi ma alla Semantica del linguaggio normativo, cioè al terzo suo libro, come a un lavoro metodologicamente il più interessante tra quelli che mi sembrava di avere a disposizione, e d’altra parte come a quello che avrebbe potuto funzionare non solo come termine di confronto ma come oggetto di aggressione, proprio per il fatto che il discorso di Scarpelli manteneva, in fin dei conti, al centro di un interesse teorico-giuridico la “norma”, e non invece dei documenti, degli enunciati, il loro uso da parte di operatori giuridici.
L’idea che bisognasse arrivare a fare una teoria (non delle norme ma) delle operazioni dei giuristi ha motivato, sotto il profilo metodologico (e non certo sotto il profilo di una mia storia personale), l’attenzione per le ideologie dei giuristi e per le operazioni giuridiche, viste come operazioni al servizio di qualche cosa e perciò come operazioni che o esprimono, o sono espressioni di, ideologie.
A questo “perché” del mio assumere un atteggiamento analitico consideravo collegati quegli studi che in realtà volevo fare, e che riguardavano alcune zone della cultura giuridica e alcune “ideologie” (in un senso molto Iato, cioè ideologie degli operatori giuridici).
Un’altra ragione, un altro perché, del mio accostarmi agli studi “analitici” o, dal punto di vista della distinzione di Pattaro, agli studi di “logica giuridica” è da vedersi in una mia opinione sull’uso della logica giuridica da parte dei teorici del diritto, probabilmente molto diversa da quella che è maggioritaria intorno a questo tavolo. Cioè io ho sempre pensato che lo studio della logica fosse “liberatore” (nel senso che gli studi di logica permettono di non confondere mai delle operazioni giuridiche con dei calcoli logici e che “la logica” non è mai, né può essere, al servizio di nessuna sua “applicazione”, perché nessuno schema vuole piuttosto un’interpretazione che un’altra interpretazione). Io credo, continuo a credere, che non si possa fare sensatamente un discorso precettivo nei confronti dell’operatore giuridico partendo da uno studio di carattere logico; e non credo vi sia ·alcuna associazione, nemmeno remota, tra gli studi logici e qualsiasi atteggiamento normativistico o positivistico.
Quanto a ciò che osservava Scarpelli, dirò che non credo di essere sulla strada di allontanarmi da queste posizioni perché le due ragioni per le quali mi sono accostato a queste posizioni, e cioè – ripeto – il carattere liberatore degli studi logici e la aggressione che un atteggiamento analitico mi consente, a livello di teoria, nei confronti di qualsiasi sistema di concetti, sono ragioni che permangono e credo che permarranno.»