“La morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l'esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restavano.”
Il monito che, col suo Candido, lancia Leonardo Sciascia è un invito a ricordare con discrezione e delicatezza chi non è più tra i vivi ma è stato conosciuto attraverso i suoi scritti o le sue opere.
Ciò vale soprattutto in occasione del ricordo del magistrato Rocco Chinnici, autentico e nobile servitore dello Stato, la cui morte è stata decisa, ed eseguita con modalità efferate, dagli esponenti mafiosi di vertice di “cosa nostra”, come accertato dalle sentenze passate in giudicato emesse dall'autorità giudiziaria di Caltanissetta.
Il 29 luglio 1983 si disse “Palermo come Beirut”.
Il Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, Rocco Chinnici, fu ucciso alle 8 del mattino di quel 29 luglio a seguito dell’esplosione di una Fiat 126 parcheggiata dinanzi la sua abitazione in via Pipitone Federico imbottita con 75 kg di esplosivo; in quell'esplosione insieme a lui persero la vita il Maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l'Appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della sua scorta, ed il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi, che come ogni mattina, li aveva appena salutati. Unico superstite della strage fu l'autista giudiziario Giovanni Paparcuri.
Un evento tragico che faceva seguito ad altri atti di guerra compiuti in quegli anni in danno dello Stato dalla mafia siciliana.
Dunque, né il primo né l’ultimo. Fu però il primo a “ferire” la città con l'uso dell’esplosivo. Le terribili immagini di via Pipitone Federico fecero il giro del mondo e Palermo apparve come un luogo di battaglia appena bombardato, proprio come Beirut.
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Ho avuto il privilegio di imbattermi nel testamento morale lasciatoci dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici quando, a metà degli anni ’90, all'inizio della mia attività professionale, sostenni l'accusa in giudizio davanti al Tribunale di Caltanissetta, in un processo nei confronti di un magistrato - oggi deceduto - che aveva svolto le funzioni di giudice istruttore presso il Tribunale di Termini Imerese e successivamente, presso il Tribunale di Palermo, imputato per gravi reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni e per il periodo successivo al settembre 1982, anche per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nell'ambito di tale dibattimento il Tribunale esaminò come testimoni tre magistrati, all’epoca in servizio presso l’ufficio istruzione diretto da Rocco Chinnici al quale avevano riferito di richieste di notizie e informazioni formulate dal magistrato predetto, successivamente destituito, in relazione a procedimenti pendenti presso l’Ufficio Istruzione di Palermo riguardanti indagini delicate e riservate su noti esponenti mafiosi volte a perorare la causa degli indagati.
Si trattava di raccomandazioni fatte dal loro collega nei riguardi di esponenti di rilievo di “cosa nostra”, in ragione della circostanza che a sua volta all’imputato del processo erano stati segnalati dal portiere dello stabile ove abitava o dalla persona di servizio o dal suo pescivendolo.
I magistrati esaminati in dibattimento fecero riferimento al rigore morale e alla adamantina correttezza del loro dirigente Rocco Chinnici il quale li mise in guardia da tali raccomandazioni invitandoli a predisporre una relazione di servizio su quanto accaduto.
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A distanza di quarant’anni dalla strage di via Pipitone Federico, il suo ricordo attualizza e rende viva l’eredità morale del magistrato Rocco Chinnici che, in un contesto torbido e irto di difficoltà -come testimoniato anche dai riferimenti presenti nei suoi Diari oltreché dai numerosi interventi pubblici riportati nel profilo che il CSM gli dedica - ha invertito il modo di essere magistrato in grado di svolgere il proprio servizio in favore unicamente dello Stato, esercitando la propria attività - anche di dirigente - con disciplina e onore, senza alcun interesse personale o di gruppo, nel pieno rispetto della deontologia professionale.
Si tratta di un modo di essere magistrato - lontano dal fare il magistrato - cui tutti noi oggi (che non abbiamo avuto il privilegio di conoscere il magistrato e l’uomo Chinnici) abbiamo il dovere di ispirarci per vivere quotidianamente l’autonomia e l’indipendenza del magistrato così come proclamata nella nostra Costituzione.
Grazie all’esempio di Rocco Chinnici, ed in forza dello stesso, abbiamo il dovere di acquisire e rafforzare gli anticorpi contro ogni forma di pressione, segnalazione o sollecitazione, di qualunque natura e provenienza, diretta ad influire indebitamente sui tempi e sui modi in cui amministrare la giustizia rifiutando il quieto vivere e modi comodi, burocratici e confortevoli.
In quegli anni difficili, ora lontani, il magistrato Rocco Chinnici invitava - ed ancora oggi la sua memoria lo fa - a dimostrare con forza e con dignità l'importanza ed il privilegio di indossare la toga, di rispettare il principio di autonomia e di indipendenza da ogni centro di potere, di avere il coraggio delle scelte anche difficili, di avere la capacità di innovare l’essere magistrato anche in contesti non limpidi, densi di tranelli e agevoli scorciatoie.
Nell’ambito della sua attività professionale, come emerge nitidamente dalle relazioni dei suoi dirigenti in occasione delle valutazioni che lo riguardavano, il magistrato Chinnici non è stato indifferente rispetto all’impegno quotidiano, ha allontanato il quietismo burocratico tipico di un certo “modo di fare” il magistrato.
Rocco Chinnici si è impegnato in prima persona istruendo e portando a compimento processi “nuovi” per quell’epoca, gravidi di conseguenze pericolose per la sua vita soprattutto in quel periodo, esponendosi in prima persona con il Diritto in mano e la toga nel cuore.
Dal profilo del sito del CSM sopra citato si legge: “Quello per l'omicidio di Francesco Mazzara e soprattutto quello per la strage di Viale Lazio, saranno i primi processi di mafia istruiti dal giudice Chinnici. A partire dal 1970, si occuperà del fenomeno mafioso arrivando a comprendere l’esistenza dei legami internazionali e di quelli con ambienti politico-istituzionali dell'associazione criminale. Di questi intrecci, dell'importanza degli appalti e della commistione fra "uomini d'onore" e politici ed imprenditori, nonché di quella escalation mafiosa che, secondo Rocco Chinnici, aveva posto le basi nell'omicidio del boss locale Francesco Mazzara e nella strage di viale Lazio, nonchè dei rapporti e delle differenze fra la mafia siciliana e le 'ndrine calabresi, può trovarsi testimonianza in una relazione tenuta per il Consiglio Superiore della magistratura nei primi giorni di giugno del 1982 dal titolo "La mafia oggi e sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata".
Rocco Chinnici innovatore nel suo lavoro, anche nell’attività di coordinamento dell’Ufficio Istruzione per avere adottato una nuova metodologia investigativa.
La circostanza che ciascun magistrato seguisse i propri processi, pur attribuendo grande autonomia, comportava al tempo stesso l'estrema parcellizzazione delle conoscenze. Inoltre, spesso, i processi venivano celebrati per singoli episodi, per singoli reati.
Egli intuì – la sua grande intuizione - che un fenomeno radicato, globale, come quello della criminalità mafiosa richiedesse invece di essere affrontato nel suo complesso, non combattendo reato per reato, processo per processo. Decise così di costituire un gruppo di lavoro: chiamò all’Ufficio Istruzione Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e, dopo, Giuseppe Di Lello, e con loro istituì a livello informale quello che sotto la guida di Antonino Caponnetto prenderà il nome di pool antimafia.
Paolo Borsellino nella prefazione ad uno scritto di Rocco Chinnici dal titolo “L’illegalità protetta” così scrisse: “Credeva fermamente nella necessità del lavoro di equipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione delle informazioni tra «i suoi»”.
In una intervista Chinnici disse: «Un mio orgoglio particolare è una dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre Magistrature d'Italia. I Magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero»
Il metodo Chinnici è quello che tutti noi, soprattutto negli uffici di Procura della Repubblica, dobbiamo convintamente perseguire divenendo il caposaldo di ogni Progetto Organizzativo delle Procure per rispettare la memoria di Rocco Chinnici e perché la sua intuizione è stata vincente.
Il cittadino e magistrato Rocco Chinnici ebbe la piena consapevolezza che la risposta giudiziaria non è l’unica soluzione del problema della criminalità organizzata: occorre una crescita culturale della società civile e delle Istituzioni che va perseguita e costruita quotidianamente, partecipando con entusiasmo e professionalità a iniziative e lezioni di legalità nelle scuole, per invitare i giovani a vivere da persone libere ed aumentando sempre più gli spazi di legalità nel sociale così da assicurare la libertà e la democrazia.
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi [...] fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai»
Gli insegnamenti e l’eredità morale del giudice Chinnici sono più che mai attuali anche nella sua definizione di mafia come “un’associazione per delinquere con finalità d’arricchimento illecito…la mafia ha sempre una finalità ben precisa: arricchirsi in qualsiasi modo con qualunque mezzo ma cambia i sistemi ed i metodi” (intervista pubblicata in “Segno” n. 10 – 11 ottobre-novembre 1981, “Palermo, una città dominata dalla mafia”).
Oggi abbiamo il privilegio di percorrere l'autostrada della legalità nata da una piccola “trazzera” di campagna, irta, buia e tortuosa, trasformatasi con l'impegno di chi - come Rocco Chinnici, Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi – ha per questo sacrificato la propria vita.
Una grande eredità che abbiamo il dovere di ravvivare e rafforzare.