Verso un dialogo tra giustizia riparativa e penale? Bisognerà “mediare”*
di Lucia Parlato
Si sono andate moltiplicando su più livelli, di recente, le iniziative volte a sollecitare l’affermazione della giustizia riparativa in materia penale. Il connubio tra restorative justice e accertamento giudiziario implica ritocchi normativi, ma anche reciproche contaminazioni e un rinnovato approccio culturale.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il mosaico delle fonti sovranazionali e interne. – 3. Definizioni… – 4. …e ruoli. – 5. Il controverso “diritto” alla giustizia riparativa. – 6. I flussi da e verso il processo penale. – 7. Il necessario background di accoglienza, formazione e servizi. – 8. Un insieme di fattori caratterizzanti. – 9. L’impermeabilità tra i due “mondi”. – 10. Il tempo della giustizia riparativa: riflessioni conclusive.
1. Premessa
Un insieme di iniziative di varia origine e natura ultimamente converge nel valorizzare gli strumenti di giustizia riparativa in relazione a fatti criminosi. «Abbiamo bisogno di pene più serie o di qualcosa di nuovo»[1].
Sino a tempi recenti, nel cogliere una cifra complessiva nel dibattito inerente alla giustizia penale, si poteva affermare che fosse “il momento della vittima”[2]. Con un’inevitabile dose di approssimazione, tale momento si presentava come il successore di ere precedenti, in cui le scelte di politica criminale ruotavano in prevalenza attorno alla figura della persona sottoposta al procedimento penale o condannata. Quel che ora accade non è un nuovo spostamento del focus dell’attenzione, ma un suo allargamento. L’interesse attuale ricomprende i due principali poli soggettivi del rito penale in un orizzonte comune, appunto quello della giustizia riparativa. È un orizzonte che non può essere ignorato: seppure, tanto più lo si osserva da vicino, quanto più esso sfugge a ogni tentativo di includerlo entro definizioni univoche e coordinate precise.
Le indicazioni espresse da più parti – e anzitutto dalla c.d. riforma Cartabia[3], l. n. 134 del 2021 – mirano a incentivare l’interazione tra strumenti riparativi e accertamento giudiziario. L’accostamento a tali strumenti richiede al giurista lo sforzo di accogliere logiche estranee e “decodificare” nozioni dotate di valenza autonoma: si trova di fronte a un sistema diverso, per certi versi meno rigoroso rispetto a quello a lui consueto[4] e, allo stesso tempo, complementare.
Gli oneri sono tuttavia reciproci, perché le fonti – soprattutto sovranazionali – che tendono ad affermare la giustizia riparativa in materia penale implicano l’impegno anche di chi sia sinora dedito esclusivamente al contesto di detta giustizia. Tale contesto risulta ad oggi incontaminato dalle dinamiche dell’accertamento penale, se non per limitati contatti con microsistemi come quello minorile e quello dell’esecuzione penale, nonché, da pochi anni, con l’istituto della messa alla prova per adulti.
Si cercherà di seguito di mettere a fuoco gli aspetti principali che connotano questo “incontro” tra giustizia penale e giustizia riparativa. Prendendo le mosse da una rassegna delle fonti più recenti, di diversa provenienza, si affronteranno i delicati temi inerenti alle definizioni delle fattispecie coinvolte e ai ruoli dei protagonisti che vi operano. Individuare gli intrecci tra accertamento penale e programmi riparativi consentirà, poi, di esaminare questi ultimi ed evidenziarne alcuni fattori distintivi. Tutto ciò segnalando, incidentalmente, vari profili pratici che possono condizionare l’impatto applicativo dell’evoluzione prospettata.
Un punto di partenza per le riflessioni da svolgere può essere la duplice presa d’atto espressa in una delle fonti da considerare, ossia la c.d. Dichiarazione di Venezia[5], del 2021, al n. 5: «la giustizia riparativa ha riscosso un interesse crescente in un certo numero di Stati membri del Consiglio d’Europa» e «il suo ulteriore sviluppo ed uso efficiente possono essere visti sia come un'opportunità che come una sfida positiva per migliorare i sistemi di giustizia penale europei».
2. Il mosaico delle fonti sovranazionali e interne
Una tra le deleghe contenute nella c.d. riforma Cartabia – l. n. 134 del 2021 – ha contribuito a dare concretezza al dibattito in materia di giustizia riparativa rispetto al nostro ordinamento, richiedendo l’introduzione di una “disciplina organica”[6].
I principali riferimenti sono contenuti nel comma 18 dell’art. 1 della legge citata e rappresentano il fulcro delle considerazioni qui svolte. Il Governo viene sollecitato a intervenire in conformità con quanto previsto dalle lett. da a) a g) incluse in questo comma. Ben sette sono le lettere riservate alla materia, nel contesto della disposizione, ma per la complessità dell’argomento faticano ad anticiparci il profilo di ciò che sarà.
La tematica percorre l’intero procedimento penale nonché aspetti di diritto sostanziale[7]: la sua trasversalità la rende insospettabile anello di congiunzione tra norme incriminatrici e processuali, tra procedimento di cognizione e fase esecutiva, tra ambito giudiziario ed extragiudiziario.
Il carattere inevitabilmente sfumato delle direttive fornite dal Governo aggrava il compito del legislatore delegato e suggerisce una ricognizione delle fonti da cui – restando entro la cornice fissata dalla legge – è possibile attingere. Non potendo richiamare ciascuno dei numerosi testi inerenti alla materia, si intende concentrare l’attenzione essenzialmente su alcuni di essi, tra i più recenti, senza soffermarla su altri interventi pure di grande significato[8].
Le iniziative a livello sovranazionale sono molteplici e costituiscono “materia viva”. Hanno un loro respiro e sono esplicite nel lasciare il varco aperto a ulteriori rimeditazioni dell’assetto complessivo. Nei vari articolati ricorre la presenza di una clausola-polmone, volta verso implementazioni future, nella consapevolezza di un “fisiologicamente perfettibile” che in questo campo assume quote e impatto più evidenti del consueto. Un simile approccio lungimirante emerge con chiarezza da due importanti fonti, che fungono oggi da riferimenti imprescindibili per il legislatore italiano. Data la loro rilevanza, si coglie questo spunto per indicarle qui prima di altre.
In primo luogo, deve essere menzionata la Raccomandazione del 2018[9], che all’art. 67 prevede una “rivalutazione” dei propri contenuti – «alla luce di ogni sviluppo significativo nell’utilizzo della giustizia riparativa negli Stati membri» – e se necessario una loro conseguente “revisione”. La Raccomandazione rappresenta la “carta” della giustizia riparativa in relazione all’ambito penale: costituendo una sorta di “codificazione”, ad essa viene diffusamente riconosciuto il ruolo di guida privilegiata[10].
In secondo luogo, va considerata la c.d. Dichiarazione di Venezia, già citata. Contiene una parte “propositiva” che culmina nel n. 16, lett. c), in cui si esplicita il bisogno che si continui «a valutare regolarmente l'attuazione della Raccomandazione» del 2018, nonché «dei principi ad essa annessi», secondo il suo sopra richiamato art. 67.
In un panorama già variegato per la presenza di diverse altre fonti, tale Dichiarazione risulta innovativa per una pluralità di ragioni che giustificano il suo valore di filo conduttore nel corso di queste riflessioni[11].
Rileva, anzitutto, la stessa natura della fonte. Resa congiuntamente dai Ministri della Giustizia degli Stati membri del Consiglio d'Europa, la Dichiarazione esprime una singolare sinergia tra le politiche governative nazionali, riunendo gli intenti dei suddetti Ministri quanto al ruolo da assegnare alla giustizia riparativa in materia penale. La Conferenza di Venezia, propedeutica alla redazione del documento, si è dimostrata – come risulta dalla Dichiarazione stessa al n. 6 – «una piattaforma strumentale ed opportuna per lo scambio di conoscenze, informazioni e buone pratiche, e per discutere le sfide in questo settore».
I pregi ulteriori del testo derivano dai suoi contenuti e, in particolare, dal suo ruolo nel promuovere a livello europeo la diffusione di una “cultura” della giustizia riparativa, anche tramite una formazione ad ampio spettro. Significativo è, tra le altre cose, il primato della Dichiarazione nel sostenere un diritto all’accesso “autodeterminato” ai percorsi di giustizia riparativa, in capo ai soggetti legittimati. Questo aspetto, su cui ci si soffermerà più avanti, si legge tra le righe della Dichiarazione – al n. 15 i) – e risente del dibattito che l’ha preceduta[12].
Se le fonti appena indicate sono quelle che rispecchiano maggiormente l’interesse crescente per la materia, a questo quadro può aggiungersi come la giustizia riparativa – secondo quanto notato all’interno della c.d. Dichiarazione di Venezia, al n. 5 – contribuisca al perseguimento dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 16 dell’ONU, ossia quello di «promuovere società, giuste, pacifiche e inclusive».
Una volta posto l’accento su testi intitolati al tema di cui ci si occupa, bisogna richiamare la Direttiva 2012/29/EU. Essa non tende per vocazione a influire sul campo della giustizia riparativa, ma lo incrocia secondo la prospettiva della vittima, alla cui tutela è dedicata.
Pur non vincolando gli Stati membri all’attivazione di “servizi di giustizia riparativa”, all’art. 12, par. 2, la direttiva del 2012 invita gli Stati membri a “facilitare” «il rinvio dei casi, se opportuno, ai servizi» stessi, «anche stabilendo procedure o orientamenti relativi alle condizioni di tale rinvio». In base alla lett. a), par. 1, dell’art. 12, queste dinamiche devono essere prese in considerazione «soltanto se sono nell’interesse della vittima». Con tale precisazione, si mira a evitare che i programmi di giustizia riparativa possano trasformarsi per le persone offese in occasioni di vittimizzazione secondaria. Sempre in quest’ottica, l’accesso a tali programmi viene declinato per la vittima più come un’opportunità che come un diritto da esercitare. Scelta, questa, che favorisce le istanze di tutela dell’offeso, ma al contempo rappresenta un passo indietro rispetto alla previsione di una sua più pregnante posizione soggettiva.
Sul versante dell’ordinamento italiano, la disciplina risulta sinora esigua e frammentaria. Trova la sua sede principale nei microsistemi della giustizia minorile e del diritto penitenziario, le cui specificità sono così marcate da non permettere un’agevole formazione di paradigmi da generalizzare. L’insieme di sperimentazioni comparse in ambiti circoscritti non offre precisi riscontri statistici. Il che ostacola la possibilità di apprezzare appieno la consistenza di quelle esperienze, se non per prendere atto della presenza di servizi di giustizia riparativa in collegamento con la giustizia minorile, nella maggior parte dei distretti di Corte di appello[13].
Ai fini dell’evoluzione che è ora alle porte, ci si muove dunque senza il conforto di modelli di riferimento concretamente fruibili. Un panorama disorganico non può che indirizzare verso le risorse di una comparazione con sistemi stranieri, a condizione che si tengano in conto le peculiarità dei rispettivi ambiti di riferimento. Spunti utili sono ricavabili non solo dalle soluzioni adottate, ma anche dalle aspirazioni migliorative espresse altrove, specie se relative a contesti già di per sé avanzati. In questo senso, la comparazione può stimolare una sorta di livellamento verso l’alto, consentendo di osservare il risultato raggiunto in altri Paesi e di affinare le loro scelte legislative ed ermeneutiche. In Germania, in particolare, l’assetto normativo si compone di una matrice di diritto sostanziale, insieme a una di diritto processuale, essendo la disciplina distribuita essenzialmente tra i §§ 46 e 46a StGB e i §§ 155a e 155b StPO[14]. Su alcuni aspetti di tale disciplina ci si soffermerà in seguito.
3. Definizioni…
Le caratteristiche della fattispecie trovano una sintesi nella sua flessibilità e intolleranza rispetto a schemi rigorosi. Si proiettano significativamente sul piano definitorio e rendono sfuggenti i ruoli dei soggetti coinvolti.
La difficoltà nel fornire una definizione di giustizia riparativa risulta accentuata dalla circostanza che, dal punto di vista del giurista, ciò che si cerca di mettere a fuoco è distante ed estraneo. Le apparenti similitudini di linguaggi e dinamiche possono persino creare fraintendimenti, derivanti anche dalla presunzione che determinate espressioni o prassi siano usate secondo quanto corrisponde al contesto della giustizia penale. Certe rispettive dinamiche – dell’ambito giudiziario e di quello riparativo – sembrano assimilabili e paiono “dire quasi la stessa cosa”[15]. Una costellazione di equivoci e sovrapposizioni ricorda talvolta le insidie dei “falsi amici” che solitamente tormentano il lavoro di traduttori e interpreti. In effetti, anche qui si tratta di curare il rapporto tra due codici linguistici le cui assonanze sono ingannevoli, non solo tra due sistemi.
Un esempio di queste difficoltà riguarda l’utilizzo diffuso della parola “danno” nel definire i presupposti della giustizia riparativa. Mentre questo termine, per il giurista, evoca tutt’altro e riporta ai presupposti di pretese civilistiche di carattere risarcitorio. Ed è emblematico anche che parametri fondamentali come l’“imparzialità” richiedano, nel contesto riparativo, di essere riconsiderati attraverso lenti ad hoc.
Rispetto a una definizione sfuggente, si può provare a individuare un nucleo centrale più condiviso, muovendo dai contenuti della Direttiva 2012/29/UE. All’art. 2, par. 1, lett. d), essa indica la “giustizia riparativa” come «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale». Riecheggiando con ciò quanto espresso dai Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, adottati dalle Nazioni Unite il nel 2002[16].
Inoltre, la citata Raccomandazione del 2018 all’art. 3 – in un passaggio riproposto dalla c.d. Dichiarazione di Venezia ai nn. 2-4 – tende a definire la fattispecie come un “processo” tale da consentire, alle persone che abbiano subìto un pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di quest’ultimo, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni che dal reato stesso derivano. Requisiti immancabili sono sia che tale partecipazione sia “libera” e “attiva”, sia che il “processo” di cui si tratta si svolga tramite «l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale»: punti, questi, che verranno meglio affrontati in seguito.
La definizione di restorative justice non può essere ancora considerata come qualcosa di stabilmente acquisito. Ne è una conferma la circostanza che essa viene sempre ripetuta, in ciascuna delle fonti che la riguardano, ogni volta con un accento, un aggiustamento, una limatura, o un’apertura in più. Si tratta di un fenomeno di per sé cangiante e in (continuo) assestamento. Attorno agli elementi centrali della fattispecie, diffusamente riconosciuti, gravita una serie illimitata di variabili[17].
4. …e ruoli
Se l’inquadramento della fattispecie rappresenta una sfida, l’individuazione dei suoi protagonisti incontra difficoltà non minori.
Alla luce della c.d. Dichiarazione di Venezia, nn. 3 e 4, i programmi riparativi – al netto di una serie di caratteristiche mutevoli – implicano un dialogo diretto o indiretto, tra vittima e autore del reato, che presuppone il riconoscimento dei fatti da parte di quest’ultimo. Occorre l’operato di un soggetto imparziale – anzi come specificato dalla legge delega, alla lett. f) del comma 18 cit., “equiprossimo” – con la possibilità che i programmi stessi si aprano alla partecipazione di altre persone e della comunità. In altri termini, il sistema riparativo si incentra sul libero incontro tra vittima e “reo”, i quali contribuiscono attivamente alla soluzione di questioni originate da un fatto criminoso. In un confronto tra punti di vista spesso situati in una posizione di simmetria, che non comprende l’autorità pubblica, sono infinite le varianti prospettabili.
La delega governativa del 2021, al comma 18 cit., lett. b), lascia intravedere la preoccupazione del legislatore di chiarire i contorni della figura della vittima. L’intento riproduce in parte le scelte a più ampio raggio che erano emerse durante i lavori della c.d. Commissione Lattanzi[18].
Secondo la delega in discorso, anzitutto, possono intendersi come “vittime” esclusivamente le persone fisiche. L’impostazione risente di quanto stabilito dalla direttiva del 2012, sulla tutela della vittima, e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia basata sulla decisione quadro 2001/220/GAI[19]. Inoltre, la vittima – per essere considerata tale – deve aver subito un “danno”. Come già accennato, l’espressione viene utilizzata in un’accezione diversa da quella consuetamente fatta propria dal sistema processuale penale. Quest’ultimo, con quel termine, rimanda ai presupposti per la costituzione di parte civile e, perciò, a una conseguenza diretta e immediata del reato destinata ad assumere rilievo ai fini di pretese risarcitorie o restitutorie. Rispetto alla giustizia riparativa, occorre prescindere da tale accezione e considerare il “danno” come un più generico pregiudizio. La necessaria astrazione dalle categorie proprie del processo penale, secondo il contesto normativo domestico, trova un riscontro nella recente decisione della Corte europea sul “caso Petrella”[20], che ha reso più evanescente la distinzione tracciata dal nostro ordinamento tra vittima e parte civile.
I percorsi riparativi possono coinvolgere anche le vittime “indirette”, che non siano immediatamente colpite dalla condotta criminosa pur avendone patito conseguenze “dannose”, come soprattutto i “familiari” della persona offesa deceduta in conseguenza del reato. Sono soggetti che devono essere informati e resi partecipi delle vicende giudiziarie, anche alla luce di recenti arresti giurisprudenziali delle Sezioni unite e della Corte europea[21]. Questo profilo è stato oggetto di modifiche nelle ultime battute che hanno preceduto l’adozione della direttiva sulla tutela della vittima, quando si è scelto di includere nel contesto le “famiglie e relazioni di fatto”. L’ambito così delicato è stato preso in considerazione dalla legge delega all’art. 1, comma 18, lett. a), estendendo il richiamo anche alle unioni tra persone dello stesso sesso.
Tutto ciò deve conciliarsi con una valutazione individualizzata dell’offeso, caso per caso, per verificare la sua possibile “particolare vulnerabilità” e, se necessario, promuovere e garantire trattamenti adeguati a evitare o limitare il pericolo di vittimizzazioni “secondarie” o ripetute[22].
Per altro verso, può risultare difficoltoso individuare tutte le vittime e realizzare l’obiettivo di coinvolgerle e tenerle informate, spesso propedeutico rispetto all’attuazione di programmi di giustizia riparativa. Il problema emerge nel procedimento penale[23] e, a maggior ragione non può che affacciarsi in relazione a tali programmi, che sovente non possono contare su canali di comunicazione istituzionalizzati con la sede giudiziaria. Attualmente, talvolta gli uffici di mediazione riescono a contattare le persone offese dal reato solo in base a recapiti ottenuti in via informale. I problemi pratici, al riguardo, rischiano di ostacolare la realizzazione di epiloghi riparativi.
Può accadere che, per qualcuna delle persone coinvolte, il percorso riparativo sia oggetto di un desiderio non corrisposto. Da più parti si afferma che l’“indisponibilità” di taluno tra i potenzialmente interessati non debba precludere automaticamente, per altri, lo svolgimento di un cammino riparativo. Quando l’offeso non accetti di partecipare, l’iniziativa del solo autore del reato può sfociare in soluzioni in cui si fa ricorso a una vittima “aspecifica” o “surrogata”[24]. L’esperienza viene così, ad ogni modo, realizzata e può persino portare benefici di cui si giovi la vittima reale. Un problema concreto, tuttavia, si pone laddove si debba stabilire fino a che punto il programma sia da considerare come “riparativo” e possa influire su esiti processuali o aspetti esecutivi della pena. Le remore, avverte la dottrina, sono ben comprensibili, perché si tratta di altra vittima e non di “quella”[25]. Tali obiezioni trovano sostegno nell’art. 12 della direttiva, nel quale si afferma che l’accesso alla giustizia riparativa avviene “nell’interesse della vittima” e sulla base del suo consenso informato e libero. Una situazione simile, di converso, si può verificare per l’indisponibilità dell’”autore del reato”, di fronte a un’iniziativa presa dalla vittima. E, invero, sono svariati gli esempi virtuosi riportati in entrambe le prospettive[26] .
Quanto all’“autore del reato”, la sua posizione assume valore giuridico soltanto dal momento in cui venga a concretizzarsi nei suoi confronti un’“accusa”, nel senso esplicitato dalla Corte EDU che la intende come una contestazione anche iniziale dei fatti[27]. La prudenza sarà d’obbligo per il legislatore delegato nell’utilizzare l’espressione “autore del reato”, che ricorre nel testo normativo del 2021, in quanto essa si espone chiaramente ad obiezioni basate sulla presunzione di innocenza. Già nell’ambito degli artt. 90 ter e 90 quater c.p.p. spicca un uso improprio dell’espressione in discorso, sulla scorta di quanto risulta dalla direttiva 2012/29/UE (fermo restando che, all’interno di quest’ultima, una precisazione di cui al “considerando” n. 12 va a ridimensionare il problema).
Al di là delle parole utilizzate, ogni qualvolta si interviene sul sistema processuale nell’intento di irrobustire la figura della vittima e di conferirle un riconoscimento, si svela il rischio di mettere in crisi il rispetto della presunzione predetta[28]. Nel contesto della giustizia riparativa vi è di più, perché lo stesso coinvolgimento della persona cui un fatto viene addebitato ruota attorno al suo riconoscimento di responsabilità, senza il quale il programma avviato viene dichiarato non realizzabile. Naturalmente, questo profilo si presenta in maniera diversa qualora il programma trovi la sua collocazione, anziché durante il procedimento di cognizione, nell’ambito della fase esecutiva (e dunque dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna).
A tutto ciò si deve aggiungere che i riferimenti soggettivi rivolti a “vittima” e “reo” si possono rivelare meno stabili di quanto appaia a prima vista. Sono varie le ipotesi in cui il piano dell’“autore” e quello della vittima si sovrappongono. Accade soprattutto per certe fattispecie criminose, come l’usura e l’estorsione, e nel contesto di reati di criminalità organizzata[29].
Una volta individuati i soggetti da considerare in primo piano rispetto alle pratiche di giustizia riparativa, non si può trascurare come ricorra – nelle varie fonti indicate – il riferimento a una dimensione “collettiva”. Pressoché costante nelle diverse fonti, tale riferimento corrisponde a un dato di fatto rispetto a una prassi che si è andata formando.
La legge delega – alla lett. d) del comma 18 cit. – è chiara nel fare richiamo all’interesse tanto della vittima, quanto dell’autore del reato, quanto ancora della comunità. Parimenti, la c.d. Dichiarazione di Venezia al n. 3 insiste sul coinvolgimento, se del caso, di altre persone colpite dal reato, della famiglia o della comunità di appartenenza. In questo modo, si prende atto della possibile esistenza di contrasti tra strati e ambienti diversi della società, agevolando opere di coesione di carattere sociale e prevenendo altri dissidi e divisioni. Il coinvolgimento di una prospettiva allargata in certe ipotesi rimanda a conflitti più estesi, rispetto ai quali il singolo atto criminoso può essere spia oppure occasione. Risultati fruttuosi sono raggiungibili, così, non solo in relazione al rapporto tra i soggetti direttamente interessati, ma pure per la comunità nel suo insieme. Un’apertura a quest’ultima può tradursi in effetti diffusi, inclusa una diminuzione di recidive e di nuovi atti offensivi all’interno di una cerchia sociale[30].
A questo sentimento della collettività rimandano diverse vicende recenti, da individuare in base a spunti offerti dalla cronaca. Si può inserire in tale orizzonte, ad esempio, il seguito dei fatti delittuosi avvenuti la notte dello scorso capodanno nella piazza del Duomo di Milano, rispetto ai quali il sindaco ha sentito di esprimere le proprie scuse a nome della città e il Comune si è costituito parte civile. Guardando verso situazioni verificatesi all’estero, nello stesso ambito rientrano le vicende per le quali sono state composte delle Commissioni indipendenti, in Germania e in Francia, per sostenere le vittime degli abusi sessuali che si ritengono commessi all’interno della Chiesa. Questi casi si iscrivono nel segno di un processo di “riparazione” che va oltre il piano di un riconoscimento individuale e di carattere economico[31].
Si sente forte l’eco di precedenti significativi, su altra scala, originati nel contesto della giustizia internazionale. Per tutte, valga l’esperienza straordinaria della Commissione sudafricana Verità e Riconciliazione[32]. Si spiega meglio così l’insistenza delle fonti nel riferimento alla comunità e, altresì, si trovano le ragioni per le quali – secondo la nozione di giustizia riparativa, proposta da uno tra i “padri” della stessa – si tratta di un modello di giustizia che «coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo»[33].
La difficoltà di definire i ruoli soggettivi non risparmia neanche chi intervenga come operatore all’interno dei programmi di giustizia riparativa. Passando a considerare questa figura rilevano alcune variabili, di carattere non solo lessicale. Si colgono soprattutto ponendo a confronto la legge delega alle lett. f) e g) del comma 18 cit. sul piano nazionale e la Raccomandazione del 2018 all’art. 3 su quello sovranazionale. La prima fa riferimento alla figura del “mediatore”, mentre la seconda si esprime tramite un richiamo al “facilitatore”, come “soggetto terzo formato e imparziale” che agevola gli interessati a «partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito». La c.d. Dichiarazione di Venezia, dal canto suo, al n. 2 rimanda indifferentemente a chi è «solitamente chiamato mediatore o facilitatore».
Al legislatore delegato spetta risolvere il dilemma e stabilire l’identità e le caratteristiche dell’operatore, definendone formazione e competenze. Un problema di qualifiche, d’altra parte, si pone ogni qualvolta un intervento normativo comporti l’avvento di un “esperto” inserendolo in un contesto giuridico, a lui estraneo. Così è accaduto, ad esempio, per una serie di incertezze riguardanti la figura di chi è chiamato ad affiancare il minore nelle audizioni nel corso del rito penale, in attuazione della c.d. Convenzione di Lanzarote[34].
Dalle Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, si ricava una soluzione secondo cui la figura del “facilitatore” è più ampia e comprensiva di quella del “mediatore”, più specialistica[35]. In tal senso, l’attività di mediazione risulta richiamata nella legge delega in maniera atecnica, come “una parte per il tutto”, in una sorta di sineddoche che consente di rinviare a un contesto più ampio e variegato.
5. Il controverso “diritto” alla giustizia riparativa
Si è affacciata a più riprese l’idea di ricondurre la giustizia riparativa all’interesse di uno o più soggetti che ne sono i protagonisti. Una ricostruzione, basata sulla Direttiva del 2012, tende a considerarla come una sorta di “proprietà esclusiva” (o quasi) della vittima, ma non sono mancate le obiezioni[36]. In virtù di una visuale comprensiva delle diverse posizioni soggettive in gioco, la lett. a) della legge n. 134 del 2021 – con un’integrazione rispetto al dettato della direttiva – considera la giustizia riparativa da declinare «nell’interesse della vittima e dell’autore del reato».
Le istanze riconducibili alla vittima e al “reo” mettono in circolo nel percorso della giustizia riparativa potenti variabili. L’atteggiamento della vittima può spaziare da richieste di protezione e oblio a una propensione verso incontri riparativi, o ancora può lasciare prevalere istinti di rancore e vendetta oppure di perdono e apertura. Altrettanto ricco è il campionario di ipotesi che riguardano il versante della persona cui un fatto viene addebitato. Ed entrambe le loro predisposizioni sono mutevoli nel tempo. Sono profili, questi, strettamente legati al tema della “volontarietà” di cui si dirà in seguito.
Su queste basi è lecito domandarsi se si possa parlare di un “diritto alla giustizia riparativa”, da riconoscere ai soggetti potenzialmente coinvolti. Un simile diritto non trova riscontro nell’art. 12 della direttiva sulla tutela delle vittime. Un riferimento chiaro in questo senso era stato per un momento prospettato, ma poi estromesso[37] lasciando quantomeno controverso il configurarsi di tale posizione giuridica in capo alla persona offesa dal reato[38]. E al riguardo, in relazione alla decisione quadro 2001/220/GAI, una pronuncia della Corte di giustizia aveva già messo in luce come agli Stati membri sia “consentito” prevedere pratiche mediative, senza che siano tenuti a farlo per tutti i reati[39].
La prospettiva di un “diritto” all’accesso alle pratiche riparative, in capo alla vittima come anche al “reo”, emerge da una lettura attenta della Dichiarazione di Venezia che, al n. 15 i, nella parte propositiva – indicando la necessità di elaborare piani d’azione e politiche nazionali – si esprime nel senso di un “diritto all’accesso” a servizi adeguati. Questo approccio potrebbe indurre a rivedere le scelte di fondo adottate in Paesi che da tempo hanno provveduto a disciplinare la giustizia riparativa in materia penale. In particolare, in Germania, il § 155a StPO sottende una valutazione dell’organo dell’accusa e del giudice, potendo le pratiche riparative prendere avvio soltanto nei casi da loro ritenuti “idonei”[40].
La previsione di questa delibazione ad opera dell’autorità giudiziaria e il puntuale riferimento ai suddetti “casi idonei” riducono la sfera di “disponibilità” dell’accesso ai programmi riparativi, sottratta così in gran parte all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti. Il problema, colto e lamentato dalla dottrina tedesca, potrebbe presentarsi anche in relazione al “nostro” modello di giustizia riparativa, quello che verrà. La legge delega alla lett. c), infatti, da un canto dispone che l’accesso ai programmi riparativi avvenga «su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente», dall’altro canto ai fini di tale accesso richiede una «positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso» definiti dalla stessa legge delega al comma 18 cit. alla lett. a). Il testo, pur facendo richiamo anche al consenso delle “parti”, contiene un doppio rimando all’intervento giudiziario. Quest’ultimo, per non risultare eccessivamente sacrificante rispetto al valore della “disponibilità” – proposto dalla c.d. Dichiarazione di Venezia in una versione più “avanzata” – dovrà essere sapientemente dosato dal legislatore delegato.
6. I flussi da e verso il processo penale
Un ulteriore momento di riflessione riguarda gli intrecci della giustizia riparativa con quella penale. Sono molteplici i punti di incontro tra le due forme di giustizia che sembrano adesso, più che in passato, pronte a combinarsi tra loro. Una rete di scambi e reciproche contaminazioni è ancora da definire[41].
Non si tratta di due realtà separate e in concorrenza tra loro. Come specificato dalla c.d. Dichiarazione di Venezia al n. 15 iii, l’intento che muove le recenti iniziative è volto a «stimolare, in ogni Stato membro, un’ampia implementazione della giustizia riparativa», sotto il segno di una “complementarietà” o “alternatività” rispetto ai procedimenti penali.
Sotto il profilo sistematico, devono distinguersi due diversi momenti che precedono e seguono il realizzarsi di pratiche riparative. Possono essere intesi come premessa e postfatto, in quanto gli incroci tra i due diversi “modi” di “fare giustizia” – volendo semplificare – si articolano in un flusso di andata e uno di ritorno, rispetto al rito penale. All’interno di quest’ultimo possono essere riconosciute, da una parte, le precondizioni per l’innesto di programmi di giustizia riparativa e, dall’altra, degli sbocchi che consentano di raccoglierne i frutti.
L’antefatto, il primo tra i due momenti indicati, non può che trovare le sue radici nelle informative, indirizzate a predisporre e rendere consapevoli i soggetti interessati del possibile innesto di un percorso estraneo rispetto al procedimento penale. Queste premesse si nutrono dei diritti di informazione che sono stati nel tempo assicurati nel nostro sistema, soprattutto ad opera delle direttive 2012/13/UE e 2012/29/UE con riferimento alla persona sottoposta al procedimento penale e a quella offesa dal reato.
Ai fini della riuscita di questo connubio tra i due sistemi occorre che i possibili partecipi ai programmi della giustizia riparativa siano messi al corrente delle relative opportunità, tramite un’informativa compiuta e accurata, basata su un linguaggio semplice e comprensibile. Solo una piena consapevolezza di ciò cui si va incontro può rappresentare la base di quella volontarietà che, come si vedrà, è una caratteristica indefettibile di tali programmi.
Più il processo si renderà “virtuale” più mancheranno o si indeboliranno questi agganci e – per una migliore promozione e accessibilità degli espedienti di giustizia riparativa – occorreranno strumenti più moderni come app e portali dedicati[42].
Nella stessa legge delega, le lettere c) e d) del comma 18 cit. si soffermano sul consenso – libero e informato – che può essere gestito, dato e ritrattato, in ogni momento, e sulle notizie da fornire ai potenziali interessati, sui programmi di giustizia riparativa e il loro svolgimento. Similmente, la direttiva 2012/29/UE fornisce un elenco tassativo di comunicazioni cui la vittima ha diritto sin dal primo contatto con l’autorità procedente, tra le quali quelle relative all’accesso ai servizi di giustizia riparativa disponibili, all’art. 4. Fondamentale, per la riuscita di questi passaggi, è il ruolo dei difensori delle persone interessate, in grado di spianare la via al ricorso a centri di giustizia riparativa, tramite spiegazioni e incoraggiamenti[43]. Un cambiamento di fondo dovrebbe evitare che le sollecitazioni al riguardo restino appannaggio esclusivo dell’autorità giudiziaria.
Quanto al “postfatto”, la legge delega prende in considerazione il momento della valutazione dell’epilogo riparativo, se favorevole, alla lett. e) dell’art. 18. Il secondo punto di contatto con il procedimento penale interessa i modi in cui i risultati del percorso extragiudiziario possono influire sulla vicenda giudiziaria, ora meno refrattaria che in passato, e in fase esecutiva.
Questo flusso “di ritorno” si concretizza in una pluralità di istituti che, già contemplati dal sistema, si prestano a costituire il “controcanto” in chiave giudiziaria dell’esperienza estranea alle aule. Gli snodi da considerare sono svariati ed eterogenei. Ciascuno di essi richiederebbe osservazioni più ampie, ma ci si limita qui a individuare solo alcuni degli anelli di congiunzione tra l’avvenuto percorso riparativo e lo scorrere del procedimento o dell’esecuzione penale.
Non si può tralasciare l’ambito della procedibilità a querela (tra l’altro oramai di impatto più esteso che in passato)[44], anche in considerazione della possibile remissione della querela stessa. Ma rilevano pure diversi procedimenti speciali, peraltro anch’essi in parte toccati da deleghe al Governo nell’ambito della c.d. riforma Cartabia. Le maggiori potenzialità risiedono negli istituti del “patteggiamento”, già reso più esposto al tema da alcuni ritocchi introdotti in materia di reati contro la pubblica amministrazione o ambientali[45], nonché della sospensione del procedimento con messa alla prova, la cui disciplina – com’è noto – è la prima all’interno del codice di rito ad ospitare un riferimento esplicito alla “mediazione”. Naturalmente, non si possono trascurare le potenzialità dell’istituto della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. Inoltre, terreno fertile in relazione ai reati meno gravi può essere quello del procedimento davanti al giudice di pace. Persino il tema delle spese processuali può rappresentare occasione per dare spazio al “dialogo” tra i privati coinvolti nel rito penale[46].
Di fronte alle innovazioni ora promesse, ci si deve domandare se non sia ora di prevedere un approdo ben preciso e ad esse dedicato[47]. Se in seguito alla delega del 2021 si vorrà fare leva su questi istituti, sarà meglio creare anche un raccordo ad hoc che integri il sistema secondo nuovi equilibri. Una maggiore influenza degli esiti riparativi sull’accertamento e l’esecuzione penale, del resto, richiederà un controllo e uno sbocco giudiziario secondo quanto indicato dalla Raccomandazione del 2018 all’art. 7. Si sentirà il bisogno di spostare il baricentro da obiettivi già conosciuti, come quelli della giustizia “negoziata”, verso le esigenze solo in parte sovrapponibili di quella “riparata”[48].
La sede per innestare i programmi riparativi può essere individuata anche ai margini del rito penale e parallelamente ad esso, persino prima della sua instaurazione – secondo la Raccomandazione del 2018 all’art. 6 – e durante l’esecuzione della pena. Profilo, quest’ultimo, sottolineato dalla legge delega alla lett. c) del comma 18 e confermato da diverse fonti sovranazionali, tra cui la Raccomandazione del 2018 all’art. 6.
Le logiche della restorative justice possono coincidere con quelle deflattive, ma sarebbe riduttivo relegarle entro finalità esclusivamente strumentali. L’anima della giustizia riparativa tende a essere più pura e a valorizzare la risoluzione del conflitto o, persino, l’incontro in sé e per sé[49].
Non si può neanche escludere tuttavia, in maniera più pragmatica, che il profilo della deflazione possa ricavarne dei benefici. Ricadute tangibili in termini di economia processuale avrebbero il pregio di basarsi non su criteri aprioristici, ma su una legittimazione apprezzabile anche agli occhi della collettività. In questo senso, l’innesto della giustizia riparativa potrebbe inserirsi tra le pieghe di tanti istituti e percorsi premiali – colmando i vuoti lasciati da un mancato coinvolgimento della persona offesa – con l’effetto di renderli meno “nemici” delle vittime e perciò meno “odiosi”. Per molte fattispecie come il giudizio abbreviato – rispetto al quale è nota l’evoluzione relativa ai reati puniti con l’ergastolo – si ridurrebbe la diffusa sensazione di “giustizia denegata”[50]. Viceversa, ampliare il ricorso a strumenti deflattivi – come spesso è accaduto – senza aprire spazi di dialogo con le vittime può creare maggiore sfiducia da parte del cittadino nella giustizia.
Nel perseguire questi obiettivi, occorre evitare la collisione con principi fondamentali e, in particolare, con l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, ex art. 112 Cost., ma anche con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., considerata l’ammissione di responsabilità che può avere luogo nel contesto extragiudiziario.
È importante sottolineare che la legge delega si riferisce alla “possibilità” che sia valutato l’esito raggiunto in sede di giustizia riparativa e che, ad ogni modo, ciò sia realizzabile soltanto quando questo esito sia favorevole, ossia nel caso di ipotesi “riuscite” di incontro tra i soggetti interessati.
Dopo il giudicato, possono innestarsi altri sbocchi capaci di ospitare quanto esperito in sede extraprocessuale. Il dilemma che si pone è se mantenere questo collegamento correlato soltanto alle progressioni trattamentali – oggetto di controllo e di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria (e perciò principalmente all’applicazione di misure alternative alla detenzione e alle prescrizioni inerenti all’affidamento in prova ai servizi sociali) – oppure sganciarlo da questi percorsi. Più in generale sarebbe possibile fare leva su affermazioni oramai condivise, anche in seno alla giurisprudenza costituzionale, rispetto allo scopo di favorire comunque «il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale»[51].
In gran parte il dibattito, quanto al contesto esecutivo, concerne la figura dell’ergastolo ostativo, oggetto di una nota sentenza della Corte europea. Tale sentenza – relativa al “caso Viola” – ha condannato l’Italia e ha evidenziato un “problema strutturale” insito negli automatismi di cui soffre questo istituto, refrattario a innesti rieducativi[52]. Sin qui l’unico strumento per superare i rigori dell’ergastolo ostativo è stato quello della “collaborazione”, che può però mancare per ragioni svariate, anche diverse da una presunta fedeltà al contesto criminoso: ad esempio tale collaborazione può non avere luogo perché gli interessati ne temono le conseguenze per sé o per gli affetti più vicini, oppure perché non è più “utile” all’accertamento. Le soluzioni cui perverrà il legislatore presumibilmente “riempiranno” i vuoti lasciati dalla caduta degli integrali automatismi: esse potrebbero incentrarsi sull’utilizzo di strumenti di giustizia riparativa, alla stregua di un’alternativa alla collaborazione non realizzabile[53].
7. Il necessario background di accoglienza, formazione e servizi
La realizzazione degli obiettivi in tema di giustizia riparativa perseguiti, nel nostro ordinamento, dalla c.d. legge Cartabia non può essere immaginata senza un impegno propedeutico.
Obiettivi così innovativi impongono investimenti concreti in termini organizzativi e ancor prima economici.
Anzitutto, in ordine al versante finanziario, il comma 19 dell’art. 1 della c.d. legge Cartabia – nel dare attuazione alle disposizioni di cui al citato comma 18 – prevede che sia autorizzata una consistente spesa annua, a decorrere dal 2022. In corrispondenza, è disposta una «riduzione nelle proiezioni dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto» – ai fini del bilancio triennale 2021-2023 – «nell’ambito del programma “Fondi di riserva e speciali” della missione “Fondi da ripartire” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per il 2021, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della giustizia». Alla raccolta di risorse economiche può concorrere un circolo virtuoso che ruota attorno alla cassa delle ammende ed è favorito in un duplice modo. Da un lato, la cassa medesima riesce oggi ad alimentarsi maggiormente rispetto al passato, per una progressiva evoluzione normativa che ha aumentato l’impatto dei casi di inammissibilità e la loro “penalizzazione” all’interno del processo penale. Dall’altro lato, quanto raccolto nella cassa delle ammende viene indirizzato, tra le altre cose, verso il sostegno di progetti di assistenza riparativa e assistenza alle vittime[54].
Il raggiungimento degli obiettivi fissati dal legislatore, inoltre, richiede una sorta di sinergia tra “cura” e giustizia e, in particolare, un sistema di accoglienza delle persone potenzialmente interessate ai programmi riparativi e soprattutto delle vittime del reato. L’affermazione di strutture che le “accolgano” corrisponde a indicazioni fornite dalla Direttiva 2012/29/UE all’art. 25 par. 4. Occorrono forme di assistenza “dedicate”, che si pongano a monte rispetto all’operato dei mediatori/facilitatori. Dovrebbero essere fornite da persone “non terze”[55], per sostenere chi ne abbia esigenza, senza la preoccupazione di mantenere un’“equiprossimità” rispetto ai soggetti coinvolti. Si tratta di un appoggio di carattere primario che prescinde da altre forme più mirate di assistenza, come quella tecnica o linguistica, pur potendo ad esse preludere se necessario.
Un ulteriore e importante aspetto riguarda la formazione di chi debba entrare in contatto con i soggetti implicati, siano essi vittime o “autori del reato”. Anche questo profilo trova riconoscimento nella direttiva 2012/29/UE, in relazione alla persona offesa: il menzionato art. 25 prevede che gli Stati membri debbano incoraggiare e sostenere iniziative volte a realizzare «un’adeguata formazione» di «coloro che forniscono servizi di assistenza alle vittime e di giustizia riparativa». Tale formazione deve essere «di livello appropriato al tipo di contatto» che i destinatari della stessa «intrattengono con le vittime», a seconda del loro ruolo.
Alla luce della Raccomandazione del 2018 una “formazione accreditata”, iniziale e continua, risulta funzionale rispetto alle elevate competenze richieste ai facilitatori in più campi: l’intero testo è attraversato da indicazioni in argomento, volte a garantire capacità e attitudini specifiche degli operatori. La legge delega del 2021, dal canto suo, alla lett. f) del comma 18 cit., sollecita la disciplina di una formazione di “mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa” e richiede che siano fissati requisiti e criteri per l’esercizio dell’attività professionale, nonché creati sistemi di accreditamento dei mediatori presso il Ministero della giustizia. Da assicurare sono soprattutto le caratteristiche di imparzialità, indipendenza ed “equiprossimità” del ruolo. E, sempre a norma della lett. f), occorre che agli operatori siano fornite delle conoscenze basilari sul sistema penale. Inoltre, bisogna che la loro formazione li ponga in condizioni di comprendere le esigenze di vittime e “autori” del reato, nonché di individuare possibili cause di vulnerabilità in modo da evitare forme di vittimizzazione secondaria.
La c.d. Dichiarazione di Venezia ritorna su questo centrale profilo ampliando ulteriormente l’angolo visuale. Innesca una promozione più estesa, di carattere culturale, facendo riferimento all’inclusione del tema della giustizia riparativa nell’ambito dei programmi di istruzione post universitaria per i giuristi.
Un'altra linea di azione concerne le strutture relative ai servizi di mediazione. Due prospettive tra loro complementari implicano l’una una visione allargata e di insieme, l’altra uno sguardo sulle realtà locali.
La prima prospettiva, promossa dalla c.d. Dichiarazione di Venezia, esprime un’esigenza di armonizzazione e di omogeneità nell’operato delle strutture dei diversi contesti nazionali. Il testo culmina nell’invito, rivolto al Consiglio d’Europa, a incoraggiare e assistere gli Stati membri nell’attuazione della Raccomandazione del 2018 in materia penale, assicurando una cooperazione interforze e riconoscimenti di carattere legislativo e finanziario. Un simile allargamento di orizzonti è sotteso all’opinione di uno studioso tedesco che auspica il “consolidarsi della giustizia riparativa” e il suo trasformarsi in uno “strumento universale a disposizione”[56]. Il che può essere ricondotto all’art. 18 della Raccomandazione del 2018, che definisce la giustizia medesima come un «servizio generalmente disponibile».
Secondo l’altra prospettiva, nel delineare modelli di giustizia riparativa non si possono trascurare le peculiarità su base nazionale o locale. Pur a fronte di quanto appena evidenziato, la c.d. Dichiarazione di Venezia sottolinea l’importanza delle specificità di ciascun contesto domestico.
All’interno dei confini domestici, un’analoga duplice prospettiva ha ispirato la legge del 2021. Il citato comma 18 mira a realizzare una continuità sul piano nazionale e, ai sensi della lett. g), stabilisce che i servizi siano forniti da strutture pubbliche convenzionate a livello ministeriale. Allo stesso tempo, tuttavia, tali strutture devono fare capo agli enti locali e la loro presenza sul territorio andrà assicurata quantomeno nella misura di una per ciascun distretto di Corte di appello. La previsione, che fa riferimento a «strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia» non considera la possibilità che i programmi siano gestiti in convenzione con strutture terze, private, cui si riferiscono le Linee di indirizzo del 2019, per il contesto minorile[57]. Restando necessariamente su un livello di indeterminatezza, la delega al Governo persegue sia un nesso con le realtà decentrate e le loro particolarità, soprattutto in vista del reinserimento sociale del “reo” e della cura per la vittima, sia l’esigenza di evitare disomogeneità e discontinuità, specialmente nella formazione degli operatori e nella qualità dei servizi offerti.
8. Un insieme di fattori caratterizzanti
L’aspetto definitorio della fattispecie si complica anche in considerazione della varietà degli schemi attraverso i quali essa trova realizzazione. I programmi di giustizia riparativa compongono un insieme eterogeneo. Alcune modalità sono impiegate in campi diversi da quello penalistico, ad esempio nell’ambiente scolastico o in quello lavorativo, e potrebbero essere “prese a prestito”. La Direttiva del 2012/29/UE indica vari modelli, secondo una elencazione non esaustiva inclusa nel “considerando” n. 46, che comprende la mediazione vittima-autore del reato, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi.
La c.d. Dichiarazione di Venezia, nel rimarcare al n. 4 “i vantaggi dei processi di giustizia riparativa”, sottolinea soprattutto “la volontarietà di questi processi” e “la possibilità di interromperli o fermarli in qualsiasi momento”. Evidenzia altresì «l'eguale preoccupazione per le esigenze e gli interessi di tutte le parti coinvolte». In sintesi – per fissare gli elementi indefettibili nei programmi di giustizia riparativa – ribadisce che «il fulcro del processo risiede nella riparazione dei danni materiali e immateriali, nella volontarietà, nella partecipazione, nella riservatezza, nel reinserimento degli autori di reato, nell'imparzialità di un terzo». Elementi, questi, che concorrono nel ridurre il rischio di una stigmatizzazione dei soggetti coinvolti. Sempre mirando a indicare le caratteristiche delle pratiche di restorative justice, la Raccomandazione del 2018, all’art. 3, indica la definizione che si è qui inizialmente riportata, la quale sintetizza fattori fondamentali.
A dire il vero, sul piano strutturale i metodi della giustizia riparativa tendono a formare un ventaglio più ampio di quello risultante da ogni tentativo di tipizzazione. Una serie indefinita si alimenta di intrecci e contaminazioni tra i diversi schemi, fermo restando un nucleo centrale e indefettibile di qualità essenziali e condivise. Nell’individuarle è possibile selezionare un gruppo di fattori caratterizzanti, legati strettamente tra loro. A ciascuno di essi si potrà dedicare qualche breve cenno, senza alcuna pretesa di esaustività.
Volontarietà. Il primo tra i fattori distintivi della giustizia riparativa indica uno tra i più significativi aspetti da considerare, in relazione al ruolo della vittima e del “reo”. A questi ultimi spetta la scelta di prendere parte o meno a un percorso di giustizia riparativa. Se accettano di accedervi hanno l’ulteriore possibilità di bloccare quel percorso, in qualsiasi momento, fermandolo o interrompendolo. Elemento immancabile è, infatti, che la partecipazione sia volontaria e libera.
Imparzialità/equiprossimità. Volendo ancora proseguire per spunti, rileva l’imparzialità del soggetto chiamato a intervenire come operatore. Stante la necessità che egli non abbia precisi legami o rapporti con le persone coinvolte e non sia coinvolto nel caso, la sua “terzietà” si declina per lui in maniera diversa rispetto a quanto accade nel processo penale in relazione al giudice. Se quest’ultimo nel rito penale deve essere “lontano come la cosa più lontana”[58] rispetto alle parti, per il mediatore/facilitatore nell’ambito della giustizia riparativa vale il contrario.
La terzietà, infatti, si esprime qui in termini non di “equidistanza”, ma di “equiprossimità”, per cui in relazione agli interessati l’operatore deve essere non egualmente distaccato, bensì parimenti vicino. Questa qualità si traduce in una prassi che si avvale non di uno solo ma di una pluralità di operatori: il loro numero, più ridotto negli incontri preliminari (di solito con due mediatori/facilitatori), aumenta in seguito per arrivare a coincidere con il numero delle “parti” più uno. Tale prassi si spiega - a detta degli operatori stessi - in quanto difficilmente un solo soggetto riuscirebbe ad assicurare la necessaria “equiprossimità”.
Indipendenza. Un'altra caratteristica della giustizia riparativa, quella dell’“indipendenza”, trova riscontro in varie fonti e, in particolare, negli artt. 20 e 66 della Raccomandazione del 2018. Resta da chiarire cosa debba intendersi quando si fa riferimento a tale connotazione che, di certo, deve entrare in gioco in relazione ai rapporti con il processo penale. Rispetto a quest’ultimo, infatti, occorre che si assicuri un’autonomia sia sul piano organizzativo dei programmi, sia in ordine ai contenuti e agli esiti dell’incontro in sede riparativa.
Il profilo si intreccia con altri già menzionati: in particolare, l’indipendenza può declinarsi nel garantire la libertà e l’autodeterminazione degli interessati rispetto alla loro partecipazione[59], che non può essere indotta o filtrata dall’autorità giudiziaria. In senso critico, si osserva come in molti Paesi la giustizia riparativa risulti di fatto ammantata di logiche proprie del processo penale. Le obiezioni vengono rivolte verso il modello tedesco in cui, come si è osservato in precedenza, è l’organo inquirente o giudicante a verificare la praticabilità di percorsi riparativi selezionando di fatto, a monte, i “casi idonei” ai sensi del § 155a StPO. In quest’ottica, si pone l’accento sulla necessità di creare vie di accesso alla giustizia riparativa semplici e dirette, che siano a disposizione dei soggetti potenzialmente interessati senza passare per valutazioni da parte dell’autorità giudiziaria. Solo in questi termini si potrebbe dire riconosciuto un “genuino” diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa[60]. Un riferimento, al riguardo, può essere individuato nell’art. 19 della Raccomandazione, che allude a un ricorso “autonomo” degli interessati ai servizi di giustizia riparativa, a prescindere da iniziative pubbliche.
Disponibilità. Strettamente connessa all’indipendenza, la disponibilità comporta che sia possibile accedere ai programmi riparativi in maniera indistinta e generalizzata, libera da categorie e da divisioni aprioristiche. Il sistema deve rinunciare ad automatiche inclusioni o esclusioni legate ad esempio all’età delle “parti” – e perciò alla valorizzazione della condizione di minori o comunque giovani – come pure alla contestazione di recidiva, oppure alla gravità o tipologia del reato, o ancora allo stato e al grado del procedimento penale. Ogni limitazione rischia di porsi in contraddizione con gli obiettivi di eguaglianza perseguiti tramite l’approccio “all-crimes” adottato dal Consiglio d’Europa[61].
I modelli della giustizia riparativa sono destinati potenzialmente a valere per ogni tipologia di conflitto, in un panorama che in astratto non conosce confini e preclusioni. Al riguardo, tra le altre cose, rileva come la c.d. Convenzione di Istanbul, all’art. 48, preveda una norma che è stata talvolta letta come un divieto di ricorrere a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti per i reati di violenza di genere e domestica[62]. Ciò per evitare il verificarsi di condotte abusanti e di forme di vittimizzazione anche in occasione di pratiche riparative. Il tema riguarda la protezione della vittima, anche da una sua cedevolezza, e ricorre in diverse pronunce interne e sovranazionali[63].
Gli interrogativi sull’opportunità di limitare il ricorso a strumenti di giustizia riparativa nascono, come è naturale, soprattutto con riferimento ai reati più gravi. Rispetto a delitti di gravità media ed elevata si presentano le sfide più ardue, oltre alle resistenze maggiori dal punto di vista dell’opinione pubblica. Al contempo, di contro, si rivelano le potenzialità più spiccate. A fronte delle obiezioni più ferme, infatti, ricerche empiriche e opinioni di studiosi concordano sul fatto che proprio in questo contesto – in cui “la posta” del conflitto è elevata – tali strumenti possono riservare risultati più apprezzabili[64].
Il valore in discorso, inerente alla “disponibilità”, per altro verso si coniuga con gli aspetti relativi alla concreta “accessibilità” e alla “gratuità” dei programmi di giustizia riparativa, su tutto il territorio nazionale. Secondo quanto sottolineato da diverse fonti e, con particolare chiarezza, dalle Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, occorre assicurare la possibilità di accedere ai percorsi e ai servizi della giustizia riparativa senza alcun onere economico a carico dei soggetti coinvolti[65]. Questo spiega la cura del legislatore nell’affrontare il problema finanziario al comma 19 dell’art. 1 cit., secondo quanto si dirà più avanti.
Rieducazione. Una pluralità di fonti in materia evidenzia che la giustizia riparativa debba tendere alla rieducazione. La modalità per raggiungere questo obiettivo può essere diversa e la sua scelta non può essere operata in astratto, perché ogni caso (e soprattutto ogni incontro) rappresenta un mondo a sé stante. Il “facilitatore” ha il delicatissimo compito di saper individuare e toccare le corde giuste, secondo scelte uniche e non replicabili in altri contesti. Ciò che è più adeguato a ogni contesto presumibilmente non potrà più servire altrove. Al riguardo può essere significativo sottolineare nuovamente quanto evidenziato dalla Consulta valorizzando l’obiettivo di favorire comunque «il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale»[66].
Riparazione. È un profilo centrale e può declinarsi in vario modo. A fronte dei limiti intrinseci di quella materiale, la riparazione di natura simbolica può rivestire importanza in sé e per sé e può presentarsi sotto forme diverse. La riparazione materiale è inidonea a coprire le svariate conseguenze che si dipartono dalla commissione di un fatto criminoso e compongono un insieme del tutto irripetibile[67]. Una riparazione simbolica, invece, può rivelarsi talmente duttile da prestarsi meglio alle specificità di ogni contesto. Basti pensare alle “scuse”, che riescono a dimostrare la capacità di un soggetto di rivolgere un gesto di rispetto. Questa tipologia di riparazione costituisce un indice irrinunciabile della riuscita di una mediazione, esprimendo l’attivazione (o la riattivazione) di una relazione di comunicazione e ascolto tra le “parti”[68].
Incontro. È l’incontro a poter veicolare una soluzione alle principali implicazioni derivanti dal fatto criminoso[69]. Ed è proprio il “faccia a faccia” a essere potenzialmente risolutivo: può “ridestare” il “reo”, anche quando si sia macchiato di gravi reati, e può pure agevolare la vittima a sentirsi riconosciuta e compresa[70]. Che ogni programma di giustizia riparativa sia a base dialogica, d’altra parte, lo riconosce espressamente la Raccomandazione del 2018[71]. L’incontro si verifica nella “stanza della mediazione”. Il contesto è talmente “protetto” che, per avere un’idea di ciò che vi accade, l’unica possibilità (al di là dell’ipotesi in cui si sia parte coinvolta) è assistere a una simulazione.
Riconoscimento. Implica una forma di recupero, un “nuovo inizio” ed eventualmente una risocializzazione non soltanto del “reo”, ma anche della vittima. Per quest’ultima, il fattore in discorso può avere una pluralità di valenze: può rilevare tramite l’accoglienza all’interno del procedimento penale, oppure in ambiti non istituzionali e persino antecedentemente a una denuncia. Non di sola commisurazione della pena e non di soli risarcimento o riparazione si nutre, infatti, l’appagamento di vittima e “reo”[72]. Persino la stessa qualificazione di “vittima” è capace, a seconda dei casi e dei soggetti cui è rivolta, di avere una funzione di riconoscimento, o al contrario di alimentare sentimenti negativi e diseguaglianze[73]. Le chiavi di lettura di un fatto e dei valori coinvolti, del resto, possono essere anche del tutto capovolte e simmetriche all’interno di una comunità, rispetto a quanto accade in altre cerchie sociali.
Narrazione. Il riconoscimento è spesso legato alla narrazione, che normalmente viene svolta dall’operatore, al principio dell’incontro riparativo, riportando in breve i fatti prima che abbia luogo il racconto delle “parti” coinvolte. Quest’ultimo può poi proseguire nel realizzare l’obiettivo del riconoscimento, anche grazie all’apporto dell’operatore stesso. Il risultato in termini di riconoscimento dipende in larga misura dalla scelta delle parole che ad esempio, a seconda dei reati, possono arrivare a sottendere o persino a esplicitare un “contributo” della persona offesa rispetto al fatto di reato: una cura nel lessico, di converso, può portare risultati apprezzabili anche sotto il profilo sociale e culturale[74]. Coglie nel segno un rimando, abilmente svolto nel trattare l’argomento, all’VIII canto dell’Odissea[75]. Solo ascoltando la narrazione delle sue gesta Ulisse si accorge di ciò che ha passato, dei rischi che ha corso e di chi è diventato. In quel contesto, il suo pianto colpisce Alcinoo, che quindi gli chiede chi sia. Ed è quello il momento in cui inizia il racconto di Ulisse.
Racconto/ascolto. Già valorizzato all’interno della Direttiva 2012/29/UE, all’art. 10, e nella giurisprudenza formatasi con riferimento alla Decisione quadro 2001/220/GAI, l’ascolto delle “parti” dell’incontro rappresenta un passaggio irrinunciabile e cruciale. Occorre però segnare le dovute differenze rispetto alle sue connotazioni all’interno del rito penale, dove l’ascolto è scandito dalle domande. In dibattimento, di regola, ha luogo secondo il sistema dell’esame incrociato ed è finalizzato agli obiettivi dell’accertamento processuale. L’ascolto in sé può rappresentare un’importante occasione di “promozione psicologica”, agevolando un “riordino” dei fatti accaduti può aiutare a fare chiarezza e ad intraprendere un percorso di ripresa[76].
Vergogna. Anche in relazione a quanto si è detto rispetto al coinvolgimento della collettività, si afferma che l’esito della giustizia riparativa risente anche del fattore della vergogna. Si tratta di una vergogna “positiva”, uno shaming rivolto a una comunità sociale. Al riguardo si discute autorevolmente di una “vergogna reintegrativa” capace di agevolare, specie in alcuni percorsi di giustizia riparativa, il superamento di stigmatizzazioni sia per la vittima che per il “reo”[77].
Fiducia. Molto ruota attorno a questa parola, che ricorre spesso all’interno della Direttiva 2012/29/UE. Il concetto sotteso è in grado di rappresentare il centro di una pluralità di situazioni, specialmente qualora una relazione affettiva o familiare leghi vittima e “reo” (“considerando” n. 18). Ma la “fiducia” rileva anche con riferimento ai rapporti tra individuo e “autorità” o “sistemi di giustizia penale” (“considerando” nn. 53 e 63). A differenza di quanto si verifica per il diritto penale – che tende a dare risposte attraverso lo strumento sanzionatorio – in effetti, la giustizia riparativa mira proprio a ripristinare la fiducia tra i soggetti coinvolti, con la consapevolezza che per farlo occorrono percorsi complessi e accurati che si articolano nel tempo[78].
Rimangono sicuramente diversi concetti da focalizzare. Due tra questi – riservatezza/confidenzialità e tempo – saranno considerati in seguito, rispettivamente in relazione ai rapporti tra ambito giudiziario e non, nonché nel corso di alcune riflessioni conclusive.
9. L’impermeabilità tra i due “mondi”
Riservatezza/confidenzialità. Un aspetto che merita di essere considerato in maniera autonoma è quello che riguarda l’esigenza di mantenere il processo penale “impermeabile” ai contenuti dei programmi di giustizia riparativa. La caratteristica in questione risulta dagli artt. 17 e 53 della Raccomandazione del 2018, oltre che dal n. 3 della c.d. Dichiarazione di Venezia, i quali fanno richiamo alla necessità che le pratiche riparative si svolgano in modo riservato. Lo stesso profilo è oggetto di specifica preoccupazione all’interno della l. n. 134 del 2021 che, alla lett. d) del comma 18 cit., prescrive la “confidenzialità” delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa.
La stessa legge, tuttavia, indulge in eccezioni quando ricorra il consenso delle “parti”, qualora la divulgazione sia “indispensabile” per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e, ancora, laddove le dichiarazioni integrino di per sé un reato. Al netto di queste possibili deroghe – che riecheggiano in parte quanto indicato dalla Raccomandazione del 1999 n. 19[79] all’art. 30 e da quella del 2018 all’art. 17 – la “confidenzialità” risulta protetta dall’inutilizzabilità delle dichiarazioni nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena, ai sensi della lett. d) del comma 18 cit.
Queste eccezioni, se non determinate e applicate in maniera ponderata[80], rischiano di rendere più “indifesa” la sede dell’incontro riparativo, facendo sentire meno liberi di esprimersi coloro che ad esso partecipano. Le maggiori preoccupazioni riguardano le dichiarazioni indizianti, chiaramente rese in questa sede senza l’assistenza del difensore. Rispetto ad esse, nel corso del procedimento penale com’è noto opera una disciplina di tutela ai sensi dell’art. 63 c.p.p., per la quale il flusso delle dichiarazioni si interrompe con un avvertimento da parte dell’autorità procedente. In sede extragiudiziaria, invece, può accadere che l’ascolto continui a scorrere anche una volta transitato nel delicato ambito di aspetti potenzialmente sfavorevoli per il soggetto interessato. Il connubio tra l’assenza di un meccanismo di interruzione dell’ascolto (stante la fisiologica mancanza della difesa tecnica), da un lato, e la possibile divulgazione delle dichiarazioni, dall’altro lato, è ciò che più suscita timori. Problemi analoghi sorgono quando sia la vittima a rivelare nel corso del suo racconto eventuali fatti criminosi a lei addebitabili.
Al di là di queste specificità, l’area dell’incontro riparativo dovrebbe mantenersi schermata e libera dall’eventualità che i suoi contenuti divengano ostensibili, in generale e soprattutto nel rito penale. Analoghe esigenze di “impermeabilità” possono valere rispetto alla fase esecutiva. La posizione del condannato, infatti, richiede che siano comunque adottate delle cautele nel tenere riservato l’andamento del percorso riparativo. In questo senso militano ragioni simili rispetto a quelle che, in sede di “testimonianza assistita”, hanno ispirato una diversificazione normativa tra i regimi spettanti al dichiarante assolto e a quello condannato[81]. Si prospetta, infatti, la comune esigenza di non precludere a quest’ultimo un eventuale accesso allo strumento della revisione del giudicato. Al di là di considerazioni inerenti a un’auspicata progressione nel trattamento rieducativo.
Il problema si crea a maggior ragione quando le pratiche svolte abbiano avuto esiti negativi, i quali a norma della lett. e) del comma 18 cit., non sono soggetti a valutazione nel procedimento penale o nell’esecuzione della pena. La stessa disposizione, d’altra parte, precisa che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa, o il suo fallimento, non debbano produrre effetti negativi a carico della vittima o dell’”autore del reato” nelle menzionate sedi giudiziarie.
In relazione al risultato negativo non deve essere svelato nulla in sede giudiziaria, neppure qualora – nonostante tale risultato – il percorso riparativo abbia incluso qualche singolo snodo positivo: dunque, ad esempio, neanche quando vi siano state delle importanti manifestazioni da parte dell’autore del reato, di possibile rilievo per la commisurazione della pena ex art. 133 c.p., oppure qualora sia mancato davvero poco rispetto alla “riuscita” di una mediazione. Tutto questo rappresenta certamente una perdita, ma essa trova giustificazione nella esigenza superiore di proteggere dal contesto esterno i contenuti di un incontro riparativo.
Viceversa, quando è positivo l’esito trova riscontro in un repertorio di possibili espressioni utilizzate dalle “parti” nel corso dell’incontro. Tale esito, raccolto dall’operatore e siglato con una firma dai partecipanti, può essere trasmesso in modo “secco”, oppure “vestito”. Il secondo caso ricorre quando i partecipanti, apponendo una sottoscrizione ad hoc, manifestino la volontà che qualche contenuto dell’esperienza trapeli nel contesto giudiziario.
Nella Raccomandazione del 2018 all’art. 53, tuttavia, per il caso in cui la giustizia riparativa abbia incidenza sulle decisioni giudiziarie, si prevede un riscontro dell’operatore all’autorità procedente in merito al percorso svolto. Fermo restando che non vanno rivelati i contenuti discussi né espressi giudizi sul comportamento delle “parti” durante il percorso stesso.
In effetti, rispetto alle attuali e limitate interazioni della giustizia riparativa con quella penale, in concreto l’impermeabilità funziona in maniera reciproca. Questo aspetto, che può sembrare sorprendente, dipende dal fatto che il mediatore/facilitatore oggi non è solito volgere lo sguardo verso lo sbocco processuale. L’operatore in linea di massima non si occupa di conoscere (e neppure di immaginare) quali riflessi possano derivare da un esito positivo, nel contesto giudiziario. Raccogliendo le impressioni di diversi mediatori, si ricava questa netta e spontanea presa di distanze. “Non è un difetto”, si premurano di specificare, ma tutto ciò corrisponde a una “purezza” del ruolo della quale si va orgogliosi, la quale si pone a presidio dell’habitat della mediazione e lo protegge dalla strumentalità rispetto all’accertamento penale. Gli operatori interpellati rispondono che potrebbero anche acquisire informalmente notizie sugli sviluppi in sede giudiziaria realizzatisi in continuità con il proprio lavoro, ma “non si è mai fatto”: in linea di principio, perciò, non vengono seguite le sorti di ogni vicenda. Ora forse, di fronte all’attuale desiderio istituzionale che punta sulla giustizia riparativa, le dinamiche tra ambiente giudiziale ed extragiudiziale potrebbero mutare. Pur rimanendo intatto l’amore per la purezza della mediazione, da parte degli operatori è prospettabile una maggiore consapevolezza in ordine agli “investimenti” compiuti in sede riparativa e alla tesaurizzazione del percorso svolto.
In vista di un’evoluzione del nostro ordinamento, vari istituti dovrebbero essere modificati in modo da irrobustire i confini che tutelano l’esperienza riparativa. Ad esempio, occorre introdurre forme di incompatibilità dell’operatore a testimoniare. Senza contare che i contenuti di incontri mediativi potrebbero transitare nel procedimento penale attraverso le deposizioni della persona offesa, come pure tramite le dichiarazioni spontanee o l’esame dell’accusato.
Un autonomo aspetto concernente l’impermeabilità è quello che risulta dalla necessità che i dati raccolti ai fini dei programmi di giustizia riparativa restino riservati e vengano distrutti successivamente, secondo una regolamentazione. Nel sistema tedesco di questo aspetto si occupa il § 155b StPO. Nella sua versione entrata in vigore nel 2019 – in seguito all’attuazione della Direttiva (UE) 2016/680/UE e del Regolamento 2016/679/UE – la norma prevede l’utilizzo dei dati delle persone coinvolte entro i limiti di quanto occorre per le pratiche riparative, con specificazioni inerenti al trattamento di tali dati da parte di centri che non siano pubblici. Il paragrafo citato dispone, inoltre, la distruzione dei dati medesimi dopo un anno dalla chiusura del procedimento penale[82].
10. Il tempo della giustizia riparativa: riflessioni conclusive
Tempo. Per concludere, non si può mancare di fare richiamo a un fattore che costituisce un riferimento costante in ogni ragionamento sul tema della giustizia riparativa. Combinando l’orizzonte di quest’ultima con quello della giustizia penale, il tempo diviene oggetto di “investimenti” non preventivabili né rispetto al sacrificio iniziale, né rispetto ai vantaggi finali. Bisogna astrarsi da logiche prioritarie “di risultato”, strumentali in termini di economia processuale, oltre che di “riscatto” del “reo”, o persino di pacificazione tra i soggetti interessati. Il semplice “incontro” può di per sé rappresentare un obiettivo da perseguire, sia pure – ad esempio – per dare sfogo ai sentimenti dell’offeso o per porre le basi di nuove regole di convivenza sociale. Quest’ottica, che valorizza anche esiti non strettamente “processualizzabili”, implica una tolleranza della giustizia penale rispetto a tempistiche più elastiche e non calcolabili ex ante.
Da una “questione di tempi” dipende spesso la riuscita dei percorsi riparativi. In chiave deflattiva, si auspica che un esito positivo si collochi in corrispondenza con le prime battute del procedimento penale. Ma il “momento giusto” risponde a logiche e ragioni in gran parte non gestibili e prevedibili[83], anche perché la vicenda giudiziaria può essere vissuta dai suoi protagonisti come un’“attesa”, con stati d’animo via via differenti[84].
É noto come il tempo, per i protagonisti del processo, non possa avere una valenza univoca. Dal punto di vista della vittima, lo svolgimento di indagini deve essere pronto e tempestivo. Tuttavia, in certe circostanze, solo dei ritmi più lenti e gestibili le consentono scelte consapevoli: così è, ad esempio, per la denuncia, per la querela, o per l’opposizione alla richiesta di archiviazione. Nell’ottica delle persone sottoposte al procedimento penale, il tempo processuale può rappresentare un peso, se non una “pena”[85], ma in senso inverso non è raro che si imputino loro strategie dilatorie.
Il tempo, peraltro, entra in gioco pure perché le dinamiche riparative inducono a volgere lo sguardo sia all’indietro che in avanti. Esse tengono conto del fatto di reato e muovono dall’intento di attenuarne, se non eliminarne, le conseguenze dannose o pericolose. Ma si proiettano verso il futuro, per cercare di prevenire ed evitare altri fatti a loro volta di carattere pericoloso o dannoso. E, in effetti, il riferimento al “futuro” non manca in molte fonti in materia[86].
«Il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa», ha evidenziato la Ministra Cartabia[87]. Da tanto, a livello normativo e giurisprudenziale, si ragiona sulla vittima e sulla sua partecipazione da un lato, sulla rieducazione del “reo” dall’altro lato, e sul recupero di entrambi. È come se – alla stregua di quanto riferisce l’Autrice di “Il libro dell’incontro”, su un percorso riparativo inerente a reati molto gravi[88] – spontaneamente e gradualmente un incontro si sia già realizzato, tra giustizia riparativa e penale. Non è fuor di luogo allora riconoscere che il legislatore abbia saputo scorgere qualcosa che in fondo è già in fieri, il che ci rimanda a quella felice intuizione secondo cui l’occhio vede ciò che la mente già conosce[89].
* Il presente contributo riprende in parte i contenuti della relazione La giustizia riparativa: un’alternativa che attende l’attenzione del legislatore delegato, tenuta nell’ambito del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, intitolato Alla ricerca di un processo penale efficiente, 21 gennaio 2022, Università di Pisa.
[1] Così, M. Cartabia, Relazione svolta in occasione del Convegno su Giustizia riparativa e formazione della magistratura, presso l’Università Cattolica di Milano, 14 marzo 2022.
[2] S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, in Dir. pen. proc., 2013, p. 881 ss.; volendo, L. Parlato, Il contributo della vittima tra azione e prova, Palermo, 2012, p. 14 ss. anche per i riferimenti.
[3] L. 27 settembre 2021, n. 134, Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonche' in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, art. 1, commi 18 e 19. In proposito, tra i molti, M. Bouchard, Una nuova definizione di giustizia riparativa, in www.retedafne.it; M. Bouchard, F. Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, in Quest. giust., 23 novembre 2021; G. Mannozzi, Nuovi scenari per la giustizia riparativa. Riflessioni a partire dalla legge delega 134/2021, in Arch. pen., 2022, n. 1; parla di “svolta storica” M. Gialuz, La “riforma Cartabia” nel sistema penale, in Aa.Vv., M. Gialuz, J. Della Torre, Giustizia per nessuno, Torino, 2022, pp. 369 ss., 377 ss.
[4] Sulla giustizia riparativa intesa come un’arte, C. Mazzucato, The state of the ‘art’, in The International Journal of Restorative Justice, 2021 p. 195 ss.
[5] Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa sul ruolo della giustizia riparativa in materia penale, in occasione della Conferenza dei Ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa “Criminalità e Giustizia penale – Il ruolo della giustizia riparativa in Europa”, 13 e 14 dicembre 2021, Venezia.
[6] Sui punti di forza e di debolezza della manovra, G. Mannozzi, Nuovi scenari, cit., p. 2 ss.
[7] M. Cartabia, Relazione annuale al Parlamento, 19 gennaio 2022, in www.sistemapenale.it, p. 33 ss.
[8] Per un quadro esauriente, si rinvia ad A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, 2010, p. 175 ss.
[9] Consiglio d’Europa, Raccomandazione Rec(2018)8 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale, 3 ottobre 2018.
[10] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive für das Justizsystem, in Aa.Vv., Alternative Strafvollzugsmodelle: 10 Jahre Strafvollzug in freien Formen in Sachsen: Rückblick und Ausblick, Köln, 2022, p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, in TOA-Magazin, 2019, n. 2, p. 4 ss.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive per la restorative justice in seguito alla Direttiva sulla vittima: verso un “diritto alla mediazione”? Germania e Italia a confronto, in Cass. pen., 2015, p. 4188 ss.
[11] Sull’importanza del documento si è soffermata M. Cartabia, Relazione annuale al Parlamento, cit., p. 32.
[12] M. Kilchling, Towards a widespread use of Restorative Justice as a complement of the criminal justice system, relazione tenuta in occasione dell’Incontro preparatorio rispetto alla “Conferenza di Venezia” (Conferenza dei Ministri della Giustizia dei Paesi del Consiglio d’Europa), Università dell’Insubria, Como, 12-13 ottobre 2021.
[13] Al riguardo si rinvia alle ampie riflessioni di M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 2.
[14] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.; E. Mancuso, La giustizia riparativa in Austria e in Germania, tra Legalitätsprinzip e vie di fuga dal processo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1958 ss.
[15] L’espressione, come noto, è di U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, 2013.
[16] Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, adottati dalle Nazioni Unite il 24 luglio 2002, § 1 n. 2; cfr. G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 470.
[17] C. B. N. Gade, Is restorative justice punishment?, in Conflict Resolution Quarterly, 2021, p. 127 ss.
[18] Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435, 24 maggio 2021, p. 5, sul prospettato “nuovo” art. 1-bis del testo.
[19] Cfr. soprattutto Corte giust., 28 giugno 2007, Dell’Orto, causa C-467/05.
[20] Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia.
[21] Cfr., in particolare, Cass., sez. un., 30 settembre 2021, n. 17156, in www.penaledp.it, 6 maggio 2022: sulla pronuncia, G. Colaiacovo, Le Sezioni unite sulla notifica alla persona offesa dell’istanza di modifica o revoca della cautela, ivi; sulla giurisprudenza della Corte europea, A. Marandola, Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’uomo: sancito il diritto alla vita e il “diritto alle indagini”, in www.sistemapenale.it, 22 settembre 2020; volendo, cfr. L. Parlato, Vulnerabilità e processo penale, in G. Spangher, A. Marandola, La fragilità della persona nel processo penale, Torino, 2021, p. 451 ss.
[22] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, in Enc. Dir. Annali, Milano, 2017, p. 472.
[23] Su questi temi, G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 390; C. Valentini Reuter, Le forme di controllo dell’esercizio dell’azione penale, Padova, 1994, p. 191.
[24] In tema, diffusamente, M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 5 s.; cfr. Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in materia di giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato, maggio 2019, in www.giustizia.it.
[25] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 6.
[26] Si rimanda ad A. Menghini, Giustizia riparativa ed esecuzione della pena. Per una giustizia
riparativa in fase esecutiva, in Aa.Vv., Giustizia riparativa, responsabilità, partecipazione, riparazione, a cura di G. Formasari, E. Mattevi, in Discrimen, 2019, p. 217 s., con riguardo alla fase esecutiva.
[27] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 4.
[28] Considerano la presunzione di non colpevolezza alla stregua di una “presunzione di non vittimizzazione” W. Hassemer, K. Matussek, Das Opfer als Verfolger, Frankfurt am Main, 1996, p. 17. Su questi profili, K. Seelmann, Dogmatik und Politik der “Wiederentdeckung des Opfers”, in Aa.Vv., Rechtsdogmatik und Rechtspolitik, a cura di K. Schmidt, Berlin, 1990, p. 167 ss.
[29] Volendo, L. Parlato, Vulnerabilità, cit., p. 427 ss.
[30] Cfr. Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa, cit., n. 11; G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 473.
[31] Per alcuni riferimenti: Violenze di Capodanno, il sindaco Sala: "Chiedo scusa alle ragazze, il Comune di Milano si costituirà parte civile nel processo", in La Repubblica, Milano, 11 gennaio 2022; F. Giansoldati, Germania, una donna guida la commissione sui risarcimenti alle vittime della pedofilia, 25 gennaio 2021; Riparte in Germania la commissione sugli abusi nella Chiesa evangelica, in www.riforma.it, 9 maggio 2022; M. Politi, Francia, nasce la Commissione per le vittime di abusi nella Chiesa. In Italia i vescovi hanno ancora paura, in www.ilfattoquotidiano.it, 30 novembre 2021.
[32] Al riguardo, G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 470; tra gli altri, Aa.Vv., Crimini internazionali tra diritto e giustizia: dai Tribunali internazionali alle Commissioni verità e riconciliazione, a cura di L. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio, Torino, 2000; E. Jaudel, Giustizia senza punizione. Le Commissioni Verità e Riconciliazione, Milano, 2010.
[33] Ampiamente, G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 469, citando H. Zehr, Changing Lenses. A New Focus on Crime and Justice, Scottsdale, 1990, p. 181.
[34] In tema, tra gli altri, S. Recchione, Le dichiarazioni del minore dopo la ratifica della Convenzione di Lanzarote, in Dir. pen. contemp., 2013, p. 4 ss.
[35] Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.; v. M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 9.
[36] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[37] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.
[38] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 471; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[39] Corte giust., 15 settembre 2011, cause riunite C 483/09 Magatte Gueye e C 1/10 Valentín Salmerón Sànchez.
[40] M. Kilchling, Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.
[41] C. B. N. Gade, Is restorative justice punishment?, cit., p. 127 ss.
[42] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[43] A. Demetz, La giustizia riparativa nella prospettiva del giudice di pace, in Aa.Vv., Giustizia riparativa, cit., p. 209.
[44] Cfr. M. Gialuz, La “riforma Cartabia” nel sistema penale, cit., p. 322; volendo, L. Parlato, La rifusione delle spese legali sostenute dall’assolto, Milano, 2018, p. 113 ss.
[45] Per tutti, A. Sanna, Sub art. 444, in Aa.Vv., Commentario breve al Codice di procedura penale, a cura di G. Illuminati, L. Giuliani, Milano, 2020, p. 2197 ss.
[46] M. Del Tufo, Proposte ministeriali sulla giustizia penale: una discussione costruttiva, in www.retedafne.it, 1° luglio 2021.
[47] Sull’“archiviazione meritata”, come possibile soluzione, M. Gialuz, La “riforma Cartabia”, cit., p. 322.
[48] Cfr. M. Caputo, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Napoli, 2009, p. 632; B. Romanelli, Ruolo della persona offesa e giustizia riparativa nei procedimenti speciali premiali, in jus.vitaepensiero.it, 24 febbraio 2022.
[49] M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione. Un percorso sperimentale fra trattamento e responsabilizzazione del condannato, in Aut. loc. serv. soc., 2013, p. 491 ss.
[50] V. l. 12 aprile 2019, n. 33; in tema, v. le riflessioni di R. Orlandi, Sicurezza e diritto penale. Dialogo di un processualista italiano con la scuola di Francoforte, in Aa.Vv., Sicurezza e diritto penale, a cura di M. Donini, M. Pavarini, Bologna, 2011, p. 91 ss., spec. p. 98 ss.; cfr. W. Hassemer, Sicherheit durch Strafrecht, in StV, 2006, p. 322 ss.
[51] Ci si riferisce a Corte cost., 23 gennaio 2019, n. 40; in tema, M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione, cit., p. 491 ss.
[52] Sul noto excursus che ha preso le mosse da Corte EDU, 13 giugno 2019, Viola c. Italia, e comporta tuttora l’attesa di una pronuncia della Corte costituzionale nonché di un intervento legislativo, si rinvia a Ergastolo ostativo: alla luce dell’avanzamento dell’iter parlamentare di riforma del regime ex 4-bis, in www.sistemapenale.it, 10 maggio 2022.
[53] Al riguardo, v. Approvato dalla Camera il testo unificato del d.d.l. di riforma della disciplina in materia di reati ostativi ex art. 4-bis ord. penit., in www.sistemapenale.it, 12 aprile 2022.
[54] Su questi aspetti, anche in seguito alla c.d. riforma Orlando, l. 23 giugno 2017, n. 103, volendo v. L. Parlato, La rifusione, cit., p. 60 ss.
[55] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 9.
[56] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.
[57] V. invece Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.; cfr. M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 11 s.
[58] G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in Riv. dir. proc., 1950, p. 1, p. 57.
[59] Cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[60] M. Kilchling, Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.
[61] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.
[62] Questo approccio era stato seguito nell’ambito della l. n. 77 del 2013 – nel ratificare la c.d. Convenzione di Istanbul – per essere poi sconfessato nella G. U. del 28 novembre 2017, p. 34, tramite una rettifica: intervenendo sulla traduzione dell’articolo in questione, si è precisato che il divieto mira più precisamente a proibire ipotesi di ricorso obbligatorio a tali strumenti.
[63] V. Corte giust., 15 settembre 2011, cit.
[64] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 471; cfr. M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; C. Mazzucato, Relazione svolta in occasione della Presentazione del "Libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto" di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, Roma, 19 gennaio 2017.
[65] Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile, cit.
[66] Ci si riferisce a Corte cost., 23 gennaio 2019, n. 40; in tema, M. P. Giuffrida, Giustizia penale e mediazione, cit., p. 491 ss.
[67] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 474 ss.
[68] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 475.
[69] M. Kilchling, Restorative Justice als Zukunftsperspektive, cit., p. 223 ss.; Id., Restorative Justice in Europa, cit., p. 4 ss.; Id., Towards a widespread use of Restorative Justice, cit.; M. Kilchling, L. Parlato, L., Nuove prospettive, cit., p. 4188 ss.
[70] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 477.
[71] Sul punto, G. Mannozzi, Nuovi scenari, cit., p. 4.
[72] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 475; volendo, L. Parlato, Il contributo della vittima tra azione e prova, Palermo, 2012, p. 96 ss.
[73] M. Murgia, Incontro intitolato A me “vittima” non lo dici: la violenza sulle donne, Teatro Auditorium Manzoni, Bologna, 24 maggio 2013.
[74] Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il tema è posto in evidenza in relazione alla vittima e all’accusato: in particolare, Corte EDU, 27 maggio 2021, J. L. c. Italia; 19 novembre 2021, Marinoni c. Italia.
[75] G. Di Chiara, Relazione tenuta al Convegno intitolato Spazi di diffusione della mediazione penale e della giustizia riparativa a Palermo, Tribunale per i minorenni di Palermo, 22 gennaio 2020.
[76] Cfr. A. Garapon, Crimini che non si possono né punire, né perdonare, Bologna, 2004, p. 159 s.
[77] M. Bouchard, Una nuova definizione, cit., p. 7 s.; G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 478, anche per i richiami bibliografici.
[78] G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p. 479.
[79] Raccomandazione n. (99) 19 sulla mediazione in materia penale, adottata dal Consiglio d’Europa il 15 settembre 1999.
[80] Facendo riferimento al Memorandum esplicativo della Raccomandazione del 1999 n. 19, cit., A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, 2010, p. 270.
[81] E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, p. 3592; E. M. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 314.
[82] Gesetzes zur Umsetzung der Richtlinie (EU) 2016/680 im Strafverfahren sowie zur Anpassung datenschutzrechtlicher Bestimmungen an die Verordnung (EU) 2016/679, 20 novembre 2019, BGBl. I S. 1724.
[83] Al riguardo, G. Di Chiara, La premura e la clessidra: i tempi della mediazione penale, in Dir. pen. proc., 2015, p. 377 ss.
[84] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, 1977, p. 43 s.
[85] Su questo profilo, il riferimento va alle pagine di F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, I, II, Roma, 1969, p. 48.
[86] In particolare, v. Dichiarazione dei Ministri della giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa, cit., n. 13.
[87] M. Cartabia, Linee programmatiche sulla giustizia, 14 marzo 2021, in www.ilsole24ore.com, 15 marzo 2021.
[88] C. Mazzucato, Relazione, cit.
[89] «Man erblicht nur, was schon weiss und versteht», letteralmente «si vede solo ciò che si sa e che si comprende»: J. W. Goethe, Gespräche. Gesellschaft bei Goethe, a cura di G. Woldemar Freiherr von Biedermann, vol. 4, Lipsia, 1889-1896.