ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La recente fenomenologia dell’immigrazione irregolare via mare, caratterizzata da una deliberata segmentazione dell’iter di ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato italiano, pone questioni giuridiche indubbiamente complesse, che attengono ai profili di rilevanza penale della condotta dei soccorritori e, soprattutto, dei trafficanti e dei migranti. Le pronunce che “rispolverano” lo schema dogmatico dell’autore mediato per ritenere sussistente la giurisdizione italiana in riferimento alle condotte poste in essere dai trafficanti, nonché quelle sentenze che, in direzione per certi aspetti speculare, precisano come l’intervento dei soccorritori impedisca di ipotizzare una responsabilità per ingresso irregolare dei migranti trasportati sulle coste italiane, sono un chiaro indice delle difficoltà della giurisprudenza, chiamata a orientarsi tra le maglie di un tessuto normativo indubbiamente disorganico e, per certi aspetti, “sovrabbondante” (almeno) sul versante del diritto penale.
Sommario: La distinzione tra trafficking of human beings e smuggling of migrants. Criteri generali e rilevanza penale delle condotte poste in essere dal migrante. – 2. Il quadro normativo offerto dall’ordinamento giuridico italiano: la tratta di esseri umani (art. 601 c.p.) e il favoreggiamento all’immigrazione irregolare (art. 12 TU imm.) – 3. Il traffico di migranti via mare. La triade soggettiva “soccorritori-trafficanti-migranti”. – 3.1. Possibili profili di rilevanza penale dell’attività dei soccorritori – 3.2. Profili di rilevanza penale dell’attività dei trafficanti: il nodo pregiudiziale della giurisdizione e la “rinascita” dell’autore mediato – 3.3. Profili di rilevanza penale della condotta dei migranti: il migrante “scafista” e il migrante “passeggero”.
1.La distinzione tra trafficking of human beings e smuggling of migrants. Criteri generali e rilevanza penale delle condotte poste in essere dal migrante
Il tradizionale punto di partenza nelle indagini relative alla risposta penale in materia di immigrazione irregolare è rappresentato dalla distinzione tra trafficking e smuggling. Il trafficking of human beings, in particolare, si riferirebbe al fenomeno della “tratta di esseri umani”, mentre allo smuggling of migrants andrebbe ricondotta l’eterogenea fenomenologia di quelle condotte compendiate sotto l’etichetta del “traffico di migranti”.
La distinzione tra trafficking e smuggling è stata individuata essenzialmente sulla base di tre elementi, che il più delle volte sono chiamati a operare congiuntamente ai fini di un’actio finium regundorum indubbiamente complessa e che attengono, rispettivamente, alla direzione finalistica dell’attività posta in essere dai trafficanti o dagli sfruttatori, al ruolo svolto dal migrante e al bene giuridico tutelato.
Inutile precisare come spesso il traffico di migranti funzioni da anticamera per vere e proprie forme di sfruttamento di soggetti che, in cerca di condizioni di vita migliori rispetto a quelle del Paese di origine, finiscano per trovarsi coinvolti in situazioni a volte prossime alla riduzione in schiavitù[3].
Il più evidente elemento di criticità mostrato da questo criterio di distinzione è indubbiamente quello relativo alla particolare condizione di vulnerabilità in cui, di regola, si trovano i migranti non solo quando gli stessi siano vittime di tratta, ma anche quando “accettino” di prendere parte a viaggi finalizzati al loro ingresso irregolare nel territorio di uno Stato estero. Si tratta, altrimenti detto, della riproposizione di un quesito “tradizionale”: fino a che punto sia possibile individuare una manifestazione di volontà libera e consapevole in una “scelta” proveniente da “soggetti vulnerabili”.
Da questa premessa potrebbe derivare come conseguenza quella di ispirare le scelte di intervento penale in materia di smuggling non tanto alle esigenze di tutela della persona umana quanto a non meglio precisate logiche di “sicurezza”[4].
Al di là della effettiva validità dei criteri in questione e al netto dei loro rapporti reciproci, la conseguenza di immediato ed evidente interesse sul versante del diritto penale è il ruolo attribuito al migrante. Se, infatti, nel trafficking il migrante è vittima del reato (premessa da cui deriva come necessaria conseguenza la irrilevanza penale delle condotte poste in essere dallo stesso), nello smuggling l’ordinamento dei singoli Stati membri ben potrebbe decidere di criminalizzare non solo l’attività dei trafficanti, ma anche quella dei migranti “trasportati” che facciano ingresso irregolare nel territorio degli Stati stessi.
La distinzione tra trafficking e smuggling, con particolare riferimento proprio alle conseguenze che ne derivano in termini di rilevanza penale della condotta del migrante, trova riscontro tanto nella normativa internazionale ed europea quanto sul piano del diritto interno. Sul versante “non nazionale” il riferimento obbligato (al quale, per ragioni di economicità espositiva ci si limiterà in questa sede) è alla Convenzione ONU contro la criminalità organizzata del 2000 (c.d. Convenzione di Palermo) e, in particolare, ai relativi protocolli addizionali, relativi, rispettivamente al trafficking (Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children) e allo smuggling (Protocol aganist the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air)[5].
Le definizioni offerte dai protocolli in questione sono le seguenti:
“Smuggling of migrants” shall mean the procurement, in order to obtain, directly or indirectly, a financial or other material benefit, of the illegal entry of a person into a State Party of which the person is not a national or a permanent resident.
“Trafficking in persons” shall mean the recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of persons, by means of the threat or use of force or other forms of coercion, of abduction, of fraud, of deception, of the abuse of power or of a position of vulnerability or of the giving or receiving of payments or benefits to achieve the consent of a person having control over another person, for the purpose of exploitation. Exploitation shall include, at a minimum, the exploitation of the prostitution of others or other forms of sexual exploitation, forced labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs.
L’art. 5 del c.d. Protocollo smuggling prevede che i migranti oggetto di una delle condotte descritte al successivo art. 6 non debbano considerarsi penalmente rilevanti. L’opinione più diffusa, tuttavia, è quella per cui mentre dagli strumenti internazionali si ricavi inequivocabilmente l’obbligo di punire coloro che sfruttano o favoriscono l’immigrazione irregolare e, all’opposto, il divieto di punire il migrante vittima di tratta, i singoli Stati conservino un “margine di apprezzamento” relativo alla scelta di punire o meno il “migrante volontario”, sia pur nel rispetto delle norme internazionali a tutela dei diritti umani (a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951)[6].
2.Il quadro normativo offerto dall’ordinamento giuridico italiano: la tratta di esseri umani (art.601 c.p.) e il favoreggiamento all’immigrazione irregolare (art. 12 TU imm.)
Per quanto riguarda le scelte compiute dal legislatore nazionale, le fattispecie che vengono in considerazione sul versante, rispettivamente, del trafficking e dello smuggling, sono la tratta di esseri umani di cui all’art. 601 c.p. e il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, previsto extra codicem dall’art. 12 TU imm.
L’evanescente linea di confine che, già a livello “definitorio”, è dato rinvenire tra il trafficking e lo smuggling si è tradotta (anche) in alcune incertezze applicative relative ai rapporti tra la tratta e il favoreggiamento all’immigrazione irregolare e, in particolare, a un possibile concorso apparente di norme tra l’art. 601 c.p. e l’art. 12 TU imm.
Posto che tanto il primo quanto il terzo comma dell’art. 12 TU imm. si aprono con la clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, parte della giurisprudenza ha ritenuto che il reato di favoreggiamento dovesse ritenersi assorbito in quello di tratta di persone, con conseguente applicazione del solo art. 601 c.p. a fronte di condotte che fossero riconducili ad entrambe le fattispecie: l’ipotesi sarebbe, in particolare, quella in cui l’agevolazione all’ingresso in Italia di uno straniero costituisca al tempo stesso un mezzo per realizzare la tratta del migrante[7].
In senso contrario, tuttavia, valorizzando il profilo attinente al diverso bene giuridico tutelato, si è osservato che l’operatività della clausola di riserva sarebbe condizionata alla circostanza per cui il reato più grave sia posto a tutela del medesimo bene giuridico di quello che si rinviene nella fattispecie “da assorbire”: poiché, per contro, il favoreggiamento all’immigrazione irregolare mira a tutelare l’interesse dello Stato al controllo dei flussi migratori, mentre quello di tratta è posto a presidio della personalità umana, mancherebbero i presupposti per ipotizzare un concorso apparente di norme, imponendosi dunque la soluzione del concorso di reati[8].
Quanto invece alla rilevanza penale delle condotte poste in essere dal migrante trasportato, a venire in considerazione è anzitutto il discusso art. 10-bis TU imm., anche noto alle cronache come il reato di immigrazione clandestina. Tralasciando le perplessità relative al ricorso alla sanzione penale e le ragioni portate a favore di una depenalizzazione delle ipotesi in questione, il primo comma dell’art. 10-bis TU imm. punisce (anche) l’ingresso irregolare dello straniero nel territorio dello Stato: si tratta dunque di una disposizione almeno potenzialmente applicabile ai migranti volontari, che fanno ingresso nel territorio italiano attraverso condotte di “traffico” poste in essere da altri.
Posto che le questioni più problematiche sul piano applicativo sono indubbiamente quelle poste dall’immigrazione irregolare e, dunque, dal fenomeno dello smuggling, sembra opportuno fare riferimento agli orientamenti giurisprudenziali registratisi al riguardo, prendendo in considerazione, più in particolare, il quadro emerso in materia di traffico di migranti via mare.
3.Il traffico di migranti via mare. La triade soggettiva “soccorritori-trafficanti-migranti”
Il dato più significativo, da un punto di vista non solo “politico” ma anche più strettamente “giuridico”, è quello relativo alle differenti modalità del trasporto di migranti irregolari e al conseguente sbarco degli stessi sulle coste italiane.
Il modus operandi più risalente, in effetti, era quello dello “sbarco diretto”: il natante con a bordo i migranti giungeva direttamente e autonomamente sulle coste italiane, rendendo sufficientemente agevole l’individuazione dei profili di rilevanza penale delle condotte poste in essere dai diversi “attori” del traffico di migranti. Più di recente, invece, i trafficanti ricorrono a modalità di trasporto basate su una deliberata segmentazione dell’iter che, dal Paese di partenza (nei casi più recenti, i Paesi nordafricani) conduce fino alle coste italiane: il tutto minimizzando il rischio per i trafficanti e aumentando quello per i migranti. Solitamente, infatti, il “viaggio” si divide in due parti. Nella prima parte i migranti sono trasportati a bordo di navi robuste e capienti, mentre nella seconda parte gli stessi sono traferiti su imbarcazioni più piccole, inadeguate a raggiungere la riva perché prive di carburante, viveri e strumenti di sicurezza, spesso affidate alla guida di uno dei migranti che abbia competenze minime relative alla conduzione di un’imbarcazione. L’obiettivo è quello di provocare “ad arte” le condizioni che legittimano (e, anzi, rendono doveroso) l’intervento da parte dei soccorritori, in conseguenza del quale i migranti raggiungono infine il nostro Paese[9].
Nella complessa vicenda che si viene a determinare si intravede dunque una triade soggettiva, costituita dai soccorritori, dai trafficanti e dai migranti trasportati, che diviene il crocevia di una serie di questioni problematiche, a mezza via tra diritto e processo penale.
3.1 Possibili profili di rilevanza penale dell’attività dei soccorritori
L’inquadramento giuridico delle condotte poste in essere dai soccorritori, almeno fino alle più recenti e note vicende che hanno visto coinvolte le imbarcazioni di alcune ONG, sembrava sufficientemente chiaro.
Il “popolo dei soccorritori” presenta un volto particolarmente eterogeneo, nel quale confluiscono l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera Frontex, le Guardie Costiere Nazionali e le ONG, solo per restare alle ipotesi più ricorrenti. Le attività sono coordinate dal Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera, con sede a Roma. Anche l’imbarcazione di una ONG, dunque, deve comunicare l’esistenza di una situazione di pericolo in mare al Comando generale, che procederà a coordinare le attività di soccorso: queste ultime potranno considerarsi concluse solo con lo sbarco nel porto sicuro indicato a livello “centrale”. Dalle fonti di riferimento (codice della navigazione, Convenzioni delle Nazioni unite sul Diritto del mare, Convenzione di Londra del 1989 sul salvataggio in mare) si ricava la sussistenza di un vero e proprio obbligo di soccorso in mare per tutti coloro che vengano a conoscenza di una situazione di pericolo in mare: quest’ultima potrebbe sussistere anche in presenza di oggettive situazioni di difficoltà del natante, quali la difficoltà a galleggiare, il suo sovraffollamento, l’assenza di equipaggio professionale a bordo e/o di un’adeguata strumentazione di sicurezza[10].
L’art. 12 TU imm., al primo comma e al terzo, richiede che le condotte di chi promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato siano poste in essere in violazione delle disposizioni del testo unico, estendendo altresì l’incriminazione agli altri atti diretti a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato. Se, dunque, la condotta di soccorso risulta conforme alla normativa di settore, i requisiti di antigiuridicità speciale contenuti nell’art. 12 TU imm. non possono certo ritenersi integrati in presenza di un’attività di soccorso in mare che, tra l’altro, è coordinata dallo Stato[11].
In riferimento ad alcune delle più recenti operazioni di soccorso, tuttavia, si è ipotizzato da parte dell’autorità giudiziaria che le operazioni di soccorso si fossero svolte al di là dei “limiti di liceità” delineati dall’ordinamento: si pensi, in particolare, al caso che ha riguardato la nave Iuventa della ONG Jugend Rettet. I membri dell’equipaggio sono stati accusati di aver posto in essere una serie di condotte, antecedenti e successive al salvataggio, finalizzate a consentire l’ingresso in Italia del più elevato numero possibile di migranti, sebbene lo scopo restasse di carattere umanitario. I “soccorritori”, più esattamente, avrebbero tenuto un incontro in alto mare con i trafficanti libici, a seguito del quale quest’ultimi avrebbero provveduto a scortare un barcone carico di migranti, prontamente traferiti a bordo della Iuventa; concluse le operazioni, gli stessi soccorritori avrebbero restituito ai trafficanti le navi usate per il trasporto, provvedendo altresì alla distruzione di video e foto che avrebbero consentito una loro identificazione[12].
In ipotesi di questo tipo, che rappresentano in ogni caso la patologia (e non la fisiologia) delle operazioni di soccorso, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità dei soccorritori per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Più esattamente, si tratterebbe di un concorso nel delitto previsto dall’art. 12 TU imm., secondo lo schema della c.d. coautoria. Meno convincente sembrerebbe l’ipotesi per cui i soccorritori che “restano in attesa” di migranti da soccorrere al largo delle coste libiche rafforzerebbero il proposito criminoso dei trafficanti, nella forma almeno dell’istigazione (concorso morale).
3.2 Profili di rilevanza penale dell’attività dei trafficanti: il nodo pregiudiziale della giurisdizione e la “rinascita” dell’autore mediato
Nessun particolare dubbio sussiste sull’applicazione dell’art. 12 TU imm. ai trafficanti. Trattandosi di un reato di pericolo, si ritiene comunemente che lo stesso possa ritenersi consumato indipendentemente dal fatto che l’ingresso illegale avvenga o meno; quindi, potrebbe dirsi, indipendentemente dal fatto che la condotta posta in essere dai trafficanti giunga fino alle coste italiane oppure si arresti in alto mare.
Le diverse modalità dell’iter attraverso cui si realizza lo smuggling, tuttavia, non risultano del tutto indifferenti, rappresentando anzi la ragione di quella che per il traffico via mare assume la veste di vera e propria questione pregiudiziale: si tratta infatti di verificare se, nel caso in cui il soccorso dei migranti avvenga fuori dalle acque territoriali italiane, sia possibile o meno ritenere sussistente la giurisdizione del nostro Paese.
Proprio al fine di sciogliere questo interrogativo la giurisprudenza di legittimità, in maniera per certi versi inaspettata, ha rispolverato dagli scaffali dell’antiquariato dogmatico la figura del c.d. autore mediato: nelle pronunce più recenti, in effetti, lo schema in questione si trova utilizzato, con intenti che sostanzialmente non vanno al di là del piano descrittivo-classificatorio, soprattutto in riferimento all’errore determinato dall’altrui inganno ex art. 48 c.p.[13]. In questo caso, invece, dall’espediente dogmatico dell’autoria mediata derivano conseguenze indubbiamente decisive sul piano della giurisdizione.
L’intervento dei soccorritori, ad avviso della giurisprudenza, sarebbe solo l’ultimo segmento di un’attività ab initio pianificata da parte dei trafficanti. I soccorritori, dunque, agirebbero in qualità di autore mediato, ex art. 54, comma terzo c.p., in quanto gli stessi si sono trovati a operare in uno stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti e quindi a loro riconducibile[14].
Neppure, precisano i giudici di legittimità, potrebbe invocarsi la scriminante dell’adempimento del dovere in riferimento alla condotta dei soccorritori: «anche ad ammettere che l’intervento di salvataggio fosse doveroso, ai sensi delle convenzioni internazionali sul diritto del mare, nulla ciò toglierebbe al fatto che l'antecedente condotta illecita - posta in essere da chi, salpando dalle antistanti coste mediterranee, trasporta e abbandona i clandestini in acque extraterritoriali, facendo sì che le condotte ulteriori, incluso lo sbarco finale in Italia, siano riconducibili agli esiti del salvataggio medesimo - debba essere intesa come pianificazione complessiva, unitaria ed organica, che si caratterizza per l'elevato rischio fatto correre ai trasportati, opportunamente strumentalizzato al fine di provocare l'intervento dei servizi di soccorso in mare; intervento da ritenere pertanto un tassello essenziale e pianificato di una concatenazione articolata di atti, che non può essere interrotta o spezzata nella sua continuità, ponendosi in diretta derivazione causale rispetto all'azione criminale di abbandonare in mare le persone in attesa dei soccorsi»[15].
La conseguenza è duplice: i soccorritori non rispondono del reato di favoreggiamento (ovviamente il presupposto è che non siano ravvisabili quelle situazioni “patologiche” cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente), mentre il fatto dei trafficanti può considerarsi commesso nel territorio italiano ex art. 6 c.p.
Si tratta di una soluzione che non ha mancato di suscitare delle perplessità, non solo e non tanto per la “tenuta dogmatica” dell’autoria mediata: quest’ultima, infatti, è stata elaborata nell’esperienza giuridica tedesca per colmare alcune lacune che sembravano derivare dalla teoria dell’accessorietà e che, soprattutto, sono legate alle peculiarità di un quadro normativo molto diverso da quello italiano.
Anche a voler ritenere che lo schema in questione, specie se usato in riferimento a fattispecie specifiche, quale, appunto quella del terzo comma dell’art. 54 c.p., abbia un qualche diritto di cittadinanza anche nel nostro ordinamento, resterebbero pur sempre due nodi da sciogliere.
Anzitutto, è sufficientemente consolidata l’opinione per cui 12 TU imm. individui un reato di pericolo a consumazione anticipata e non un reato di evento, non rendendosi dunque necessario, ai fini del suo perfezionamento, l’ingresso illegale nel territorio dello Stato; le Sezioni unite, anzi, hanno di recente ritenuto che la medesima premessa valga per anche per il terzo comma dello stesso articolo 12 TU imm[16]. L’opinione rapidamente riassunta, secondo alcuni, rischierebbe invece di veicolare una surrettizia trasformazione del favoreggiamento all’immigrazione irregolare in reato di evento: la “prosecuzione” dell’attività dei trafficanti, in effetti, si apprezza solo in riferimento all’esito finale, rappresentato dallo sbarco sulle coste italiane[17].
La disposizione di cui all’art. 54, terzo comma c.p., inoltre, non si rivela né utile né necessaria per rendere lecita la condotta dei soccorritori. Non è utile, perché ricondurre la condotta dei trafficanti a una “minaccia” sembra per la verità un’operazione piuttosto ardita dal punto di vista interpretativo[18].
Non è necessaria, perché, come già precisato, l’irrilevanza penale della condotta dei soccorritori non si fonda sull’operatività di una causa di giustificazione, ma, a monte, sul difetto di tipicità per carenza del requisito di illiceità speciale previsto dall’art. 12 TU imm.
Analoghe questioni “pregiudiziali” relative alla giurisdizione si sono poste in riferimento alle associazioni per delinquere (art. 416 c.p.) “con sede” in Africa, ma dirette a produrre effetti in Italia. In proposito, più esattamente, si è affermato che, trattandosi di associazione transnazionale, potrebbe trovare applicazione l’art. 7, n. 5 c.p., secondo cui si applica la legge italiana per ogni reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. In questo caso a venire in considerazione sarebbe l'art. 15, comma 2, lett. c), ii) della Convenzione di Palermo: la disposizione de qua afferma che lo Stato può determinare la propria giurisdizione in riferimento a quei reati di particolare gravità commessi al di fuori del proprio territorio[19].
Si è efficacemente rilevato come l’art. 7, n. 5 c.p. sembrerebbe riferirsi a quelle norme internazionali che direttamente stabiliscono la giurisdizione di un certo Stato (come i Patti Lateranensi), non già a quelle che, come l’art. 15 della Convenzione di Palermo, prevedono per lo Stato la possibilità di introdurre un nuovo criterio per l’applicazione della propria legge penale, possibilità cui l’Italia non sembra in effetti aver dato seguito alcuno[20].
3.3 Profili di rilevanza penale della condotta dei migranti: il migrante “scafista” e il migrante “passeggero”
Quanto alla responsabilità penale dei migranti trasportati a bordo delle imbarcazioni, si rende necessaria una distinzione preliminare tra i migranti che, nell’ambito della segmentazione dell’iter criminis cui già si è fatto riferimento, si vedono affidata la guida del natante, e i “passeggeri semplici”.
Per il migrante “capitano”, l’ipotesi di reato sarebbe quella di cui all’art. 12 TU imm. Trattandosi di un reato di pericolo, è indifferente (tranne a fini di giurisdizione) che l’imbarcazione guidata dal migrante giunga sulle coste o che lo sbarco avvenga a seguito dell’intervento dei soccorritori.
Nel caso in cui, ovviamente, sia dato ravvisare gli estremi dello stato di necessità, la sua condotta potrà ritenersi scriminata ex art. 54 c.p.: si pensi al caso del migrante che, minacciato dai trafficanti, assuma il controllo dell’imbarcazione, soprattutto dopo aver assistito all’omicidio di un altro migrante, che si era rifiutato di dar seguito alla medesima richiesta[21].
Per il migrante “passeggero semplice”, l’ipotesi di reato sarebbe quella di cui all’art. 10-bis TU imm. Anche in questo caso un eventuale intervento dei soccorritori non risulta indifferente, segnando anzi il confine tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante.
Secondo un primo orientamento, qualora l’imbarcazione fosse stata soccorsa in acque internazionali e quindi trasportata, per motivi di soccorso pubblico, fino alla costa italiana, l’art. 10-bis TU imm. sarebbe integrato solo a livello di tentativo, che però, trattandosi di una contravvenzione risulterebbe penalmente irrilevante. Solo nel caso in cui il migrante giunga sulle coste italiane al di fuori di un’operazione di legittimo soccorso, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità dello stesso per ingresso irregolare[22].
Si tratta di una questione che produce conseguenze di evidente rilievo sul piano processuale, con particolare riguardo alla veste giuridica da attribuire al migrante: si tratta cioè di chiarire se, una volta giunti sul territorio italiano, i migranti debbano essere sentiti dall’autorità giudiziaria come persone informate sui fatti-testimoni o come indagati.
L’opinione prevalente è quella per cui, qualora sia dato ravvisare una intermediazione da parte soccorritori, la veste giuridica sarebbe quella di persone informate sui fatti prima e di testimoni poi.
A questo risultato si perviene valorizzando giuridicamente l’opera dei soccorritori in una direzione esattamente speculare rispetto a quella che, in riferimento dei trafficanti, ruota attorno al concetto di autore mediato. In questo caso, infatti, si ritiene che, a seguito dell’intervento dei soccorritori, l’ingresso nel territorio italiano, lungi dal potersi considerare volontario, sarebbe addirittura da ritenere coatto, imposto dall’autorità competente[23]: l’opera dei soccorritori, altrimenti detto, interromperebbe naturalisticamente e giuridicamente la condotta dei migranti, impedendo di considerarla unitariamente sul piano di una possibile rilevanza penale.
L’impressione che ne deriva è quella di una coperta troppo corta per coprire, in maniera sistematicamente coerente, le diverse ipotesi riassunte dalla triade “soccorritori-trafficanti-migranti”, le cui componenti, pur distinte, sono tenute insieme da una fitta trama di relazioni reciproche.
A prevalere sono le esigenze di tutela che di volta in volta si considerano prevalenti. Nel caso dei trafficanti, la priorità è quella di radicare la giurisdizione in Italia, anche perché, in caso contrario, avrebbe gli effetti sperati quella “segmentazione del viaggio” che sempre più spesso rappresenta lo strumento per raggiungere le nostre coste. Nel caso dei migranti, l’esigenza è piuttosto quella di contenere al massimo i costi che deriverebbero da una generalizzata estensione della qualità di indagati ai migranti trasportati a bordo delle imbarcazioni. Costi che, come evidenziato, non sono solo economici e di sistema (assistenza del difensore nelle varie fasi delle audizioni fino alla conclusione del procedimento; iscrizione nel registro degli indagati di tutti i migranti giunti via mare in Italia), ma anche umani: trattare come indagati anche coloro che giungono in Italia a seguito di viaggi disperati o di naufragi mortali per alcuni dei loro compagni di viaggio, prima ancora di conoscere la loro posizione in termini “umanitari”, vorrebbe dire “mancare di rispetto” a delle persone che versano in una condizione di estrema vulnerabilità[24].
La sfida, in questo momento storico, è probabilmente tutta qui: incrociare lo sguardo di chi ha occhi che, per citare Manzoni, non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante. Si tratta solo di verificare se e fino a che punto il diritto penale sia dotato di spalle sufficientemente solide per sopportare il peso dell’arduo fardello di cui si trova caricato.
[1] Il presente contributo costituisce il testo, rivisto e corredato di note essenziali, della relazione tenuta in occasione del Convegno Disciplina penale dell’immigrazione e dello sfruttamento lavorativo, svoltosi presso il Palazzo di Giustizia di Firenze il 4 febbraio 2019.
[2] V. Militello, La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica distinzione con il traffico dei migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2018, 90, al quale si rinvia fin da ora anche per più ampie indicazioni bibliografiche.
[3] V. Militello, La tratta di esseri umani, cit., 104.
[4] V. Militello, La tratta di esseri umani, cit., 91 ss. evidenzia l’opportunità di una visione integrata, che tenga conto tanto della tutela dei diritti umani quanto di logiche più strettamente securitarie.
[5] V. sul punto L. Goisis, L’immigrazione clandestina e il delitto di tratta di esseri umani. Smuggling of migrants e Trafficking in persons. La disciplina italiana, in Dir. pen. cont., 18 novembre 2016.
[6] R. Barberini, La rilevanza penale del fenomeno migratorio, in Quest. giust., 30 ottobre 2015, § 1.
[7] Cass., Sez. V pen., 25 marzo 2010, n. 20740.
[8] Cass., Sez. III pen., 8 ottobre 2015, n. 50561. Cfr. Cass., Sez. IV pen., 28 febbraio 2017, n. 13849, che, in ragione della clausola di riserva contenuta nell’art. 323 c.p., ha escluso il concorso formale di reati tra l’abuso d’ufficio e il falso in atto pubblico, osservando anche come l’omogeneità del bene giuridico tutelato non rappresenti un presupposto necessario all’operatività della clausola e che, anzi, ridurrebbe il meccanismo in questione a mero duplicato del principio di specialità.
[9] A. Giliberto, Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e soccorso in acque internazionali: il problema della veste processuale da attribuire ai migranti trasportati, in Dir. pen. cont., 3/2017, 326-327.
[10] Per più ampie indicazioni, in una prospettiva penalistica, S. Bernardi, I (possibili) profili penalistici delle attività di ricerca e soccorso in mare, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2018, 137-138.
[11] S. Bernardi, I (possibili) profili penalistici, cit., 138, che, condivisibilmente, ritiene superfluo il riferimento all’art. 51 c.p. registratosi nella giurisprudenza più risalente.
[12] Amplius R. Barberini, Il sequestro della Iuventa: ong e soccorso in mare, in Quest. giust., 18 settembre 2017. Sui “casi” Open Arms e See Watch v. A. Natale, Open Arms: l’avviso di conclusione indagini. Se la disobbedienza diventa violenza…, in Quest. giust., 18 dicembre 2018; S. Greco, Le ong in acque agitate tra Sicilia orientale e Sicilia occidentale, ivi, 18 luglio 2018; G. Licastro, Una breve e mirata notazione. Contra la criminalizzazione delle ONG: una rilevante apertura all’osservanza degli obblighi discendenti dalle convenzioni internazionali, in Giurisprudenza penale Web, 10/2018. Più in generale v. anche L. Masera, L’incriminazione dei soccorsi in mare: dobbiamo rassegnarci al disumano?, in Quest. giust., 2/2018; S. Manacorda, Il contrasto penalistico della tratta e del traffico di migranti nella stagione di chiusura delle frontiere, in Dir. pen. proc., 11/2018.
[13] V. per esempio Cass., Sez. II pen., 23 gennaio 2013, n. 9226; Cass., Sez. V pen., 15 novembre 2012, n. 6388. Sui rapporti tra autoria mediata e concorso di persone nel reato Cass., Sez. II pen., 26 ottobre 2016, n. 3644 e, ovviamente, T. Padovani, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Giuffrè, 1973.
[14] Tra le più recenti Cass., Sez. I pen., 16 marzo 2018, n. 29832: «In punto di giurisdizione questa Corte ha ripetutamente affermato (da ultimo, Sez. 1, n. 20503 del 08/04/2015, Iben Massaoud, Rv. 263670) che sussiste quella del giudice italiano relativamente al delitto di trasporto e procurato ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extra-comunitari nella ipotesi in cui i migranti, provenienti dall'estero a bordo di navi “madre”, siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l'intervento dei soccorritori che li condurranno in territorio italiano, poiché la condotta di questi ultimi, che operano sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità - espressamente richiamata nell'incipit del D. Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 2 - è riconducibile alla figura dell'autore mediato di cui all'art. 54 c.p., comma 3, in quanto conseguente allo stato di pericolo volutamente provocato dai trafficanti, e si lega senza soluzione di continuità alle azioni poste in essere in ambito extraterritoriale (causa causae est causa causati: v. anche Sez. 1, n. 14510 del 28/02/2014, Haji Hassan)». In termini analoghi Cass., Sez. I pen., 10 dicembre 2014, n. 3345; Cass., Sez. I pen., 28 febbraio 2014, n. 14510. Cfr. Cass., Sez. I pen., 8 aprile 2015, n. 20503: «Ne discende che l'azione dei soccorritori, che consente ai migranti di giungere nel nostro territorio, è riconducibile alla figura dell'autore mediato di cui all'art. 48 c.p., conseguente allo stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti, che è sanzionabile nel nostro Stato, ancorché materialmente questi abbiano operato solo in ambito extraterritoriale».
[15] V. ancora Cass., Sez. I pen., 16 marzo 2018, n. 29832.
[16] Cass., Sez. un. pen., 21 giugno 2018, n. 40982.
[17] M.T. Trapasso, Il richiamo giurisprudenziale all’“autoria mediata” in materia di favoreggiamento all’immigrazione clandestina: tra necessità e opportunità, in Arch. pen., 2/2017, 585.
[18] Neppure potrebbe farsi riferimento alla c.d. scriminante umanitaria prevista dall’art. 12, comma 2 TU imm., che può trovare applicazione per le attività di soccorso e assistenza prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti sul territorio dello Stato.
[19] Cass., Sez. I pen., 8 aprile 2015, n. 20503.
[20] R. Barberini, La rilevanza penale del fenomeno migratorio, cit., § 2.
[21] GUP Trapani, 9 novembre 2016, Abdallah.
[22] Cass., Sez. I pen., 18 dicembre 2017, n. 15849; Cass., Sez. un. pen. 28 aprile 2016, n. 40517. Contra, A. Giliberto, Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, cit., 330, ad avviso del quale, sul piano oggettivo, non sussisterebbe ostacolo alcuno a ritenere integrato l’art. 10-bis imm. dalla condotta del migrante il quale, soccorso in mare, faccia ingresso su territorio nazionale: la fattispecie, infatti, non attribuisce alcun rilievo alle concrete modalità attraverso cui avvenga l’ingresso irregolare. Anche sul piano dell’elemento soggettivo non sussisterebbero particolari difficoltà ad accertare almeno la colpa del migrante.
[23] Cass., Sez. I pen., 21 settembre 2011, n. 44016.
[24] R. Barberini, La rilevanza penale del fenomeno migratorio, cit., § 5.
commento a Cass., sez. II, sentenza n. 13795 del 7 marzo 2019 (dep. 29 marzo 2019)
Sommario: 1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro) - 2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo - 3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale) - 4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
1. Lo strano destino dell'autoriciclaggio (un passo indietro).
Quello dell'autoriciclaggio è uno strano destino: per più di un ventennio - a partire dal 1993, anno del consolidamento della fattispecie di riciclaggio nell'ordinamento italiano - l'istituto è stato oggetto di un vivo e mai interrotto dibattito dottrinale, a fronte del silenzio della giurisprudenza, che ossequiava un dato normativo eloquente nei suoi aspetti applicativi (e, sopratutto, disapplicativi); quasi d'improvviso, nel dicembre del 2014, l'autoriciclaggio è apparso sotto le spoglie dell'art. 648-ter.1 del codice penale, chiudendo un dibattito ed aprendone un altro, imperniato su questioni vertiginose, anche più complesse di quelle d'origine. Perché se prima ci si scontrava con l' innegabile deficit di effettività dell' art. 648- bis - laddove per effettività debba intendersi quel passaggio tra diritto e fatto, tra norma e realtà empirica ad essa sottesa -, la legge n. 186/2014 e la contestuale introduzione del delitto di autoriciclaggio ha dischiuso un inedito orizzonte problematico, nella misura in cui può arrivarsi a fagocitare ogni possibile condotta riciclatoria posta in essere da quel soggetto che abbia in precedenza commesso, o concorso a commettere, il delitto da cui derivino le utilità oggetto delle attività di ripulitura.
Per meglio dire: la norma fece il suo ingresso nell'ordinamento intessuta di formule del tutto generiche, semanticamente amplissime, tanto che fin da subito gli interpreti si sono chiesti quale ne sarebbe stata la sorte giudiziale[1]: sarebbe potuta rimanere (guardando anche alla pena straordinariamente elevata, dai 4 ai 12 anni di reclusione, e agli effetti processuali che questa produce[2]) del tutto disapplicata, a voler stringere le maglie dell'ermeneutica; sarebbe invece potuta appigliarsi a numerosissime tipologie di condotta post delictum - tutte le volte cioè che si maneggino il denaro o i beni provenienti da delitto -, ma ciò sarebbe potuto accadere solo grazie a decise spinte propulsive dei giudici di legittimità, a vere e proprie operazioni ermeneutiche "a lungo termine".
Una duplice impostazione plasticamente rappresentata dal contrasto ermeneutico tra il Tribunale della Libertà di Milano e la Cassazione, i cui giudici hanno assunto posizioni simmetricamente antitetiche.
2. Gli opposti orientamenti giurisprudenziali nel caso de quo.
Il primo organo giudicante si era trovato a vagliare il caso di un soggetto che aveva conseguito un profitto di circa 260.000 euro grazie ad una serie di truffe per poi impiegare parte di quei proventi (oltre 100.000 euro) in giochi (slot machines, poker ecc.) e scommesse sportive on-line. Secondo i giudici milanesi, in questo caso non può parlarsi di autoriciclaggio: anzitutto perchè le "arrività speculative" sono - recuperando anche la dizione fornita dalla Treccani - investimenti da cui si traggono utili per mezzo di attività commerciali o finanziarie, mentre i giochi e le scommesse sono caratterizzati (come insegna il codice civile) da un'alea ingovernabile, e rappresentano una mera spendita di denaro in attività che possono portare anche a nessun rientro economico - un conto quindi è la speculazione, altro è il gioco; ma poi, secondo il Tribunale della Libertà, a tutto voler concedere rimarrebbe da spendere la clausola di non punibilità di cui al comma quarto dell'art. 648-ter.1, secondo cui «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale», tale dovendosi considerare anche la condotta di chi spende denaro al gioco o alle scommesse, per soddisfare un impulso personale, spesso di carattere patologico. L'indagato, insomma, non avrebbe compiuto alcuna delle attività previste dalla fattispecie che punisce l'autoriciclaggio; cosicché, per carenza di limiti edittali in relazione alla sola truffa, il Tribunale annullava l'ordinanza genetica di applicazione di misure cautelari, decisione cui faceva seguito il ricorso per Cassazione della Procura meneghina.
Nella sentenza in commento, la Cassazione - dopo i primi anni, a partire dalla legge n. 186/2014, segnati da incertezze e da talune pronunce invero poco inclini a conferire effettività alla norma[3] - mostra di voler proseguire nel solco del percorso tracciato dall'importante sentenza dell'anno precedente[4] che delimita in termini generali la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; mostra insomma di volere "dare vita" al reato di autoriciclaggio, e rende pertanto palese l'intenzione dei giudici di legittimità di espandere, fin dove è possibile, i confini della norma, procedendo con una delle più importanti operazioni di politica ermeneutica degli ultimi anni, almeno in materia penale.
3. La leva dell'interpretazione estensiva (in materia penale).
Non avrebbe senso, altrimenti, il richiamo iniziale a principi generalissimi: la Cassazione afferma infatti nell'abbrivio che «non possono dimenticarsi i risalenti ed incontrastati insegnamenti di questa Corte, secondo i quali anche le norme penali sono suscettibili di una interpretazione estensiva [e questo] quando sia palese che lo stesso legislatore minus dixit quam voluit». E' un cambio di passo, un diverso registro assiologico dello stesso modo di pensare al reato di autoriciclaggio (che in dottrina aveva attratto invece, fin da subito, numerose interpolazioni restrittive[5]), resosi necessario «al fine di evitare conclusioni sostanzialmente abrogative della previsione in parola»; di talché, vengono attinti da censure entrambi i motivi che avevano portato i giudici milanesi a non ravvisare l'art. 648-ter.1.
Il primo punto riguardava, come detto, la taratura applicativa della locuzione "attività speculativa". Per il vero, l'accenno contenuto nella norma alle «attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative», agli interpreti è apparso fin da subito, tra i numerosi elementi della norma, quello meno controverso; anzi, pareva (e tutt'ora pare) piuttosto una superfetazione che nulla aggiunge al fatto di riciclaggio ricompreso nell'art. 648-bis, che è da sempre inteso come un delitto che può esplicarsi soltanto nella realtà economico-finanziaria. L' esistenza della locuzione si giustifica soltanto in quanto formale "tributo" al finitimo art. 648-ter, che fonda la sua punibilità in attività economiche o finanziare. Rispetto a quest'ultimo delitto, poi, l'aggiunta delle attività imprenditoriali o speculative non comporta un effettivo allargamento del recinto della punibilità, dal momento che, com'è stato opportunamente osservato, nell'attività economica si fa ricomprendere tutto ciò che è attinente allo scambio di beni e servizi nell'ambito di un'attività imprenditoriale, mentre le attività speculative (al netto dell'estrema genericità della formula), laddove non dovessero ricadere in quelle più propriamente imprenditoriali, sarebbero comunque da riporre all'interno di attività "finanziarie"[6].
Ecco perché la Cassazione si premura di palesare subito, e senza incertezze di sorta, la propria posizione su questo punto, giacché - anche alla luce del lungo e travagliato percorso che ha condotto il Parlamento a varare la legge n. 186/2014, e dell'intentio legis che se ne può ricavare - «del tutto logicamente deve ritenersi che [si sia] inteso perseguire, mediante l'utilizzo delle ampie locuzioni citate (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative), qualsiasi forma di re-immissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all'interno del circuito economico legale», ivi compresa, naturalmente, la scommessa o il gioco d'azzardo, che non sono certo avulsi dal perseguimento di significative finalità economiche.
Più densa di significato è la preclusione all'attivazione della clausola di non punibilità di cui al quarto comma nel caso di specie. Il Collegio condivide e richiama l'accurata ricostruzione ermeneutica già operata - come poc'anzi accennato - nella sentenza n. 30399 del 2018, secondo la quale la norma va interpretata in base al significato proprio delle locuzioni utilizzate, e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica a tutte le condotte descritte nei commi precedenti: l'espressione iniziale "fuori dei casi", su cui si regge, «a livello semantico, null'altro significa che la fattispecie in essa considerata è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei commi precedenti. Con la conseguenza che, una volta che la fattispecie criminosa di cui al comma 1 dell'art. 648 ter.1 cp. sia integrata intutti i suoi requisiti, l'agente è sanzionabile penalmente, restando del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia "meramente" utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale».
In altri termini, se è vero che il cuore della fattispecie di autoriciclaggio è nel compiere una qualsiasi operazione in grado di "ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa" del provento illecito[7], una volta realizzato, sul piano della condotta, un siffatto modulo descrittivo, non ha alcun senso recuperare la clausola di non punibilità, avendo questa natura residuale; o forse, neppure.
4. L'importanza sistematica della sentenza in commento.
Si consideri - ed è in ciò che va colta l'importanza, diremmo sistematica, della sentenza in commento, anche per come si raccorda a quella del 2018 - che all'epoca gli interpreti più autorevoli, al cospetto del novum, avevano conferito una valenza ben diversa a questa clausola.
Nella formulazione dell'art. 648-ter.1, come noto, il legislatore si era imposto il compito di sopprimere il c.d. "privilegio dell'autoriciclaggio", congegnato nella formula "fuori dei casi di concorso nel reato" innestata nell'art. 648-bis. Sappiamo, però, che non si è operato su questo delitto mediante la "semplice" resezione della clausola di riserva, ma si è preferito profilare, nonostante le problematicità connesse, un nuovo reato (l'art. 648-ter.1, per l'appunto), e che quella clausola, intonsa, governa ancora il delitto di riciclaggio.
Ma proprio per evitare la creazione di una fattispecie dall'incalcolabile perimetro applicativo, il legislatore avrebbe consegnato all'interprete strumenti volti a "normalizzare" un delitto teoricamente onnipresente nelle indagini e nei processi, che sul piano empirico rischiava (e rischia) di trasformarsi, per ogni reato capace di generare un profitto apprezzabile, in un quid pluris: in una contestazione ulteriore, spesso più grave di quella afferente il reato da cui derivano i proventi illeciti. Cosicché il quarto comma dell'art. 648-ter.1, sempre secondo le prime tesi avanzate[8], vorrebbe porsi come limite alla tipicità e funzionare come clausola di interpretazione autentica del primo comma, che contiene il nucleo tipico della condotta: il legislatore avrebbe voluto dire - utilizzando un costrutto sintattico ambiguo se non proprio erroneo[9] - che l'utilizzo o il godimento personale è fuori dalla tipicità della norma, e le relative condotte risultano pertanto non punibili. Non saremmo dunque di fronte ad una causa di non punibilità ma, come più correttamente è stato rilevato, ad una clausola di delimitazione del tipo: essa «segna un limite negativo del tipo, in quanto descrive una modalità della condotta espressamente esclusa dalla rilevanza penale»[10].
A distanza di quattro anni, la Cassazione rigetta adesso con forza questa tesi "mitigatrice" e - benché sul piano dogmatico non può certo negarsi che una causa di non punibilità si innesta pur sempre su «di un "completo" disvalore oggettivo e soggettivo del fatto»[11], creando all’interno del quadro tipico sacche di impunità per ragioni di mera opportunità pratica - nega al quarto comma ogni funzione delimitativa della tipicità del reato, secondo una regola che potremmo definire dell'aut aut: o si configura il reato come descritto nei primi tre commi, oppure, non configurandosi - e solo in questo caso - può essere attivata la clausola di non punibilità di cui al quarto comma; che viene così relegata in un angolo di sostanziale irrilevanza; né può più, tale formula, neppure porsi in termini di sussidiarietà con il reato compiutamente descritto nei primi tre commi, se è vero che essa regola l' ipotesi - cristallizzata nel principio di diritto espresso nella sentenza del 2018 - in cui l'agente «utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»: insomma, nulla deve indiziare nella sua condotta alcun intento riciclatorio, se si vuol utilizzare la clausola di non punibilità.
I giudici di legittimità finiscono così per dare vita al reato di autoriciclaggio per mezzo di un'interpretazione estensiva dei suoi elementi costitutivi principali, destinando all'aborto quei tentativi compiuti dai giudici territoriali di passare dalla clausola di non punibilità del quarto comma per mitigare[12] gli effetti dirompenti (quoad poenam, ma non solo) che l'art. 648-ter.1 cp. produce: tentativo appunto non riuscito al Tribunale della Libertà di Milano, che si vedrà ritrasmessi gli atti affinché provveda alla luce dei canoni interpretativi forniti.
[1] Il primo a porsi queste domande è stato, autorevolmente, F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio": una fonte inesauribile di "effetti perversi" dell'azione legislativa, in Dir. pen. cont. (web), 10 dicembre 2014; ma già molti anni prima si ragionava su questi profili, a partire dai numerosi progetti di riforma: vd, ad esempio, S. Seminara, I soggetti attivi del reato di riciclaggio tra diritto vigente e proposte di riforma, in Dir. pen. proc., 2005, p. 239 ss.
[2] Basti pensare alla possibilità di applicare le più incisive misure cautelari mercé l'ampiezza della cornice edittale: così F. Sgubbi, Il nuovo delitto di "autoriciclaggio", cit., p. 4.
[3] Ci si riferisce, per esempio, a Cass., sez. II, sentenza n. 33074 del 14.7.2016, in C.E.D. n. 267459, secondo cui non integra il reato di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su conto corrente o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del delitto presupposto, perché non costituisce attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro. Una sentenza che però andrà presto letta in combinato disposto con Cass., Sez. V, sent. 11.12.2018 (dep. 5.2.2019), n. 5719, in Dir. pen. cont. (web) del 28.3.2019, con nota di M. Barcellona, In tema di autoriciclaggio e "paper trail", nella misura in cui i giudici di legittimità affermano che «il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro, diversamente intestato e acceso presso un altro istituto di credito, integra il delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 c.p.».
[4] Si tratta di Cass. sez. II, sentenza n. 30399 del 5.7.2018, in C.E.D. n. 19674.
[5] Tra queste, sotto vari profili, ricordiamo le tesi avanzate da F. Consulich, La norma penale doppia. Ne bis in idem sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di prova dell'autoriciclaggio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2015, p. 55 ss.; D. Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 86 ss.; I. Caraccioli, Incerta definizione del reato di autoriciclaggio, in Il Fisco, 2015, p. 355 ss.
[6] Quand'anche, alla fine dei conti, la triplice aggettivazione non si consideri, pur diversamente declinata, come species del genus delle attività economiche. In questo senso, Troyer-Cavallini, Apocalittici o integrati? Il nuovo reato di autoriciclaggio: ragionevoli sentieri ermeneutici all'ombra del "vicino ingombrante", in Dir. pen. cont. (web), 23 gennaio 2015. p. 9.
[7] E, come è stato detto da ultimo: è «pressoché scontato che tale forma di ostacolo si concretizzerà ogni qualvolta non venga espressamente indicata la provenienza delittuosa del bene sul quale ricade l'azione» (Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 184).
[8] Cfr. A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 806.
[9] Netto è, in questo senso, A. M. Dell'Osso, Il reato di autoriciclaggio, cit., p. 806, secondo cui il legislatore è incorso in «un errore di italiano tanto banale quanto biasimevole, scrivendo "fuori dei casi" invece di "nei casi"»; ci si troverebbe allora, sempre secondo lo stesso autore, di fronte ad una «ipotesi di sciatteria legislativa da antologia, foriera, peraltro, di criticità applicative di non poco conto».
[10] F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont. (web), 24 dicembre 2014. p. 19.
[11] M. Romano, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 65, a detta del quale, peraltro, la non punibilità sarebbe fondata su situazioni e accadimenti esterni alla meritevolezza della pena ed è collegata, di consueto, ad un singolo soggetto (p. 69).
[12] Nondimeno, essi possono ancora essere mitigati tramite il giudizio di pericolo concreto che - già sotto il profilo lessicale - importa l'avverbio "concretamente", non per caso inserito nella chiusa del primo comma («in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa»): al riguardo, sia permesso il rinvio a A. Apollonio, Condotta dell'autoriciclatore e interazioni con gli arti. 416-bis e 648-bis c.p.: problemi concorsuali e soluzioni esegetiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1-2, 2016, p. 8.
Niente più rito abbreviato per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo. Con 168 voti favorevoli, 48 contrari e 43 astensioni, il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge di riforma del rito abbreviato.
“Con l’approvazione di questa legge in Senato diamo un segnale fortissimo a tutti i cittadini di questo Paese – ha commentato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede -.
Il messaggio è che c’è la certezza della pena, non ci sono più gli sconti di pena a cui i criminali un po’ si sono abituati quando ci sono reati gravissimi”. Ma l’approvazione del provvedimento suscita anche forti perplessità.
Come quelle espresse da Glauco Giostra, ordinario di Procedura Penale all’università Sapienza di Roma, presidente della Commissione che lavorò a lungo, la scorsa legislatura, alla riforma dell’Ordinamento penitenziario e consulente ministeriale per numerose altre riforme del sistema penale.
Professore, cosa pensa della nuova legge?
Penso che ad un problema esistente si è risposto, come troppo spesso capita, con una soluzione che non lo risolve, anzi, che ne genera altri, ma che può essere utile dare in pasto all’opinione pubblica per raccogliere consensi.
C’è da dire che l’opinione pubblica resta spesso sconcertata di fronte a drastiche riduzioni di pena. Che necessità c’è di prevedere certi sconti sulla base della scelta del rito?
“Ogni ordinamento che, come il nostro, è incentrato sulla formazione della prova nel contraddittorio dibattimentale, fa ricorso, per la sopravvivenza del sistema, a riti speciali. Cioè a procedure semplificate nelle quali la rinuncia da parte dell’imputato alla garanzia del dibattimento e la relativa accettazione ad essere giudicato sulla base degli atti di indagine, è premiata dallo Stato con una riduzione di pena. Per il giudizio abbreviato la riduzione è di un terzo della pena temporanea inflitta, mentre l’ergastolo, sino all’approvazione di ieri, era sostituito con la reclusione a 30 anni, e in caso di ergastolo con isolamento diurno veniva eliminato l’isolamento”.
Non si può negare che, soprattutto quando la riduzione per la scelta del rito abbreviato si somma a quella per il concorso di circostanze attenuanti, si determinano abbattimenti di pena difficilmente accettabili dal comune senso di giustizia… “Certo. Per questo le dicevo che un problema esiste, soprattutto quando alla riduzione per la scelta del rito si cumula quella per il riconoscimento delle attenuanti generiche. Ma la legge non lo risolve, ignora le possibili soluzioni adeguate e crea serissimi problemi alla giustizia”.
Andiamo con ordine. Perché dice che non lo risolve?
“Prima lei ha fatto giustamente riferimento al senso comune di giustizia. Ebbene dopo l’approvazione della legge, chi a seguito di abbreviato viene condannato a trent’anni continuerà a vedere ridotta la pena a venti anni. Mi dica lei: è davvero più inaccettabile di questo sconto quello di cui poteva usufruire chi, avendo scelto il rito abbreviato, si vedeva applicata la pena dell’ergastolo invece della pena dell’ergastolo con isolamento diurno? Oppure trent’anni invece che l’ergastolo? La verità è che la riduzione di un terzo della pena per i reati più gravi è eccessiva. Lei pensi che un condannato per ottenere una riduzione di pena di dieci anni con la misura della liberazione anticipata dovrebbe tenere in carcere una condotta irreprensibile e impegnata per 40 anni. Inoltre si consideri che chi viene giudicato con l’abbreviato ha il solo merito di aver fatto risparmiare tempo e risorse. Il condannato in esecuzione di pena, invece, di aver dato prova di ravvedimento sociale”.
Come se ne esce, se il sistema ha bisogno di procedure semplificate e queste devono essere incentivate?
“Si sarebbe dovuto lavorare sull’incentivo. Ad esempio, prevedere che la riduzione è sì di un terzo, ma che non possa essere superiore ad un certo tetto: ad esempio cinque anni. Per l’ergastolo si poteva lasciare il regime di conversione attuale o renderlo anche più severo, anche intervenendo sulla cumulabilità con altre attenuanti, soprattutto con le cosiddette generiche, ma prevedendo sempre un vantaggio per chi accetta il rito abbreviato, sia per una giustizia comparativa nei confronti degli altri imputati, sia per evitare problemi gravissimi all’amministrazione della giustizia”.
Quali problemi prevede per l’amministrazione della giustizia?
“La legge appena approvata appesantirà in maniera preoccupante una giustizia già ansimante, forse dandole il definitivo colpo di grazia. Innanzitutto, i procedimenti per reati puniti con l’ergastolo oggi definiti in abbreviato da un giudice monocratico dovranno ‘migrare’ verso la Corte di assise, andandone ad ingolfare i ruoli già ora gestiti con affanno. Ma poi, potendo l’imputazione variare nel corso del procedimento penale, si determineranno fatalmente ritorni, sbandamenti ed ingiustizie. Facciamo il caso di un’accusa per un reato punito con pena temporanea: l’imputato sceglie il rito abbreviato nel corso del quale, in seguito all’assunzione di prove, l’imputazione si aggrava e viene contestato un reato punito con l’ergastolo. Il processo deve tornare indietro e riprendere nelle forme ordinarie, vanificando quanto già fatto e non tenendo conto, di regola, delle prove assunte in abbreviato.
Ancora più imbarazzante la situazione opposta: si procede con il rito ordinario, perché il reato originariamente contestato era punito con l’ergastolo e quindi preclusivo del rito abbreviato. Dice la nuova legge che, se la richiesta di abbreviato era stata dichiarata inammissibile per tale ragione, quando il giudice alla fine del dibattimento ritiene invece di condannare per un reato punito con pena temporanea, deve applicare la riduzione di un terzo di pena.
A parte che in questo modo tutti gli imputati di crimini puniti con l’ergastolo saranno indotti a chiedere l’abbreviato per farselo dichiarare inammissibile (altro lavoro a vuoto per i giudici) ed ottenere lo sconto di pena dopo il giudizio ordinario qualora, come capita non di rado, venisse ‘derubricato’ il reato. Con il che avremmo il capolavoro ‘economico’ di un imputato che ha usufruito di tutte le maggiori opportunità del dibattimento e che poi lucrerà anche uno sconto di dieci anni di pena.
Per non parlare, a proposito di ‘economie’, dell’imputato che, rinviato a giudizio per più reati, uno dei quali punito con l’ergastolo, chiede l’abbreviato per gli altri: l’ordinamento deve far svolgere due procedimenti contro la stessa persona, con il rischio che, per le ragioni appena ricordate non si crei necessità di passaggio dall’uno all’altro. La novità legislativa costituisce, dunque, un grave fattore di appesantimento e di disordine per la giustizia, ma evidentemente era più importante esibire un’inutile muscolarità sanzionatoria”.
(a cura di Teresa Valiani, dalla rivista “Redattore sociale” del 3.4.2019)
CANCELLARE LA TENUITA’ PER ABOLIRE IL PRINCIPIO DI REALTA’ di Marco Imperato
In una stagione di politica criminale già caratterizzata dalla volontà di assecondare gli umori della base, si profila all’orizzonte l’ennesima proposta muscolare, ovvero quella di abolire l’ipotesi di particolare tenuità nel reato di detenzione e spaccio di stupefacenti[1].
Con questo disegno di legge si vorrebbe di fatto cancellare dall’ordinamento ciò che senza dubbio esiste nei fatti e nella realtà quotidiana. Più che la proposta di abolire un istituto giuridico, si prefigura la volontà di cancellare dalle norme la realtà dei fatti.
Chi ha avuto di occuparsi di questo tipo di reati nelle aule di tribunali sa perfettamente che nella disciplina dell’articolo 73 del DPR 309/1990 ricadono fatti molto diversificati, con caratteristiche e capacità di offesa assai eterogenee tra loro: dalla detenzione professionale e sistematica da parte di soggetti dediti al traffico di centinaia di grammi di cocaina (o anche di chilogrammi, non scattando così facilmente l’aggravante speciale dell’articolo 80), alla cessione anche a titolo gratuito di mezzo grammo di stupefacente.
Pericolosità del fenomeno, offensività in concreto, dolo del reo, capacità delinquenziale, rischi per la salute: tutti questi elementi dovrebbero essere ignorati e messi da parte in nome di una pena che diventerebbe così esemplare e non proporzionata al fatto concreto, ovvero una sanzione penale che non svolge più alcuna funzione rieducativa e nemmeno retributiva, ma che serve solo quale dimostrazione della forza punitiva dello Stato.
Non verrebbe quindi violato solo il principio di ragionevolezza, ma ancor prima l’articolo 27, ovvero il principio di responsabilità penale personale.
Si potrebbe anche ricordare come la minaccia di pene severissime e sproporzionate non è solo di per sé ingiusto, ma non garantisce neanche l’obiettivo di dissuadere i comportamenti illeciti. La sociologia del diritto e ancor prima la storia insegnano che tale equazione è fallace, ma d’altronde che chi propone queste misure probabilmente non si illude di risolvere il problema, avendo come vero obiettivo strategico la strumentalizzazione del diritto penale per il recupero del consenso popolare.
Un legislatore razionale che conosca il fenomeno sociologico dell’abuso di stupefacenti e il connesso sistema criminale, partirebbe da una seria riflessione sul perché vi sia sempre una crescente domanda di droga, come dimostrano i report annuali della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (organo peraltro del Ministero degli Interni…): il diffondersi degli stupefacenti non è scalfito dall’inasprimento delle sanzioni. Anzi, vi è chi sostiene il contrario, specie con riferimento alle droghe leggere, persino all’interno della maggioranza politica dell’attuale Governo[2].
Non possiamo giustificare l’abolizione della tenuità del fatto in materia di stupefacenti usando l’argomento che il fine (del contrasto al fenomeno criminale) giustificherebbe il mezzo (di una pena sproporzionata): un simile ragionamento è irricevibile nel nostro ordinamento perché l’imputato non può mai diventare il mezzo per qualche altra finalità pubblica, dovendogli essere garantito un giusto processo e un’eventuale sanzione commisurata solo al fatto concreto e alla sua personale responsabilità, non certo alle aspettative del Governo o agli umori della maggioranza.
Pare esservi un comune denominatore in tutte queste proposte e riforme recenti, ovvero la sfiducia verso il ruolo della Magistratura quale potere cui affidare l’interpretazione delle leggi e la loro applicazione in concreto.
Il dibattito pubblico, specialmente quello “social”, è assolutamente superficiale e prescinde dai fatti, diventando quindi spesso mera cassa di risonanza della propaganda che pretende di vedere rispettati nei processi i propri “desiderata”, senza alcun vero interesse ai fatti e alle prove del caso concreto. La percezione mediatica e il sentimento popolare vorrebbero prevalere su presunzione di non colpevolezza, giusto processo e responsabilità personale.
A fronte di questa degenerazione della discussione pubblica e politica e delle conseguenti proposte, occorre adoperare tutti gli strumenti che l’ordinamento ci consegna perché non vengano stravolti i principi costituzionali e i diritti fondamentali del nostro sistema processuale.
Che sia possibile arginare la deriva populista della politica criminale lo ha dimostrato anche la recente sentenza della Corte Costituzionale[3], la quale ha riconosciuto come sproporzionata la soglia minima di 8 anni per i fatti non tenui, certificando così al contempo la necessità di modulare la sanzione in modo congruo e ragionevole rispetto all’offesa del bene giuridico e alla responsabilità dell’autore.
È importante che tutto il mondo dei giuristi e degli operatori del processo penale si adoperi per spiegare anche al resto della cittadinanza che i principi sanciti dall’articolo 3 o dall’articolo 27 della Costituzione non sono orpelli formali o fastidiosi lacci a una spregiudicata azione di Governo, ma baluardi dello Stato di Diritto, beni preziosi da riaffermare come patrimonio comune che ci è stato consegnato dalla Carta del ’48.
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/04/droga-salvini-presenta-disegno-di-legge-raddoppio-delle-pene-per-chi-spaccia-e-basta-con-la-modica-quantita/5013103/
[2] https://www.tgcom24.mediaset.it/politica/il-ministro-della-salute-si-a-liberalizzare-le-droghe-leggere-_3165300-201802a.shtml
[3] https://www.penalecontemporaneo.it/d/6570-stupefacenti-la-corte-costituzionale-dichiara-sproporzionata-la-pena-minima-di-otto-anni-di-reclusi
Momenti di trascurabile felicità a cura di Dino Petralia
Tra l’ovvietà che non stupisce e la profondità del banale si collocano le trascurabili felicità di Paolo e Agata, coppia stereotipa in crisi di slanci e di parole.
Per un capriccioso errore di calcolo di velocità nello sfidare, alla guida del proprio scooter, un incrocio stradale nel centro di Palermo, Paolo muore in un fatale incidente.
Catapultando la scena in un Paradiso può attendere in salsa nostrana, il novello Warren Beatty in abiti di Pif fa così ingresso in un aldilà burocratico e disorganico, realizzando insieme a un Caronte in luccicante divisa postelegrafonica (un poliedrico ed efficace Renato Carpentieri) la commissione di un errato computo cronologico del trapasso, con conseguente momentaneo rientro sulla ribalta della vita.
Il rimborso di un’ora e trentadue minuti di sopravvivenza innesca dunque il tragicomico interrogativo sul come trascorrere lo scampolo di impiego esistenziale, affidando ad un protagonismo maschile monocorde e uggioso - un Paolo motteggiante di anemiche scontatezze che a ben vedere poco o nulla ripropongono del divertente catalogo (del libro) di Francesco Piccolo - l’ingrato compito di far riflettere sorridendo; compito rapidamente evaporato nel naufragio senza soccorso di sequenze banalmente improntate al genere del vivere d’oggi - i piccoli tradimenti di lui e lei, il compensativo eccesso di passione calcistica dei compagni di tifo, i conflitti familiari dei figli e il divario digitale dei loro saperi rispetto agli adulti - in cui il ripromesso messaggio della brillantezza di una normalità vitale e vincente s’infrange in un’incostanza scenica che, sottraendo dinamismo e vivacità al racconto, lo converte in una semplice somma di riprese indipendenti e slegate.
A conclusione del modico supplemento di vita, l’affido condiviso tra destinante e destinato, traghettatore e traghettando, della riedizione dell’incidente, questa volta nella prospettiva di un esito definitivamente infausto che invece non si compie per via di una (forse) raggiunta maturità d’affetti di Paolo, ravviva per un istante le vibrazioni di un film che nel complesso non sollecita né commuove e che, pur regalando - o tentando di regalare - allo spettatore l’effimero gusto di un destino fallibile, non si sottrae ad un verdetto di grigia mediocrità.
A sollevarne le sorti soccorre tuttavia la bellezza energica, vitale e struggente di una Palermo che, nello sfondo della narrazione, nobilmente sopravvive nei momenti tutt’altro che trascurabili dei popolani ghetti e delle mirabili sue sontuosità.
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