ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Cecilia Assanti e il diritto del lavoro triestino
Sommario: 1. Introduzione - 2. Infanzia, giovinezza e studi universitari - 3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro – 4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato - 5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico – 6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80 – 7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi - 8. La produzione scientifica degli anni ’90 - 9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti.
1. Introduzione
Cecilia Assanti si era spenta il 4 giugno del 2000, dopo una brevissima malattia, e Giuseppe Pera, da tempo suo grande amico, mi aveva chiesto di mandargli uno scritto, destinato alla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, che testimoniasse la sua complessa attività scientifica (L. Menghini, Cecilia Assanti e il diritto del lavoro italiano, RIDL, 2000, I, 341 ss.).
Ora riprendo volentieri il ricordo della mia Maestra, considerando anche il profilo della sua collocazione nell’ambito del diritto del lavoro triestino e quello dei rapporti che ho avuto con lei nei decenni in cui sono stato suo allievo. Cecilia Assanti è stata la seconda donna a diventare ordinario di Diritto del lavoro, dopo Luisa Riva Sanseverino, di cui aveva una grande ammirazione. Anche se ha dedicato molte delle sue capacità scientifiche alla condizione femminile, non ha mai voluto limitarsi ad essa, spendendosi, invece, sui temi più generali della materia. Il suo ruolo nel diritto del lavoro italiano della seconda metà del ‘900 è stato importante, anche se, per vari motivi, non compiutamente attuato secondo le sue aspirazioni.
2. Infanzia, giovinezza e studi universitari
Era nata a Grottaminarda, in provincia di Avellino, l’8 gennaio del 1928 ma, quando era ancora in tenera età, la famiglia era salita al Nord, prima in un paesino dell’attuale Slovenia e poi a Trieste. Il papà era medico pediatra della sanità pubblica e questi spostamenti dipendevano dal fatto che aveva vinto dei concorsi relativi alla sua attività. In famiglia c’erano altri medici e dei magistrati.
Cecilia era una bambina e poi una ragazza precoce: ha iniziato la scuola a cinque anni e poi ha saltato la seconda classe del liceo classico, conseguendo il diploma nell’estate del 1945, a 17 anni. Di questo periodo mi ha raccontato solo che era una grande lettrice e che per non farsi vedere dai genitori (che forse non le avrebbero permesso certe letture) leggeva sotto le coperte con una pila.
Mi ha anche confidato che la sua particolare velocità nella lettura era dovuta al fatto che i suoi occhi non si fermavano sulle parole di ogni riga, ma coglievano le parole di tre righe in tre righe.
Gli anni del liceo devono essere stati difficili e anche traumatici, perché erano gli anni dell’occupazione tedesca della città, dal settembre ‘43 all’aprile del 1945, e poi di quella dell’esercito jugoslavo, più breve, ma ugualmente tragica. Nella sua mente era rimasta impressa la visione dei cadaveri dei prigionieri impiccati appesi alla scalinata interna del Conservatorio di musica Tartini, ben visibili dalle finestre dell’edificio; le era capitato di passare in autobus proprio davanti. Si trattava di una rappresaglia tedesca contro italiani e sloveni in seguito ad un attentato partigiano del 23 aprile 1944 (v. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, rist. 2023, p. 256).
All’Università avrebbe voluto studiare Medicina, ma ad una famiglia di medio-alta borghesia non pareva una scelta adatta ad una donna. Ripiegò, quindi, su Lettere, che frequentò solo nell’a.a. 1945-46, per passare, poi, a Giurisprudenza nell’a.a. 1946-47 e concludere gli studi in soli tre anni, laureandosi in Diritto commerciale nel novembre del 1949, quando aveva solo 21 anni.
3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro
Non so se l’A. abbia seguito il corso di Diritto del lavoro nell’a.a. 1947-48, quando era affidato a Virgilio Andrioli, oppure nel 1948-49, quando fu ripreso da Renato Balzarini, che aveva tenuto il corso di diritto corporativo sin dall’istituzione della Facoltà di Giurisprudenza, negli anni dal 1938 al 1941, per essere poi trasferito all’Università di Roma, dove si era laureato nel 1927, con una tesi in diritto pubblico, conseguendo la libera docenza in Istituzioni di diritto pubblico nel 1933-34 e vincendo poi il concorso a cattedra, nel 1938, con due monografie sul diritto corporativo e conseguendo, infine, l’ordinariato, nel 1941, con un volume su Gli enti sindacali (per queste notizie v. C. Assanti, Renato Balzarini, RIDL, 1988, I, p. 389).
Renato Balzarini, malgrado la sua partecipazione attiva al regime fascista come membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, superò i problemi delle epurazioni e insegnò per moltissimi anni Diritto del lavoro nella facoltà triestina di Giurisprudenza, ricoprendo il ruolo di direttore dell’Istituto di Diritto del lavoro, delle Scuole che fondò e di preside della Facoltà. A metà degli anni ’60 fu protagonista della nascita della Libera Università Abruzzese degli Studi, con sede a Teramo, di cui fu rettore sino al 1978.
Nel ricordarne, con affetto, la prestigiosa figura, l’A. lo considera uno dei Maestri “della generazione dei giuristi del lavoro che iniziarono la loro opera dando corpo e sistemazione al diritto corporativo con occhio attento anche alle dimensioni trascendenti i suoi caratteri specifici”, potendo testimoniare, per i molti anni in cui aveva studiato con lui, che il Maestro “conservò sempre vivace, pronto, attento, il suo interesse multiforme per gli studi, la sua disponibilità più ampia verso gli altri, a cominciare dai giovani” (op.cit., p. 389).
Ciò che mi preme più rilevare, peraltro, è che Renato Balzarini, nella sua seconda parte di vita accademica, partecipò, in modo del tutto particolare, alla rifondazione del diritto del lavoro del dopo guerra, aprendo l’Università, proprio nella Trieste non ancora italiana e quindi lacerata da profonde divisioni, agli studi del diritto internazionale e comparato del lavoro, con innumerevoli iniziative, con la creazione di varie istituzioni e con la collaborazione con realtà nazionali e internazionali.
L’A. evidenzia, in particolare, come il Maestro motivasse la sua predilezione per gli studi comparatistici con la convinzione che, per molta parte, agli sviluppi del diritto del lavoro e alla sua armonizzazione nelle legislazioni nazionali fosse affidata l’attuazione della pace dei popoli e tra i popoli (Id., op.cit., p. 391).
Io, naturalmente, già da studente era venuto a conoscenza di questa complessa attività, ma piuttosto superficialmente. Anche in seguito l’A. me ne ha parlato molto poco.
Dobbiamo, invece, all’entusiasmo, alla curiosità e alla tenacia di una giurista napoletana trapiantata a Trieste, Maria Dolores Ferrara, la riscoperta e la diffusione dei “tesori” del diritto del lavoro triestino degli anni ’50 e ’60 (v. Il diritto del lavoro a Trieste nel secondo dopoguerra, RIDL, 2016, I, p. 115 ss. Lo studio è ripreso nel par. 3 dello scritto mio, di Roberta Nunin e della stessa Ferrara L’insegnamento del Diritto del lavoro e la Facoltà di Giurisprudenza, in Giuristi a Trieste. Per una storia della facoltà di Giurisprudenza. 1938-2012), a cura di P. Ferretti, P. Giangaspero e D. Rossi, Giappichelli, Torino, 2022, p. 74 ss.).
Balzarini già nel 1951 organizzò a Trieste il primo Congresso internazionale di diritto del lavoro, con la partecipazione di illustri studiosi italiani e stranieri. Dal congresso triestino nacque la Rivista di diritto internazionale e comparato del lavoro, diretta da Balzarini, che a Trieste poi fondò, nel 1961, l’Istituto europeo per la unificazione del diritto del lavoro e, nel 1963, la Scuola internazionale di diritto comparato del lavoro, quale sorta di filiale della Facoltà internazionale per l’insegnamento del diritto comparato di Strasburgo; a Trieste si svolsero dieci sessioni estive dell’Ecole, con la partecipazione di giuristi di tutto il mondo. Innumerevoli, infine, sono state le iniziative di studio condotte in collaborazione con l’Università di Lubiana. (v. M.D. Ferrara, Il diritto del lavoro a Trieste cit., p. 120 ss.).
Creature di Balzarini furono anche, dal 1953, la Scuola di perfezionamento e specializzazione in diritto del lavoro e della sicurezza sociale e, dal 1954, il suo Bollettino, rivista in cui hanno scritto giovani, ma anche illustri giuristi e che ha dato luogo ad importanti contatti scientifici. Alla fine degli anni ’60 Balzarini, su richiesta di CGIL, CISL e UIL, diede vita anche ad un Corso biennale di preparazione e di aggiornamento per dirigenti sindacali, i cui docenti erano i più noti giuslavoristi: Cecilia mi ha ricordato il fascino delle lezioni di Federico Mancini.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 Balzarini proseguì anche la sua attività di studioso, pubblicando numerosi contributi, specie di diritto sindacale; quello più menzionato attiene ai limiti alla facoltà di recesso ad nutum (su questa produzione v. L. Menghini, L’Insegnamento del diritto del lavoro cit., in Giuristi a Trieste, cit., p. 73 ss.).
È in questo contesto di larghe aperture e di ampie possibilità di contatti e relazioni che Cecilia Assanti fu introdotta negli anni ’50 allo studio del diritto del lavoro. Poté conoscere illustri giuristi coetanei di Balzarini (ad es. Giuliano Mazzoni, Luisa Riva Sanseverino, Francesco Santoro Passarelli), rapportarsi con gli studiosi stranieri e stringere amicizie con i giovani professori che venivano a Trieste ad iniziare la loro carriera, come Vezio Crisafulli, Alfredo Fedele, Luigi Mengoni, Rodolfo Sacco, Francesco Galgano, Elio Casetta e Vittorio Bachelet.
Si è rimarcato come in quegli anni nella facoltà di Giurisprudenza si provvedesse a coprire le cattedre con i migliori docenti italiani, il quali non consideravano il soggiorno a Trieste come un esilio, ma come una tappa del cursus honorum accademico (M. Barberis, Come si diventa quel che si è. La filosofia del diritto a Trieste, in Giuristi a Trieste, cit., p. 259). In una pausa di un convegno veneziano, nell’Isola di S. Giorgio, Luigi Mengoni ha ricordato a noi triestini i bei anni che aveva passato nella nostra Università (dal 1951 al 1954) in compagnia degli altri colleghi provenienti da lontano: un gruppo che studiava e discuteva molto, ma che non disdegnava cene e svaghi innocenti, al punto che un giorno furono convocati dal preside di facoltà, che li rimproverò di essere andati a vedere il film Susanna tutta panna.
L’A. in quegli anni ha studiato molto. Mi diceva che passava giorni interi all’Università, portandosi pranzo e cena e un fiasco di vino in compagnia di un suo grande amico, Giampaolo De Ferra, quasi coetaneo, che in quegli stessi anni pubblicava le prime opere in diritto commerciale, anch’egli conseguendo la libera docenza nel 1959 e la cattedra nel 1963; fu poi rettore dal 1971 al 1982 e sempre amico di Cecilia. (v. M. Bianca, L’insegnamento del diritto commerciale, in Giuristi a Trieste, cit., p. 45). In quel periodo, poi, si deve essere avvalsa delle “creature” di Balzarini prima per studiare e poi per esprimere tutte le sue capacità di ricerca e docenza.
4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato
Cecilia Assanti ha pubblicato i suoi primi lavori scientifici nel Bollettino della Scuola ed è divenuta assistente di ruolo; del 1957 e 1958 sono le sue prime due monografie, che le hanno fatto conseguire nel 1959 la libera docenza (insieme, se ricordo bene, a Giuseppe Pera e Carlo Smuraglia). Altre due monografie risalgono al 1961 e al 1963, anno in cui ha vinto il concorso a cattedra, risultando “ternata” insieme con Gino Giugni e Giampaolo Novara.
Si è sostenuto che l’esito di questo concorso era dovuto al sopravvento, nell’ambito della componente dominante dell’accademia italiana, di un atteggiamento marcatamente liberale e pluralista, che avrebbe consentito la promozione alla cattedra sia di Cecilia Assanti, e cioè dell’allieva triestina dell’”istituzionalista” Renato Balzarini, sia del fautore della teoria, del tutto minoritaria, del contratto aziendale come stipulato dalla comunità d’impresa, Giampaolo Novara; la commissione era formata, oltre che da Balzarini, da Luigi Mengoni, Gustavo Minervini, Giuliano Mazzoni e Cesare Grassetti; i “grandi esclusi” erano stati Aldo Cessari e Giorgio Ghezzi, destinati a vincere il concorso successivo insieme con Giuseppe Pera (così. P. Ichino, I primi due decenni del Diritto del lavoro repubblicano: dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, in AA.VV., Il Diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 38 e 53).
Le quattro monografie che la portarono alla cattedra (Il contratto di lavoro a prova, del 1957; Il termine finale nel contratto di lavoro, del 1958; Autonomia negoziale e prestazioni di lavoro, del 1961; Le sanzioni disciplinari nel rapporto di lavoro, del 1963), tutte pubblicate da Giuffrè, piuttosto brevi e concentrate nel tempo, dimostrano un robusto impianto civilistico e una rara capacità di cimentarsi in modo rigoroso con la dogmatica giuridica, nulla concedono alle teorie comunitarie (v. amplius L. Menghini, Cecilia Assanti, cit., p. 343 ss.). In varie occasioni colleghi più anziani di me mi hanno riferito che la monografia sulle sanzioni disciplinari era stata accolta con molto favore.
Il 1°febbraio del 1964 l’Assanti è stata chiamata all’insegnamento di Diritto del lavoro nella Facoltà triestina di Economia, dove è rimasta sino al 1973-74, passando alla facoltà di Giurisprudenza nell’a.a. 1974-75.
In vista dell’ordinariato ha scritto una quinta monografia, dal titolo Rilevanza e tipicità del contratto collettivo nella vigente legislazione italiana, Giuffrè, 1967.
Il saggio è del tutto particolare nell’ambito degli studi di diritto sindacale degli anni ’60, laddove mira all’esaltazione dei principi costituzionali attraverso l’assimilazione dei contratti collettivi corporativi, o comunque ad efficacia soggettiva generale, a quelli postcorporativi, con il recupero di tutte le norme sulla contrattazione collettiva, antecedenti e successive alla caduta del regime fascista, che fossero compatibili con i principi costituzionali.
Riteneva, infatti, che i due contratti collettivi considerati costituissero due tipi di una fattispecie unitaria, potendo di conseguenza essere regolati da un’unica disciplina per tutto ciò che non concerneva la diversa sfera degli effetti, comprese le norme previste per i contratti corporativi diverse da quelle relative all’efficacia soggettiva ed alla struttura organizzativa delle associazioni sindacali.
Questa concezione del contratto collettivo, mantenuta anche nei decenni successivi e forse favorita dagli studi di Renato Balzarini, segna l’ultima tappa di una intensa attività di ricerca svincolata dall’impegno civile e politico. Si era infatti alla vigilia del “tuono a sinistra” del 1968-69 e gli scritti dell’A. erano ancora piuttosto asettici.
5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico
Ho conosciuto Cecilia Assanti tra il 1972 e il 1973, quando ha cominciato a seguire la mia tesi di laurea sulle strutture sindacali in azienda, che porta ancora il nome di Balzarini quale relatore, ma che ho ultimato e discusso con lei. Nel 1970-71 avevo seguito le lezioni di Diritto del lavoro tenute da Michele Zanetti, assistente di Balzarini, democristiano progressista, noto a Trieste per aver chiamato e difeso, da Presidente della Provincia, Franco Basaglia e la sua nuova psichiatria.
Zanetti mi ha avviato alla tesi, facendomi innanzitutto leggere la relazione di Federico Mancini al Convegno di Perugia del 1970 e poi il famoso libro di Giovanni Tarello. Mi sono laureato il 30 ottobre 1973 ed ho subito cominciato a frequentare, sotto la guida dell’A., l’Istituto di Diritto del lavoro, come giovane “fatturista”, “assegnista” e dalla fine del 1979 assistente di ruolo.
Sin dall’inizio Michele Zanetti, Luigi Rovelli, Tullio Renzi e gli altri assistenti e “giovani” dell’Istituto mi chiamavano, per scherzo, “Mengoni” e non Menghini, aiutandomi, però, molto nei primi anni di studio. Appena conosciuta, l’A. mi è apparsa come una intellettuale di sinistra ortodossa, dotata di una vastissima cultura e poco incline a valorizzare lo spontaneismo del ‘68, come invece facevo io. Lo vedevo dalle osservazioni che con estrema cura e precisione mi scriveva sulle pagine della tesi.
E di fatti, dagli anni ’70, non so in base a quali processi, l’A. ha cominciato a coniugare l’attività accademica con l’impegno civile e politico, iscrivendosi al Partito comunista, divenendo consigliere comunale nel comune di Trieste all’epoca in cui lo erano anche Giorgio Almirante e Marco Pannella e nel 1981 venendo eletta dal Parlamento come membro del Consiglio Superiore della Magistratura, dove è rimasta sino al marzo 1986. Si è trattato di un grande impegno che le ha chiesto molta forza e lucidità nei terribili anni delle Brigate Rosse, costringendola a girare con la scorta armata e a partecipare con il Presidente Pertini a varie onoranze funebri di magistrati.
Questo, peraltro è stato il periodo che, a mio avviso, le ha dato le maggiori soddisfazioni quanto ai rapporti il mondo politico nazionale, accademico e della magistratura. Mi confidava di trovarsi benissimo con i colleghi magistrati, che stimava molto.
Va anche detto che nel corso degli anni ’70 l’A. ha lasciato morire le “creature” di Balzarini, Ecole e riviste comprese, di cui, come ho già detto, mi ha sempre parlato molto poco. Avevano, probabilmente, fatto il loro tempo, concentrandosi ora l’attenzione dei giuslavoristi (in primis dell’Assanti) sul diritto comunitario.
Balzarini veniva poco a Trieste ed io non l’ho mai conosciuto di persona. L’A. mi diceva che era meglio che scrivessimo e collaborassimo con le riviste di rango nazionale e organizzava frequenti seminari per dirigenti sindacali e membri dei consigli di fabbrica. Tutti ricordiamo le “letture collettive” delle monografie dei giovani, ma già affermati, giuslavoristi e le cene a casa sua. Ci faceva andare con lei a numerosi convegni nazionali, in cui abbiamo imparato molto e fatto importanti conoscenze.
La Scuola di Specializzazione è proseguita stancamente per vari anni, ma era una realtà morente, con l’unica eccezione di Roberta Nunin che, laureatasi a Padova in Diritto internazionale, ha preso tanto sul serio la Scuola da laurearsi con la sua direttrice e continuando sotto la sua guida negli studi giuslavoristici sino a divenire ricercatrice, associata e poi ordinaria nella nostra Facoltà.
In questi anni al gruppo dei giuristi triestini si è aggiunto Michele Miscione, che ha insegnato per vari decenni Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, prima come incaricato e poi come associato e ordinario, facendo anche crescere la sua allieva Marina Brollo, poi passata come associata e ordinaria all’Università di Udine, fondatrice dell’attuale vivace gruppo di lavoristi di quella Università. Quando l’A. stava al CSM, era Michele Miscione ad aggiornarmi sulle vicende del diritto del lavoro nazionale: gli sono sempre grato per le discussioni e gli insegnamenti nel corso della nostra vita comune di “fuori sede”.
Di frequente invitavamo a pranzo nelle trattorie vicine all’Università anche la nostra preziosissima bibliotecaria (Gabriella Ziboni, di grande aiuto nelle nostre ricerche), che accettava solo a patto che non parlassimo di diritto del lavoro: noi promettevamo, ma dopo pochi minuti violavamo la promessa.
La stessa gratitudine voglio esprimerla anche per l’amicizia, la solidarietà e i consigli di Carlo Cester, lavorista della scuola padovana diretta da Giuseppe Suppiej, che si è aggiunto al gruppo di noi triestini una decina d’anni dopo, da quando, nel 1986, è stato chiamato come straordinario di Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, ove ha insegnato per molti anni quale ordinario, per passare poi a Giurisprudenza nel 1997-98 e 1998-1999, per tornare infine alla sua Università di origine. Con lui e Miscione si discuteva continuamente e solo una volta all’anno ci concedevamo due passi al mare di Barcola. Insieme, e con Cecilia, ci siamo dati molto da fare per il diritto del lavoro triestino.
6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80
All’inizio degli anni ‘70 risale la produzione scientifica a mio avviso più importante dell’Assanti. Va innanzitutto menzionato il Commento allo Statuto dei Diritti dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972, scritto insieme a Giuseppe Pera, che avrebbe dovuto essere un’opera comune, ma che alla fine è stata ben suddivisa tra i due autori per la distanza delle loro opinioni.
Il nuovo impegno politico, tuttavia, non ha mutato il tipico modo di argomentare dell’A. né ha attenuato il suo rigore nell’interpretare le norme secondo i consueti canoni ermeneutici.
Sintetizzando gli spunti più caratteristici od originali, l’A. riteneva, quanto agli artt. 4 e 6, che la contrattazione collettiva da essi menzionata non ponesse una questione di efficacia generale in senso proprio, dato che la materia regolata è per sua natura indivisibile; quanto all’13, che fosse vietata l’assegnazione continuativa di un lavoratore alla sostituzione di compagni assenti; quanto all’art. 14, che fosse esteso all’attività sindacale svolta all’interno dei luoghi di lavoro il limite costituito dal “normale svolgimento dell’attività aziendale” previsto dall’art. 26 per le azioni di proselitismo, con la conseguenza che l’attività sindacale può essere svolta nelle pause e comunque al di fuori dell’orario di lavoro, avendo così i lavoratori un interesse tutelato ad essere presenti nell’unità lavorativa oltre i tempi dell’adempimento dell’obbligo di eseguire la prestazione di lavoro; quanto all’art. 17, che per costituire sostegno vietato gli interventi datoriali diversi dalla costituzione del sindacato e dal suo finanziamento devono evidenziare in concreto una zona di influenza, non essendo configurabile una parità di trattamento tra sindacati.
Quanto al testo originario dell’art. l’art. 19, difendeva la legittimità costituzionale della disposizione di cui alla lett. a), richiedendo comunque la rappresentatività a livello aziendale e difendendo, come sempre ha fatto, l’uso del criterio selettivo della maggiore rappresentatività delle confederazioni, i cui criteri avrebbero dovuto essere costituiti, da un lato, dalla previsione statutaria e dall’effettivo esercizio di poteri di mediazione tra le categorie e di decisione delle compatibilità per l’intero movimento dei lavoratori e, dall’altro, dall’effettiva diffusione su un ampio arco di categorie e nel territorio, mentre per i sindacati di cui alla lett. b) richiedeva il requisito di essere contraenti in senso proprio (in proposito v. anche La maggiore rappresentatività del sindacato tra difficoltà vecchie e nuove, RGL, 1988, I, pag. 319 ss.).
Molto pro labor era la sua interpretazione dell’art. 20: le assemblee potevano aver corso anche se il datore di lavoro non poteva utilizzare la prestazione di chi non vi partecipava e pur se la riunione provocava l’arresto dell’attività; le assemblee potevano essere convocate anche dai sindacati, trattandosi di un’attività fungibile, senza obbligo di comunicare l’ordine del giorno al datore di lavoro, il quale non aveva diritto a parteciparvi.
Cauta, invece, era l’interpretazione dell’art. 22, che la portava a negare la possibilità di estensione analogica o estensiva della norma a tutti i membri del consiglio di fabbrica. Il Commento di Assanti e Pera ha avuto un importante rilievo nazionale, affiancandosi al coevo Commentario dei giuslavoristi bolognesi.
Al 1977 risale il primo studio dell’A. sul tema su cui ha profuso il suo maggior impegno scientifico ed ha dato il contributo più rilevante al diritto del lavoro italiano: il lavoro femminile e la condizione giuridica della donna.
Si tratta della relazione svolta al Convegno dell’Aidlass dell’aprile di quell’anno (La disciplina del lavoro femminile, RGL, 1977, I, p. 13 ss.), che precedeva di qualche mese l’approvazione della legge di parità.
A mio avviso, il punto più interessante della relazione era quello in cui si studiavano i riflessi dei principi di uguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 Cost. sulla parità tra lavoratore e lavoratrice, che considerava non meccanica e generalizzata, ammettendo regole differenziate in base al sesso se rivolte ad eliminare gli ostacoli di cui al 2° comma dell’art. 3.
L’A. era poi diffidente sull’ipotesi di attribuire alle associazioni femminili, per reagire a pratiche discriminatorie, compiti simili a quelli attribuiti ai sindacati dall’art. 28 dello Statuto. I nessi tra l’art. 37 ed i primi articoli della Costituzione sono stati ripresi e approfonditi in molte successive occasioni (ad es. Il lavoro e la Costituzione nella condizione complessiva della donna, RGL, 1989, I, p.167 ss.). I punti più interessanti sono quello in cui motiva la prevalenza della funzione dei sindacati, volti a tutelare lavoratori e lavoratrici, rispetto a quella delle associazioni femminili; quello in cui nega fondamento alle ipotesi di modifiche costituzionali per assicurare presenze paritarie a uomini e donne nelle assemblee elettive; quello in cui contesta la pretesa di parificare il lavoro nella famiglia a quello svolto nel mercato; quello, infine, in cui interpreta il limite al principio di parità tra lavoratore e lavoratrice, di cui all’art. 37, 1°comma, Cost., costituito dall’esigenza che le condizioni di lavoro consentano alla donna di adempiere la sua essenziale funzione familiare, nel senso che si debba salvaguardare soltanto la sua funzione infungibile, e cioè legata alla gravidanza e alla maternità.
Il suo impegno politico nell’ambito della sinistra tradizionale è evidente, da un lato, nella difesa della legislazione lavoristica della seconda parte degli anni ’70, frutto del compromesso storico: usava sempre l’espressione “diritto del lavoro nell’emergenza” e non “dell’emergenza”, perché riteneva che questo complesso di norme non fosse esclusivamente legato a quel periodo storico e destinato a cadere alla sua fine, ma avesse elementi positivi destinati a permanere nel tempo (v. la relazione tenuta a Cadenabbia nell’ottobre del 1979, pubblicata col titolo L’economia sommersa: i problemi giuridici del secondo mercato del lavoro, RGL, 1980, I, p. 179 ss.); dall’altro, nelle censure di illegittimità costituzionale formulate nei confronti del decreto craxiano che nel febbraio 1984 tagliava la scala mobile (v. Il taglio della scala mobile. Un decreto che colpisce la contrattazione, DD, 1984, 1-2, p. 19 ss.).
7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi
Cecilia Assanti era una persona molto forte e combattiva, ma anche chiusa e riservata. Passavamo diverso tempo insieme, ma se lei non mi raccontava le sue vicende, io capivo che non gliele dovevo chiedere, pensando che secondo lei i giovani allievi dovevano solo studiare e scrivere, mentre ai maestri competevano le scelte strategiche, le relazioni e le prese di posizione.
So poco, quindi, della vicenda relativa al suo ritorno a Trieste, alla fine della Consigliatura, da lei vissuta molto male. Penso che aspirasse a rimanere a Roma, alla Sapienza, come era già capitato a molti suoi colleghi, ma non è riuscita in questo intento. Mentre si era organizzata anche la vita familiare a Roma, ha dovuto rientrare a Trieste al suo insegnamento a Giurisprudenza, pur continuando a sentirsi parte della sinistra, partecipando alle iniziative del Centro per la Riforma dello Stato, dell’Associazione Enrico Berlinguer, della CGIL, dei gruppi femminili, delle espressioni del territorio e della Rivista giuridica del lavoro.
Ma anche una successiva delusione l’ha segnata a fondo: la sua mancata elezione nella commissione giudicatrice del concorso a cattedra del 1989. Da quel momento non ha voluto far parte di alcun gruppo di giuslavoristi accademici, non è più andata ai convegni dell’Aidlass, pur continuando ad organizzare e a partecipare a molte iniziative scientifiche. Forse avrebbe voluto dar vita ad una scuola ampia di triestini per incidere in modo più forte nel diritto del lavoro italiano e per guidare in senso democratico anche la nostra Facoltà. Non c’è riuscita nella misura voluta o avrebbe dovuto attendere troppo.
8. La produzione scientifica degli anni ’90
Malgrado questi insuccessi, l’A. ha proseguito la sua produzione scientifica nel corso di tutti gli anni ’90. Rinviando a ciò che ho scritto nel lontano 2000 per un quadro più articolato, qui voglio solo osservare che in questo ultimo periodo i temi prescelti hanno spesso carattere molto alto e impegnativo, come, ad es., i rapporti tra le fonti interne, specie costituzionali, e quelle comunitarie ed i nessi tra i principi dell’uguaglianza formale e sostanziale e quello di parità tra lavoratore e lavoratrice (v. la relazione pubblicata in GI, 1992, IV, c. 140 ss.; Azioni positive: confini giuridici e problemi attuali dell’uguaglianza di opportunità, RIDL, 1996, I, p. 375 ss.; Pari opportunità: privato e pubblico a confronto. I principi di eguaglianza nel diritto comunitario, RGL, 1997, I, pag. 451 ss.).
Spiccato, in questo periodo, è il suo interesse per lo sviluppo del diritto del lavoro nella sua dimensione europea, interesse non ancora tanto diffuso nella dottrina italiana dell’epoca e legato al vecchio filone degli studi giuridici triestini particolarmente sensibile al diritto sovranazionale e comparato (così R.Nunin, nel par. 4 di L’insegnamento del Diritto del lavoro, in Giuristi a Trieste, cit., p. 81).
L’A. si è inserita anche nel dibattito sulla crisi della nozione di subordinazione e sull’esigenza di una nuova articolazione delle tutele, ridimensionando gli aspetti economici e sociali della nuova era postindustriale e criticando le tesi che ritenevano superata la distinzione tra subordinazione e autonomia ed estendevano norme protettive del lavoro dipendente a quello autonomo e parasubordinato (v. La subordinazione. Riflessioni da tre libri e da una relazione recenti, RIDL, 1990, I, p. 158 ss. e Autonomia e assetto dei poteri (impresa e lavori), RGL, 1991, I, p. 152 ss.). Quest’ultimo scritto costituisce una sorta di testamento scientifico anticipato sui caratteri fondamentali del diritto del lavoro passato, presente e futuro.
Qui riprendo solo la valutazione positiva sulle innovazioni degli anni ’70 e quella negativa degli anni ’80, quest’ultima motivata con il fatto che la promozione del sindacato non aveva fatto avanzare alcuna ipotesi di governo dell’economia, che la flessibilità affidata alla contrattazione aveva dato risultati modesti, come del resto il sostegno alle nuove istituzioni del mercato del lavoro; criticava, infine, la scarsità di strumenti per favorire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e proponeva varie misure, specie sul versante delle retribuzioni e del tempo di lavoro.
9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti
Cecilia Assanti ha cessato l’attività accademica nell’ottobre del 1997, prima della scadenza naturale. Si era probabilmente stancata della sua Facoltà e voleva passare qualche anno in pace. In effetti ha vissuto l’ultimo periodo della vita molto serenamente, lontana dai problemi dell’Università, dell’accademia e dei concorsi e dedita allo studio e alla ricerca secondo i suoi ritmi e le sue preferenze.
Dal 1990-1991 al 2001-2002 nella Facoltà di Giurisprudenza diritto del lavoro era insegnato anche da Antonio Vallebona, con il quale ho subito instaurato un bel rapporto di amicizia, di cui gli sono ancora molto grato, come sono grato a Franco Carinci per la fiducia e gli spazi che mi ha dato nelle sue riviste, trattati e commentari. Anche Carlo Pisani ha insegnato Diritto del lavoro a Trieste (dal 2002-2003 al 2008-2009). Dopo la scomparsa dell’A., Miscione, Vallebona ed io nell’ottobre del 2001 abbiamo organizzato un convegno a Trieste in sua memoria e poi abbiamo curato una raccolta di suoi scritti (C. Assanti, Scritti di Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2003).
Tra la fine del vecchio millennio e l’inizio di quello nuovo siamo diventati professori di prima fascia anche Miscione ed io e così il Diritto del lavoro triestino ha continuato il suo corso. Seguendo le tracce di Cecilia, mi sembra di aver fatto bene due cose: ho creato un Master in Diritto del lavoro che ha valorizzato la Facoltà di Trieste e la città, riuscendo a farvi partecipare come docenti molti colleghi ed amici, vicini e lontani, che mi hanno regalato bellissimi rapporti personali e professionali; ho sostenuto i lavoristi più giovani di me, tanto che Roberta Nunin ha da anni preso servizio come professore di prima fascia e tra pochi mesi dovrebbe farlo anche Maria Dolores Ferrara; ora possono serenamente occuparsi di una nuova leva di lavoristi e ulteriormente sviluppare la materia nella nostra città.
Tutto ciò non sarebbe potuto avvenire senza l’intelligenza, la passione e la disponibilità nei miei confronti di Cecilia, a cui devo, insieme con la mia prima moglie Annamaria, un dono immenso: avermi fatto fare per decenni l’unico mestiere che sapevo fare e che mi piaceva tantissimo.
Sommario: 1. La fattispecie concreta e la soluzione della Corte di Cassazione - 2. Il quadro normativo di riferimento – le norme del Codice della strada - 2.1. L’art. 186, commi 1), 2) e 2bis) - 2.2. L’art. 186 comma 9 bis - 2.3. L’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie - 3. Effetti dell’introduzione dell’istituto della messa alla prova (MAP) sulle norme del codice della strada in materia di guida in stato di ebbrezza - 3.1. L’art. 168 bis e l’art. 168 ter c.p. - 3.2. Effetti sul trattamento sanzionatorio accessorio - 4. La giurisprudenza della Corte costituzionale - 4.1. Corte costituzionale, 24/4/2020, n. 75 - 4.2. Corte costituzionale, 30/6/2022, n. 163 - 4.3. Corte costituzionale, 27/10/2023, n. 194 - 5. Cass. civ., Sez. II, 01/02/2024, n. 3019 - 5.1. I motivi di ricorso e la decisione - 5.2. Profili di criticità - 6. Considerazioni finali sull’automatismo della revoca.
1. La fattispecie concreta e la soluzione della Corte di Cassazione
1.1. Il Tribunale di Rovereto con sentenza (divenuta irrevocabile in data 2/7/2016) dichiarò ex art. 464 septies c.p.p. (a seguito dell’esito positivo della prova), l’estinzione del reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. c) e comma 2 bis (guida in stato di ebbrezza con tasso alcolimetrico superiore a 1,5 g/l aggravato dall’aver provocato incidente stradale in data 4/7/2014); a seguito della trasmissione della sentenza al Commissario del Governo per la Provincia di Trento, quest’ultimo adottò (ex art. 224, comma 2, codice della strada) nei confronti del conducente il provvedimento di revoca della patente ex art. 186, comma 2 bis del codice della strada (quale sanzione amministrativa accessoria a sanzione penale).
Proposta opposizione dal destinatario del provvedimento di revoca, la stessa fu accolta in primo grado, ma rigettata in appello dal Tribunale di Trento.
1.2. La Corte di cassazione, a seguito di ricorso del conducente/condannato, ha accolto lo stesso in quanto ha ritenuto di estendere quanto sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 75/2020 (illegittimità della previsione della confisca del veicolo in caso di pronuncia di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) in relazione a un giudizio avente ad oggetto una fattispecie rientrante nelle ipotesi di reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) del codice della strada (guida in stato di ebbrezza non aggravato da incidente stradale) anche all’ipotesi della revoca della patente conseguente alla fattispecie di reato di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada (guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico > 1,5 g/l aggravato dall’incidente stradale).
1.3. La pronuncia non persuade sia in relazione alla motivazione del provvedimento sia in relazione agli effetti distorsivi che la sua applicazione in concreto determina; a tal fine si reputa e necessario premettere una ricognizione del quadro normativo del microsistema sanzionatorio penale e amministrativo accessorio collegato alle fattispecie qualificabili in termini di “guida in stato di ebbrezza”, nonché la relativa giurisprudenza della Corte costituzionale.
2. Il quadro normativo di riferimento – le norme del Codice della strada
2.1. L’art. 186, commi 1), 2) e 2bis)
L'art. 186 (comma 1), nel testo attualmente vigente, stabilisce in via generale il divieto di guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche.
L’art. 186, comma 2, a seconda del valore del tasso alcolemico accertato, prevede tre distinti illeciti: il primo (più lieve) di carattere amministrativo e, gli altri due (progressivamente più gravi), di carattere penale.
Stabilisce, infatti, che la condotta in questione, ove non costituisca più grave reato, è punita:
a) con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da Euro 543 ad Euro 2.170, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro; all'accertamento della violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi;
b) con l'ammenda da Euro 800 ad Euro 3.200 e l'arresto fino a sei mesi, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro; all'accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno;
c) con l'ammenda da Euro 1.500 ad Euro 6.000 e l'arresto da sei mesi ad un anno, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro; all'accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni. (….). La patente è sempre revocata nel caso di recidiva nel biennio. Con la sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti, anche se è stata applicata la sospensione condizionale della pena, è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato.
Lo stesso art. 186, comma 2-bis - aggiunto nel 2007, nel testo oggi vigente a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 33, comma 1, lettera b), della L. 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale) - prevede che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, le sanzioni indicate sono raddoppiate e qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro “la patente di guida è sempre revocata”.
2.2. L’art. 186 comma 9 bis
L’art. 186, comma 9 bis - introdotto dalla richiamata legge n. 120/2010 - stabilisce, inoltre, che, al di fuori dei casi previsti dal comma 2-bis (guida in stato di ebbrezza aggravata dall’aver provocato incidente stradale), “la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 secondo le modalità ivi previste e consistenti nella prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività, da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale.”
In tutti i casi di guida in stato di ebbrezza (non aggravati dall’aver provocato un incidente stradale) di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c), codice della strada “in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato.”
2.3. L’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie
Gli artt. 224 e 224-ter cod. strada - quest'ultimo introdotto dall'art. 44, comma 1, della citata L. n. 120 del 2010 - disciplinano, rispettivamente,
a) il procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (a sanzioni penali) della sospensione e della revoca della patente (art. 224);
b) il procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (a sanzioni penali) della confisca amministrativa e del fermo amministrativo.
In particolare, l'art. 224, comma 3, e l'art. 224-ter, comma 6, prevedono che nel caso di estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell’imputato, il prefetto procede all'accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria e procede, ai sensi degli artt. 218 e 219 cod. strada nelle parti compatibili, all'applicazione della sanzione accessoria della sospensione ovvero della revoca della patente di guida e, ai sensi degli artt. 213 e 214 cod. strada, in quanto compatibili, all'applicazione della sanzione accessoria della confisca.
3. Effetti dell’introduzione dell’istituto della messa alla prova (MAP) sulle norme del codice della strada in materia di guida in stato di ebbrezza
3.1. L’art. 168 bis e l’art. 168 ter c.p.
Il descritto quadro normativo di riferimento, delineatosi a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 120/2010, ha subito un intervento indiretto a seguito dell’introduzione (legge n. 67/2014) nel sistema penale dell’istituto della messa alla prova (art. 168 bis c.p.) che comporta, in relazione ad una serie di reati tra cui anche quelli collegati alla guida in stato di ebbrezza, la possibilità per l’imputato di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova (consistente nella prestazione di lavoro di pubblica utilità e nella prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato).
Ai sensi dell'art. 168-ter, comma 2, c.p. - inserito dalla richiamata legge n. 67/2014, "l'esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede. L'estinzione del reato non pregiudica l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge".
3.2. Effetti sul trattamento sanzionatorio accessorio
Lo stratificarsi delle normative sopra descritte in assenza di coordinamento tra loro aveva determinato che i soggetti responsabili del reato di guida in stato di ebbrezza (senza aver provocato incidente stradale) subissero una diversità di trattamento in ordine alla confisca del veicolo a seconda che il giudice penale avesse dichiarato l’estinzione del reato a seguito dello svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità (quale sanzione sostitutiva) ovvero avesse dichiarato l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova.
Nel caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice penale, dichiarata l'estinzione del reato, non poteva che revocare la confisca del veicolo, a norma dell'art. 186, comma 9-bis, cod. strada, mentre, nel caso di esito positivo della messa alla prova, egli, dichiarata l'estinzione del reato, avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Prefetto, a norma dell'art. 224-ter, comma 6, cod. strada, affinché quest'ultimo disponesse la confisca del mezzo.
4. La giurisprudenza della Corte costituzionale
4.1. Corte costituzionale, 24/4/2020, n. 75
L’evidente diversità e disparità di trattamento in riferimento a situazioni sostanzialmente identiche all’interno del microsistema degli istituti incentivanti nel trattamento sanzionatorio della guida in stato di ebbrezza non aggravata dal verificarsi di un incidente stradale (da ritenersi disciplina speciale rispetto alla previsione di cui all’art. 168 ter c.p.) è stata ritenuta dalla Corte costituzionale manifestamente irragionevole alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost.; in particolare il giudice delle leggi ha affermato che “la possibilità che, pur in caso di estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza per esito positivo della messa alla prova, il prefetto disponga, ricorrendone le condizioni, la confisca del veicolo (della cui disponibilità, peraltro, l'imputato è stato privato sin dal momento del sequestro) - laddove lo stesso codice della strada prevede (art. 186, comma 9 bis, n. di chi scrive) per il caso in cui il processo si sia concluso con l'emissione di una sentenza di condanna e con l'applicazione della pena sostitutiva, non solo l'estinzione del medesimo reato di guida in stato di ebbrezza, ma anche la revoca della confisca del veicolo per effetto del solo svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità - risulta manifestamente irragionevole, ove rapportata alla natura, alla finalità e alla disciplina dell'istituto della messa alla prova, come delineate anche dalla giurisprudenza di questa Corte, prima richiamata.” (Corte cost., 24/4/2020, n. 75).
Alla luce di ciò la richiamata sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 224-ter, comma 6, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che il prefetto verifica la sussistenza delle condizioni di legge per l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, anziché disporne la restituzione all'avente diritto, in caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool per esito positivo della messa alla prova”.
A seguito di tale pronuncia il microsistema dei trattamenti sanzionatori in materia di guida in stato di ebbrezza (non aggravati da incidente stradale) ha riacquisito interna coerenza prevedendo sia in caso di esito positivo della messa alla prova che in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità lo stesso effetto “premiale” costituito dalla revoca della confisca del veicolo.
4.2. Corte costituzionale, 30/6/2022, n. 163
La diversità di trattamento, in virtù della segnalata assenza di coordinamento tra norme intervenute nel corso del tempo, si riscontrava anche in relazione alle conseguenze in punto di durata di sospensione della patente di guida in quanto, ai sensi dell’art. 186, comma 9 bis, codice della strada, il giudice, in caso di svolgimento positivo dei lavori di pubblica utilità, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente, mentre, ai sensi di quanto previsto dall’art. 224, comma 3, codice della strada, nel caso di estinzione del reato per altra causa (tra questi dovendosi ritenere anche l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) il prefetto avrebbe dovuto procedere all’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sospensione della patente senza prevedere la riduzione alla metà.
Anche in relazione a tale diversità e disparità di trattamento è intervenuta la Corte costituzionale dichiarando il differente trattamento irragionevole alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost; in particolare il giudice delle leggi ha affermato che “la manifesta irragionevolezza della conseguenza applicativa per cui, al cospetto di una prestazione analoga, qual è il lavoro di pubblica utilità, e a fronte del medesimo effetto dell'estinzione del reato, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente viene ridotta alla metà dal giudice in caso di svolgimento positivo del lavoro sostitutivo, mentre è escluso il beneficio dell'identica riduzione ove sia applicata dal prefetto nel caso di esito positivo della messa alla prova …”, precisando, peraltro, che “tale irragionevolezza si manifesta nei limiti dei casi regolati dalla fattispecie dell'art. 186, comma 9-bis, cod. strada, utilizzata come norma di raffronto, la quale ammette il lavoro di pubblica utilità, cui si correla la funzione premiale del suo positivo svolgimento, nelle sole ipotesi di reato di guida in stato di ebbrezza diverse da quelle contemplate dal comma 2-bis dell'art. 186 cod. strada.”
Alla luce di ciò la Corte costituzionale ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 224, comma 3, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui non prevede che, nel caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool di cui all'art. 186, comma 2, lettere b) e c), del medesimo decreto legislativo, per esito positivo della messa alla prova, il prefetto, applicando la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, ne riduca la durata della metà.” (Corte cost., 30/6/2022, n. 163).
A seguito di tale pronuncia il microsistema dei trattamenti sanzionatori in materia di guida in stato di ebbrezza (non aggravati da incidente stradale) ha riacquisito interna coerenza prevedendo sia in caso di esito positivo della messa alla prova che in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità gli stessi effetti premiali sia sotto il profilo della revoca della confisca del veicolo sia sotto il profilo della riduzione a metà della durata della sospensione della patente di guida.
4.3. Corte costituzionale, 27/10/2023, n. 194
Successivamente il giudice delle leggi è stato chiamato a pronunciarsi circa la legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2 bis, codice della strada (guida in stato di ebbrezza aggravato dall’aver provocato un incidente stradale) per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui prevede l'applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida qualora, per il conducente che provochi un incidente stradale, sia accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), a seguito di ordinanza con cui il giudice rimettente ipotizzava nell’automatismo della previsione (“la patente è sempre revocata”) la violazione del principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta di volta in volta posta in essere anche alla luce della natura anche punitiva (oltre che preventiva) della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida.
Il giudice delle leggi ha innanzitutto ritenuto che “la fattispecie di guida in stato di ebbrezza di cui all'art. 186 cod. strada si declina secondo una precisa ed articolata graduazione che accomuna pena principale e sanzione accessoria in una scala di gravità progressivamente maggiore. In tal modo, l'impianto sanzionatorio, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede diversi "gradi di intensità" della violazione, ai quali corrispondono differenti livelli di sanzioni in progressione crescente finalizzati alla prevenzione e repressione di comportamenti pericolosi per gli utenti della strada.
Il divario tra le varie misure - detentive, pecuniarie e accessorie - è correlato all'incremento della pericolosità della condotta, graduata sulla base del livello del tasso alcolemico. In particolare, la sanzione amministrativa accessoria è determinata in un intervallo che va dalla sospensione della patente di guida per tre mesi, per le condotte meno gravi, fino alla revoca della patente, per la condotta più grave. Tale è la guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, ove la condotta sia aggravata per aver il conducente provocato un incidente.
Tale circostanza aggravante, che mostra che il superamento della soglia di 1,5 g/l di tasso alcolemico è stato tale, in concreto, da aver compromesso il controllo dell'autovettura, individua e sanziona una condotta particolarmente pericolosa, quale che sia l'entità dell'incidente, e rende non irragionevole che, anche a fini di deterrenza per la salvaguardia della sicurezza pubblica nella circolazione stradale, sia collocata in cima alla scala delle condotte sanzionate in misura progressivamente più elevata.”
Sul punto per cui in alcuni casi la revoca della patente costituisca il primario (se non unico) ruolo afflittivo la Corte costituzionale nella stessa pronuncia ha, altresì, affermato che “L'eventualità che la revoca della patente di guida mantenga un primario ruolo afflittivo, permanendo come unica misura punitiva concretamente efficace, risulta, poi, coerente sia con la finalità preventiva della sanzione, perché consente di evitare che il reo ricrei la situazione di pericolo per un congruo periodo di tempo; sia con la finalità deterrente, perché sollecita una maggiore consapevolezza della gravità del comportamento; sia con la funzione rieducativa, perché impone al condannato di affrontare il percorso di esami che lo abilita alla guida per ottenere la nuova patente, instaurando un processo virtuoso tramite una utile formazione finalizzata alla prevenzione.”
Alla luce di ciò la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 186, comma 2-bis, cod. strada, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost. (Corte cost., 27/10/2023, n. 194).
5. Cass. civ., Sez. II, 01/02/2024, n. 3019
5.1. I motivi di ricorso e la decisione
La sentenza in commento ha avuto modo di pronunciarsi in relazione a fattispecie in cui il ricorrente appellava la sentenza con cui il Tribunale (in riforma della sentenza di primo grado del giudice di pace) aveva rigettato l’opposizione alla sanzione accessoria della revoca per tre anni della patente di guida (in fattispecie di guida in stato di ebbrezza aggravata dall’aver provocato incidente stradale) in quanto disposta dal prefetto (a seguito di sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) a decorrere dalla data (2/7/2016) di definitività della sentenza piuttosto che dalla data (3/7/2014) del fatto.
Il ricorso per cassazione denunciava (quale primo motivo) la violazione dell'art. 219, comma 3-ter (codice della strada), in relazione agli artt. 464-bis c.p.p. e 168-bis e ss. c.p., per avere il giudice di appello equiparato la pronuncia di estinzione del reato per esito positivo della prova ad una sentenza di condanna al fine della sanzione accessoria della revoca per tre anni della patente di guida, mentre nella prima ipotesi mancherebbe qualsiasi accertamento positivo della responsabilità dell'imputato.
Nel caso di specie la S.C., ha ritenuto di estendere quanto affermato dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 75/2020 (illegittimità della previsione della confisca del veicolo) in relazione a un giudizio avente ad oggetto una fattispecie rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) del codice della strada (guida in stato di ebbrezza non aggravato dall’incidente stradale) anche all’ipotesi della revoca della patente conseguente alla fattispecie di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada (guida in stato di ebbrezza aggravato dall’incidente stradale).
La pronuncia richiama la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 224 ter, comma 6, del codice della strada (di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 75/2020) ritenendo di estendere i principi sottesi alla detta pronuncia del giudice delle leggi anche al caso in cui la sanzione irrogata sia la revoca della patente.
La ratio dell’estensione del principio non appare convincente sotto diversi profili.[1]
5.2. Profili di criticità
a) In primo luogo deve evidenziarsi che la richiamata sentenza del giudice delle leggi non ha dichiarato “tout court” incostituzionale l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo da parte del prefetto per il solo fatto di essere disposta in occasione di una dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ma ha dichiarato l’incostituzionalità (alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost.) della previsione di cui all’art. 224 ter, comma 6, del codice della strada in quanto irragionevole per diversità di trattamento rispetto al caso sostanzialmente identico disciplinato dall’art. 186, comma 9 bis, codice della strada che prevede la revoca della confisca del veicolo in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità (quale pena sostituiva irrogata nelle ipotesi di reato di cui all’art. 186, comma 2, del codice della strada) con espressa esclusione dell’ipotesi di cui al comma 2 bis (guida in stato di ebbrezza aggravata da incidente stradale);
b) l’identica ratio ha comportato la successiva (Corte cost. n. 163/2022) dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 224, comma 3, del codice della strada nella parte in cui non prevede(va) che, nel caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool di cui all'art. 186, comma 2, lettere b) e c), per esito positivo della messa alla prova, il prefetto, applicando la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, ne riducesse la durata della metà.
Le due pronunce hanno restituito coerenza e parità di trattamento a fattispecie stratificatesi nel corso degli anni in maniera non coordinata all’interno del microsistema dei trattamenti sanzionatori penali e amministrativi accessori in relazione a istituti (estinzione del reato per svolgimento di lavori di pubblica utilità quale pena sostitutiva ovvero per messa alla prova ex art. 168 bis c.p.) ritenuti dal giudice delle leggi sostanzialmente identici per contenuti e finalità.
c) l’estensione operata dalla pronuncia della S.C. comporterebbe l’automatismo secondo cui nel caso di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova verrebbe meno la sanzione accessoria della revoca della patente anche nel caso del reato di guida senza patente aggravato da incidente stradale.
Tale lettura da un lato sembra non aver tenuto conto che le due pronunce di incostituzionalità sono espressamente legate alle violazioni di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) con espressa esclusione (sia a livello normativo che nelle pronunce della Corte costituzionale) della fattispecie di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada e dall’altro risulta in contrasto con la previsione di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice della strada (“la patente di guida è sempre revocata”) ritenuta del tutto legittima dal giudice delle leggi (Corte cost. n. 194/2023) e già precedentemente ritenuta conforme ai principi costituzionali anche dalla giurisprudenza di legittimità in sede penale (Cass. pen., Sez. IV, 1/3/2021, n. 7950)
La pronuncia, inoltre, risulta essere in contrasto con la previsione di carattere generale di cui all’art. 168 ter, comma 2, c.p. secondo cui l’estinzione del reato per esito positivo della prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (previsione espressamente non derogata nel caso di guida in stato di ebbrezza del conducente che provochi un incidente stradale dalla disciplina speciale del codice della strada che invece prevede parziale deroga esclusivamente alle sole ipotesi di guida in stato di ebbrezza senza che da ciò sia derivato un incidente stradale).
Alle considerazioni sopra richiamate da ultimo, ma con valore che appare risultare dirimente, deve aggiungersi la considerazione secondo cui ove si accogliesse la tesi della S.C. risulterebbe alterata e addirittura irragionevolmente rovesciata, sino a risultare illegittima per violazione dell’art. 3 Cost., la progressione sanzionatoria (valutata legittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2023) in materia di guida di stato di ebbrezza in quanto per violazioni più lievi sarebbero previste sanzioni più afflittive di quelle previste per le violazioni più gravi e, in particolare:
a) nelle ipotesi più lievi di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c), a seguito dell’esito positivo della messa alla prova, il prefetto deve applicare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente con riduzione alla metà;
b) nel caso più grave (guida in stato di ebbrezza con conducente che provochi un incidente stradale) a seguito dell’esito positivo della messa alla prova (venendo meno la possibilità di disporre la revoca da parte del prefetto) non sarebbe applicabile alcuna sanzione amministrativa accessoria né da parte del giudice né da parte del prefetto[2].
Tali conseguenze confliggerebbero in maniera evidente con la ratio sottesa all'art. 186, comma 2bis (ipotesi contravvenzionale di pericolo), che prevede come obbligatoria la revoca della patente di guida per l'ipotesi in cui il conducente, che versi in stato di ebbrezza, con tasso alcolemico accertato superiore a 1,5 g/l, abbia provocato un incidente stradale; tale ratio deve essere ricercata nella volontà del legislatore di punire più gravemente condotte nelle quali la turbativa alla sicurezza della circolazione sia correlata all'accertamento dello stato di ebbrezza del conducente, in quanto ritenute maggiormente idonee a porre in pericolo l'incolumità personale dei soggetti e dei beni coinvolti nella circolazione (Cass. pen., Sez. IV, Sent., 1/3/2021, n. 7950).
Le suesposte considerazioni appaiono ancor più rilevanti se solo si osserva che la Corte costituzionale ha ritenuto che lo stato di un soggetto che si trovi in una condizione di ebbrezza data dal superamento della soglia di 1,5 g/l, ovvero quella collocata nella "fascia" di maggiore gravità della disposizione sanzionatoria penale, dia luogo a una condizione particolarmente pericolosa e che anche l'eventuale modestia dell'incidente causato non sia tale da smentire la rilevanza della condotta, trattandosi di "comportamento altamente pericoloso per la vita e l'incolumità delle persone, tenuto in spregio del dovuto rispetto di tali beni fondamentali", rendendo quindi giustificabile una severa misura "di natura preventiva" (oltre che punitiva) tendente alla protezione di beni giuridici primari; con la conseguenza che la scelta di non operare un'eventuale graduazione della sanzione, a seconda della gravità dell'incidente - rendendo automatica la sanzione della revoca - risponde a un criterio di prevenzione generale non irragionevole, data la sua valenza preventiva e deterrente (in tal senso si veda Corte cost., 27/10/2023, n. 194 e, da ultimo, Cass. pen., Sez. IV, Sent., (data ud. 08/01/2025) 20/02/2025, n. 7015).
6. Considerazioni finali sull’automatismo della revoca
6.1. L'automaticità della revoca della patente è conseguenza di una scelta legislativa (non pregiudicata nel caso di estinzione del reato per qualsiasi causa) escludente, a priori, qualsivoglia discrezionalità amministrativa nei confronti del soggetto che ricade nelle condizioni stabilite dalla norma (“…. Qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), …….., la patente di guida è sempre revocata”).
Sulla base del dato normativo deve, pertanto, escludersi che l'accertamento delle circostanze di fatto al ricorrere delle quali è disposta la revoca della patente, secondo quanto previsto dall'art. 186, comma 2 bis, del Codice della Strada, configuri detto esercizio di potere amministrativo in termini di potere discrezionale, trattandosi al contrario di pura attività di riscontro di dati univoci, nella quale non è insita alcuna operazione di bilanciamento di interessi, ovvero alcuna valutazione di opportunità funzionale al perseguimento di uno scopo pubblico positivamente determinato (Cons. Stato, Sez. III, 26/4/2024, n. 3843, nonché Cons. Stato, Sez. III, 18/6/2019, n. 4136).
6.2. Nel delineato contesto normativo di riferimento non può, infine, assumere alcun rilevo la circostanza secondo cui la sentenza di non luogo a procedere per intervenuta estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova non comporta l’accertamento della responsabilità dell’imputato.
A tal proposito, infatti, deve rilevarsi che la Corte costituzionale con riferimento alla sospensione per messa alla prova del processo minorile, ha posto l'accento sul fatto che "presupposto concettuale essenziale del provvedimento, connesso ad esigenze di garanzia dell'imputato, è costituito da un giudizio di responsabilità penale che si sia formato nel giudice, in quanto altrimenti si imporrebbe il proscioglimento" (Corte cost. 14/4/1995, n. 125).
Tali conclusioni sono state ritenute riferibili anche alla messa alla prova dell’imputato adulto come si desume dall’art. 464 quater, comma 1, c.p.p. “laddove è previsto che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta a meno che il giudice non ritenga di dover pronunciare una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; altro argomento per una lettura in tal senso si desume dalla circostanza che la messa alla prova prevede lo svolgimento di attività dirette all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti da reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno, e dunque il richiamo al reato e al pregiudizio che ne deriva richiede necessariamente un accertamento positivo della sua sussistenza e della responsabilità dell'agente” (Cass. pen., Sez. IV, 17/11/2020, n. 32209).
Quanto sopra evidenziato comporta che l’estinzione del reato ex art. 168 ter, comma 2, c.p. a seguito dell’esito positivo della prova presuppone comunque l’avvenuto accertamento del fatto-reato (pur senza che si sia addivenuti ad una pronuncia di penale responsabilità) con conseguente legittimo automatismo della revoca della patente legato alla mera verifica ex art. 224, comma 3, secondo periodo, del codice della strada della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 186, comma 2 bis, secondo periodo del codice della strada (tasso alcolemico >1,5 e incidente stradale).
[1] In tal senso si veda anche Giudice di Pace Gorizia, 3/3/2025 n. 37, Giudice di Pace Gorizia, 1/7/2024, n. 115 confermata da Tribunale di Gorizia, 9/5/2025, n. 116, Giudice di Pace di Gorizia, 24/5/2024, n. 82, confermata da Tribunale Gorizia, 16/4/2025, n. 99.
[2] In tal senso si veda Giudice di Pace Gorizia, 3/3/2025 n. 37, Giudice di Pace Gorizia, 1/7/2024, n. 115 confermata da Tribunale di Gorizia, 9/5/2025, n. 116.
Immagine: Marine Drive leaving the overflow car park by Roger A Smith via Wikimedia Commons.
Dopo aver sceso le scale di casa sulle quali campeggia la locandina di Persepolis di Marjane Satrapi (e Vincent Paronnaud), salgo in auto e ascolto alla radio una rassegna stampa sempre più dolorosa e sconfortata. Ripenso all’amato e mai dimenticato cinema iraniano. E ripropongo la recensione della pellicola Il male non esiste di Mohammad Rasoulof. Talvolta un buon film può suggerire spunti di riflessione che tendiamo a dare per scontati e dunque a tralasciare.
Mohammad Rasoulof, perseguitato, condannato e incarcerato per i suoi precedenti lavori cinematografici, con questo film girato di nascosto per evitare di incorrere nella censura del regime iraniano e vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale del 2020, ci dice con voce calma ma forte e chiara che non esiste scelta obbligata.
Con uno stile che talvolta potrebbe apparire programmatico, ma forse per questo ancora più crudo (seppur assai diverso da quello di Taxi Teheran, il documentario del connazionale Jafar Panahi), Il male non esiste ci ricorda - qualora ce lo fossimo dimenticati - che anche la scelta che ci appare più difficile, quella per affrontare la quale abbiamo bisogno di appellarci con forza inaudita alla nostra personale tempra morale, è e resta, in ogni caso, una scelta. È la scelta tragica della tragedia greca, quella che porterà con sé - comunque - conseguenze importanti e inevitabilmente sbagliate, a seconda del nucleo valoriale preso come riferimento.
Per non suscitare eccessivi sospetti sulla produzione cinematografica in corso, il regista suddivide la sua opera in quattro racconti tra loro slegati ma uniti dal fil rouge del dramma etico, dell’uomo posto dinanzi alla “scelta”. Se il ritmo volutamente piatto, quasi assopito, di un’ordinaria dimensione familiare fa del primo un vero capolavoro, sconvolgente per lo spettatore, il secondo acquista un afflato poetico commovente, affidando alla voce ribelle di Milva il Bella ciao delle mondine, uno straziante inno alla libertà che fa da colonna sonora a una fuga illusoria e impossibile, dove l’assenza di lieto fine ci viene lasciata soltanto presumere. Il terzo affronta un tema caro alla letteratura e alla cinematografia, quello dei sentimenti tra persone divise da valori tra loro antitetici, ma riesce a farlo in maniera non eccessivamente didascalica e mai manichea, sottolineando il romantico egoismo giovanile di un ragazzo deciso ad ottenere a caro prezzo tre giorni di licenza per tornare dalla sua amata e chiederla in sposa il giorno del suo compleanno. Un segreto doloroso accompagna, infine, lo spettatore lungo il quarto ed ultimo episodio senza mai sconfinare nel sentimentalismo, racchiudendo in alcune immagini cariche di significato il messaggio confezionato dal regista: sarà una volpe, che si avvicina solo se non vista, allegoria forse del “male”, ma forse anche di un invincibile germe di speranza, a fare capolino nel momento in cui tutto si dipana ed è a lei che, forse, occorre rivolgere la nostra attenzione.
There is no evil è molto più di quattro diversi modi di porsi nei confronti della pena di morte ed è molto più anche della classica riflessione sulla dicotomia tra legge e giustizia, tra reato e crimine e del tormento di coraggiose e disubbidienti Antigoni contemporanee, contrapposte alla viltà (la “banalità del male”) di cui - quasi - tutti, in determinati scenari, saremmo capaci. Non a caso l’idea del film nacque in Rasoulof dall’incontro con uno dei suoi persecutori, seguito a lungo, fino ad accorgersi della totale assenza in lui di alcuna evidente malvagità: il regista vi scorse soltanto il volto anonimo e ordinario del grigio burocrate, privo di coraggio e integrità, al pari di quello conosciuto e descritto da Hannah Arendt al processo di Adolf Eichmann.
Quest’opera, distribuita da Satine Film con il patrocinio di Amnesty International, è una lente d’ingrandimento sul magma ove è racchiusa tutta la potenza dell’umanità, nella sua fragilità e nella sua ineliminabile finitudine, ciò che rende l’umano nell’uomo così stupefacente e affascinante in ogni sua sfaccettatura.
La bontà risiede nei singoli e perciò fragili gesti di alcuni dei personaggi che si muovono negli episodi di cui è composta la preziosa pellicola, ma in questa fragilità è racchiusa tutta la loro potenza e il segreto della loro immortalità e, dunque, della loro invincibilità, anche dinanzi al più dispotico dei regimi.
È il grido di allarme che ognuno deve sentire nel profondo della propria coscienza e al quale appigliarsi per restare umani, nonostante tutto.
“Le persone dimenticate”: l’OCF al CNEL rilancia la riforma del sistema carcerario
Roma, 10 luglio 2025 – In piena estate, con temperature record, le carceri italiane si trasformano in trappole di calore. Celle roventi, sovraffollamento, strutture fatiscenti e personale insufficiente rendono le condizioni di detenzione non solo disumane ma pericolose per la salute e la vita dei detenuti e degli operatori. È da questo scenario estremo che l’Organismo Congressuale Forense (OCF) ha scelto di partire per rilanciare con urgenza una riforma profonda del sistema penitenziario, durante l’evento “Le persone dimenticate”, ospitato oggi al CNEL.
I numeri parlano da soli: 62.722 detenuti in spazi pensati per 46.706, con un tasso di sovraffollamento del 134,29%. A ciò si aggiungono 34 suicidi tra i detenuti e 2 tra gli agenti penitenziari dall’inizio dell’anno, segno di un malessere diffuso che il caldo estremo sta solo esasperando. Celle senza aria condizionata, ambienti chiusi e affollati, mancanza di personale e impossibilità di accedere a percorsi rieducativi rendono il carcere un luogo invivibile.
“In troppe carceri italiane si muore di caldo, di abbandono e di silenzio. La pena detentiva, per Costituzione, deve tendere alla rieducazione. Ma come può esserci riscatto laddove si nega la dignità umana più elementare, come l’accesso a un ambiente vivibile? Questo non è più solo un tema di giustizia penale, ma una questione morale e civile”, ha dichiarato il Coordinatore dell’OCF Mario Scialla.
L’incontro è stato aperto dal Presidente del CNEL Renato Brunetta, che ha dichiarato “Il tema carcerario non può più essere affidato solo alla buona volontà dei singoli. Stiamo parlando di un universo di oltre 250.000 persone coinvolte, tra detenuti, soggetti in esecuzione esterna e in attesa di esecuzione della pena. Per dare risposte strutturali, non bastano le buone pratiche isolate: servono interventi sistemici, replicabili in tutti i 189 istituti penitenziari italiani. È questo il nostro “coefficiente di razionalità”. Per questo, abbiamo avviato un accordo con Cassa Depositi e Prestiti, coinvolgendo le sue partecipate, per promuovere numerosi progetti di investimento in carcere: spazi, formazione, capitale umano, logistica, tecnologie, contrattualistica. Parallelamente, stiamo lavorando per includere i detenuti nella piattaforma SIISL del Ministero del Lavoro, nata per il matching tra domanda e offerta per i soggetti più fragili. Un’infrastruttura che, se estesa anche al mondo penitenziario, potrà diventare uno strumento reale di reinserimento sociale e lavorativo. È un lavoro complesso, ma necessario. Solo dando struttura, visione e continuità all’azione istituzionale, potremo onorare davvero l’articolo 27 della nostra Costituzione”.
La giornata ha visto la partecipazione di giuristi, accademici, operatori del settore e testimoni diretti come Beniamino Zuncheddu, che ha raccontato i suoi trent’anni di ingiusta detenzione, e Andrea Noia, esempio concreto di reinserimento sociale attraverso il lavoro.
L’OCF ha ribadito l’urgenza di una riforma su tre direttrici principali:
Investimenti strutturali: non solo nuove carceri, ma riqualificazione dell’esistente, con spazi adeguati per attività formative, lavorative e trattamentali. Fondamentale anche garantire il diritto all’affettività, come stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 10/2024.
Potenziamento delle misure alternative: comunità terapeutiche, case famiglia, centri di servizio sociale, per favorire percorsi di pena che permettano il reinserimento nel tessuto sociale, in una logica non emergenziale ma di sistema.
Riforma del processo esecutivo: snellimento del procedimento di sorveglianza e rafforzamento del ruolo della difesa anche nella fase esecutiva, attraverso la formazione specialistica degli avvocati e il dialogo interdisciplinare con magistrati, educatori, psicologi e terzo settore.
Inoltre, è stata rilanciata la necessità di valutare la proposta di legge sulla liberazione anticipata come strumento immediato per alleggerire la pressione interna, nell’attesa di riforme strutturali.
Il messaggio è chiaro: il carcere non può essere una zona grigia della Repubblica. È lo specchio del nostro grado di civiltà democratica.
Dal copione di Senza titolo: (…) Cesare (Lucio) – Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono delle ali. – (Dopo aver citato Marinetti, chiude il taccuino. Un lungo silenzio. Poi, esce dal suo perimetro detentivo, dalla sua scatola, torna verso la sua branda e continua…) – Delle ali. Anche nella mia carne, forse. Anche qui, dove tutto sembra fermo e dove non è possibile volare se non in sogno. –
Cesare (Lucio) – Ho sognato un carcere in cui ogni porta era un quadro, La coscienza di Cesare (Fabio): -ogni ora un colore, Cesare (Fabio) – ogni urlo una canzone, Cesare (Lucio) – e ogni pena una poesia. Cesare (Fabio) – Non pareti, ma pensieri. Cesare (Bruno)– Dove il tempo non si conta, non si ferma, Cesare (Lucio)– Dove i corpi danzano in scatole che si aprono, Cesare (Fabio) – Dove la punizione è costruire qualcosa di bello. Cesare (Fabio) – Un carcere del futuro! Cesare (Lucio) – Un carcere del futuro Cesare (Fabio) – Un carcere del futuro…
(Foto di Marta Baciocchi)
Senza titolo-Manifesto per un carcere futurista non è stato solo uno spettacolo. È stato un lavoro estremo, sofferto: da loro, i detenuti, ma anche da noi. È stato un atto di resistenza dentro il momento più difficile che io abbia vissuto in quasi trent’anni di carcere. Il carcere, oggi, è una polveriera. La Polizia Penitenziaria è sottorganico, stremata da turni doppi per coprire la mancanza di personale. In Alta Sicurezza i detenuti sono chiusi nelle camere di pernottamento tornate celle. Nei transiti, negli spazi comuni, nei passeggi ovunque, d’estate, si bolle. E quando dico “si bolle” non parlo solo di calore fisico, ma di nervi che saltano, di umanità che rischia di perdersi. In questo scenario infernale, riuscire a mettere in scena Senza titolo è stato, lo dico senza retorica, un vero miracolo. Perché Senza titolo non è solo il racconto del carcere. È il tentativo disperato e necessario di rovesciare lo sguardo, di cambiare visuale, di non accettare il carcere come puro luogo di pena. Nel nostro Manifesto del carcere del futuro, scritto insieme ai detenuti e distribuito a tutto il pubblico, c’è un articolo che grida più forte di tutti il senso del nostro lavoro.
È l’ultimo del manifesto-[1], l’Articolo 18, e parla di teatro: -Il teatro è un’esplosione! Il teatro in carcere non è intrattenimento, è detonatore. Fa saltare le sbarre simboliche, scardina i ruoli fissi, apre crepe nei muri del giudizio e del pregiudizio. È un atto di verità che smonta la finzione della pena come fine. Sul palco, il detenuto non finge, si espone. Il teatro non cura, ma rivela; non salva, ma trasforma. Ogni prova è un rischio, ogni replica un’esistenza che si mette in discussione. La scena diventa il solo luogo dove un uomo può essere interamente sé stesso o altri, senza paura, senza numero, senza etichetta, dove le sue emozioni tornano ad essere. Fare teatro in carcere è atto politico, gesto umano, urgenza civile. È un patto tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi guarda e chi si fa vedere. È la prova vivente che la bellezza resiste anche dove tutto sembra spento. Per questo: non togliete il teatro alle carceri. Portiamolo ovunque. Facciamolo crescere, contaminate la giustizia con l’arte. Perché là dove nasce una scena, può finire una condanna.
Abbiamo costruito Senza titolo lavorando giorno e notte. Io e i detenuti insieme a Pina Segoni , Sara Ragni e Anna Flamini, abbiamo curato ogni dettaglio della mise en scène per uno spettacolo che sentivamo necessario. Non uno spettacolo da salotto ma un grido collettivo. Un’esperienza che nascesse dal corpo vivo dei detenuti e dalla loro urgenza di parola. La musica di Anna Flamini non è solo colonna sonora: è carne viva. Ha dentro il battito d’ansia, la malinconia, la furia, la nostalgia di casa. Si intreccia ai suoni registrati dal vero: porte blindate che sbattono, carrelli portavitto, chiavi nelle serrature, cancelli, passi veloci, brusii di voci lontane. Non sono effetti. È la vita vera del carcere che entra in teatro. È la voce del carcere. Come le scene, i costumi-pensieri, le cattedre patibolo, le grate i blindi tutto è stato prodotto a Maiano in un carcere che diventa teatro per qualche giorno e contamina lo spazio e il tempo della pena e si confronta con il pubblico del festival e la città. Lo spettacolo, frutto di un anno di lavoro laboratoriale, è dedicato alla memoria di Sergio Lenci, architetto visionario e progettista della Casa di Reclusione di Spoleto, di Rebibbia e di Livorno. Lenci fu vittima del terrorismo di Prima Linea per la costruzione di Maiano, colpevole di aver immaginato un carcere “troppo umano”: un’architettura in stretto dialogo con il paesaggio e la città, capace di ridurre il potenziale rivoluzionario tra i reclusi. Aveva concepito spazi penitenziari trasformabili, meno punitivi, una sorta di città di passaggio e non un luogo perenne destinato agli scarti della società, e sognava un futuro in cui il carcere stesso non sarebbe più esistito. Il suo sogno, bruscamente interrotto dalla violenza, rappresenta oggi la radice da cui proviamo a ripartire. Senza titolo è stato uno spazio di libertà di pensiero e di parola. Sul doppio palco, realtà e sogno si alternano: azioni palesi si intrecciano ad azioni surreali, in un contrasto emotivo ed estetico tra distorsioni e messe a fuoco. La narrazione, nella dimensione della realtà, segue Cesare, ex artista ora detenuto, che rivendica l’idea che il carcere non sia solo luogo di detenzione, ma anche spazio per ridefinirsi. La creatività e l’arte diventano mezzi per sfidare i limiti della condizione ristretta. La scena urbana reale, quella del carcere progettato da Lenci, fa da fondale ai due palchi bianco e nero, enfatizza questa trasformazione ed accoglie la scena di un interno, come se il pubblico guardasse tra le sbarre oblique delle finestre, dall’altro lato i Signori Consonante e i Signori Vocale con copricapi e costumi sacerdotali si arrampicano su cinque troni patibolo e si sfidano in tre ring linguistici, dove la parola è insieme arma, confessione e speranza, è una parola che scomparirà nel sesto quadro, il Signor O, .iu.e..e .e..o.e, detto Rinnegato, ergastolano, in carcere da 32 anni, interprete e autore del testo onirico, impastato di non senso, è inquisitore, testimone e imputato allo stesso tempo. Cesare e i compagni detenuti si interrogano: -La Giustizia non deve essere vendetta. La giustizia deve tendere alla bellezza. La giustizia può essere bella? La parola Bellezza risuona più volte dai megafoni degli speakers che fanno da contrappunto al: -…conta uomini, conta chiavi, conta cancelli conta…- : La domanda – se la giustizia possa essere bella – è il cuore pulsante del nostro spettacolo. Cesare è un ex artista, oggi detenuto, che sogna un carcere trasformato in spazio di bellezza e rinascita. Il suo nome rimanda subito a tanti altri Cesare in particolare: il Cesare dei Taviani e Cavalli a Rebibbia, il Cesare di Shakespeare, e il sonnambulo de Il gabinetto del dottor Caligari (1920). Quest’ultimo è il riferimento a noi più vicino. Entrambi vivono imprigionati: il Cesare sonnambulo di R. Weine è chiuso in una bara, strumento di morte nelle mani di Caligari; il nostro Cesare è rinchiuso in una cella scatola, sospeso tra sogno e realtà, tra desiderio di libertà e mura invalicabili. Sono figure parallele: corpi osservati, manipolati. Ma se il Cesare di Weine resta vittima di un potere tirannico, il nostro tenta di ribellarsi, di svegliarsi dal sonno in cui lo hanno confinato. Entrambi abitano mondi deformati: linee oblique e ombre nere nel film, sbarre, blindi e piani inclinati nel carcere. Ma nonostante tutto, il nostro Cesare sogna ancora di trasformare quelle sbarre in parole, in arte, in libertà. Nel crescendo drammatico, l’opera culmina con la costruzione del Manifesto del Carcere del Futuro, atto collettivo e corale che non si limita a evocare desideri astratti, ma si radica profondamente nella storia e nelle prospettive della giustizia penale italiana. Questo Manifesto prefigura il carcere non più come luogo esclusivamente punitivo, ma come un laboratorio di innovazione culturale e crescita personale, dove la pena perda la sua dimensione vendicativa per assumere una funzione di cura, di reinserimento e di riduzione di recidiva nel ritorno in libertà. La redazione del Manifesto si ispira esplicitamente agli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015–2016), promossi dal Ministero della Giustizia per ripensare il senso della pena, i 18 tavoli di Rebibbia coinvolsero magistrati, operatori, studiosi, volontari e società civile. Convinti che sicurezza e rieducazione non siano in contrasto, ma debbano camminare insieme; allo stesso tempo, inoltre il testo drammaturgico analizza e cita la grande stagione riformatrice della Legge 354/1975 (Ordinamento Penitenziario), che per la prima volta pose al centro il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione). Una legge che compie 50 anni e che, pur tra tante difficoltà, ha segnato un passaggio storico verso una giustizia più umana e costituzionale. È in questo solco che si colloca il Manifesto del Carcere del Futuro, composto volutamente di 18 articoli e un articolo introduttivo, lo zero. Il numero non è casuale: è un omaggio sia all’Articolo 18 della Costituzione, che garantisce la libertà di associazione sia ai 18 tavoli di Rebibbia… Ecco l’epilogo della nostra storia, un manifesto per cambiare con Senza Titolo abbiamo portato in scena la vita vera, abbiamo chiesto al pubblico di farsi attraversare da una domanda: La giustizia, quella vera, può essere anche un atto di bellezza? Io credo di sì. Anche se è difficile. Anche se costa lacrime, fatica, notti insonni, porte chiuse in faccia. E mi tornano in mente, potentissime, le parole di Peter Brook nella sua definizione di ciò che dovrebbe essere il teatro, anche e soprattutto il teatro in carcere: “Il teatro non è estraneo alla vita. Il vero teatro si occupa di esseri umani, di creare per loro una esperienza che va oltre l’ordinario, una sorpresa, così che quando lasci il teatro senti di aver ricevuto qualcosa che non avevi.” Ecco. Io spero che chi ha vissuto Senza titolo sia uscito portandosi via almeno una cosa: la convinzione che la giustizia non deve essere vendetta. Deve tendere alla bellezza. E può, forse, essere bella.
Ringrazio apertamente chi ci ha sostenuto nelle difficoltà: la Direttrice, la Comandante, il Magistrato di Sorveglianza, l’Area Educativa, tutta la Polizia Penitenziaria, l’ufficio di sorveglianza, gli agenti delle scuole, della MOF, della Falegnameria, della segreteria, del Nucleo, gli agenti GOM. Senza il loro coraggio e la loro disponibilità, questo spettacolo non sarebbe mai esistito.
Ringrazio Monique Veaute, Paola Macchi, Roberto e Ruggero Lenci, la fondazione Festival e la Fondazione Francesca Valentina e Luigi Antonini, i docenti e il dirigente del percorso di secondo livello artistico dell’IIS Sansi-Leonardi-Volta, lo spettacolo è nel programma di ARTI IN DIALOGO progetto dell'associazione culturale Atalante è stato in parte finanziato con i Fondi per il Bando Sostegno Spettacoli dal vivo anno 2024 PR FESR 2021-2027. Az. 1.3.4 della Regione Umbria.
Giorgio Flamini (direttore artistico di #SIneNOmine)
(Foto di Vinnie Porfilio)
[1] Art.0 -Scriviamo questo manifesto perché crediamo nel dialogo, nella possibilità di cambiare insieme. Scriviamo questo manifesto per parlare con voi, con le istituzioni, con la società tutta. Scriviamo perché crediamo che anche nella carne ferita dell’uomo dormano ali chiuse, pronte a schiudersi. Scriviamo perché non vogliamo distruggere, ma crescere, tornare trasformati, restituirci migliori, più vivi, più degni. Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1 – Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
Art.2 – Lavoro vero! Basta spazzare cortili senza senso. Manifattura, cucina, carpenteria, digitale, agricoltura, arte: lavoro dignitoso, utile, retribuito. Chi crea, si ricrea.
Art.3 – Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come «evasione buona». Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita. Art. 4 – Il trattamento è cammino! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
Art. 5 – Amore senza censura! Affetti, relazioni, figli, compagni, un bacio può essere rivoluzione. La cella non è un muro tra i corpi. La distanza è già pena, non va aumentata. Art.6 – Liberi fuori! Anche dentro! Le misure alternative sono libertà vigilata dal senso, non pena soft ma giustizia viva. Chi esce prima, spesso non torna più.
Art.7 – Riparare è umano! Giustizia è voce reciproca. Rei, vittime, comunità: si parla, si ascolta, si ripara. Chi chiede perdono può essere oltre la condanna. La vittima è al centro. Il corpo detenuto non è proprietà dello Stato. Chi soffre va curato, non punito due volte.
Art.12 – Proteggere i fragili! Anziani, disabili, trans, persone in crisi: il carcere non è uguale per tutti. Serve delicatezza, non indifferenza. Ogni corpo ha diritto alla sua misura.
Art. 13 – Il Terzo Settore è ossigeno! Volontari, associazioni, mediatori, facilitatori: non ospiti e visitatori ma costruttori . Il carcere non cambia da solo. Servono mani, sguardi, parole altre.
Art.14 – Alfabetizzare all’uso del digitale! Accesso, formazione, preparazione per il dopo. Corsi per tornare a vivere nel presente. Anni di carcere ti lasciano indietro: il carcere può accompagnarti al futuro.
Art. 15 – La pena è ovunque! L’esecuzione penale esterna non è fuga, è presenza altra: case, comunità,
lavori di pubblica utilità, istruzione. La pena si può scontare tra gli altri, non contro.
Art.16 – Cambiare lo sguardo! Media, giornali, TV: il carcere non è fiction. Non servono allarmi, ma alfabetizzazione emotiva. Chi sbaglia può cambiare. Chi giudica, lo consideri.
Art.17 – Anche la legge deve tendere alla bellezza! Norme, regolamenti, burocrazie: il carcere è pieno di scarti giuridici. Il codice deve respirare con il corpo.
Art18 – -: -Il teatro è un’esplosione!....
Si veda anche Il carcere futurista al Festival dei Due Mondi di Fabio Gianfilippi.
La foto in copertina è di Vinnie Porfilio.
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