ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Algoritmi e intelligenza artificiale alla ricerca di una definizione: l’esegesi del Consiglio di Stato, alla luce dell’AI Act
di Federica Paolucci*
Sommario: 1. Introduzione - 2. La valutazione del giudicante - 3. Attualità della decisione: uno sguardo al dibattito Europeo - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Il Consiglio di Stato ha emesso in data 25 novembre 2021 una sentenza che si appunta sulla valutazione dell’offerta tecnica in una gara di appalto avente ad oggetto la fornitura di pacemaker[1]. A seguito dell’impugnazione della sentenza del TAR della Lombardia, i giudici di Palazzo Spada hanno dapprima accolto la richiesta cautelare di sospensione della sentenza de qua, ritenendo meritevole di approfondimento in sede di merito la questione della «perimetrazione tecnica della nozione di “algoritmo di trattamento” riferita ad un peacemaker di alta fascia»[2]. Tale aspetto è divenuto il thema decidendum del giudizio di merito. Ivi, in particolare, ha assunto un ruolo centrale l’interpretazione del concetto di “algoritmo automatico” e la distinzione tra algoritmo e intelligenza artificiale. La decisione del Consiglio di Stato riflette su un problema che da anni interroga tecnici, filosofi e giuristi, e, nel farlo, fornisce un’interessante distinzione dei due concetti. Sebbene tale classificazione possa apparire di mero carattere tecnico, in realtà, come si tenterà di motivare nel presente contributo, è di centrale rilevanza. La digitalizzazione cui, difatti, si sta assistendo negli ultimi anni ha visto un crescendo nell’utilizzo e nell’applicazione di strumenti automatizzati nella vita di tutti i giorni[3]. Pertanto, sia da un punto di vista giuridico sia da un punto di vista di mercato, è cruciale porre l’attenzione su cosa rientri o meno nella categoria di “mero” algoritmo, e cosa, invece, ricada all’interno dell’ombrello dell’intelligenza artificiale. Come si vedrà di seguito, si tratta di un quesito sul quale si stanno interrogando anche le istituzioni europee alla luce della proposta di Regolamento sull’Intelligenza Artificiale, attualmente in fase di discussione[4]. Pertanto, alla luce di queste premesse, ripercorrendo le considerazioni in fatto e in diritto della sentenza n. 7891/2021 del Consiglio di Stato, si cercherà di rileggere queste risultanze nel più ampio quadro della rivoluzione digitale che da tempo sta svelando tutta la complessità tecnica e sociale di uno scenario in cui il diritto a fatica si sta ricavando uno spazio.
2. Le valutazioni del giudicante
La decisione del Consiglio di Stato è figlia della c.d. “società algoritmica”, o anche nota come datacrazia, termine con cui Danaher [5] intende «un sistema in cui gli algoritmi sono utilizzati per raccogliere, collezionare e organizzare i dati su cui vengono tipicamente prese le decisioni e per assistere nel modo in cui quei dati vengono elaborati e comunicati attraverso il relativo sistema di governance». Con questi termini, si intendono una serie di considerazioni in punto di diritto che hanno delle ripercussioni sia sul mondo degli atomi sia sul mondo dei bits[6]. In particolare, la sentenza in commento mostra come vi siano ancora delle insistenti crasi nel momento in cui il mondo delle macchine e quello del diritto si incontrano, provocando l’emersione di quesiti circa la natura talvolta opaca e di difficile comprensione delle prime a scapito della necessità di certezza del secondo.
Con questi intenti, il Consiglio di Stato cerca di far chiarezza tra algoritmo e intelligenza artificiale: una distinzione da cui discende nel caso di specie, l’aggiudicazione o meno dell’appalto. Come si anticipava, i fatti di causa riguardano l’esatta perimetrazione della nozione di “algoritmo di trattamento” nell’ambito e nel contesto di una procedura nazionale di gara per la fornitura di pacemaker di alta fascia[7]. La gara d’appalto aveva previsto tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica, il parametro di algoritmo. In particolare, tale algoritmo doveva essere in grado di effettuare «attività di prevenzione e attività di trattamento delle tachiaritmie atriali»[8]. Dunque, la richiesta della domanda di gare era ben definita: si sarebbero assegnati 15 punti unicamente nel caso di presenza nello strumento proposto di entrambi gli algoritmi; mentre, sarebbero stati assegnati 7 punti nel caso di presenza di solo uno dei due tipi di attività.
Il giudizio del Consiglio di Stato si apre, dunque, con una ricognizione sull’interpretazione delle clausole della lex gara, intesa come una lex specialis[9], alla luce di una giurisprudenza oramai consolidata. L’interpretazione che si deve dare delle clausole in oggetto, anche da una lettura dell’art. 1362 c.c., deve preferire l’aderenza al tenore letterale delle stesse. Tale criterio è del tutto compatibile con il diritto amministrativo, attesa la natura degli atti che disciplinano le gare in quanto espressione della volontà della Pubblica Amministrazione, come anche chiarito dal Consiglio di Stato in precedenti pronunce[10].
Fatte queste considerazioni, i giudici si sono poi soffermati sull’interpretazione della clausola controversa. Difatti, sebbene il bando specificasse solamente la richiesta di dispositivi di “alta fascia”, la Commissione aveva attribuito il punteggio massimo riconoscendo la presenza sia del criterio della prevenzione sia del criterio del trattamento solo nel caso di “algoritmi automatici”[11]. Tale aspetto diveniva dapprima oggetto del ricorso dinanzi al Tar della Lombardia, i cui giudici davano ampio rilievo a una definizione di algoritmo distinta dal concetto di automatismo. Il giudice di prima cure basava il proprio giudizio su una definizione di algoritmo ancorata al concetto di «insieme di passaggi»[12], nel caso di specie, stimoli creati dal pacemaker. L’analisi prospettata dal giudice esclude, dunque, pressoché totalmente, che l’algoritmo possa avere alcuna capacità di automazione, ove si afferma che, qualora fosse questo il caso, atterrebbe a un plus, di fatto non richiesto dalla lex gara.
Entrambi gli organi giudicanti aderiscono a una definizione di algoritmo come una sequenza definita di azioni. Ed è questo effettivamente il caso, in quanto un algoritmo “basico” può essere definito come un viaggio tra un input definito e un output definito, riproducendo capacità di calcolo dietro un processo decisionale basato su una formula matematica[13]. In altre, parole, il misteriosissimo algoritmo non è altro che un set di istruzioni, piuttosto rigido, che entra in funzione quando incontra un innesco.
Il Consiglio di Stato, sulla base di queste premesse, pur abbracciando la definizione prospettata in prima battuta dal Tar, se ne discosta, osservando che tale «nozione, quando è applicata a sistemi tecnologici, è ineludibilmente collegata al concetto di automazione ossia a sistemi di azione e controllo idonei a ridurre l’intervento umano»[14]. Nell’ottica proposta dai giudici di Palazzo Spada, la nozione tradizionale di algoritmo assume una nuova luce all’interno dell’evoluzione tecnica, assurgendo al compito di agevolatore dell’analisi umana, capace di processare con accuratezza sistemi complessi, anche tramite impulsi automatizzati.
Ad ogni buon conto, tutt’altra cosa è l’intelligenza artificiale, ove i meccanismi di machine learning creano un sistema che non si limita ad applicare e replicare serie di comandi o impulsi. Difatti, nella lettura del Consiglio di Stato, l’intelligenza artificiale va oltre la mera riproduzione di un compito delegato dall’essere umano, essendo capace, sulla base delle regole definite dal proprio programmatore, di elaborare in modo autonomo criteri di inferenza tra i dati forniti, secondo procedimenti di apprendimento sia assistititi – è il caso del supervised machine learning – sia autonomi – ed è il caso del unsupervised machine learning[15].
Dalla precisazione del Consiglio di Stato consegue, nel caso di specie, che per ottenere la fornitura di un dispositivo con elevato grado di automazione, non occorreva che l’amministrazione facesse espresso riferimento a elementi di intelligenza artificiale, essendo del tutto sufficiente il richiamo al concetto di algoritmo fatto nel bando. Difatti, come si è detto, la lex gara si era espressa nel senso di preferire strumenti che fossero in grado di riprodurre un risultato sia di prevenzione sia di trattamento del problema, contenendo già in nuce necessità ulteriori che esulano dal concetto “basico” di algoritmo. Il fatto stesso, quindi, che fosse richiesta a tale strumento una prestazione di “alta fascia” per il trattamento della patologia implicitamente rimandava al preferire pacemakers dotati di parametri programmabili e progettati «per ottimizzare la terapia di stimolazione in rapporto alle caratteristiche specifiche del paziente»[16]. Seppur sia vero che l’interpretazione delle clausole della legge di gara soggiace alle regole di interpretazione dei contratti[17], il Consiglio di Stato ha in conclusione valorizzato maggiormente le preferenze e le esigenze dell’amministrazione appaltante rispetto alle caratteristiche funzionali e tecniche del bene da reperire sul mercato. Al contrario, la stretta interpretazione letterale del Tar avrebbe escluso dalla gara degli strumenti altamente avanzati, penalizzandoli rispetto a quelli programmati sulla base di algoritmi non automatici[18].
In altre parole, il Consiglio di Stato ha ivi individuato una definizione di algoritmo “moderno”, cui, pur essendo sempre una sequenza di azioni guidate da una formula matematica, sono richieste prestazioni sempre più avanzate. Peraltro, l’automatizzazione del procedimento sembra essere una condicio sine qua non negli strumenti maggiormente performanti e, dunque, da preferirsi per ottenere risultati maggiori. Sebbene tale definizione ponga l’accento sull’evoluzione che anche il concetto stesso di algoritmo ha subito alla luce dei recenti sistemi tecnologici, capaci di ridurre l’intervento umano[19], essa crea una zona di ombra rispetto a cosa debba considerarsi intelligenza artificiale.
Quest’ultima è, difatti, un concetto ad ombrello nel quale si fanno ricadere diversi utilizzi di macchine e sistemi automatizzati decisionali, i quali, per mezzo della raccolta di grandi quantità di dati, producono un output, un risultato, che va a sostituire, ovvero affiancare l’intelligenza umana. Come si evince, il carattere dell’automatizzazione è ben presente tanto nella definizione di algoritmo “moderno”, e, appunto, automatico, di cui all’interpretazione del Consiglio di Stato, quanto nella definizione in re ipsa di intelligenza artificiale[20]. Pertanto, diviene quanto mai necessario distinguere, non solo teoricamente, ma anche nella pratica, cosa debba rientrare all’interno del grande insieme dell’intelligenza artificiale. Una categoria che, come si vedrà di seguito, è oggetto di un ampio processo di regolamentazione e investimento[21], per cui la distinzione ivi in esame su cosa sia automatico e cosa non lo sia potrebbe generare una serie di obblighi per gli operatori di mercato. L’aspetto definitorio, come si è visto, non è per nulla banale. È un punto cruciale alla luce degli obblighi che la proposta europea pone in capo ai programmatori per non generare, da un lato, un “over burden” a carico di quelle tecnologie che, seppur automatizzate, non rientrano nel cappello dell’IA, dall’altro, al contrario, per non escludere dalla regolamentazione sistemi di IA solo all’apparenza meno pericolosi, ma di fatto parimenti invasivi nei confronti dei diritti fondamentali degli individui.
3. Attualità della decisione: uno sguardo alla proposta della Commissione Europea
Come si anticipava, tale sentenza si inserisce all’interno di un dibattito alimentato dal crescente impiego dei sistemi di intelligenza artificiale. Questo, a sua volta, sta spingendo verso un cambiamento di paradigma non solo tecnologico ma anche economico e sociale quale risultato di quello che è stato definito information capitalism[22], o surveillance capitalism[23]. Talune attività come la raccomandazione automatizzata di prodotti da parte di Amazon, i suggerimenti di potenziali contatti da Facebook o Twitter, o, ancora, la segnalazione di uno smartwatch della necessità di idratarsi piuttosto che riposare, definiscono soltanto alcuni esempi in cui i sistemi di intelligenza artificiale trovano applicazione. Ciò che accomuna questi esempi consiste proprio nella versatilità applicativa di siffatte tecnologie: dal cambiamento climatico, all’assistenza medica, passando per trasporti e produzione agricola. Non sorprende quindi se la proliferazione di tecnologie di decisione automatizzata solleva interrogativi non solo dal punto di vista etico e tecnico, ma anche giuridico.
Il rispetto da parte della tecnologia di principi fondamentali quali uguaglianza e non discriminazione – menzionando solo alcuni di quelli che sono maggiormente messi in crisi dai procedimenti decisionali algoritmici – non può avvenire nell’attesa di un automatico adeguamento unilaterale da parte di coloro che programmano suddetti strumenti[24]. A contrario, la tecnologia richiede ai regolatori di sfidare lo status quo plasmando interventi normativi che tengano conto delle sfide poste ed imposte dai nuovi mezzi automatici[25]. La necessità di attaccare il tradizionale apparato di regole è data dall’elevato rischio che gli spazi lasciati vuoti dall’obsolescenza normativa vengano riempiti da altri attori, i quali, in forza di tale potere, sono in grado di fornire standard di tutela privati non vincolati al rispetto dei principi costituzionali. Per affrontare tali sfide, l’Unione ha adottato un Regolamento che mira a fornire un quadro armonizzato e dedicato all’intelligenza artificiale. Nel tentativo di agire tempestivamente e nella consapevolezza che «l’IA non è un altro strumento che ha bisogno di essere regolato una volta che sarà maturo»[26], il Regolamento avrà come inquadramento soggettivo[27]: (a) fornitori che immettono sul mercato o mettono in servizio sistemi di IA nell’Unione, indipendentemente dal fatto che tali fornitori siano stabiliti nell’Unione o in un paese terzo; (b) utenti di sistemi di IA situati nell’Unione; (c) fornitori e utenti di sistemi di IA che si trovano in un paese terzo, se l’output prodotto dal sistema è utilizzato nell’Unione. È quindi plausibile ipotizzare che queste norme avranno implicazioni di vasta portata per le principali aziende tecnologiche, tra cui Amazon, Google, Facebook e Microsoft, che hanno riversato enormi risorse nello sviluppo dell'intelligenza artificiale, producendo quei riverberi, cui si accennava precedentemente e che verranno approfonditi in seguito, sul piano globale. Nel far ciò, la Commissione ha delineato un nuovo sistema di governance che ha come obiettivo la costruzione di un quadro giuridico basato sull’istituzione di un approccio europeo in materia di intelligenza artificiale che soddisfi un elevato livello di protezione dei diritti. Alla luce di queste considerazioni, risulta chiaro come la proposta di Regolamento assuma un valore centrale nel disegnare un quadro di intervento dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri, nell’ottica di affermare i propri valori e principi su un mercato in espansione tramite la promozione di trasparenza e fiducia.
Tuttavia, moltissimi sono ancora gli aspetti critici della proposta. Uno di questi, come si anticipava, è la stessa definizione di IA che la Commissione ha deciso di adottare e che sta già facendo discutere alcuni commentatori[28]. Difatti, come si può apprezzare, in apertura al testo normativo e ai fini del Regolamento, per “sistema di intelligenza artificiale” si intende «un software sviluppato con una o più delle tecniche e degli approcci elencati nell’allegato[29] alla proposta, per una determinata serie di obiettivi definiti dall’uomo di generare output quali contenuti, previsioni, raccomandazioni o decisioni»[30].
Sebbene non sia lo scopo di questo contributo fornire un’estensiva visuale su cosa significhi intelligenza artificiale, senza pretesa di esaustività, si tenterà di proporre una ricognizione sulla criticità della definizione proposta dalla Commissione Europea, anche alla luce della sentenza del Consiglio di Stato[31]. Sfortunatamente per il legislatore, non sembra esserci ancora una definizione ampiamente accettata di intelligenza artificiale anche tra gli esperti del settore, tanto meno una definizione operativa utile ai fini della regolamentazione. Peraltro, i problemi di definizione giacciono proprio nell’ambiguità concettuale del concetto di intelligenza[32]. Allo stato dell’arte, gli approcci più ampiamente utilizzati per definire l’IA si concentrano sulla nozione di «macchine che lavorano per raggiungere obiettivi»[33].
Tale approccio non aiuta da un punto di vista normativo. Come è stato messo in evidenza anche dalla sentenza in esame, non è sempre agevole distinguere gli obiettivi raggiunti dallo strumento, tanto più se vogliamo contraddistinguere l’algoritmo “moderno” e l’IA. Peraltro, non avendo la macchina una coscienza né tantomeno può essere espressione di un’intenzione, è difficile definire lo scopo perseguito dalla medesima in un modo che eviti i requisiti relativi all’autocoscienza e, pertanto, non è chiaro come si possa addivenire a una solida definizione dell’IA per scopi normativi attraverso la lente degli obiettivi[34].
Eppure, come si evince dalla lettera dell’articolo 3 della proposta, questo è stato l’approccio per ora perseguito della Commissione Europea. Le critiche a questa definizione non sono mancate sia dalla società civile, dalle associazioni dei consumatori e dal Consiglio europeo. In particolare, quest’ultimo nel testo compromesso, ha adottato una diversa e più restrittiva prospettiva[35]. Secondo questa definizione, il sistema deve essere in grado di «apprendere, ragionare o modellare implementato con le tecniche e gli approcci», elencati in un allegato, e che sia anche un “sistema generativo”, capace di influenzare direttamente il suo ambiente[36]. Come chiariscono alcuni critici[37], questa definizione “di compromesso”, focalizzandosi esclusivamente sui modelli generativi, un sottogruppo dei sistemi ad apprendimento automatico, renderebbe troppo facile argomentare l’esclusione di un sistema dagli obblighi posti dal Regolamento, e quindi dalla supervisione e protezione che esso intende garantire sul mercato e sui diritti fondamentali degli individui.
In altre parole, la definizione di algoritmo “moderno” automatizzato fornita dal Consiglio di Stato, alla luce della nuova formulazione europea, si applicherebbe anche a strumenti sofisticati di analisi che, non rientrando nel concetto di IA, verrebbero classificati come “algoritmi non tradizionali”, frammentando ulteriormente la programmazione e l’applicazione di tali tecnologie, in particolare ove si prevede la discrezionalità degli Stati Membri[38].
In conclusione, la proposta di Regolamento, da un lato, e la sentenza del Consiglio di Stato, dall’altro, sono testimoni di una problematica che, in un’ottica di certezza giuridica, occorre risolvere nel breve futuro, vista l’inesorabile diffusione di tali tecnologie nel mercato dell’Unione. La proposta di Regolamento sembra fornire un valore aggiunto nel panorama internazionale servendo come strumento per regolare, e non ostracizzare, una tecnologia come l’IA i cui benefici sono molteplici[39]. Pertanto, si auspica che tale processo di innovazione tenga in adeguata considerazione sia i rischi d’investimento, sia i rischi per i diritti fondamentali. Un processo di definizione dell’IA e della sua regolazione che ci si augura sia completato da una rete di collaborazione con gli Stati Membri.
4. Conclusioni
L’uso delle tecnologie algoritmiche sta portando con sé una varietà di nuove sfide alla protezione dei diritti fondamentali delle persone di fronte ad attori sia privati che pubblici. Infatti, sebbene spesso si guardi al rischio di applicazione dell’intelligenza artificiale da parte dei primi a scapito dei secondi, l’efficienza dei processi decisionali automatizzati e il valore che se ne può estrarre non sono appannaggio esclusivo del settore privato, poiché anche il pubblico sta facendo un ampio uso di strumenti tecnologici automatizzati per giungere a decisioni rapide e certe con riguardo alle questioni pubbliche. Da un lato, dunque, la sentenza del Consiglio di Stato n. 7891/2021 ha messo in luce come sia ancora un’operazione complessa definire un netto confine tra algoritmo e intelligenza artificiale; dall’altro, sembra riecheggiare quel fervente dibattito che sta impegnando le istituzioni europee. Tra una definizione estensiva e una restrittiva, occorre individuare un punto di compromesso che a sua volta non comprometta la protezione dei diritti fondamentali degli individui e non sacrifichi l’armonizzazione a vantaggio dell’autonomia degli Stati. Come ricordava il compianto Presidente Sassoli «la nostra sfida è questa: in che misura consentiamo a queste tecnologie di svilupparsi e condizionare la nostra vita. Senza regolamentazione l’intelligenza artificiale può essere un rischio che può compromettere non solo la protezione dei dati personali, ma anche accrescere il divario digitale in termini di accesso e conoscenza. Un sistema di intelligenza artificiale affidabile non deve pregiudicare i diritti fondamentali e per questo è necessario creare valutazioni di impatto preventive, promuovendo un approccio incentrato sull’uomo, l’unico che può governare consapevolmente le azioni e le decisioni prese da un sistema artificiale»[40].
*Dottoranda in European and International Law, Università Commerciale “L. Bocconi”.
[1] Sentenza Consiglio di Stato, Sez. III, n. 7891, 25 novembre 2021.
[2] Si veda punto 9 della parte “in fatto” della sentenza.
[3] Sul tema, la letteratura è vastissima. Con riguardo all’incidenza di algoritmi e la creazione di uno spazio dove sfide passate e presenti si intrecciano – aspetto che si crede essere il focus della sentenza in commento – occorre sicuramente menzionare ex multis L. Floridi, La quarta rivoluzione: come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, 2017; P. Domingos, The master of Algorithm. How the quest for the ultimate learning machine will remake our world, Londra, 2017.
[4] Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council laying down harmonised rules on artificial intelligence (artificial intelligence act) and amending certain Union legislative acts, Brussels, 21 aprile 2021 COM (2021).
[5] Citazione tratta da J. Danaher, ‘The Threat of Algocracy: Reality, Resistance and Accommodation’, in Philosophy & Technology, 2016, 3, 29, pp. 245-68.
[6] Numerose sono le sentenze che recentemente hanno visto i giudici nazionali appuntarsi su questioni relative all’uso di algoritmi e la loro interazione con la società, soprattutto, ma non esclusivamente, in compatibilità con la disciplina a protezione dei dati personali. Si veda a tal proposito il commento di O. Pollicino e M. Bassini, ‘La Cassazione sul “consenso algoritmico”. Ancora un tassello nella costruzione di uno statuto giuridico composito’, in Giustizia Insieme, 21 giugno 2021.
[7] Si veda, in particolare, pagg. 4-5 della Sentenza.
[8] Ibidem.
[9] La clausola ivi applicata è la c.d. “lex gara”, ossia, come definito dal Consiglio di Stato al punto 8.1 della sentenza in commento, «un criterio di attribuzione del punteggio tecnico che costituisce chiara espressione delle preferenze dell’amministrazione rispetto alle caratteristiche funzionali e tecniche del bene da reperire sul mercato». Sul punto, i Giudici di Palazzo Spada si erano già soffermati in passato, e, in particolare, avevano chiarito come «il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d’appalto abbiano ciascuno una propria autonomia ed una propria peculiare funzione nell’economia della procedura, il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando in particolare il procedimento di gara ed il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando, tutti insieme costituiscono la lex specialis della gara» (sul punto, si veda Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 03 marzo 2021, n. 1813).
[10] Oltre al precedente già citato, si fa ivi riferimento a Cons. Stato, Sez. V, 13 gennaio 2014 n. 72 e Cons. di Stato, Sez. V, 12 settembre 2017, n. 4307).
[11] Si veda punto 2 della Sentenza: «la commissione come algoritmo di trattamento automatico per X. ha considerato l’accelerazione su PAC frequenti che consente in maniera automatica di contrastare il ritmo prefibrillatorio costituito dal riconoscimento di frequenti ectopie atriale e trattato mediante riduzione/omogeneizzazione del periodo refrattari atriali. L’algoritmo denominato NIPS (Noninvasive program stimulation) e presente nel prodotto offerto da Y costituisce invece uno studio elettrofisiologico eseguito in office da un operatore specialistico».
[12] L’intera definizione di algoritmo elaborata dal Tar è la seguente: «l’algoritmo di trattamento dell’aritmia non è altro che l’insieme di passaggi (di stimoli creati dal pacemaker secondo istruzioni predefinite) necessari al trattamento del singolo tipo di aritmia. Questo concetto non include necessariamente, invece, come erroneamente ritenuto dalla stazione appaltante, che il dispositivo debba essere in grado di riconoscere in automatico l’esigenza (quindi di diagnosticare il tipo di aritmia) e somministrare in automatico la corretta terapia meccanica (trattamento)».
[13] Come evidenzia la letteratura, questo è il processo di “viaggio” di un algoritmo, sia nella sua versione “basica”, sia nella sua versione “complessa”. Nel secondo caso, ovviamente, la complessità è data dalle operazioni di calcolo. Sul punto, si fa riferimento all’analisi di Anthony Elliott, Making Sense of AI: Our Algorithmic World, New York, 2021. Si veda anche A. R. Lodder, ‘Algorithms: what, how, and particularly why?’, in LSE Law Policy Briefing 34, Maggio 2019.
[14] Si veda punto 9.1 della sentenza.
[15] Il sistema di apprendimento utilizza «the training set to build an algorithmic model: a neural network, a decision tree, a set of rules, etc. The algorithmic model is meant to capture the relevant knowledge originally embedded in the training set, namely the correlations between cases and responses. This model is then used, by a predicting algorithm, to provide hopefully correct responses to new cases, by mimicking the correlations in the training set». Dallo studio condotto per il Parlamento Europeo da G. Sartor e altri, ‘The impact of the General Data Protection Regulation (GDPR) on artificial intelligence’, 2020.
[16] Si veda punto 9.2 della sentenza.
[17] Si richiamano le note n. 9 e 10 supra.
[18] In vero, come osserva il Consiglio di Stato, tali funzionalità non sarebbero presenti nel prodotto offerto dalla seconda classificata, seppur non vi sia dubbio che anche il suo funzionamento si basi su un algoritmo.
[19] In tal senso, si richiama l’analisi del filosofo Remo Bodei in Dominio e Sottomissione, Bologna, 2019.
[20] Nella notissima Conferenza di Dartmouth del 1955, John McCarthy, informatico statunitense, coniò l’espressione “Intelligenza Artificiale” e l’ha identificata attraverso quei requisiti speciali che la rendono tale, inserendovi segnatamente l’automatizzazione: «if a machine can do a job, then an automatic calculator can be programmed to simulate the machine. The speeds and memory capacities of present computers may be insufficient to simulate many of the higher functions of the human brain, but the major obstacle is not lack of machine capacity, but our inability to write programs taking full advantage of what we have». Si veda J. McCarthy, M. L. Minsky, N. Rochester, & C. E. Shannon, A Proposal for the Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence, in AI Magazine, 27(4), 12, 2006.
[21] Basti pensare in ambito nazionale alla recentissima adozione del Programma Strategico per l’Intelligenza Artificiale (IA) 2022-2024. Nel solco della Strategia Europea per la regolazione dell’Intelligenza Artificiale, l’Italia ha unito le sinergie del Ministero dell’Università e della Ricerca, del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, e, con il supporto del gruppo di lavoro sulla Strategia Nazionale per l’Intelligenza Artificiale, ha stilato un programma che delinea ventiquattro politiche da implementare nei prossimi tre anni per potenziare il sistema IA in Italia. In particolare, nel campo della sanità, le applicazioni di intelligenza artificiale stimolano l'innovazione di prodotti e processi scambiando e aggregando informazioni attualmente disperse in una moltitudine di database pubblici e ampiamente sottoutilizzati.
[22] Espressione utilizzata da J. Cohen in Between Truth and Power. The Legal Constructions of Informational Capitalism, New York, 2019.
[23] Si veda, sul punto, lo studio di S. Zuboff, in The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Cambridge MA, 2019.
[24] Nel merito, l’analisi di S. Wachter, B. Mittelstadt, C. Russell, in ‘Why fairness cannot be automated: Bridging the gap between EU non-discrimination law and AI’, in Computer Law & Security Review, 2020.
[25] Sul punto, S. Ranchordas, ‘Experimental Regulations for AI: Sandboxes for Morals and Mores’, in University of Groningen Faculty of Law Research Paper, 2021 (1).
[26] Citazione tratta da L. Floridi, et al., ‘AI4People—An Ethical Framework for a Good AI Society: Opportunities, Risks, Principles, and Recommendations’, in Minds and Machines, 28, 2018, pagg. 689-707.
[27] Si veda l’art. 2 della proposta.
[28] Sul punto accenna L. Floridi in ‘The European Legislation on AI: a Brief Analysis of its Philosophical Approach’, Philosophy & Technology, 2021 (34), 215–222.
[29] Il riferimento è all’allegato I alla proposta, ‘Annex I to the Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council laying down harmonised rules on artificial intelligence (Artificial Intelligence Act) and amending certain union legislative acts’, Bruxells, 2021.
[30] Si veda l’art. 3, par. 1 lett. a) della proposta che introduce la definizione in esame di IA.
[31] Come si è visto, al punto 9.2 della sentenza i giudici di Palazzo Spada hanno distinto il concetto di algoritmo tradizionale da quello di intelligenza artificiale, definendo quest’ultimo un software le cui abilità esulano «i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico».
[32] A tal proposito, sul rapporto tra uomo, macchina e Dio si rimanda alle riflessioni di L. Floridi e F. Cabitza in Intelligenza artificiale: L'uso delle nuove macchine, Milano, 2021.
[33] Si faccia riferimento alla ricostruzione di S. J. Russel and P. Norvig, Artificial Intelligence: A Modern Approach, London, 2013. Ivi, gli autori utlizzano il concetto di agente razionale come ciò che agisce in modo da raggiungere il miglior risultato o, il miglior risultato atteso.
[34] Nel merito, si veda M. U. Scherer, ‘Regulating artificial intelligence systems: Risks, challenges, competencies, and strategies’, in Harv. JL & Tech. 29 (2016), pag. 353 e ss.
[35] ‘Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council laying down harmonised rules on artificial intelligence (Artificial Intelligence Act) and amending certain Union legislative acts - Presidency compromise text’, 2021/0106(COD), 29 novembre 2021.
[36] Come evidenziano A. Chiarini e F. Giordanelli in ‘Il Regolamento sull’Intelligenza artificiale: “essere o non essere” intelligenza artificiale’, MediaLaws, 2022, «secondo la nuova definizione un sistema di intelligenza artificiale è un sistema che: (i) riceve dati e input provenienti da dispositivi e/o dall’uomo; (ii) deduce come raggiungere una serie di obiettivi definiti dall’uomo utilizzando l’apprendimento, il ragionamento o la modellizzazione attuati con le tecniche e gli approcci elencati nell’allegato I, e (iii) genera dei risultati sotto forma di contenuti (sistemi di IA generativa), previsioni, raccomandazioni o decisioni, che influenzano gli ambienti con cui interagisce».
[37] J.J. Bryson, 'Europe Is in Danger of Using the Wrong Definition of AI', Wired, consultato il 4 marzo 2022, https://www.wired.com/story/artificial-intelligence-regulation-european-union/.
[38] Si veda a tal proposito G. Finocchiaro, O. Pollicino, L. Floridi in ‘Sull’intelligenza artificiale Ue indecisa tra armonizzazione e margini di libertà eccessivi’, Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2022.
[39] Come, del resto, si richiama anche nel Cons. 2 della Proposta di Regolamento.
[40] David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, Discorso tenuto in occasione del workshop “The Good algorithm? Artificial Intelligence, Law, Ethics”.
La giustizia penale di fronte alla guerra
di Ezechia Paolo Reale
Sommario: 1. Introduzione - 2. La competenza della Corte Penale Internazionale, in generale - 3. La competenza della Corte Penale Internazionale, la situazione in Ucraina - 4. Il ruolo delle giurisdizioni nazionali - 5. La natura complementare della giurisdizione della Corte Penale Internazionale rispetto alle giurisdizioni nazionali - 6. Conclusioni.
1. Introduzione
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia pone profondi problemi etici, sociali, economici e diplomatici ma ha anche uno specifico aspetto che in questi giorni di grande preoccupazione è stato poco approfondito.
Esiste, oltre la responsabilità dello Stato aggressore di fronte alla comunità internazionale degli altri Stati anche una responsabilità penale personale degli autori dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del crimine di genocidio ?
La risposta è, sotto più profili, positiva e la capacità deterrente della sanzione penale a carico dei singoli responsabili di tali crimini internazionali non dovrebbe essere sottovalutata nello strumentario politico e diplomatico della gestione del conflitto.
2. La competenza della Corte Penale Internazionale, in generale
In generale, i soggetti responsabili dei crimini internazionali sopra menzionati possono essere chiamati a rispondere delle loro azioni avanti la Corte Penale Internazionale, organo giudiziario indipendente, complementare alle giurisdizioni nazionali, istituito con un trattato internazionale, noto come Statuto di Roma, entrato in vigore il 1/7/2002.
La giurisdizione della Corte Penale Internazionale, oltre che su impulso diretto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, può, però, ordinariamente essere esercitata solo se il responsabile del crimine o il territorio nel quale tale crimine è stato commesso appartiene a uno Stato Parte dello Statuto di Roma, ad uno Stato cioè che attraverso la ratifica o l’adesione al trattato internazionale istitutivo della Corte faccia parte di quel sistema convenzionale, ovvero a uno Stato che, pur non avendo ratificato lo Statuto di Roma, abbia dichiarato di accettare la giurisdizione della Corte su alcuni specifici crimini. Per il solo crimine di aggressione vige una regola diversa e più rigida dato che la Corte può esercitare la sua giurisdizione su tale crimine solo quando siano Stati Parte dello Statuto sia lo Stato del quale l’autore del crimine ha la nazionalità, sia lo Stato nel quale il crimine è stato commesso e solo per gli eventi successivi al 17/7/2018, data di entrata in vigore dell’emendamento allo Statuto, adottato a Kampala, che ha definito nel dettaglio i contorni del “crimine supremo contro la pace” e ha delineato le condizioni per l’esercizio della giurisdizione della Corte nei confronti degli autori delle condotte incriminate, emendamento che l’Italia ha ratificato il 10/11/2021, depositando poi il 26/1/2022 il relativo strumento di ratifica.
3. La competenza della Corte Penale Internazionale, la situazione in Ucraina
Detto questo in linea generale, con particolare riferimento all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia va evidenziato che né lo Stato invaso né lo Stato invasore hanno mai ratificato lo Statuto di Roma.
Ne deriva, con certezza, l’impossibilità che i responsabili del crimine di aggressione possano essere tratti a giudizio avanti la Corte Penale Internazionale.
Per quanto riguarda, invece, i crimini di guerra, che riguardano le modalità illecite di conduzione delle operazioni belliche, ad esempio l’attacco a civili non armati o il bombardamento di ospedali, scuole, chiese o obiettivi civili in genere, l’Ucraina aveva già accettato la giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
Infatti, sia per i crimini contro l’umanità in relazione alle proteste di Piazza Indipendenza a Kiev represse con violenza dal precedente governo alla fine del 2013 e nei primi mesi del 2014, sia in relazione ai crimini di guerra correlati al tentativo di annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e al contemporaneo e prolungato scontro armato tra governo e forze separatiste nella parte orientale del proprio territorio, l’Ucraina aveva regolarmente depositato due distinte dichiarazioni di accettazione della giurisdizione della Corte.
Sulla base di tale espressione di volontà dello Stato nel cui territorio si erano verificati i fatti il Pubblico Ministero presso la Corte Penale Internazionale aveva iniziato un’investigazione preliminare, tesa a verificare se vi fossero le condizioni per aprire una vera e propria indagine formale in relazione a uno o più crimini di competenza della Corte commessi in tali circostanze. Tale indagine preliminare era terminata nel dicembre del 2020 e gli atti raccolti erano in fase di valutazione nel momento in cui la Russia ha dato inizio all’invasione armata anche di altra parte del territorio ucraino.
Tale nuova circostanza ha accelerato le decisioni del Pubblico Ministero che, mentre non sembra abbia trovato elementi sufficienti per procedere in relazione ai fatti di Piazza Indipendenza, ha preannunciato di voler dare inizio all’indagine formale non solo in relazione ai crimini di guerra e contro l’umanità ipotizzabili per i fatti di Crimea e dell’Est Ucraina, e già dettagliati all’esito dell’investigazione preliminare, ma anche per quelli relativi all’ulteriore attacco armato sferrato dalla Russia nei confronti dell’Ucraina in questi giorni.
Per poter, quindi, dare inizio alla vera e propria fase delle indagini formali il Pubblico Ministero ha quindi richiesto alla Camera Preliminare della Corte la prevista autorizzazione per agire ex officio.
La Presidenza della Corte ha designato per l’esame della richiesta la II Camera Preliminare della Corte, presieduta dal giudice italiano Rosario Aitala, ma la necessità di tale decisione è stata superata dal deposito da parte di 40 Stati Parte, tra i quali l’Italia, di una formale segnalazione alla Corte nella quale è stata manifestata la volontà di tali Stati che la situazione in Ucraina sia sottoposta a investigazione da parte del Procuratore della Corte.
Tale deposito ha consentito, quindi, al Procuratore, in base alle regole dello Statuto di Roma, di aprire un’indagine formale sulla situazione in Ucraina senza necessità di munirsi dell’autorizzazione della Camera Preliminare.
Questa la situazione attuale sul fronte della Corte Penale Internazionale, con l’unica incognita della possibilità che nei procedimenti che seguiranno possa essere contestata la validità dell’accettazione della giurisdizione della Corte da parte dell’Ucraina anche per fatti molto successivi al 2014 e in porzioni di territorio diverse da quelle oggetto di tale dichiarazione. Vero, però, che a fugare tale perplessità basterebbe una nuova dichiarazione di accettazione della giurisdizione con specifico riferimento ai fatti accaduti in questi giorni, mentre per eventuali fatti futuri sarebbe preferibile che intervenisse la ratifica dello Statuto da parte dell’Ucraina.
4. Il ruolo delle giurisdizioni nazionali
Il ruolo della giustizia penale di fronte alla guerra, però, non si ferma alle porte della Corte Penale Internazionale, avendo anche le giurisdizioni nazionali un ruolo significativo da poter giocare.
E non solo, e ovviamente, la giurisdizione nazionale ucraina, sede naturale dei procedimenti per fatti accaduti nel proprio territorio, ma anche tutte le diverse giurisdizioni nazionali, in particolare quelle degli Stati Parte dello Statuto di Roma.
Per il crimine di aggressione e per quei crimini di guerra che per motivi vari, a partire dai limiti della competenza della Corte ai soli reati che assumono particolare gravità, non potranno essere perseguiti dalla Corte Penale Internazionale, potrà, infatti, essere esercitata direttamente dai singoli Stati la propria giurisdizione extraterritoriale, che in relazione ai crimini internazionali è più corretto definire giurisdizione universale, che consente di processare e punire, a determinate condizioni, anche gli stranieri che commettono all’estero gravi crimini in danno di vittime non italiane. Una giurisdizione, quindi, che si esercita anche se non è presente nessuno dei criteri di collegamento con il crimine che tradizionalmente fondano il potere giurisdizionale penale dello Stato (territorio ove è commesso il fatto, nazionalità dell’autore, nazionalità della vittima).
Non sarebbe, d’altronde per lo Stato italiano, una particolare novità dato che la giurisdizione universale è già stata utilizzata per processare e punire autori stranieri di crimini efferati commessi fuori dal territorio nazionale in danno di vittime straniere, come ad esempio a Milano nel 2017 per il processo ad un torturatore di migranti libico per fatti avvenuti in Libia in danno di vittime provenienti da vari paesi africani; o a Siracusa, nei primi anni del secolo, per il processo al responsabile libanese del naufragio della “nave fantasma”, avvenuto in acque internazionali, nel quale persero la vita oltre 250 migranti indiani, pakistani e cingalesi.
L’Italia, infatti, riconosce e regola la propria giurisdizione extraterritoriale sui crimini più gravi prevedendo all’articolo 7 del suo codice penale la punizione anche dello straniero che commette in territorio estero ogni reato per il quale le convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana e stabilendo al suo articolo 8 che, su richiesta del Ministro della Giustizia, sia punito secondo la legge italiana anche lo straniero che commette all’estero un delitto politico, cioè ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato o che, pur essendo un delitto comune, sia determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.
L’articolo 10 dello stesso codice penale, infine, consente, sempre a richiesta del Ministro della Giustizia, e purché il responsabile si trovi nel territorio nazionale, la punizione dei delitti commessi fuori dal territorio nazionale dallo straniero in danno di altro straniero o di uno Stato estero.
5. La natura complementare della giurisdizione della Corte Penale Internazionale rispetto alle giurisdizioni nazionali
Né tali azioni giudiziarie sarebbero in contrasto con lo spirito dello Statuto di Roma che, al contrario, sollecita in prima battuta le giurisdizioni nazionali ad intervenire per porre termine all’impunità degli autori di crimini così gravi, riservandosi di procedere solo in caso di inerzia o malfunzionamento dei sistemi giuridici nazionali.
Non a caso nel Preambolo dello Statuto di Roma è riconosciuto che “crimini di tale gravità, che minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo non devono restare impuniti” e “la loro effettiva repressione deve essere assicurata attraverso l’adozione di idonee misure a livello nazionale ed il rafforzamento della cooperazione internazionale” ponendo “termine all’impunità degli autori di tali crimini e contribuendo in tal modo alla prevenzione di nuovi crimini”, tanto che “è dovere di ogni Stato esercitare la propria giurisdizione penale sui responsabili di crimini internazionali”.
E anche il Parlamento Europeo nella sua Risoluzione del 4/7/2017 sulla “lotta contro le violazioni dei diritti umani nel contesto dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità compreso il genocidio“, al paragrafo 52 “chiede agli Stati membri di applicare il principio di giurisdizione universale per la lotta all’impunità e ne ricorda l’importanza per l’efficacia e il corretto funzionamento del sistema di giustizia penale internazionale” e “di perseguire i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità nelle loro giurisdizioni nazionali anche quando essi siano stati commessi in paesi terzi o da cittadini di paesi terzi”.
6. Conclusioni
La giustizia penale nazionale e internazionale, quindi, può e deve giocare un ruolo decisivo nel processo di pace da tutti auspicato. Alla violenza deve certo essere opposta adeguata resistenza, ma se la volontà bellica vuole essere definitivamente superata non c’è altra strada che quella di perseguire la giustizia, senza la quale la guerra potrà momentaneamente essere sopita ma mai superata nell’animo di chi aspetta o teme vendetta. È il monito di Papa Giovanni Paolo II che dovrebbe ora guidare le azioni di tutti gli attori impegnati nello scenario bellico e diplomatico: “se cerchi la pace, lotta per la giustizia”.
La poca attenzione sinora dedicata al ruolo della giustizia penale nei processi di pace non è, quindi, un segnale positivo, ma il tempo per la sua rivalutazione non è certo terminato.
Pasolini, l’invasore e la resistenza
di Pierpaolo Gori
La feroce invasione di un grande Stato nel cuore dell’Europa ripropone immagini di guerra urbana, il terrore di esposizione a disastri nucleari, le centinaia di migliaia di sfollati in fuga dall’intervento armato, secondo schemi che ci riportano ai momenti più bui del secolo breve[1]. Al proposito è lucida - ma rigettata dalla trionfante società dei consumi - la riflessione sulla resistenza di Pier Paolo Pasolini, racchiusa nella sua unica tragedia, I turcs tal Friùl. Composta in una Casarsa occupata dai nazisti, usa la lingua del cuore, un idioma non ancora abusato dalla propaganda nazionalista che spinge a diffidare delle grandi lingue letterarie del mondo[2]. Il suo stile è arcaico, quasi greco, e modernissimo ad un tempo, perché, sotto il velo del teatro e della narrazione apparentemente remota, nel profondo ci parla dell’armonia sconvolta e del nostro stare insieme oggi.
Il manoscritto del maggio 1944 è stato lasciato in un cassetto da Pier Paolo per tutta la sua vita, sebbene egli lo considerasse quanto di meglio esistente nella sua produzione giovanile[3]. È la conferma che si tratta di un’opera intima, composta in primo luogo a fini liberatori ed espiatori di quella sofferenza interna che nei grandi spiriti proietta all’esterno una straordinaria creatività. Quasi per pudore, la tragedia è stata pubblicata postuma ad oltre trent’anni dalla sua scrittura.
Un cenno al contenuto. In un paese lassù ad est, non lontano dalla piana della Richinvelda (in antico, reiche Felde), si può ancora a stento leggere un’iscrizione, salvata da una chiesetta scomparsa. È posta su un lacerto di marmo e racchiude in lingua volgare italiana una semplice dedica di un piccolo oratorio alla Madonna delle Grazie, per aver risparmiato nel 1499 Casarsa dalle orde dei turchi. Di fronte all’avanzare inesorabile delle cavallerie e colonne turchesche e, con essi, dei saccheggi e delle distruzione sistematiche dei paesi della pianura, solo quel borgo sarebbe passato indenne, perché improvvisamente avvolto da una fitta coltre di basse nubi, sulle umide sponde del Tagliamento, paese di temporali e di primule[4]. Il fatto storico, la leggenda e la devozione popolare hanno ispirato il componimento di Pier Paolo, il quale immagina il dramma della indifesa comunità contadina che rischia di essere cancellata dai turchi. Così nella famiglia Colùs, la madre Lùssia e i suoi due figli, Meni e Pauli, devono decidere come reagire di fronte al disastro che incombe sul paese e che sembra inarrestabile.
È una condizione sovrapponibile a quella in cui si trovano, 450 anni dopo, nel maggio 1944, Susanna Pasolini e i due figli Pier Paolo e Guido. Da oltre sei mesi l’intero Friuli Venezia Giulia è invaso dai tedeschi e sottoposto al diretto controllo del Terzo Reich, sottratto persino alla Repubblica Sociale Italiana, e inserito entro una neo-costituita zona di operazioni militari denominata Adriatisches Küstenland.
All’inizio del dramma si delinea il significato della scelta del fratello minore di Pier Paolo, Guido (nel poema chiaramente Meni Colùs ne è l’alter ego) di non restare a morire nel villaggio come agnello sacrificale (“Murì e basta: ma no coma agnèi…”)[5]. Il giovane, con altri uomini, decide così di lasciare Casarsa per unirsi alla resistenza partigiana con la brigata Osoppo e combattere, pur senza esperienza né mezzi, per la liberazione dai nazisti. Guido adotterà il nome di battaglia “Ermes” e sarà assassinato nel febbraio 1945, quasi alla fine del secondo conflitto mondiale in un momento storico decisivo per l’Italia, da altri partigiani vicino a Cividale del Friuli nei fatti legati all’eccidio di Porzùs.
Quella di Meni/Guido è una scelta sofferta, per l’attaccamento profondo alla vita del giovane, appena diciottenne, che sceglie di andare a combattere contro l’invasore sì, ma soffre nel vedere in lacrime la povera madre Lùssia, dalle minuscole spalle nel suo grembiule consunto, che nasconde appena il piccolo, minuto grembo in cui si era un giorno sentito protetto (“jot là se spalutis, puora mari, tal grumal fruvàt. E jo ch’i soi stat drenti di che grin, Signòur, di chel grin pìciul, pìciul. E par chistu adès i patìs; i soi tant tacàt a chista vita; i ài tanta pòura di murì”)[6].
È una scelta ideale e coraggiosa che si confronta con quella di segno opposto compiuta da Pauli. Sullo sfondo, un pathos scandito dall’epica solenne dei cori: da un lato, delle donne vestite di nero, custodi di una società contadina antica e, dall’altro, dei turchi invasori, dèi della guerra, lucenti sotto la luna nella loro terribile crudeltà e logica di dominio dell’uomo sull’uomo.
Pauli Colùs (in cui si scorge Pier Paolo) rifiuta di retribuire la morte con la morte, facendo un atto di fede in favore della pace, ritenuta la via da perseguire ad ogni costo, anche del sacrificio se questa è la volontà di Dio (“Ma se la voluntat dal Signòur a è che murini dùcius, l’unica maniera a è di murì cu ‘l nomp so tal còur”)[7]. Resta così a lavorare e pregare al suo posto, vicino a Lùssia, come farà nella realtà Susanna, la madre che non si allontanerà mai da Pier Paolo neppure nei momenti più duri che seguiranno il primo processo quando, espulso dal PCI per indegnità e sospeso dall’insegnamento, dovrà rifugiarsi a Roma.
Pauli non aderisce individualmente a quella piccola schiera di sognatori che difendono la vita perché certe forze legano tutti gli esseri umani, vittime e invasori. Egli prende una decisione non meno coraggiosa di quella del fratello che imbraccia la resistenza armata organizzata. La sua resistenza all’avanzata di un potente esercito di migliaia di cavalieri e centinaia di fanti (“Deis mil ciavài, sincsènt a piè”)[8] è egualmente radicale perché irreversibile. L’opzione è sorretta dall’indomito linguaggio del proprio comportamento unito a quello della comunità, ed è pericoloso perché non è quiescente bensì irriducibilmente alternativo all’invasore. Questi è solo apparentemente invitto: non potrà eradicare una tenace reazione collettiva fondata su valori culturali profondi a lui antitetici e, perciò, destinata nel tempo a prevalere sulla recisa violenza, sulla morte che come un mare circonda il villaggio (“Vuèi a è la muart ch’a ni speta cà intor”)[9].
La decisione è coerente con il rifiuto del linguaggio stesso della morte, ed è la scelta di Pier Paolo fatta per sempre a favore della vita, di andare avanti sempre e comunque, con passo leggero, quali che siano le difficoltà da superare, verso quel rinnovamento che solo i giovani possono dare (“E jo i ciaminarai lizèir, zint avant, sielzìnt par simpri / la vita, la zoventùt”)[10].
E’ questa radicalità uno dei caratteri della costante “inattualità” e del fascino immenso che esercita Pasolini: in vita, figura di intellettuale indipendente e perciò non organico al partito comunista nel momento della massima ”egemonia culturale”. Poi, dopo la morte, è divenuto un “alieno” per la società dei consumi, ormai intrisa di post storicismo materialista che divora ogni cosa, anche le vite delle persone ritenute fungibili, assemblabili, omologabili.
I Turcs tal Friùl sono soprattutto una riflessione sulla giustizia e sul diritto. Una δίκη (dìke), innanzitutto, nel significato che Eschilo affida a questo termine, di legge che gli dèi applicano sul mondo, giustizia divina che nulla ha a che spartire con il benessere materiale dell’uomo, in fondo nemmeno agognato (“Crist, pietàt dal nustri paìs. No par fani pì siors di chel ch’i sin”)[11]. L’uomo anela ad altro, alla vita, al rinnovamento.
La giustizia è invano cercata sulla terra, come conferma l’ἐπιτάφιον (epitàfion), l’elogio funebre scritto da Pier Paolo e letto il 21 giugno 1945 nel cimitero di Casarsa, mentre viene tumulato il corpo del fratello Guido. L’epitaffio si conclude con le acute parole “alla società non chiediamo lacrime, chiediamo giustizia”[12], mai veramente raccolte da chi poteva agire.
Ridotti erano gli spazi lasciati dalla guerra fredda, in particolare sul sanguinoso crinale orientale, “limes” anche linguistico e culturale per eccellenza tra anima latina, slava e germanica, tra occidente e socialismo reale. Ancora più sottili erano le crepe che potevano aprirsi sul muro della verità ufficiale del PCI, non disposta ad accettare alcuna responsabilità per aver favorito nel 1945 l’estensione con la violenza del comunismo di Tito/nazionalismo jugoslavo a porzioni di Friuli Venezia Giulia. Non vi era sufficiente luogo per chiaroscuri, per distinzioni, per posizioni individuali e accertamenti, passi così necessari per permettere il nascere e fluire del misero processo degli uomini, pallida ombra di δίκη.
Pare che Christa Wolf si sia ispirata anche a Pasolini per la sua Medea[13], eroina non violenta, donna “maga” che, secondo il mito pre-euripideo, non è autrice bensì subisce l’assassinio dei propri figli per lapidazione. Omicidi sono i Corinzi infuriati contro la madre, additata da un’informazione manipolata come responsabile della peste che infuria.
In realtà, Medea deve morire perché ha compreso l’orribile segreto di morte e di violenza su cui è fondato l’ordinamento giuridico della regalità di Corinto. La straniera, con la sua irriducibile diversità, non può essere assimilata dal Sistema e potrebbe rivelarne all’esterno l’oscenità (ob scaenam - fuori dai riflettori).
Secondo una saggezza antica la morte rivela chi si è stati davvero in vita (θάνατος βίοu κατηγορία - zànatos bìu categorìa): Lùssia Colùs/Susanna Pasolini, come la Medea di Christa Wolf, minuta nel suo fisico asciutto eppure sorretta da uno spirito d’acciaio, è la testimone di una civiltà millenaria persa per sempre. La madre avrà l’amaro destino di sopravvivere ai suoi figli, entrambi prematuramente scomparsi nonostante le scelte di vita opposte compiute. Prima Meni Colùs/Guido, portatole via a un passo dalla fine della guerra, e poi nel 1975 anche Pauli Colùs/Pier Paolo, assassinato in circostanze mai interamente chiarite. La loro sepoltura non potrà arrestare il segreto rivelato, a chi sa ascoltare.
[1] E. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century (1914-1991), Abacus, London, 1994.
[2] Emblematica la poetica concretista di Schweigen (silenzio) in cui solo l’assenza della parola tradita può restituire l’autentico significato, E. Gomringer, Worte sind schatten. Die Konstellationen 1951-1968, Rowohlt Verlag, Reinbek Bei Hamburg, 1969.
[3] Lettera di P.P.Pasolini a G. D’Aronco del 29 novembre 1945.
[4] N. Naldini, introduzione a P.P.Pasolini (a cura di N. Naldini), Un paese di temporali e primule, Guanda, Milano, 2015.
[5] P.P.Pasolini, Turcs tal Friùl, 1976, Doretti, Udine, 1976, p.22.
[6] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, p. 15.
[7] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 26.
[8] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 21.
[9] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 7.
[10] Sono gli ultimi versi di P.P.Pasolini, La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975.
[11] Si tratta dei versi iniziali della tragedia, P.P.Pasolini, Turcs, cit. in nota 5, p.7.
[12] Elogio funebre completo in E. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005,105 e ss.
[13] C. Wolf, Medea. Stimmen, traduzione italiana Medea. Voci, Roma, edizioni e/o, 2005.
Osservazioni essenziali sulla dichiarata inammissibilità della proposta referendaria in materia di responsabilità civile dei magistrati (Corte costituzionale n.49/2022)
di Mario Serio
Sommario: 1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione - 2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale - 3. I termini del quesito referendario - 4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale - 5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche: la lezione inglese.
1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione
Parlare di responsabilità per l'esercizio di funzioni giudiziarie è terreno per sua natura ricco di risposte possibilmente antitetiche, divise come possono essere tra la propensione al principio di sostanziale immunità proprio di ordinamenti molto evoluti come quello inglese[1] e la speculare, pervicace ricerca di ragioni e condizioni per l'affermazione della responsabilità stessa.
La comparazione con il diritto inglese[2], che solo sommariamente questa sede consente di svolgere, immette l'osservatore in un duplice circuito di pensiero che, in linea astratta, ben potrebbe essere applicata all'ordinamento italiano (ed in parte, come l'indagine successiva sulla giurisprudenza costituzionale renderà evidente, è stata recepita). Il primo lato, che ha determinato il definitivo affrancamento del common law inglese dalle suggestioni tendenti ad ipostatizzare l'erroneità della decisione giudiziale nella persona di chi l'ha pronunciata decretandone una colpa fonte di responsabilità, va individuato nella liberatoria distinzione tra rimedio risarcitorio anticamente esperibile nei confronti del giudice errante - nel tempo abbandonato in conformità alla nuova ed adesiva coscienza sociale - e rimedio impugnatorio, a buona ragione elevato al livello della piena satisfatttività per la parte che dell'errore aveva patito le conseguenze pregiudizievoli. L'altro aspetto riguarda la ariosa esposizione della base in senso continentale “costituzionale” dell'immunità giudiziale compiuta dalla House of Lords in una pronuncia del 1975[3]. Essa prende corpo in rapporto alla posizione ordinamentale del Giudice, qualificato come “il depositario di una posizione soggettiva di natura pubblicistica diretta ad assicurare che l'amministrazione della giustizia non venga impedita dagli attacchi collaterali delle parti deluse[4]”. E con questa posizione, ancora perfettamente resistente ad onta del tempo trascorso perché espressiva del senso democratico attribuito in quell'ordinamento all'opera di amministrazione della giustizia, si avvera in forma stentorea la felice scissione tra la persona del giudice ed i suoi atti, rendendo indipendenti il destino dell'uno da quello degli altri.
Se, in linea generale e con il conforto dell'esperienza del common law inglese quale si è andata dispiegando in forma liberale dopo l'oscuro periodo della Star Chamber[5], appare ragionevole e storicamente accettato - e di recente costituzionalmente elevato al rango dei principii costituzionali grazie al Constitutional Reform Act del 2005[6] - attribuire all'atteggiamento immunitario il benefico scopo di non compromettere con indebite pressioni psicologiche l'attività di giudizio esercitata “intra vires” (escludendo dall'area di protezione quella posta in essere all'esterno di qualsiasi potere attributivo della competenza decisoria), non omogenea ed univoca si rivela la ricognizione dei moventi a predicare l'opposto regime, come dimostrano vicende periodicamente imposte all'attenzione del mondo del diritto in Italia. Ed infatti, tali moventi solo occasionalmente si radicano in riflessioni dallo spiccato significato giuridico, tra le quali potrebbe in via di ipotesi annoverarsi la domanda sulla congruità del trattamento differenziale riservato a magistrati e ad altri funzionari dello stato o di enti pubblici a mente dell'art. 28 Cost. o sulla razionalità della richiesta, “de iure condito” (legge 117/1988 con le successive modificazioni apportate dalla legge 18/2015) di un elemento soggettivo restrittivamente qualificato per l'affermazione della responsabilità dei primi rispetto a quella degli altri. Si tratta, al contrario, di interrogativi ricalcati su un'analisi non affetta da pregiudizi estranei al dominio delle analisi di natura concettuale ma piegata all'obiettivo dell'appiattimento su un'unica, unitaria ed indifferenziata base giustificativa della responsabilità di tutte le persone operanti nell'ambito dell'impiego pubblico. Nel tempo questo desiderio di omogeneità di regime normativo nei confronti di condotte produttive di un danno ingiusto a terzi (è sempre il paradigma della responsabilità aquiliana nella cornice degli artt. 2043 ss. cod. civ. quello in cui si inscrivono i tentativi al riguardo) si è espanso nel senso di racchiudere nel proprio perimetro di osservazione anche i casi di responsabilità di esercenti attività libero-professionali (medici, avvocati, etc.) e ponendo tali attività come parametro di riferimento di una sostanzialmente ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla categoria giudiziale che sfuggirebbe alla regola riassunta nella plebea espressione “chi sbaglia paga”. A misura che talune di queste prese di posizione popolari e di non scarso successo hanno preso piede, addirittura soppiantando quelle, maggiormente competitive, espresse in punto di razionalità del sistema, è nei relativi propugnatori arieggiata come soluzione riconformatrice del sistema quella dell'abrogazione delle norme limitative della responsabilità giudiziale.
2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale
La sentenza n. 49 del 2 marzo 2022 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile - per ragioni che si andranno qui man mano esponendo - la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione di alcune norme della legge 13 aprile 1988 n. 117 sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati offre un'utile rassegna delle questioni già sottoposte, in sede di esame della legittimità costituzionale del corpo normativo in questione o dell'ammissibilità di referendum abrogativi di parti di esso, alla cognizione della Corte stessa.
Il richiamo a tali precedenti ha costituito nell'occasione più recente il binario lungo il quale è scorso il convoglio che raccoglieva i principii fondamentali in materia di scopo della legge 117 del 1988 e di criteri cui necessariamente devono uniformarsi i quesiti referendari con propositi abrogativi.
Per quanto di utilità per il presente saggio si possono evocare i passaggi che seguono.
Il punto di diramazione dell'impostazione adottata dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza può con sufficiente certezza ravvisarsi nel motivato richiamo alla propria giurisprudenza, ed in particolare alla sentenza 38 del 2000 con la quale, nel dichiarare inammissibile altro quesito referendario sempre vertente su disposizioni della legge 117 del 1988 e tendente all'introduzione attraverso il voto popolare della responsabilità civile diretta dei magistrati, la Corte negò che “l'introduzione dell'azione diretta nei confronti del magistrato, accanto alla perdurante possibilità di proporre l'azione contro lo Stato, possa realizzarsi grazie a meccanismi di riespansione o autointegrazione dell'ordinamento attivati dall'eventuale abrogazione popolare”. Dell'importanza di questa statuizione, e della sua potenziale (poi effettivamente tradottasi in atto) decisività nella fattispecie si è resa conto la difesa dei proponenti il referendum odierno che, per sottrarsi alla precedente censura di difetto di chiarezza del precedente quesito, ha precisato che il successivo è ben in grado di esibire il proprio intento teleologico, consistente, appunto, nel raggiungimento del fine della previsione della responsabilità civile diretta degli appartenenti all'ordine giudiziario: si vedrà oltre che anche questa volta l'obiettivo è stato mancato.
Ulteriori fondamenti di un discorso di continuità vanno agevolmente colti nella citazione di quelle sentenze costituzionali (5 del 2015, 25 del 2011, 40 del 2000, 30 e 34 del 1997) le quali hanno concordemente sottolineato come la previsione normativa, attuata con la più volte menzionata legge 117 del 1988, di un'unica tipologia di azione diretta (quella verso lo Stato) preclude la possibilità che solo attraverso la via referendaria (e non quella legislativa) si introduca una seconda categoria di azioni risarcitorie, quelle dirette contro il magistrato. A questo ostacolo i proponenti hanno opposto -senza, tuttavia, cogliere nel segno, come apparirà chiaro più avanti - la tesi secondo cui “l'eliminazione dell'espressione “contro lo Stato” possa sprigionare un autonomo contenuto normativo, facendo riespandere la disciplina generale che prevede la coesistenza della disciplina dello stato e quella diretta del magistrato, discendente proprio dai citati art. 28 Cost. e D.P.R. n. 3 del 1957”: con ciò evidentemente riferendosi all'ipotesi di carattere eccezionale di responsabilità diretta del magistrato derivante dalla accertata commissione di un illecito penale ai sensi dell'art.13 della legge 117 del 1988.
La Corte si è mostrata particolarmente attenta, poi, in aderenza ai propri costanti orientamenti alle possibili, negative ricadute sull'ammissibilità dei quesiti referendari in generale della manipolazione della struttura linguistica dell'abroganda disposizione: esito da evitare in relazione al rischio che da essa possa prender vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo ed idoneo a stravolgere la funzione propria del referendum abrogativo (sentenze 10 del 2020, 46 del 2003, 50 e 38 del 2000, 26 del 1997).
In questa illustrazione preliminare al merito della sentenza di cui ci si occupa vanno ricordati i due seguenti, ulteriori dati, l'uno di carattere giurisprudenziale, l'altro di profilo normativo.
Partendo da quest'ultimo la Corte Costituzionale ha opportunamente ripercorso le tappe evolutive verso l'odierno regime in materia di responsabilità giudiziale, rammentando come il vigente assetto legislativo prenda le mosse dalle previsioni degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. le quali, bensì consentivano l'esercizio dell'azione diretta in ipotesi estreme nei confronti del magistrato, subordinandola, tuttavia, all'autorizzazione del Ministro della giustizia, per poi evolversi, a seguito della loro abrogazione con il referendum popolare del 1987, nella legge 117 del 1988 che preserva lo statuto costituzionale della magistratura attraverso l'introduzione di condizioni e limiti alla responsabilità civile dei magistrati e la previsione di un'azione di rivalsa dello Stato direttamente chiamato in causa e soccombente nei confronti del magistrato responsabile. Il sistema si è poi completato con la legge 18 del 2015 che ha ampliato le ipotesi di responsabilità civile del magistrato ed eliminato il filtro della previa dichiarazione di ammissibilità dell'azione ed ha configurato l'azione di rivalsa da parte dello Stato soccombente nel giudizio contro lo stesso direttamente proposto nei confronti del magistrato che abbia cagionato un danno ingiusto con dolo o negligenza inescusabile.
Venendo al riferimento effettuato nella sentenza 49 /2022 al proprio precedente più remoto tendente al coordinamento sistematico delle disposizioni, di rango costituzionale ed ordinario, aventi ad oggetto la responsabilità giudiziale la Corte Costituzionale si sofferma sulla propria, antecedente sentenza 2 del 1968 con cui, pur riconoscendo che la norma dell'art. 28 citato concerna anche i magistrati[7] si ammette che leggi ordinarie disciplinino variamente la responsabilità per categorie e situazioni, alla sola condizione che essa non sia sostanzialmente denegata, come avrebbe aggiunto la sentenza 385 del 1996.
3. I termini del quesito referendario
Tra gli altri quesiti referendari in materia di giustizia[8] quello che spiegabilmente suscitava maggior allarme per quanto di attinenza al mantenimento dell'impianto costituzionale che descrive e tutela la figura dell'appartenente (Giudice e Pubblico Ministero) all'ordine giudiziario, tratteggiandone lo statuto, era certamente la proposta di abrogazione[9] di varie disposizioni della legge 117 del 1988 che limitano allo Stato la legittimazione passiva nei giudizi promossi a seguito di atti o fatti riconducibili al magistrato ravvivati dal necessario sostrato soggettivo e produttivi di danno ingiusto. Il dichiarato fine perseguito dai proponenti era quello di dar vita ad un regime di responsabilità civile capace di concepire la possibilità che la persona lesa nella propria posizione soggettiva per effetto di atti compiuti nell'esercizio di funzioni giudiziarie agisca direttamente contro il magistrato autore degli stessi. La comune matrice del quesito referendario, formulato da alcune Regioni ad omogenea maggioranza politica (Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte) era data dalla tensione all'abolizione della norma speciale in virtù della quale l'azione di responsabilità giudiziale tipica va, salvo l'ipotesi eccezionale di fatti penalmente rilevanti di cui con sentenza definitiva il magistrato sia stato giudicato colpevole, promossa esclusivamente contro lo Stato, pur con la menzionata possibilità della rivalsa (punto 2.2. della sentenza). Nell'illustrare le ragioni a sostegno dell'ammissibilità del quesito i proponenti ne hanno sottolineato la chiarezza e coerenza, desumibile anche dal citato fine cui è diretto, positivamente apprezzabile anche alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale che, in tema di responsabilità civile dei magistrati, ha riconosciuto al legislatore la possibilità di “scelte plurime, anche se non illimitate” nonché “una valutazione discrezionale” (sentenze 26 del 1987 e 38 del 2000 ), nella logica del contemperamento delle contrapposte esigenze del soggetto ingiustamente danneggiato ad ottenere ristoro per i pregiudizio subìto e di quella della preservazione dell'indipendenza della magistratura (considerazioni che escluderebbero l'eventualità che in materia sia presente una disciplina costituzionalmente vincolata: punto 2.1 della sentenza).
4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale
Si è già fatto cenno nei paragrafi precedenti ad alcuni dei tratti fondativi della sentenza per quanto afferisce al contesto storico-normativo della vicenda dedotta con il quesito e ad alcuni basilari principii destinati ad ispirare il compito valutativo della Corte Costituzionale in frangenti simili.
Conviene adesso concentrarsi su quegli aspetti della pronuncia che, con rigoroso criterio logico, hanno assunto ad oggetto del giudizio il puntuale raffronto tra il modo di formulazione e l'obiettivo propostosi dal quesito e le regole proprie della fase di ammissibilità del referendum, tratte anche dalla necessaria previsione dello scenario normativo che si verrebbe a configurare nell'ipotesi di ammissione e celebrazione del referendum, con voto popolare di approvazione della proposta abrogativa.
La prima cura della sentenza è stata dedicata alla individuazione e successiva qualificazione, refluente sul giudizio di ammissibilità, della tecnica del “ritaglio” adottata nella prospettiva di abrogare alcune espressioni lessicali ricorrenti nelle numerose norme della legge 117 del 1988 oggetto del quesito al fine di consentire in definitiva che il magistrato possa essere citato direttamente nel giudizio civile risarcitorio da parte del danneggiato, così superando la vigente normativa che prevede forme di responsabilità del magistrato solo in sede di rivalsa da parte dello Stato, ove quest'ultimo sia stato condannato al risarcimento, mentre in caso di reato la responsabilità del magistrato non consegue ad un'azione intentata nei suoi confronti innanzi al giudice civile, se non per effetto di una previa condanna penale (punto 3 della sentenza).
In primo luogo, proprio alla stregua di quest'attività interpretativa, in ottica teleologico-effettuale, del quesito la Corte ne ha dichiarato l'inammissibilità, denunciandone un carattere manipolativo e creativo, e non meramente abrogativo. Per spiegare questo delicatissimo e dirimente punto di vista la Corte si immerge nella storia normativa[10], di cui si è prima fornita una sintesi, che ha attraversato[11] il tormentato istituto della responsabilità giudiziale che ha trovato il proprio (sarebbe azzardato qualsiasi pronostico di definitività) approdo nella legge 18 del 2015,di cui si sottolinea la (indiretta, in verità) genesi nella nota sentenza della grande sezione della CGUE 13 giugno 2006 in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa[12]. Al riguardo, la completezza espositiva suggerisce di ridimensionare in queste pagine la pretesa necessarietà della portata causale della giurisprudenza comunitaria rispetto all'emanazione della legge[13]: a questa conclusione si perviene pianamente considerando quanto affermato da Cass. 20 ottobre 2016 n. 21246 che ha risolutamente negato che la disciplina della legge 117/1988 fosse incompatibile con l'ordinamento comunitario qualora la condotta contestata al magistrato non implichi l'applicazione, diretta o indiretta, del diritto dell'Unione.
Tornando alla censura di manipolatività e creatività rivolta dalla Corte Costituzionale al quesito referendario va lodata la conseguenzialità logica del ragionamento svolto. Esso muove dalla prefigurazione dello scenario in senso ampio normativo (o forse sarebbe più esatto dire dal vuoto o dall'aporia) che si presenterebbe agli occhi dell'interprete nel caso di introduzione, a cagione dell'ammissione e dell'approvazione con voto popolare del quesito, dell'azione civile diretta nei confronti del magistrato “senza alcun filtro” e cioè come semplice effetto meccanico dell'impiego “della cosiddetta tecnica del ritaglio” (punto 6 della sentenza). E' immediata la percezione, come acutamente osserva la Corte, che la conseguenza pratica sarebbe quella di creare un nuovo regolamento normativo del tutto indipendente da una deliberazione parlamentare, peraltro privo dei necessari requisiti di determinatezza (tempi, modi, condizioni, limiti) relativi alla concreta conformazione dell'azione diretta. In sostanza, ben può dirsi che si sarebbe dato vita ad un'“invenzione” legislativa effettuata al di fuori del canale parlamentare ed attraverso un'indebita usurpazione, nell'improprio teatro del referendum abrogativo, del potere legislativo ad opera del corpo elettorale. Di pari evidenza sarebbe l'assoluta insufficienza a riempire di compiuto e consentito spazio il vuoto lasciato dall'eventuale esito referendario, a colmare il quale non potrebbe di certo giovare il residuo impianto della legge 117 del 1988, nata ed elaborata con il contrario presupposto della tipicità della sola azione diretta nei confronti dello Stato e con la solo residuale previsione dell'azione di rivalsa nei confronti del magistrato (assoggettabile all'azione diretta, come già ribadito, nel solo caso di commissione di un illecito penale accertato nella competente ed irretrattabile sede). In sostanza, è facile osservare che al “ritaglio” tentato attraverso il quesito conseguirebbe un'autentica eterogenesi dei fini della residua legislazione, distolta dal suo coerente alveo originario e distorta verso fini logicamente inconciliabili, se non antitetici, rispetto ad esso. Assolutamente opportuna si rivela, da questo punto di vista, l'affermazione racchiusa a metà del punto 8 allorché si legge che “la responsabilità civile del magistrato, in quanto necessariamente subordinata alla introduzione legislativa di condizioni e limiti del tutto peculiari, non si presta alla piana applicazione della normativa comune vigente in tema di responsabilità dei funzionari dello Stato; sottraendosi, in caso di abrogazione referendaria, alla potenziale riespansione dei principi ai quali tale ultima normativa si conforma (già la sentenza n.468 del 1990 aveva sottolineato la coessenzialità di tali condizioni e limiti alla eventuale introduzione di un'azione diretta)”.
Conviene soffermarsi su questa affermazione di principio prima di guardarne le conseguenze dalla Corte Costituzionale tratte in punto di ammissibilità del quesito referendario.
Tirando le somme dalla proposizione prima riportata si deduce la intatta solidità dell'architettura concepita sul tema da Corte Costituzionale n.2 del 1968 (Sandulli Presidente, Branca redattore), articolata in una coppia di considerazioni: la peculiarità, di origine costituzionale, dell'istituto della responsabilità giudiziale; l'ineludibile esigenza che attorno al tema si crei un'armoniosa rete di coordinate disposizioni legislative rivolte allo scopo di individuare condizioni e limiti alla previsione di un'azione di responsabilità diretta nei confronti del magistrato.
Su queste inoppugnabili basi, al tempo stesso obbedienti alla logica argomentativa e fedeli alla costruzione costituzionale della Magistratura (art. 101 ss.), la sentenza 49/2022 definisce il quadro degli effetti dell'eventuale abrogazione delle norme citate nel quesito referendario, dichiarando il fallimento del relativo scopo in quanto inadatto a concepire con sufficiente adeguatezza “una seconda e differente forma processuale di responsabilità del magistrato” da accostare a quella unica (dello Stato in via diretta) voluta dal legislatore del 1988.
Tutti gli ulteriori argomenti adibiti dalla Corte Costituzionale a suffragio della irrimediabile distanza del quesito dal corteo di inveterati principii alla cui stregua valutarne l'ammissibilità sviluppano il tema dell'inefficacia della proposta abrogativa rispetto al fine perseguito di introduzione di una forma diretta di responsabilità giudiziale, di cui mancherebbero sia gli elementi strutturali sia i mezzi di coordinamento letterale, logico e sistematico con la coesistente responsabilità dello Stato (si veda in particolare il punto 9.3): analoghe critiche erano state indirizzate ad altra, precedente proposta abrogativa attraverso referendum dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 34 del 1997.
Proprio l'ineliminabile convivenza tra due forme di responsabilità (quella previgente dello Stato e quella di ipotetica nuova introduzione referendaria) gioca nel senso di appannare la possibilità di una scelta chiara e certa da parte dell'elettore che fosse chiamato ad esprimersi sul quesito (cui deve essere riconosciuta la facoltà di una scelta chiara nell'esercizio del suo potere sovrano di voto: Corte Costituzionale 39 del 1997) lasciandolo del tutto privo di razionali punti di riferimento circa il rapporto tra la responsabilità civile dello Stato e quella diretta del magistrato, in particolare rimanendo tutt'altro che sciolto il dubbio circa la natura solidale o sussidiaria della prima rispetto alla seconda, così incorrendo in un ulteriore profilo di oscurità già segnalato in occasione simile dalla sentenza costituzionale n. 26 del 1987 (punto 10.2).
Il serrato discorso condotto dalla sentenza ha condotto, pertanto, alla dichiarazione di inammissibilità sotto varii e concorrenti profili del quesito referendario: ma non è detto che questa pronuncia ne inibisca la futura riproposizione non sembrando cessati i profondi, reconditi moventi ispiratori ai quali si è alluso nella parte iniziale
5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche. La lezione inglese
L'elevato indice di frequenza della proposizione di quesiti referendari in materia di responsabilità civile dei magistrati con riguardo all'esercizio delle proprie funzioni e la focosissima vivacità del dibattito politico, non di rado tracimante nella frontale e sfrontata sfiducia nei confronti dell'intero ordine giudiziario, rappresentano sintomi non trascurabili e da non trascurare nel più vasto ambito della riconsiderazione in chiave critico-propositiva dell'odierna concezione dell'attività giurisdizionale e dei concreti modi di inverarla da parte dei singoli magistrati.
Sarebbe completamente estraneo ad uno studio, come il presente, dedicato al ragionato esame di un'importante e simbolicamente preziosissima pronuncia della Corte Costituzionale indugiare sulle molteplici spigolature che la complessa questione implica: in misura maggiore sconsiglia una simile distrazione intellettuale la spesso provocatoriamente ricercata ed amplificata natura politica (non sempre pensata in senso nobile) della genesi e delle possibili soluzioni di essa.
Ma un auspicio si può formulare, incoraggiato anche dalle lucide ed emotivamente distaccate ragioni addotte dalla Corte Costituzionale per dichiarare inammissibile il referendum di cui qui si è scritto.
Esso suona nel senso che accostarsi al tema della responsabilità giudiziale postula che un fondamentale presupposto venga accettato e collocato al centro della riflessione, al pari di quanto la ricca esperienza giuridica inglese insegna: la necessaria separazione concettuale e pratica da operare in sede processuale tra la persona e l'atto del magistrato. Cumulare o rendere indifferenziati i due aspetti conduce all'ineluttabile risultato di velare ogni indagine, lasciando che essa presti il fianco al fondato timore alla tentazione - intollerabile quando si discute attorno a valori costituzionali - della faziosità intellettuale. Il prezzo sarebbe troppo alto da pagare e la collettività che non può che guardare con quotidiana speranza alle vicende che si svolgono nel campo dell'amministrazione della giustizia non meriterebbe di vederselo addebitato. Esporre il provvedimento giudiziale che si assume iniquo o errato ad un ulteriore grado di giudizio e non l'autore a conseguenze processuali dirette (dal discorso esula, ovviamente, il problema delle ricadute in termini di considerazione professionale del magistrato) ed eccedenti lo scopo e l'esito del nuovo giudizio è la lezione che continua ad impartirci il common law inglese.
Bene ed utilmente si possono assumere come guida illuminante le parole di Lord Hailsham (al secolo Quintin Mc Garel Hogg, 1907-2001), illuminato giurista, giudice della Appellate Division della House of Lords e Lord cancelliere in governi conservatori, di tale risoluto carattere da esser temuto – secondo i suoi biografi – perfino da Margaret Thatcher, pronunciate nel corso di una lezione tenuta il 17 ottobre 1977 alla New Brunswick Law School[14]. Egli affermò[15] che l'indipendenza giudiziale è un grande bastione contro una concezione assolutistica della democrazia e rappresenta uno dei principii fondativi della libertà e della democrazia inglesi. Egli, pur non escludendo la legittimità della sottoposizione a critiche dell'operato dei giudici (cui saggiamente suggeriva di non cedere mai alla tentazione di rispondervi), concludeva nell'esemplare senso che al risultato dell'efficacia dell'azione giudiziale dovesse, comunque, tendersi senza alcun sacrificio della essenziale libertà di giudizio, fino a raggiungere anche le vette della creatività, in modo da difendere i diritti individuali contro i soprusi della burocrazia e della politica[16].
È insopprimibile il desiderio che parole e concetti così nobili possano risuonare sempre in ogni aula (parlamentare, giudiziaria) nella quale si dibatta del senso e dei limiti dell'attività giudiziale.
[1] Può essere utile il rinvio a Serio, Responsabilità o immunità giudiziale: studio comparatistico su un'apparente alternativa, in Il giusto processo civile, 2017, pagg. 333 ss., nonché, al sempre mio, Riflessioni sulla responsabilità giudiziale in diritto comparato, in Europa e diritto privato, 1998, pag. 1149 ss.
[2] Per il raffronto con altri ordinamenti si può rinviare a Bairati, La responsabilità per fatto del giudice in Italia, Francia e Spagna, fra discipline nazionali e modello europeo, Napoli 2013.
[3] Avenson v Casson Beckman Rutley &Co. ( 1975 ) 3 WLR 823.
[4] “He is merely the repository of a public right which is designed to ensure that the administration of justice will be untrammelled by the collateral attacks of disappointed litigants”.
[5] Serio, Responsabilità o immunità, cit. pag. 337.
[6] Criscuoli-Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, II edizione, Milano, 2021, pag. 381 ss.
[7] Si ritenne, infatti, che andasse esclusa sia la legittimità di una negazione totale della responsabilità giudiziale sia la ragionevolezza di una siffatta ipotetica negazione e in sé, con riguardo anche al principio di eguaglianza, ed in rapporto al criterio di imputabilità per gli atti ed i provvedimenti posti in essere dai pubblici dipendenti ai sensi del testo unico n. 3 del 1957: v. sul punto, Serio, Riflessioni, cit., pag. 367 ss.
[8] Su cui si è soffermato criticamente Giovanni Verde nel suo Referendum: quesiti di difficile comprensione. Davvero utili ?, in Guida al diritto n.8 del 5 marzo 2022.
[9] La cui denominazione è stata integrativamente rivisitata dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione nei seguenti termini: “Responsabilità civile diretta dei magistrati: abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie”.
[10] Già in passato si è autorevolmente segnalata la doverosità di un soddisfacente e chiarificatore intervento legislativo: Bartole, Della responsabilità civile del giudice e di quella ( per inadempienza ) del legislatore ordinario, in Giur.it., 1976, I, 1135 ss.
[11] Anche per effetto dell'esame del tema generale da parte della restrittiva giurisprudenza di legittimità: da Cass.1722/1960 a Cass.1879/1982 secondo cui - in difformità da Cass.1916/1979 - nel precedente sistema descritto dalle norme processualcivilistiche “non sussiste coincidenza tra la responsabilità del funzionario e quella dello Stato per il quale egli agisce”: orientamento subito dopo seguito dal Tribunale di Roma con sentenza 29 settembre 1982 in Resp. civ. e prev. 1983, 222 con nota redazionale.
[12] È ben verificabile l'impatto inziale della riforma del 2015 in alcune pronunce della Cassazione nelle quali si sottolinea che la responsabilità del magistrato si configura come caratterizzata da un elemento soggettivo costituito da un'attività interpretativa abnorme, scorretta e tale da sconfinare nel libero arbitrio: Cass.7 aprile 2016 n. 6791 in Resp. civ. e prev., 2016, 1585 con nota di Giorgetti, Le fantasiosi interpretazioni dei giudici di merito vanno sanzionate.
[13] Sulla quale si vedano i primi commenti di Rosano, Rimaneggiamenti della legge sulla responsabilità civile dei magistrati: nuove questioni di legittimità costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2016, 920 ss. e Cortese - Penasa, Brevi note introduttive alla riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp .civ. e prev., 2015, 1026 ss.
[14] E pubblicate sotto il titolo Democracy and judicial independence, in U.N.B. Journal 1977, 7 ss.
[15] Si veda il mio Responsabilità o immunità giudiziale, citato, pag. 355.
[16] Op. ult. cit., pag. 17.
Interdittiva antimafia tra norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie (Nota a Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. Sulla legittimità costituzionale, euro unitaria ed internazionale delle norme in materia di interdittiva antimafia - 3. La necessità di riforma: uno sguardo al D.L. 6 novembre 2021, n. 152.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
L’interdittiva antimafia è manifestazione tangibile della volontà di recidere il rapporto tra organizzazioni criminali e cosa pubblica [1]. In tale complesso sistema va segnalata la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165.
I Giudici di Palazzo Spada hanno reso la sentenza in commento sulla riforma della pronuncia del Tar Latina, sez. I, n. 303/2020 che aveva rigettato il ricorso proposto dalla società ora appellante.
Quest’ultima aveva presentato domanda per il rilascio dell’autorizzazione a svolgere l’attività di facchinaggio all’interno del MOF (Mercato Ortofrutticolo di Fondi) nonché della possibilità di accedere al Mercato per i propri soci e dipendenti, depositando la documentazione richiesta e fornendo i dati necessari.
La MOF, al fine di tutelare la libertà delle attività commerciali all’interno del Mercato (oggetto di vari episodi di infiltrazione criminale), sottoscriveva protocollo di legalità con la Prefettura di Latina e, dunque, faceva richiesta di informazione antimafia alla Banca Dati Nazionale Antimafia; nelle more dell’esito, rilasciava in favore della società appellante l’autorizzazione richiesta per l’anno in corso.
La Prefettura, alla luce del protocollo di legalità, comunicava alla MOF di aver emesso provvedimento interdittivo antimafia nei confronti della detta società; tuttavia a tale informazione non seguiva alcun provvedimento da parte della MOF in quanto la società appellante non aveva presentato domanda di autorizzazione nei termini prescritti per l’anno d’interesse e, pertanto, non avrebbe comunque potuto operare all’interno del Centro Agroalimentare, in quanto non autorizzata.
La società presentava ricorso innanzi al TAR per il Lazio, sede di Latina, chiedendo l’annullamento, previa tutela cautelare, dell’informativa antimafia interdittiva, del protocollo di legalità per il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, della segnalazione all’Autorità Anticorruzione e della stessa annotazione nel Casellario Informatico dei contratti pubblici.
Il TAR accoglieva la domanda di tutela cautelare, con ordinanza che, appellata dal Ministero dell’interno, veniva poi annullata dal Consiglio di Stato. Successivamente, la società presentava ricorso per motivi aggiunti, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario. Ricorso principale e motivi aggiunti venivano poi entrambi rigettati.
La sentenza di merito veniva appellata sollevando anche alcune questioni di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 84, 85, 89 bis, 91 co.6 e 94 del D.Lgs. 159/2011 per violazione dei principi di uguaglianza, di solidarietà e di sussidiarietà, ex articoli 2, 3, 4, 22 e 118, ult. co. della Costituzione, e lamentando inter alia la violazione degli artt. 1 e 2 c.c., dell'art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, degli artt. 6 e 13 della CEDU.
Nel merito, chiedeva al Consiglio di Stato, accertata e dichiarata l'illegittimità della sentenza del TAR Lazio, nonché degli atti impugnati, di accogliere l’appello e, per l’effetto, i ricorsi introduttivo e per motivi aggiunti di primo grado ed annullare i provvedimenti con questi impugnati.
Il Consiglio di Stato, nel vagliare i motivi addotti dalla società appellante ed alla luce delle ampie deduzioni dell’appellato Ministero dell’interno circa le infiltrazioni mafiose in atto, riteneva l’appello non fondato al pari delle questioni di legittimità costituzionale e di legittimità sotto il profilo euro unitario ed internazionale pattizio e pertanto, definitivamente pronunciandosi, respingeva l’appello.
2. Sulla legittimità costituzionale, euro unitaria ed internazionale delle norme in materia di interdittiva antimafia
Preliminarmente la pronuncia in commento, richiamando consolidata giurisprudenza, rappresenta come l’interdittiva antimafia costituisca "una misura volta alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione" [2]. Il provvedimento prefettizio ha, dunque, il precipuo fine di prevenire possibili infiltrazioni mafiose nell’economia che inevitabilmente andrebbero a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione costituendo al contempo un presidio dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, previsti dall'art. 97 Cost. [3]. Dunque, le misure interdittive antimafia sono inserite a sistema per la tutela sia dello svolgimento di una effettiva concorrenza tra le imprese sia di un apprezzabile utilizzo delle risorse pubbliche [4].
Chiarita la condivisibile ratio ispiratrice dei provvedimenti interdittivi prefettizi, la complessa sentenza in commento si palesa di grande interesse nella parte in cui tratta le questioni di legittimità costituzionale sollevate avverso le disposizioni dettate dal libro II del D.Lgs. 159/2011 ed in particolare, avverso gli artt. 84, 85, 89 bis, 91 co.6 e 94 del D.Lgs. nonché dei diritti fondamentali previsti dalla carta CEDU e dai protocolli addizionali [5].
Il Collegio, ritenendo tali censure infondate, precisava che secondo la normativa nazionale le misure interdittive antimafia si concretizzano, non nell’intervento su di “uno status generale di capacità giuridica” bensì, nella previsione di “limiti e divieti temporanei e specifici di contrattazione con la pubblica amministrazione e di esercizio di attività economiche sottoposte a vaglio autorizzativo a tutela di interessi pubblici generali” nonché a tutela della stessa possibilità di un loro libero esercizio da parte di tutti i competitoreconomici, nel rispetto dei principi di libertà d’iniziativa economica privata e di concorrenza sanciti dall’art. 41 della Costituzione e dal Trattato UE [6].
Pertanto, il giudice adito, richiamando un Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato riconduce ad una incapacità di agire temporanea l’effetto dell’interdittiva, essendo previste, a suo avviso, adeguate misure per poter ristabilire le condizioni di affidabile partecipazione della società all’economia, nella sua espressione più libera e incondizionata da possibili infiltrazioni.
In realtà, lo studio della casistica degli ultimi anni ci mostra come tali misure non siano affatto temporanee in quanto revocate esclusivamente nel caso in cui affiorino nuovi elementi pro imprenditore, determinando inevitabilmente un illegittimo rovesciamento dell’onus probandi e causando conseguentemente un’inerzia procedimentale ingiustificata.
Inoltre, i giudici di Palazzo Spada ritengono che le misure interdittive, estranee al sistema sanzionatorio penale in ragione del loro carattere cautelare ed anticipatorio, sono sottoposte ai principi di legalità e del giusto procedimento ammnistrativo, secondo criteri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità [7].
Invero, a parere di chi scrive, la misura interdittiva spiega i propri effetti in modo molto più incisivo per il destinatario rispetto a qualunque misura cautelare personale cui un soggetto possa essere attinto e da ciò si palesa la necessità di ancorare le garanzie che devono seguire e presupporre tali provvedimenti [8]. La portata di tali provvedimenti si comprende estendendo l’angolo di osservazione e interpretando gli effetti devastanti che produce nei confronti di soggetti terzi ovvero soggetti che lavorano presso l’impresa attinta dall’interdittiva che vedono limitato un proprio diritto fondamentale.
Ancora bisogna ricordare che la normativa antimafia non prevede una partecipazione necessaria del soggetto in fase procedimentale andando ad inficiare probabilmente la garanzia di una piena istruttoria assicurata solo da un effettivo contraddittorio delle parti [9].
Il Collegio, poi, richiama la Corte Costituzionale (n. 57 del 2020) che già respingeva i dedotti dubbi di incostituzionalità, affermando che: “...queste complesse valutazioni che – come si è rilevato - sono, sì, discrezionali, ma dalla forte componente tecnica, sono soggette ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo. Di fatto è questa la portata delle numerose sentenze amministrative che si sono occupate dell’istituto. Esse non si limitano ad un controllo “estrinseco” e, pur dando il giusto rilievo alla motivazione, procedono ad un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza.”
Tuttavia, è discutibile sostenere che il Prefetto svolga attività di discrezionalità tecnica nell’emissione di un provvedimento interdittivo poiché esso si traduce in una valutazione di elementi di fatto, sovente di natura indiziaria e acquisiti a valle di un’attività istruttoria svolta talvolta rivalutando elementi già valutati in sede penale e da cui trae elementi che portano ad una decisione opposta in sede amministrativa.
È poco sostenibile, dunque, che la valutazione di fatti possa essere ricondotta nella discrezionalità tecnica e d’altro lato, appare ancor meno adeguata la limitazione che consegue a livello giurisdizionale poiché il giudice viene privato degli strumenti istruttori che permetterebbero di “investigare in autonomia” i fatti presupposti risalendo alla concreta portata [10].
Pertanto, è inevitabile rilevare come alla discrezionalità della Pubblica amministrazione nella materia in commento non segua una piena capacità istruttoria del giudice amministrativo realizzando sovente una ingiustificata compressione del diritto di difesa dell’operatore economico attinto dalla misura interdittiva.
Il collegio, allo stesso modo, ritiene infondate le violazioni sindacabili innanzi alla CEDU chiarendo che “in considerazione della natura non repressiva ma preventiva, e della varietà di comportamenti con cui le mafie ricercano attrattive occasioni di infiltrazione in società e relativi settori economici, il Consiglio di Stato ha ripetutamente – con la conferma della Corte Costituzionale adita in sede incidentale – affermato che la “tipizzazione giurisprudenziale”, in costante evoluzione, effettuata dal Supremo organo di giustizia amministrativa costituisce “parametro sufficientemente adeguato a evitare ogni pericolo di discrezionali se non arbitrarie azioni, nella vaghezza dei loro presupposti, da parte della autorità prefettizia nel definire i comportamenti sintomatici della infiltrazione mafiosa”. Sulla scorta di ciò, il Collegio adito esclude la pretesa irragionevole limitazione degli strumenti di tutela giurisdizionale dell’impresa sottoposta ad interdittiva antimafia in violazione delle norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie richiamate a tal fine.
E ciò dimostra che anche la discrezionalità ha un limite e che sarebbe finalmente opportuno introdurre in via legislativa una fase di partecipazione del destinatario dell’interdittiva affinché possa dimostrare le sue ragioni sin dalla sede procedimentale.
3. La necessità di riforma: uno sguardo al D.L. 6 novembre 2021, n. 152
A valle dell’orientamento giurisprudenziale e delle opposte posizioni della dottrina è evidente come la materia meriti una rimeditazione da parte del legislatore. Chi scrive, da tempo, sostiene che già in sede procedimentale la disciplina vada ripensata, estendendo garanzie e tutele al futuro destinatario del provvedimento interdittivo. Ciò che si richiede è un ancoraggio della disciplina ai principi dell’agire amministrativo.
L’esigenza della partecipazione effettiva mediante un contraddittorio procedimentale è stata finalmente colta con il D.L. 6 novembre 2021, n. 152 – G.U. 6 novembre 2021, n. 265 che all’art. 48 rubricato “Contraddittorio nel procedimento di rilascio dell'interdittiva antimafia” prevedendo che: “Il prefetto, nel caso in cui, sulla base degli esiti delle verifiche disposte ai sensi del comma 2, ritenga sussistenti i presupposti per l'adozione dell'informazione antimafia interdittiva ovvero per procedere all'applicazione delle misure di cui all'articolo 94-bis, e non ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento, ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa. Con tale comunicazione è assegnato un termine non superiore a venti giorni per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione, da effettuare secondo le modalità previste dall'articolo 93, commi 7, 8 e 9. In ogni caso, non possono formare oggetto della comunicazione di cui al presente comma elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l'esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose. La predetta comunicazione sospende, con decorrenza dalla relativa data di invio, il termine di cui all'articolo 92, comma 2. (…)”
Assistiamo ad una presa di posizione fortemente auspicata. È pur vero però che ciò non può soddisfare pienamente chi desidera un sistema giusto e lontano dallo Stato della Paura. Negli ultimi anni, si è abusato di uno strumento che per sua natura sacrifica (talvolta in modo sproporzionato) diritti fondamentali del destinatario.
Solo la proporzione è condizione di civiltà dell’azione amministrativa e pertanto bisogna allontanare ogni possibile ipotesi di riconduzione ad un sistema sciolto e fluido, seppur necessario al contrasto di organizzazioni mafiose che per natura sono mutevoli [11].
*Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire il primo paragrafo a Renato Rolli e i restanti a Martina Maggiolini
[1] Si consenta il rinvio a R. Rolli M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), in questa Rivista, 2020
[2] Cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 1743
[3] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in questa Rivista, 3 luglio 2020
[4] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 31 dicembre 2014 n. 6465
[5] Si consenta in rinvio a R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732), in questa Rivista, 2021
[6] V. SALAMONE, La documentazione antimafia nella normativa e nella giurisprudenza, Napoli, 2019
[7] v. F. FRACCHIA - M. OCCHIENA, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico”, il diritto dell’economia, 2019
[8] Cfr. A. Longo, La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, Nomos, 2020
[9] Cfr. M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giurisprudenza italiana, 2020
[10] v. F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in www.giustamm.it, 6, 2018
[11] Cfr. Cons. St. 5 settembre 2019, n. 6105
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