ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dirigenza giudiziaria: la parola al CSM
Intervista di Riccardo Ionta e Federica Salvatore a Alberto Benedetti, Giuseppe Cascini e Loredana Miccichè
Il carico di lavoro consiliare, le carenze delle fonti informative, i pericoli di valutazioni basate su curricula pletorici e di carriere dirigenziali parallele, le motivazioni imperfette delle decisioni: le opinioni di tre componenti del Consiglio Superiore non sempre collimano, talvolta divergono. E l’intervento del giudice amministrativo sempre più spesso incombe.
Anche in questa consiliatura il CSM ha provveduto a un numero elevatissimo di nomine e conferme. Quanto incide questo numero sulla valutazione della qualità effettiva dei candidati, sui progetti organizzativi presentati dagli aspiranti direttivi? È compatibile, anche in prospettiva, con l’idea di un’estensione delle audizioni?
Alberto Benedetti I numeri sono stati alti, anche se certamente inferiori a quelli della consiliatura precedente. Mi ha certamente impressionato l’alto numero di domande per le varie posizioni, anche in relazione a uffici non direttivi. L’audizione può essere importante se, poi, se ne valorizzano i contenuti e i risultati nei provvedimenti di nomina; se, invece, sono un mero passaggio formale o rituale, non servono a nulla e, anzi, finirebbero con l’allungare ulteriormente i tempi delle decisioni. Credo nell’importanza del colloquio con gli aspiranti, soprattutto per le posizioni apicali più delicate, purché, ripeto, si tratti di un passaggio utile per valutare le capacità del candidato, non per ascoltare da lui un riassunto del proprio curriculum.
Giuseppe Cascini Da una rilevazione effettuata dall’Ufficio statistico del CSM nei primi 1156 giorni dall’inizio della consiliatura sono stati conferiti 383 incarichi, di cui 160 direttivi e 223 semidirettivi. Nello stesso periodo, cioè nei primi 1156 giorni, nella precedente consiliatura sono stati conferiti 771 incarichi (334 direttivi e 437 semidirettivi), nella consiliatura 2010/2014, sono stati conferiti 475 incarichi (199 direttivi e 276 semidirettivi), nella consiliatura 2006/2010 sono stati conferiti 761 incarichi (361 direttivi e 400 semidirettivi). E’ chiaro che le consiliature 2006/2010 e 2014/2018 hanno dovuto far fronte ad un numero molto più elevato di pratiche, come conseguenza, nel primo caso, della introduzione della temporaneità degli incarichi con la riforma del 2006 e, nel secondo caso, della riduzione dell’età pensionabile.
C’è da chiedersi come abbiano fatto, perché anche con la metà delle delibere, la situazione è molto difficile da gestire e i tempi di definizione sono molto lunghi.
In questa consiliatura la valutazione sulla qualità dei candidati, in base ai dati disponibili, e sui progetti organizzativi presentati è sempre stata molto approfondita, ma certamente un numero così elevato di pratiche è assolutamente incompatibile con la previsione di audizioni obbligatorie per tutte le pratiche.
Occorre, inoltre, considerare che con la riforma del TU della dirigenza del 2014, soprattutto alla luce della giurisprudenza amministrativa che si è formata a seguito di quella riforma, la procedura di nomina si è andata sempre più trasformando in una sorta di concorso per titoli, nel quale, soprattutto secondo l’impostazione del giudice amministrativo, non vi è molto spazio per valorizzare l’esito della audizione o la qualità del progetto organizzativo presentato.
Il sovraccarico di lavoro della Commissione ha determinato, però, un rilevante ritardo nella valutazione delle conferme. Ed è questo, oggi, l’aspetto più negativo dell’azione della quinta Commissione.
La proposta avanzata da AreaDG di una riduzione del numero di posti semi-direttivi, elaborata sulla base di motivazioni di politica giudiziaria ben più ampie e articolate, avrebbe comunque anche l’indubbio vantaggio di rendere più gestibile il carico di lavoro della Commissione.
Loredana Micciché L’elevato numero di nomine non incide sulla qualità delle valutazioni ma sui tempi necessari per la copertura dei posti direttivi, che richiede, in media, circa un anno. La durata delle procedure dimostra che il lavoro è svolto con il necessario approfondimento: nella esperienza biennale in Quinta Commissione ho potuto constatare che tutti i componenti conoscevano i profili professionali dei candidati e che la decisione ha richiesto, spesso, molte sedute. Preciso che i profili degli aspiranti vengono redatti dalla Segreteria della Commissione in base alla documentazione allegata alla domanda e in relazione a tutti gli indicatori dell’attitudine direttiva previsti dal Testo Unico della Dirigenza. Certamente l’elevato numero dei posti da conferire rende impossibile audire tutti i candidati, ma, in ogni caso, il ricorso ad audizioni generalizzate, a prescindere dal numero dei posti, può costituire un inutile appesantimento istruttorio, posto che le audizioni hanno un mero valore conoscitivo – comunque valutabile – ma non possono rivestire efficacia dirimente nella decisione. Una insoddisfacente valutazione della qualità “effettiva” è invece legata ad un problema di lacunosità delle fonti di conoscenza, poiché molto difficilmente i pareri attitudinali specifici degli Organi di autogoverno locale segnalano criticità.
Si lamenta da sempre la carenza delle fonti di conoscenza sui profili dei candidati. Ma, anche quando siano individuate, ciò che ne emerge viene verificato o è almeno verificabile da parte del Consiglio?
Alberto Benedetti Nella mia esperienza, generalmente si ritiene affidabile ciò che i candidati indicano nell’autorelazione; poi, naturalmente, le Commissioni possono fare ulteriori verifiche, specie all’interno del consiglio, per completare il quadro del profilo del candidato. Osservo che se si dovesse verificare ciò che si legge nelle autorelazioni, i tempi ulteriormente si allungherebbero; ogni consigliere – io l’ho fatto spesso – può poi verificare nelle fonti aperte i dati che legge sulle autorelazioni, per esempio per quel che riguarda le pubblicazioni allegate dai candidati o le esperienze didattiche.
Giuseppe Cascini Io credo che sia un errore, e anche un po’ una illusione, pensare di affidare ai sistemi di valutazione la “misurazione” delle qualità professionali dei candidati. I sistemi di valutazione (quelli quadriennali sulla professionalità, quelli in sede di conferma o di parere per il conferimento di incarichi) dovrebbero servire esclusivamente (o almeno prevalentemente) ad individuare eventuali elementi di criticità. Non è cosa da poco, in quanto un sistema in grado di escludere i candidati inadeguati può affidarsi con maggiore serenità a regole più stringenti e “oggettive” nella attribuzione degli incarichi. Su questo terreno io penso che il complessivo sistema di valutazione dei magistrati sia largamente carente. Ciò che prevale è l’uso, sovente generoso, di aggettivi superlativi sganciati dai fatti, mentre gli elementi di criticità, che spesso sono ampiamente conosciuti da tutti, raramente emergono.
La riforma, già approvata dal Consiglio, sulle procedure di conferma dei direttivi e semidirettivi e quella, in discussione in questi giorni in Quarta Commissione sulle valutazioni di professionalità, si pongono proprio l’ambizioso obiettivo di eliminare gli aggettivi e sostituirli con i fatti. Dalla approvazione, e dalla effettiva attuazione, di queste riforme passa, a mio avviso, la vera possibilità di un recupero di credibilità dell’azione consiliare.
Loredana Micciché Il CSM dispone d’ufficio, per ogni aspirante, la verifica sulla posizione disciplinare o sulla esistenza di pendenze riguardanti procedimenti di incompatibilità ambientale o parentale. Può acquisire elementi valutativi da atti, documenti o informazioni nella sua disponibilità, garantendo il contraddittorio del candidato ove si tratti di elementi negativi. Può anche disporre accertamenti presso le proprie articolazioni interne, come prevede l’art. 36 TU sulla Dirigenza Giudiziaria. Certamente, dunque, il Consiglio ha la possibilità e i mezzi per disporre verifiche e in tal senso si è sempre proceduto.
Nella “meritevolezza” su cui il CSM cerca basare le nomine quali capacità sono riconosciute? E c’è spazio per le capacità relazionali? Non si rischia piuttosto di premiare ambizioni basate su curricula costruiti ad hoc in un percorso professionale?
Alberto Benedetti Il rischio c’è, è molto concreto; nella mia esperienza, ho visto scelte basate solo sulle autorelazioni (talvolta accompagnate da audizioni, ma non sempre) e sui dati in queste contenuti. Le capacità relazionali potrebbero essere verificate solo ascoltando i colleghi del candidato o chi ha coordinato e diretto gli uffici in cui ha lavorato; ma allo stato non si fa e mi auguro che la riforma possa affrontare questo importantissimo aspetto con regole specifiche.
Giuseppe Cascini Come accennavo prima, già con la riforma del 2006, ma soprattutto con il nuovo TU della dirigenza del 2014 e la giurisprudenza amministrativa che su di esso si è formata, la procedura di nomina dei dirigenti si è andata sempre più trasformando in un concorso per titoli, nel quale conta prevalentemente il dato del formale svolgimento di un incarico, senza che vi sia una seria ed effettiva possibilità di verificare come quell’incarico è stato svolto e quali risultati sono stati conseguiti. L’eccessivo numero di indicatori, speciali e generali, in posizione pariordinata tra loro offre eccessivi “margini di manovra” al Consiglio, ma anche al giudice amministrativo, che sempre più spesso tende ad “invadere” la sfera della discrezionalità delle scelte.
La proposta di riforma del TU della dirigenza avanzata dal gruppo di AreaDG si pone l’obiettivo di attribuire peso prevalente alla esperienza professionale maturata nell’esercizio dell’attività giudiziaria, riducendo la rilevanza dei tanti, e diversi, incarichi di “collaborazione”.
Resta, però, un nodo ineludibile. In qualunque sistema di valutazione comparativa le precedenti esperienze direttive o semidirettive hanno un peso obiettivamente rilevante. Ciò determina il rischio della creazione di un circuito separato di dirigenti che passano da un incarico all’altro, accrescendo sempre più il proprio carnet di titoli. L’importante, allora, è entrare in quel circuito, casomai partendo da un semidirettivo scomodo e poco ambito, per poi risultare vincenti in tutti i successivi concorsi.
Loredana Micciché Il Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria è basato sulla fonte primaria, ossia sull’art. 12 del d.lgs. n.160/2006, che richiede “capacità di programmare e gestire le risorse”, “propensione all’impiego di tecnologie avanzate”, “capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e funzionari”, di “operare il controllo di gestione sull’andamento generale dell’ufficio”, di “dare piena attuazione a quanto indicato nel progetto tabellare”. È la legge, dunque, che richiede la presenza di una attitudine direttiva che deve necessariamente ricollegarsi ad elementi concreti. Detti elementi, nell’impianto del Testo Unico, si chiamano “indicatori” e vengono distinti tra indicatori “specifici” – che riguardano esperienze collegate alla tipologia di ufficio a concorso, quali esperienze di collaborazione, pregressi incarichi semidirettivi o direttivi, esperienza giurisdizionale nel settore civile o penale a seconda dell’incarico da conferire – e indicatori “generali”, rivelatori invece della attitudine direttiva a prescindere dal tipo di ufficio, quali le esperienze ordinamentali, le esperienze di referente informatico, le esperienze di formazione. Quanto alle capacità relazionali, le stesse sono espressamente valutabili, secondo il Testo Unico, solo con riferimento alle capacità dimostrate nello svolgimento di pregressi incarichi dirigenziali ai fini dell’acquisizione della dirigenza di un ufficio di grandi dimensioni, a norma dell’art. 18 T.U. Il “rischio di curricula ad hoc” che si paventa è legato alla esigenza tratteggiata dalla legge primaria, cui la normativa consiliare ha cercato di dare attuazione, non dimenticando però la contemporanea valorizzazione del lavoro giudiziario.
Quanto ritiene grande il rischio che, nella mole degli indicatori previsti dal t.u. sulla dirigenza, si crei una categoria di magistrati direttivi per carriera, estromettendo quanti, vale a dire la maggioranza, che per una parte della propria vita professionale non ha modo di acquisire titoli che vadano al di là dell’attività giurisdizionale?
Alberto Benedetti Il rischio mi pare elevatissimo; non occorre scomodare l’analisi economica del diritto per capire che se si appesantisce una scelta con mille parametri di ogni genere l’aspirante cerca di orientare la propria carriera all’obiettivo del conseguimento di questi parametri. E questo non va bene. Crea infatti persone che, ansiose di progredire, pensano più al loro cv che al lavoro che, in quel momento, stanno facendo, con risultati pessimi in termini di efficienza del sistema giustizia.
Giuseppe Cascini Il rischio, almeno a mio avviso è un rischio, è che si determini una separazione delle carriere tra un ristretto numero di dirigenti e tutti gli altri. Per evitare questo rischio sono necessari, a mio avviso, interventi su più fronti. Sul piano della legislazione primaria occorre, come accennavo prima, ridurre il numero di posti semidirettivi, secondo la proposta avanzata da Area DG e oggi fatta propria dalla Ministra Cartabia nel suo emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Occorre, inoltre, introdurre una effettiva temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive, con la previsione di un periodo di decantazione tra un incarico e l’altro. In ogni caso dovrebbe, quantomeno, essere esclusa la possibilità di presentare domande per ulteriori incarichi direttivi o semidirettivi prima della conclusione dell’incarico precedente. Sul piano dell’azione del governo autonomo il tema è quello delle procedure di conferma.
Loredana Micciché Come detto, è la fonte primaria che richiede una specifica attitudine direttiva, la quale va ancorata ad elementi concreti. Va segnalato, al riguardo, che il Testo Unico valorizza le esperienze nel lavoro giudiziario, anche sotto il profilo dei risultati conseguiti in relazione alla gestione degli affari, e viene in rilievo altresì la durata delle esperienze nel settore ove si colloca il posto da conferire. L’esperienza professionale nella giurisdizione, dunque, è considerata ampiamente dalla normativa consiliare. Certamente l’impianto del Testo Unico – in armonia con la legge primaria – incoraggia il ricorso ad attività che comportino la sperimentazione delle attitudini organizzative non limitate al proprio lavoro individuale, quali il coordinamento di fatto di settori o sezioni se prolungato nel tempo, la collaborazione con la dirigenza, l’attività di magistrato di riferimento per l’informatica, l’esperienza ordinamentale ovvero l’attività formativa. Non si tratta, però, di esperienze “inarrivabili”: spesso non si registrano aspiranti per le attività di MAGRIF o di formatore decentrato; le presidenze di fatto, cui possono accompagnarsi attività organizzative, si acquisiscono per mera anzianità, le collaborazioni con la dirigenza sono regolarmente richieste con interpelli. In conclusione, l’approdo ad un incarico semidirettivo non è affatto irraggiungibile o riservato a pochi, ma è ampiamente alla portata di ogni magistrato che svolga bene il proprio lavoro e manifesti disponibilità per esperienze che sono ampiamente accessibili a tutti.
La percentuale di conferme positive di direttivi e semidirettivi è elevata, tendente alla totalità. Manca una reale “misurazione” della performance, che valuti gli obiettivi realizzati e la qualità dei provvedimenti o le ragioni sono altre?
Alberto Benedetti Vero, mancano indicatori sicuri e affidabili; bisognerebbe ascoltare chi ha lavorato con il confermando, gli avvocati del foro, gli amministrativi. Le conferme non devono essere più atti scontati o rituali, ma dovrebbero diventare momenti di verifica effettiva e come tali dovrebbero essere percepiti soprattutto dai titolari degli uffici.
Giuseppe Cascini Su questo versante è essenziale dare piena ed effettiva attuazione alla riforma del procedimento di conferma approvata in questa consiliatura, in modo da riuscire ad estromettere da quel circuito quelli che si rivelino inadeguati, così da evitare il rischio, che io credo si stia verificando oggi, che per la carriera dei magistrati si sia passati dalla anzianità senza demerito, in base alla quale si nominava il più anziano del concorso, indipendentemente dalle sue qualità e purchè non avesse particolari criticità, alla dirigenza senza demerito, in base alla quale si nomina chi ha già svolto un precedente incarico, indipendentemente da come lo abbia in concreto svolto e purchè non risultino particolari criticità. È assolutamente necessario, inoltre, ridurre drasticamente i tempi delle decisioni consiliari sulle conferme, che oggi registrano ritardi intollerabili.
Loredana Micciché In ordine alla elevata percentuale di conferme si possono reiterare le considerazioni già espresse sul fatto che anche in ordine alla valutazione del quadriennio nell’incarico direttivo o semidirettivo i pareri dei Consigli giudiziari sono sempre positivi e non segnalano alcuna criticità. In questa Consiliatura abbiamo riformato il Testo Unico proprio nella parte riguardante le conferme, predisponendo una modulistica per auto relazioni e pareri con la necessaria allegazione anche dei dati statistici riguardanti l’andamento dell’ufficio o della sezione diretta. È stata valorizzata la valutazione, da parte della settima Commissione del CSM, dei provvedimenti organizzativi adottati. Va comunque segnalato che, una volta acquisiti gli elementi indicati, il procedimento di conferma richiede uno sforzo valutativo pari o anche superiore a quello della designazione per l’incarico, compito difficile da svolgere per l’attuale struttura del Consiglio, del tutto insufficiente.
Gli annullamenti delle nomine da parte del giudice amministrativo sembrano rappresentare un indice delle disfunzioni nell’esercizio della discrezionalità da parte del CSM. Emerge una difficoltà di tenuta delle motivazioni rispetto alle scelte consiliari. Da cosa dipende: il numero delle nomine, la quantità e l’estensione dei parametri attitudinali, altri fattori?
Alberto Benedetti Prima di tutto occorre domandarsi: perché così tanti magistrati non accettano le decisioni del CSM e trovano naturale ricorrere al giudice amministrativo come fosse un atto necessitato? Certo, alla base c’è anche una questione di elevata autostima, tale da far ritenere a molti del tutto impensabile che qualcuno venga loro preferito; c’è un aspetto umano non trascurabile. A questo si aggiunge una perdita di autorevolezza dell’organo che decide, accentuata in questi anni dalle note vicende e che induce chi non è stato nominato a ritenere che ciò derivi da chissà quali cause occulte. Poi, certo, le motivazioni dei provvedimenti risentono della pesantezza degli atti e dei procedimenti e del troppo elevato tasso di burocraticità; ma, onestamente, i vizi di motivazione, a leggere moltissime decisioni dei giudici amministrativi, alla fine sono diverse valutazioni di merito che il giudice ammnistrativo esprime rispetto alla scelta del CSM, perché sappiamo tutti che il sindacato di “ragionevolezza” – a differenza di quello di legittimità – spesso finisce con l’entrare nel merito delle scelte contestate, attività che ritengo lesiva delle prerogative costituzionali del CSM.
Al di là di questo, occorre affrontare il problema a livello ordinamentale e forse costituzionale; mi pare evidente che la giustizia amministrativa debba esercitare la sua imprescindibile funzione di controllo di legalità, ma non può trasformarsi in un “altro” CSM. Rendendo più trasparenti e meno burocratiche le scelte del CSM, mi auguro comunque che cali il tasso dei ricorsi contro i suoi provvedimenti e che i magistrati imparino ad accettare serenamente le decisioni del loro organo di autogoverno; anche qui prima o poi è necessario affrontare meglio la questione del trattamento dei provvedimenti del CSM, organo di rilevanza costituzionale e strumento di realizzazione del principio costituzionale di autonomia della magistratura ; ci sono molte idee condivisibili in campo (tra cui quella di un’Alta Corte), ma necessitano di scelte meditate e non affrettate e questo mi fa pensare che se ne parlerà molto più in là nel tempo.
Giuseppe Cascini Negli ultimi 10 anni, e con una media più o meno costante per ogni anno, solo il 6% delle delibere di nomina è stato annullato dal giudice amministrativo. Sul piano dei numeri, dunque, non si può dire che vi sia una effettiva criticità.
Di regola l’intervento del giudice amministrativo è giustificato da carenze motivazionali, che possono essere sintomo di errori di valutazione – che quindi impongono una revisione della decisione da parte del Consiglio – ovvero possono derivare dalla difficoltà di esporre compiutamente in sede di motivazione tutti gli aspetti rilevanti, o ritenuti tali dal giudice, sul piano comparativo, difficoltà che può essere fronteggiata con una nuova e più approfondita motivazione.
In alcuni casi, però, si deve registrare una certa espansione del giudice amministrativo nell’ambito delle valutazioni discrezionali di merito operate dall’organo consiliare, in ciò favorito, per quello che dicevo prima, dalla tecnica di formulazione del TU sulla dirigenza e anche, forse, da un certo clima generale sul Consiglio e sulle sue decisioni in materia.
In verità, tutte le sentenze ribadiscono sempre, in premessa, l’intangibilità della sfera di discrezionalità dell’organo consiliare, ma poi nei fatti traspare sempre più spesso una tendenza del giudice amministrativo a sovrapporre le proprie valutazioni discrezionali a quelle dell’organo consiliare.
Ad esempio nella valutazione comparativa tra esperienze direttive e semidirettive il giudice amministrativo tende ad affermare la quasi obbligatoria prevalenza delle prime sulle seconde, sulla base di un dato esclusivamente formale, che sembra rispondere ad una cultura della carriera improntata ad una visione gerarchica e verticistica, che secondo me non dovrebbe appartenere al modello ordinamentale della magistratura ordinaria.
Loredana Micciché Come detto, il numero delle nomine non incide sull’approfondimento della valutazione, ma certamente incide sulla qualità delle motivazioni delle delibere, che richiedono sempre più completezza e precisione. Va evidenziato infatti che, con la modifica del Testo Unico della Dirigenza nel 2015, al fine di rendere più certi i criteri per l’accesso agli incarichi direttivi, si sono introdotti plurimi “indicatori” dell’attitudine direttiva che hanno inevitabilmente ridotto la discrezionalità del CSM ed hanno quindi reso più vulnerabili le decisioni adottate. Il basso numero di annullamenti negli anni pregressi dipende non tanto da un “buon” esercizio della discrezionalità, ma dal fatto che le precedenti circolari consentivano uno spazio valutativo amplissimo. Va anche aggiunto che il giudice amministrativo è intervenuto nel tempo su questioni controverse – quali, ad esempio, la automatica prevalenza dell’incarico direttivo sull’incarico semidirettivo e il valore delle dimensioni degli uffici e i contenuti dell’incarico – determinando fisiologicamente la caducazione di alcune decisioni ma formando nel contempo principi giurisprudenziali che dovrebbero rendere più certi i criteri valutativi per il futuro. Sotto il profilo delle possibili soluzioni al problema, si potrebbero rendere ancora più stringenti gli indicatori specifici, prevedendo, ad esempio, che l’accesso ai direttivi di secondo grado implichi il necessario pregresso svolgimento delle funzioni di secondo grado o di legittimità, elemento al momento non previsto. Occorre però contemporaneamente aggiungere l’unico criterio di indiscutibile certezza, ossia l’introduzione della c.d. fascia di anzianità riferita almeno all’arco di due valutazioni di professionalità.
Secondo convegno organizzato da Giustizia Insieme
Roma, Piazza di Firenze 27, Società Dante Alighieri,Sala del Primaticcio
Venerdì 1 aprile 2022 ore 14:30/20:00
Processo mediatico e presunzione di innocenza
Ore 14:30 Saluti del Segretario Generale della società Dante Alighieri Prof. Alessandro Masi
Saluti del Procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Salvi
Introduzione ai lavori: Roberto Conti e Paola Filippi - Direttori scientifici di Giustizia Insieme
Ore 15:00 prima sessione - Il giudice nell’immaginario collettivo -
Giovanni Bianconi e Giuseppe Santalucia - discussant - Giuseppe Amara
Ore 15:50 seconda sessione - La presunzione di innocenza, sostanza e forma -
Valentina Stella, Francesco Paolo Sisto e Raffaele Cantone - discussant - Donatella Palumbo
Dibattito
17:00 coffee
17:10 terza sessione - Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo -
Rosaria Capacchione, Alessandra Camassa e Marco Dell’Utri - discussant - Maria Cristina Amoroso
18:20 Interventi programmati
Hanno confermato finora Giuseppe Cascini, Luigi Salvato, Ernesto Aghina, Fabio Francario, Edmondo Bruti Liberati, Riccardo Ionta, Andrea Apollonio e Marcello Basilico
20:00 chiusura dei lavori
Processo mediatico e presunzione di innocenza
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA:
Giuseppe Amara, Cristina Amoroso, Donatella Palumbo, Donatella Salari
Cell. 3396381906, 3397265027, 3382139878
Segretaria di redazione: Ilaria Buonaguro Mail:
Per informazioni:
È prevista la partecipazione sia in presenza che da remoto. Per la partecipazione da remoto occorre iscriversi collegandosi al seguente link: https://us02web.zoom.us/webinar/register/WN_rKG2BmQiRfGERPqItpfUmQ. Dopo l’iscrizione sarà trasmessa una e-mail di conferma con le informazioni per entrare nel webinar.
Primato del diritto dell’Unione europea e disapplicazione. Un confronto fra Corte costituzionale, Corte di Cassazione e Corte di giustizia in materia di sicurezza sociale
di Bruno Nascimbene e Ilaria Anrò*
Sommario: 1. Le pronunce della Corte costituzionale. Premessa – 2. La “massima espansione” delle garanzie, nel rispetto del primato del diritto dell’Unione europea, quale chiave di lettura delle pronunce della Consulta – 3. Il principio della parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi – 4. La sentenza 67/2022: tra primato e obbligo di disapplicazione – 5. La scelta della Corte di Cassazione, il ricorso alla Consulta. Critica – 6. Le pronunce della Consulta. La prospettiva della “massima espansione” delle tutele e quella del primato.
1. Le pronunce della Corte costituzionale. Premessa
A pochi giorni di distanza, l’una dall’altra, la Corte costituzionale si è pronunciata con due sentenze, la n. 54 del 4 marzo 2022 e la n. 67 dell’11 marzo 2022 (medesimo redattore) a seguito di un rinvio pregiudiziale richiesto, nel primo caso, dalla stessa Consulta[1]; nel secondo caso dalla Corte di Cassazione, che aveva proceduto in tal senso prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale[2].
La materia riguarda la previdenza sociale e il divieto di discriminazione, sia fra stranieri beneficiari di un determinato trattamento in virtù di direttive dell’Unione europea (2003/109 sui soggiornanti di lungo periodo e 2011/98 sui soggiornanti titolari di un permesso unico di lavoro) nonché dell’art. 34 Carta dei diritti fondamentali (sulla sicurezza sociale e assistenza sociale), sia fra stranieri tutelati dal diritto UE -da un lato- e cittadini italiani -dall’altro lato-. Oggetto del contendere erano: a) l’assegno di natalità o bonus bebè e l’assegno di maternità (sentenza n. 54) riconosciuti nel diritto nazionale soltanto agli stranieri lungosoggiornanti (e non anche a quelli muniti di diverso titolo di soggiorno), creando dunque una discriminazione fra stranieri, pur essendo provvidenze o prestazioni previdenziali che attengono ad un settore, quello della sicurezza sociale, in cui è garantito il diritto alla parità di trattamento (a favore, dunque, di tutti i cittadini di Paesi terzi che risiedono e lavorano legalmente in uno Stato membro); b) l’assegno per il nucleo familiare (“ANF”, oggetto della sentenza n. 67) riconosciuto nel diritto nazionale ai cittadini italiani, indipendentemente dal fatto che i familiari abbiano la residenza in Italia, requisito invece richiesto per i familiari degli stranieri (salva l’ipotesi eccezionale che sussista la condizione di reciprocità o sia in vigore una convenzione internazionale con il Paese di origine di questi ultimi).
Nel secondo caso di scrutinio costituzionale la disparità oggetto di esame era, come si è detto, fra stranieri, cittadini di Paesi terzi, e italiani (diversamente dal primo caso ove la discriminazione dedotta era fra stranieri inter se ). La provvidenza in questione aveva natura previdenziale ma anche di sostegno a chi versava in situazione di bisogno. Il giudice a quo, ampiamente censurato (come si dirà oltre) dalla Corte costituzionale, aveva ritenuto rilevanti solo le direttive prima ricordate, non già l’art. 34 Carta, come ben avrebbe potuto, e come la stessa Corte costituzionale tende a sottolineare (ragionevolmente in senso critico) quando precisa (punto 1.2.1. del «Considerato in diritto») che «né l’una né l’altra ordinanza evocano la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in particolare l’art. 34». Norma, quest’ultima, che è stata invece ritenuta di assoluto rilievo nella vicenda bonus bebè e assegno di maternità.
2. La “massima espansione” delle garanzie, nel rispetto del primato del diritto dell’Unione europea, quale chiave di lettura delle pronunce della Consulta
Entrambe le sentenze sono espressione di una stretta cooperazione non solo fra giudici, nazionale – particolarmente qualificato quale è la Corte costituzionale – ed europeo, secondo la logica e la ratio del rinvio pregiudiziale, ma anche fra istituzioni. La sentenza n. 67, d’altra parte, richiama la n. 54 quando ricorda che nell’interpretazione di una direttiva si deve salvaguardare l’effetto utile e, con riguardo al suo recepimento, che la relativa “fase” deve essere «fruttuosa e trasparente», lo stesso legislatore dell’Unione esigendo che sia «contraddistinta dall’impegno degli Stati membri a una costante interlocuzione della Commissione»[3].
La sentenza n. 54, a più riprese, sottolinea la necessità di uno spirito di leale collaborazione fra Corti, affinché la tutela giurisdizionale sia effettiva, specie quando vi sia una connessione inscindibile fra i principi e i diritti evocati dal giudice a quo e quelli riconosciuti dalla Carta: “arricchiti”, questi ultimi, dal diritto secondario rappresentato dalle direttive, «tra loro complementari e armonici», perché i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla Carta si integrano vicendevolmente, conseguendo un «arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali”[4].
La Corte, che nella sentenza n. 54 dà ampio spazio e rilevanza all’art. 34 della Carta, ben più di quanto l’abbia fatto la Corte di giustizia[5], che si limita ad affermare che la direttiva (2011/98, art. 12, cui rinvia il regol. n. 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale) «dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di scurezza sociale di cui all’articolo 34, paragrafi 1 e 2 della Carta» ovvero «concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta»[6], dimostra come il rapporto fra fonti e Corti sia «di mutua implicazione e feconda integrazione»[7]. L’art. 34 afferma, d’altra parte, che i diritti tutelati lo sono non solo sulla base del diritto dell’Unione, ma anche delle «legislazioni e prassi nazionali», e dunque anche delle garanzie previste dalle Costituzioni. Ritiene, dunque, la Corte che la feconda integrazione si realizzi nell’ «assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie»[8].
La “massima espansione” delle garanzie può dunque, a ragione, ritenersi come la chiave di lettura delle due sentenze, ricordando al giudice nazionale di merito, ma soprattutto di legittimità che l’interpretazione del diritto nazionale deve essere sempre condotta in armonia con quello europeo, con la Carta in particolare, anche quando una sua disposizione è “concretizzata” dal diritto europeo secondario: con la conseguenza che le eventuali restrizioni imposte dalle norme nazionali vanno dichiarate illegittime o disapplicate dal giudice nazionale.
3. Il principio della parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi
Un principio che emerge con evidenza dalle pronunce in commento, e che forse è stato finora non (o non abbastanza) considerato, è il principio della parità di trattamento, a determinate condizioni, dei cittadini dei Paesi terzi. Il principio è ricavabile dagli articoli 3 e 31 Cost., dalla Carta e dal diritto derivato: la ratio è comune, essendo comunque vietate le discriminazioni arbitrarie e irragionevoli. Lo scopo, dichiarato, è «promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi»[9], la Corte costituzionale ricordando le finalità della direttiva 2011/98, anche in relazione alla sentenza della Corte di giustizia che si propone una integrazione più incisiva a favore di quegli stranieri che contribuiscono all’economia dell’Unione con il lavoro e il versamento di imposte[10].
Per quanto l’attuazione delle finalità ricordate sia di competenza degli Stati membri, e si debba tener conto della loro discrezionalità, specie quando si tratti di individuare, o meglio limitare i beneficiari delle prestazioni sociali in considerazione delle risorse di bilancio disponibili, il canone della ragionevolezza di eventuali limiti si impone[11]. A maggior ragione, si ritiene, quando gli obblighi discendono dal diritto dell’Unione e dal principio del primato, chiaramente affermato nella sentenza n. 67, di cui si dirà poco oltre[12].
La parità di trattamento, alle condizioni previste dalle norme di diritto UE, è un principio cui il legislatore, l’amministrazione, il giudice nazionale devono conformarsi e le eventuali deroghe devono essere interpretate restrittivamente, come d’altra parte insegna la giurisprudenza della Corte di giustizia[13].
4. La sentenza 67/2022: tra primato e obbligo di disapplicazione
Con particolare riferimento all’applicazione del principio di parità di trattamento fra cittadini dei Paesi terzi e cittadini italiani (nel caso dell’ANF), la Consulta, come si è detto, si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sottopostele dalla Corte di Cassazione mediante due ordinanze (iscritte ai nn. 110 e 111 dell’8 aprile 2021). La risposta della Corte costituzionale, molto attesa, resa a pochi giorni di distanza dalla pronuncia sul bonus bebè e assegno di maternità, costituisce una nuova occasione di riflessione circa i rapporti tra le fonti e le Corti e la centralità del primato del diritto dell’Unione europea nel sistema di “tutela integrata”[14].
I giudizi a quo prendono le mosse, rispettivamente, dal ricorso di un cittadino pakistano (R.M.), titolare di permesso di lungo soggiorno, che chiedeva l’accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare nel periodo compreso tra settembre 2011 e aprile 2014, durante il quale i suoi familiari erano ritornati nel Paese di origine, e dal ricorso di un cittadino srilankese (S. B.G.), titolare di permesso unico di soggiorno e di lavoro, che a sua volta chiedeva l’accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’assegno del nucleo familiare per i periodi gennaio-giugno 2014 e giugno-luglio 2016, durante i quali i suoi familiari erano rientrati nel Paese d’origine, con conseguente condanna dell’INPS e del datore di lavoro al pagamento delle relative somme. In entrambi i casi, i giudici di secondo grado avevano accolto le domande dei ricorrenti (nel caso di R.M. confermando il primo grado) e l’INPS ricorreva in Cassazione.
Emergeva, dunque, avanti alla Corte di Cassazione il contrasto dell’art. 2, comma 6-bis, della legge n. 153/19881, istitutiva dell’ANF con il diritto dell’Unione europea. Ai sensi di tale norma, il coniuge del cittadino straniero, nonché i figli ed equiparati, che non abbiano la residenza in Italia, non vengono considerati parte del nucleo familiare quale definito all’art. 2, comma 6, della stessa legge (a meno che, come si è accennato, lo Stato di appartenenza dello straniero riservi un trattamento di reciprocità ai cittadini italiani ovvero sia stata stipulata una convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia). Tale norma si pone in contrasto con l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, che impone agli Stati membri di riconoscere al soggiornante di lungo periodo il medesimo trattamento previsto dalla disciplina nazionale per i cittadini, quanto alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale e alla protezione sociale, e l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, il quale prevede che i lavoratori di Paesi terzi di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, quanto ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004.
Stante il contrasto tra la normativa italiana e le citate disposizioni delle direttive, e l’impossibilità di risolverlo per il tramite dell’interpretazione conforme, per stessa ammissione della Corte di Cassazione, quest’ultima si rivolgeva in prima battuta alla Corte di giustizia per ottenere chiarimenti circa la corretta interpretazione delle direttive. La Corte di giustizia (con la già ricordata pronuncia del 25 novembre 2020)[15] dichiarava che l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione come l’art. 2, comma 6-bis, della legge n. 153 del 1988, secondo il quale non fanno parte del nucleo familiare di cui a tale legge il coniuge, nonché i figli ed equiparati di cittadino di Paese terzo che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica italiana, salvo reciprocità o convenzione internazionale, posto che essa non si è avvalsa della deroga consentita dall’art. 11, paragrafo 2, della medesima direttiva (non essendo stata espressa una tale intenzione in sede di recepimento della direttiva 2003/109/CE nel diritto nazionale).
Nello stesso senso, con la sentenza “gemella” pronunciata lo stesso giorno[16], la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE deve essere interpretato nel senso che esso impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi titolari di permesso unico le prestazioni di sicurezza sociale, tra cui rientra l’assegno per il nucleo familiare, alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro, stante il principio di non discriminazione.
Il giudizio avanti alla Corte di Cassazione avrebbe potuto (rectius, dovuto) “fermarsi qui”: ottenuta l’interpretazione della Corte di giustizia circa il perimetro del principio di non discriminazione e considerato l’acclarato contrasto con la normativa nazionale, la Corte di Cassazione avrebbe dovuto disapplicare quest’ultima a favore della normativa comunitaria, secondo gli insegnamenti di Simmenthal.[17] Secondo la Cassazione, tuttavia, non era possibile procedere in questo senso, in quanto non vi sarebbe stata una disciplina self executing direttamente applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio principale, e questo in quanto «il diritto dell’Unione […] non disciplina direttamente la materia dei trattamenti di famiglia»[18].
5. La scelta della Corte di Cassazione, il ricorso alla Consulta. Critica
La Corte di Cassazione ha, quindi, ritenuto di sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 2, c. 6° bis del decreto-legge n. 69 del 13 marzo 1988, unicamente con riferimento alle norme delle direttive citate, per il tramite degli articoli 11 e 117 Cost.
Giova sottolineare che nel caso di specie non si verte in un’ipotesi di doppia pregiudizialità: come ricordato, nel sollevare la questione di legittimità costituzionale in via incidentale, la Cassazione ha unicamente richiamato i parametri comunitari, senza invocare una contemporanea violazione di norme costituzionali (diverse dagli artt. 11 e 117), come ben avrebbe potuto fare (e forse ciò avrebbe portato alla dichiarazione – quanto meno - di ammissibilità della questione sottoposta), invocando l’art. 3 della Costituzione[19].
Inoltre (già si è detto) non è stata nemmeno invocata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, come parametro di legittimità della norma censurata. Osserva, appunto, la stessa Corte costituzionale che entrambe le ordinanze non «evocano la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in particolare l’art. 34»[20].
La strada scelta dalla Corte di Cassazione nel porre la questione di legittimità alla Corte costituzionale, quindi, non è quella tracciata dal (fin troppo) famoso obiter dictum della pronuncia 269/2017, ovvero l’ipotesi in cui una norma nazionale appaia confliggente con le norme poste a tutela dei diritti fondamentali nella Costituzione e allo stesso tempo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ma quella “tradizionale” di Granital[21], percorribile quando il conflitto con la norma italiana si verifichi con una norma comunitaria sprovvista di effetto diretto. Come sopra ricordato, tale scelta è determinata dalla considerazione della mancanza di una disciplina di diritto UE applicabile in luogo di quella nazionale disapplicata, poiché, a detta della Cassazione, la materia dei trattamenti di famiglia non è di competenza dell’Unione.
La Corte costituzionale censura (senza mezzi termini) questa scelta, dichiarando le questioni inammissibili per carenza di rilevanza[22].
L’assunto della Cassazione secondo il quale, con riferimento alla prestazione sociale in oggetto, il diritto europeo non detta una disciplina in sé compiuta, da applicare in luogo di quella dichiarata incompatibile viene considerato dalla Corte costituzionale privo di fondamento. Per dimostrare tale tesi, la Consulta analizza i presupposti e le ragioni della scelta della Cassazione di rivolgersi in prima battuta alla Corte di giustizia tramite il rinvio pregiudiziale, «canale di raccordo fra giudici nazionali e Corte di giustizia per risolvere eventuali incertezze interpretative». Esso, invero, «concorre ad assicurare e rafforzare il primato del diritto dell’Unione»[23] evidenziando la contraddizione insita nella scelta di proseguire successivamente con l’incidente di legittimità costituzionale. La Corte, dopo aver ricordato gli obblighi per il giudice nazionale discendenti da Simmenthal, evidenzia la funzione del rinvio pregiudiziale come cruciale al «fine di garantire piena efficacia al diritto dell’Unione e assicurare l’effetto utile dell’art. 267 TFUE, cui si salda il potere di “disapplicare” la contraria disposizione nazionale»; sottolinea inoltre come la Corte di giustizia abbia precisato che «la mancata disapplicazione di una disposizione nazionale ritenuta in contrasto con il diritto europeo viola “i principi di uguaglianza tra gli Stati membri e di leale cooperazione tra l’Unione e gli Stati membri, riconosciuti dall’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE, con l’articolo 267 TFUE, nonché […] il principio del primato del diritto dell’Unione” (sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS, punto 88)»[24].
La Corte costituzionale riporta quindi, al centro, il primato del diritto dell’Unione, richiamando una sentenza significativa della Corte di giustizia, ove la stessa aveva censurato (proprio pochi giorni prima della Consulta) la normativa nazionale rumena che impediva ai giudici nazionali di esaminare la conformità, al diritto dell’Unione, di una normativa nazionale dichiarata conforme alla Costituzione da una sentenza della Corte costituzionale, sottolineando come il principio del primato e l’art. 4, parr. 2 (il cui cuore è rappresentato dal richiamo all’identità nazionale) e 3 TUE costituiscano «l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi»[25].
Da tale premessa, consegue la conclusione secondo cui «il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato dall’art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo (sentenza n. 269 del 2017, punti 5.2 e 5.3 del Considerato; sentenza[26] n. 117 del 2019, punto 2 del Considerato), ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate» fortemente sottolineata dalla Corte costituzionale e riportata con toni quasi “didascalici”[27]. Pare significativo il richiamo alla sentenza 269/2017, come precisata dalla successiva ordinanza 117/2019, il quale ha tracciato una nuova possibilità di rinvio alla Corte costituzionale in caso di contrasto della norma nazionale con la Costituzione e la Carta «fermo restando “che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria” (sentenza n. 20 del 2019, punto 2.3. del Considerato in diritto), anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta (sentenza n. 63 del 2019, punto 4.3. del Considerato in diritto)»[28].
La Corte costituzionale afferma quindi che «ponendosi nella prospettiva del primato» occorre concludere che alle norme delle direttive invocate «deve riconoscersi effetto diretto nella parte in cui prescrivono l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano»[29]. Tali norme, infatti, esprimono un obbligo di parità di trattamento a favore dello straniero dal carattere chiaro, preciso e incondizionato. Dunque, il giudizio della Consulta è chiaro: la Corte di Cassazione avrebbe dovuto disapplicare[30]. Come già evidenziato da altri, la Cassazione ha erroneamente “sovrapposto” la disciplina degli assegni familiari (pacificamente di competenza nazionale) con l’obbligo della parità di trattamento, di matrice comunitaria[31].
Tale conclusione, secondo la Consulta, non può essere “ribaltata” neppure dal secondo argomento della Cassazione, secondo cui le invocate norme comunitarie avrebbero lasciato un significativo margine di apprezzamento, incompatibile con le caratteristiche dell’effetto diretto. Il compito della rimozione degli effetti discriminatori, infatti, compete, secondo la Corte, al giudice ricordando in proposito una sentenza della Corte di giustizia, Stollwitzer, secondo cui l’eliminazione della discriminazione deve essere assicurata mediante il riconoscimento ai soggetti discriminati dei vantaggi concessi alle persone della categoria privilegiata[32]. Il richiamo operato dalla Cassazione alla sentenza della Consulta 227/2010 in materia di mandato d’arresto europeo è ritenuto “non pertinente”, in quanto il sistema previsto dalle direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE non può essere assimilato a quello del mandato d’arresto europeo, poiché in relazione alla prestazione sociale in questione, detti strumenti consentono agli Stati membri di limitare tale parità di trattamento, solo esprimendo chiaramente l’intenzione di volersi avvalere della facoltà di deroga, cosa che non è avvenuta (come chiaramente sottolineato dalla Corte di giustizia) nella materia in esame[33].
6. Le pronunce della Consulta. La prospettiva della “massima espansione” delle tutele e quella del primato
La pronuncia 67/2022 pare lineare e rigorosa nell’applicazione dei principi di Simmenthal e di Granital, nonché nell’affermazione del primato del diritto dell’Unione europea. In tempi in cui l’autorità delle sentenze della Corte di giustizia e lo stesso primato del diritto dell’Unione europea sono revocati in dubbio dalle più alte giurisdizioni degli Stati europei[34], la riaffermazione dei principi del primato, dell’uguaglianza tra Stati e della leale collaborazione costituisce un importante passo verso un dialogo costruttivo. Siamo all’opposto del richiamo al predominio assiologico della Costituzione (seppur invocato con riferimento alla CEDU[35]) e al riaccentramento del ruolo della Consulta operato dalla sentenza 269/2017.
La scelta della Corte di Cassazione di sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale dopo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia era stata fortemente (e a buon diritto) criticata[36]. Era stata altresì messa in luce la necessità di una cautela nel giudizio in considerazione del carattere politico che accompagna i conflitti tra norme statali e sovranazionali in materia di sicurezza sociale, ricordando come altri avessero interpretato dette ordinanze come espressione di un “contromovimento” della Cassazione rispetto all’integrazione europea attraverso il diritto[37]. È stato anche osservato che la scelta della Corte di Cassazione di non menzionare la Carta tra i parametri di legittimità costituzionale e quindi di sottrarre il caso alla traiettoria tracciata dalla sentenza 269/2017, ove fosse frutto dello scenario prefiguratosi dalla stessa Cassazione, si sarebbe tradotta in un «esito […] chiaramente suicida»[38].
La pronuncia della Consulta risponde, per così dire, alle critiche e perplessità ricordate, affermando chiaramente che la centralità del primato del diritto dell’Unione europea e il ruolo di “architrave” del rinvio pregiudiziale non possono che condurre alla conclusione secondo la quale in presenza di un divieto di discriminazione chiaro, preciso e incondizionato del diritto dell’Unione europea non si può che disapplicare la normativa nazionale contrastante: questo è già più che sufficiente per assicurare l’effettività dei diritti in questione.
Resta, sullo sfondo, una domanda: il giudizio della Consulta sarebbe stato diverso se la Cassazione avesse invocato tra i parametri di legittimità della normativa italiana la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, nello specifico, l’art. 34? E’ difficile dare una risposta a tale interrogativo. Occorre, però, constatare che, in assenza del richiamo di un parametro costituzionale (diverso dagli artt. 11 e 117) non si sarebbe comunque creata una situazione di “doppia pregiudizialità” e, dunque, non si sarebbe aperta la via tracciata dalla sentenza 269/2017, ma si sarebbe verificata quanto meno una situazione di rilevanza dei diritti fondamentali e della Carta.
Diversa è la situazione che si è presentata nella vicenda conclusasi con la sentenza 54/2022. In questo caso, infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la normativa italiana fosse al tempo stesso contrastante con i parametri costituzionali (artt. 3 e 31 Cost.) e con la Carta (artt. 20,21,24,33 e 34), per il tramite dell’art. 117 Cost.[39]. Presupposto diverso, dunque, e la stessa Corte costituzionale, con l’ordinanza 182/2020, ha d’altra parte ritenuto di sottoporre in via prioritaria la questione interpretativa alla Corte di giustizia per il tramite dell’art. 267 TFUE. In questo caso, l’ordinanza della Corte costituzionale appariva forse “sbilanciata” verso l’art. 34 della Carta, focalizzando l’attenzione su detta norma, piuttosto che sul diritto derivato rilevante (trascurando, peraltro, le altre norme della Carta indicate tra i parametri di legittimità costituzionale). La Corte costituzionale sottolineava la «connessione inscindibile tra i principi e i diritti costituzionali […] e quelli riconosciuti dalla Carta», come già si è accennato «arricchiti dal diritto secondario», fondando su questa connessione il compito della Consulta di salvaguardarli «in una prospettiva di massima espansione»[40].
La Corte di giustizia ha ritenuto invece di procedere in senso diametralmente opposto, privilegiando l’interpretazione del diritto derivato, forse perché già sufficientemente chiaro, preciso e incondizionato e quindi suscettibile di applicazione nei giudizi interni[41]. In particolare, sarebbe stata auspicabile una disamina circa l’effetto diretto dell’art. 34, di per sé piuttosto articolata, contenendo al tempo stesso principi (al par. 1) e diritti (al par. 2), sebbene tale questione non fosse stata sottoposta all’esame della Corte di giustizia.
Confrontando la sentenza 54/2022 con la 67/2022 appare chiara la diversa prospettiva: nella prima, la Consulta si pone nella prospettiva di “massimizzazione delle tutele” imposta dalla connessione inscindibile tra i principi e diritti della Carta e quelli della Costituzione. Resta aperta tuttavia la domanda sui confini di questa «connessione inscindibile»[42].
Nella seconda la prospettiva è quella del primato: in presenza di parametri chiari, precisi e incondizionati e dell’autorità della pronuncia della Corte di giustizia, la strada non può che essere quella della non applicazione della norma nazionale contrastante. Tale prospettiva, però, non si pone in contrasto con la prima, in quanto, nel caso di specie, la “massimizzazione delle tutele” poteva dirsi raggiunta, senza la necessità di un giudizio di illegittimità costituzionale con effetti erga omnes. Le due prospettive non si pongono quindi come alternative ma entrambe concorrono alla garanzia dell’effettività dei diritti, nell’ottica della collaborazione e del dialogo tra le Corti.
Sembra infine utile osservare che una pronuncia erga omnes nel caso della sentenza 67/2020 nemmeno sarebbe stata necessaria in un’ottica di tutela che andasse al di là del singolo giudizio, in quanto la disciplina dell’ANF è stata nel frattempo modificata (con il d.lgs. 230 del 29 dicembre 2021, relativo all’istituzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1° aprile 2021, n. 46): la Corte ha, infatti, correttamente ritenuto che le nuove norme «non incidono sui giudizi a quibus concernenti fattispecie che si sono perfezionate nel vigore della disciplina anteriore»[43].
In conclusione, le sentenze in esame ci pongono, una volta di più, di fronte a ormai sofisticate architetture giurisdizionali e a complessi intrecci del dialogo fra Corti. Ciò che conta, comunque, è l’effettività dei diritti in questione, garantita con forza dalla Consulta, protagonista del sistema di tutela integrata. L’auspicio è che la guida offerta dalla Corte di giustizia e dalla Consulta porti alla rimozione di tutte le discriminazioni che, ancora, esistono nel nostro ordinamento in materia di sicurezza sociale[44].
* I paragrafi 1-3 sono di Bruno Nascimbene, professore emerito di diritto dell’Unione europea; i paragrafi 4-6 sono di Ilaria Anrò, professore associato di diritto dell’Unione europea
[1] Ordinanza n. 182 del 30 luglio 2020; la Corte di giustizia si è pronunciata il 2 settembre 2021, causa C-350/20, O.D. e a. c. INPS, ECLI:EU:C:2021:659. Per un commento all’ordinanza (si è trattato del quinto rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte costituzionale) cfr. S. Giubboni, L’accesso all’assistenza sociale degli stranieri alla luce (fioca) dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (a margine di un recente rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale), in Giurisprudenza costituzionale, 2020, p. 1982 ss.; N. Lazzerini, Dual Preliminarity Within the Scope of the EU Charter of Fundamental Rights in light of Order 182/2020 of the Italian Constitutional Court, in European Papers, 25 novembre 2020, p. 1463 ss.; D. Gallo, A. Nato, L’accesso agli assegni di natalità e maternità per i cittadini di Paesi Terzi titolari di permesso unico nell’ordinanza n. 182/2020 della Corte Costituzionale, in Eurojus, 19 novembre 2020; C. Corsi, La parità di trattamento dello straniero nell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale: tra disapplicazione e giudizio di costituzionalità, in questa Rivista, 8 gennaio 2021; per un commento alla sentenza D. Gallo, Assegni di natalità e maternità nella recente sentenza della Corte di giustizia: riflessioni “a caldo”, in Eurojus, 9 settembre 2021; per alcune interessanti valutazioni cfr. anche C. Saraceno, Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?, in questa Rivista, 7 febbraio 2022.
[2] Corte giust., 25 novembre 2020, causa C-302/19, INPS c. WS, ECLI:EU:C:2020:957 e C-303/19, INPS c. VR, ECLI:EU:C:2020:958.
[3] Cfr. Corte cost. 67/2022, punto 14 del «Considerato in diritto».
[4] Cfr. Corte cost. 54/2022, punti 7, 9, 10 del «Considerato in diritto», richiamando l’ordinanza n. 182.
[5] Come già sottolineato in B. Nascimbene, CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: portata, rispettivi ambiti applicativi e (possibili) sovrapposizioni, in questa Rivista, 16 dicembre 2021.
[6] Cfr. sentenza 2 settembre 2021, causa C-350/20 cit., punti 46 e 47.
[7] Corte cost. 54/2022, punto 10 del «Considerato in diritto», richiamando la propria ordinanza n. 182/2020.
[8] Ibidem, punto 10 del «Considerato in diritto».
[9] Ibidem, punto 13 del «Considerato in diritto».
[10] Cfr. sentenza 25 novembre 2020, causa C-302/19 cit. Sulla finalità ricordata, di carattere generale, ove assume rilievo la residenza, ovvero l’inserimento dello straniero nella comunità nazionale, e non la sua cittadinanza, cfr. B. Nascimbene, Le droit de la nationalité et le droit des organisations d’intégration régionales, vers de nouveaux statuts de résidents?, in Recueil des cours de l’Académie de droit international, 2014, spec. p. 321. Per alcuni rilievi sullo status dei cittadini dei Paesi terzi, anche con riferimento alle sentenze della Corte di giustizia in causa C-303/19 e in causa C-350/20 citt., A. Di Stasi, La prevista riforma della direttiva sul soggiornante di lungo periodo: limiti applicativi e sviluppi giurisprudenziali, in I. Caracciolo, G. Cellamare, A. Di Stasi, P. Gargiulo (a cura di), Migrazioni internazionali, Napoli, 2022, spec. pp. 451, 454 ss.
[11] Corte cost. 54/2022, punto 13.1. del «Considerato in diritto» con alcuni richiami.
[12] Corte cost. 67/2022, punti 10, 11 e 12 del «Considerato in diritto».
[13] Cfr., per un riferimento al principio, la sentenza causa C-303/19 cit., punto 34, e sulle possibilità, eccezionali, di deroga, punto 23, con richiamo delle sentenze del 24 aprile 2012, causa C-571/10, Kamberaj, EU:C:2012:233, punti 86-87; 21 giugno 2017, C-449/16, Martinez Silva, EU:C:2017:485, punto 29; un riferimento è in Corte cost., 67/2022, punto 8.1. del «Considerato in diritto».
[14] Questa espressione assume oggi una pregnanza particolare. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha tradizionalmente riconosciuto che «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sentenza n. 85 del 2013). Oggi l’integrazione dei diritti della Costituzione si intreccia con le altre fonti rilevanti sovranazionali, in primis la Carta e la CEDU, secondo il canone della massimizzazione delle tutele. Sul punto cfr. R. Conti, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali, in Questione Giustizia, 2016, p. 89 ss.
[15] Causa C-303/19 cit.
[16] Causa C-302/19 cit.
[17]Sentenza della Corte di giustizia, 9 marzo 1978, causa 106/77, EU:C:1978:99.
[18] Cfr. Corte cost., 67/2022, punto 2.5 del «Ritenuto in fatto».
[19] Come già osservato (correttamente) da S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale degli stranieri e gli strani dubbi della Cassazione, in Questione Giustizia, 6 maggio 2021. Cfr. pure C. Colosimo, Stranieri dei Paesi terzi e assegno per il nucleo familiare: parità di trattamento e integrazione nel dialogo tra le Corti, in questa Rivista, 29 gennaio 2021.
[20] Cfr. Corte cost., 67/2022, punto 1.2.1. del «Considerato in diritto».
[21] Sentenza della Corte cost. 8.6.1984, n. 170.
[22] Cfr. Corte cost., 67/2022, punto 10 del «Considerato in diritto». Sembra utile ricordare che nel giudizio avanti alla Corte costituzionale era stata depositata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione un’opinione scritta quale amicus curiae, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, dunque sfruttando questa opportunità per schierarsi a fianco dei cittadini stranieri e chiedere la dichiarazione di inammissibilità per difetto di rilevanza.
[23] Ibidem, punto 10.2.
[24] Ibidem, punto 10.2.
[25] Ibidem, punto 11. La sentenza della Corte di giustizia, RS, è in EU:C:2022:99; per un richiamo al primato, più recentemente, Corte di giustizia, 22 marzo 2022, causa C-508/19, M.F., EU:C:2022:201, punto 74.
[26] Così nel testo, ma il riferimento è senz’altro all’ordinanza 117/2019.
[27] Ibidem, punto 11. Sottolinea (condivisibilmente) l’opportunità di sostituire il temine «attuazione» con «applicazione» A. Ruggeri, Alla Cassazione restìa a far luogo all’applicazione diretta del diritto eurounitario la Consulta replica alimentando il fecondo “dialogo” tra le Corti (a prima lettura della sent. n. 67/2022), in Consulta Online, 14 marzo 2022.
[28] Corte cost., ordinanza 117/2019, punto 2 del «Considerato in diritto».
[29] Corte cost., 67/2022, punto 12 del «Considerato in diritto».
[30] Ibidem, punto 12.2 del «Considerato in diritto».
[31] Cfr. F. Rizzi, Ancora sulla doppia pregiudizialità. I diritti dimenticati nel dialogo tra le Corti, tra resistenze e deresponsabilizzazioni nell’attuazione del diritto dell’Unione, in Questione Giustizia, 8 gennaio 2021, spec. p.9.
[32] Sentenza della Corte di giustizia, 14 marzo 2018, causa C-482/16, Stollwitzer, EU:C:2018:180, spec. punto 130.
[33] Cfr. la sentenza della Corte cost. 24 giugno 2010, n. 227.
[34] Si pensi alla pronuncia della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020 relativa al Programma di acquisto del settore pubblico (PSPP) della Banca centrale europea, in cui lo dichiarava ultra vires, perché esulava dall'ambito delle proprie competenze, considerando altresì ultra vires una sentenza della Corte di giustizia (11 dicembre 2018, causa C-493/17, Weiss e a., EU:C:2018:1000) senza deferire la questione alla Corte di giustizia. Più recentemente, si pensi alle pronunce della Corte costituzionale polacca che hanno sancito il contrasto della stessa Costituzione polacca con il diritto dell’Unione (Sentenza K 3/21, 7 ottobre 2021) e negato l’autorità delle pronunce della Corte di giustizia con riferimento alle misure cautelari dalla stessa adottate (Sentenza P 7/20). Su queste pronunce cfr. fra gli altri D.-U. Galetta, J. Ziller, Karlsruhe über alles? Riflessioni a margine di una pronunzia «assolutamente non comprensibile» e «arbitraria» (commento a BVerfG 05.05.2020, 2 BvR 859/15, Weiss, in Riv. it. dir. pub.com., 2020, p. 301 ss.; A. Circolo, Ultra vires e Rule of Law: a proposito della recente sentenza del Tribunale costituzionale polacco sul regime disciplinare dei giudici, in BlogDue, 2021; G. Di Federico, Il Tribunale costituzionale polacco si pronuncia sul primato (della Costituzione polacca): et nunc quo vadis?, ibidem, 2021; L. Pace, La sentenza della Corte costituzionale polacca del 7 ottobre 2021: tra natura giuridica dell’Unione, l’illegittimità del sindacato ultra vires e l’attesa della soluzione della “crisi” tra Bruxelles e Berlino, ibidem, 2021.
[35] Cfr. Corte cost., 49/2015.
[36] Cfr. S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale cit..
[37] Cfr. L. Cavallaro (peraltro componente del collegio della Cassazione che ha pronunciato le ordinanze), Il dialogo tra Corti e le prestazioni di sicurezza sociale, in questa Rivista, 20 luglio 2021.
[38]Cfr. A. Ruggeri, Alla Cassazione restìa cit.
[39] Cfr. F. Rizzi, Ancora sulla doppia pregiudizialità cit.
[40] Cfr. Corte cost., ord. 182/2020.
[41] Cfr. D. Gallo, Assegni di natalità cit.
[42]Cfr. sul punto l’analisi di N. Lazzerini, Dual Preliminarity cit., p. 1470 ss.
[43] Sentenza, punto 5.3.1. del “Considerato in diritto”.
[44] Con riferimento alla disciplina del nuovo assegno unico, la nuova misura di assistenza alla famiglia denominata “assegno unico universale per i figli a carico” ha unificato e sostituito quasi tutte le precedenti misure a favore della famiglia. Molti sono, tuttavia, i permessi di soggiorno che restano esclusi dall'accesso alla nuova misura, come rilevato, fra l’altro, dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione che auspica nuovi interventi legislativi (cfr. www.asgi.it/notizie/assegno-unico-universale-modificare-le-norme-che-escludono-migliaia-di-stranieri/).
Non è facile parlare di Dino Petralia
di Leonardo Agueci
Devo riconoscere che scrivere di Dino Petralia si è rivelato molto più complicato di quanto avessi immaginato, nel momento in cui ho (incautamente) accettato di farlo.
E non tanto perché su Dino manchino le cose da dire. Tutt’altro! Quello che è riuscito a realizzare come magistrato potrebbe costituire materia per intere pubblicazioni, giuridiche e non..!
Nei miei ricordi, però, all’immagine (oggettiva) del collega esemplare, si sovrappone costantemente, fino a confondersi, quella (del tutto personale) del compagno di tante battaglie, dell’amico generoso e sincero, del vicino di stanza su cui sai sempre di potere fare affidamento, senza timore di ambiguità o malintesi.
E allora provo a mettere ordine.
La storia professionale del dott. Bernardo (Dino) Petralia, entrato in magistratura nel 1980, si è articolata attraverso le tappe che seguono:
- Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani fino al 1985;
- Giudice del Tribunale di Sciacca fino al 1990;
- Giudice del Tribunale di Marsala fino al 1996;
- Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca fino al 2006;
- Componente del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 2006-2010;
- Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala fino al settembre 2013;
- Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Palermo fino al luglio 2017;
- Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria fino al maggio 2020;
- Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia fino al 1 marzo 2022, data del suo collocamento a riposo.
Il suo curriculum fa venire i brividi, non solo per la pluralità e importanza degli incarichi ricoperti, ma soprattutto per la vastità, rilevanza, originalità, efficacia e qualità straordinarie delle iniziative avviate e portate a compimento; per l’indiscusso senso di giustizia e di indipendenza che le hanno sempre accompagnate; per il carisma e l’autorevolezza riconosciute e consolidate nel tempo; per il valore altissimo del servizio prestato alle Istituzioni.
Ha svolto funzioni giudiziarie requirenti e giudicanti; penali e civili; semidirettive e direttive; di primo e di secondo grado; in uffici grandi, medi e minuscoli; ha poi fatto parte dell’organo di autogoverno della magistratura e, da ultimo, ha ricoperto un incarico amministrativo di elevatissima responsabilità.
Esperienze molteplici, come può vedersi, ma in ciascuna di esse ha lasciato quello che per lui è diventato il vero tratto distintivo, ossia il qualificato apporto di efficienza, originalità e rinnovamento, che si è sempre più intensificato man mano che sono cresciute le sue competenze.
Il suo metodo costante di lavoro - sia da magistrato “semplice”, che da dirigente d’ufficio - si è basato sul preliminare studio approfondito del contenuto delle norme sostanziali, procedurali ed amministrative – soprattutto quelle più recenti e di maggior carattere riformatore - e quindi, in sede di applicazione pratica, sul più ampio sfruttamento delle loro potenzialità, anche attraverso soluzioni del tutto inedite, in modo da ottenere risultati significativi, innovativi e talvolta davvero rivoluzionari.
Per ricordare solo alcune delle iniziative adottate quale Procuratore della Repubblica di Sciacca e, più avanti, quale Procuratore della Repubblica Aggiunto di Palermo, si possono citare l’incisiva applicazione delle norme sulle confische antimafia nella fase del procedimento di esecuzione (art. 12 sexies del D.L. n.306/92); la costituzione di un permanente raccordo operativo tra i diversi titolari dell’azione di prevenzione; la semplificazione dei procedimenti a tutela delle vittime di estorsione e usura, previsti dalla L. 23.2.1999 n.44; l’elaborazione di condivisi criteri interpretativi del paradigma relativo alla “particolare tenuità del fatto”, introdotto quale causa di non punibilità dall’art. 131 bis del Codice Penale e, nel campo civile, i criteri di sollecita definizione, da parte del P.M., dei procedimenti di negoziazione assistita in materia coniugale, previsti dall’art. 6 del D.L. 12.9.2014 n. 132.
Ed ancora, quale Procuratore Generale di Reggio Calabria, si è fatto promotore della innovativa costituzione di un bollettino informativo permanente sulle principali pronunzie giudiziarie in materia di “ndrangheta”, denominato “Progetto S.a.Ndra”.
Un altro interesse che ha sempre coltivato è stato costituito dalla sistematica ricerca di dialogo e collaborazione con organismi ed istituzioni esterne rispetto al mondo della Giustizia - come Università, Ordini professionali ed Enti locali – sia per finalità di arricchimento culturale e professionale, sia per concordare prassi ed usufruire di risorse utili al concreto esercizio della giurisdizione.
Da giudice del Tribunale di Marsala è riuscito perfino a definire un’intesa con lo Stato Maggiore dell’Aeronautica, ottenendo l’autorizzazione ad utilizzare in sicurezza i locali di una base militare vicina al Palazzo di Giustizia, per una lunga e impegnativa camera di consiglio.
Questo tipo di attività non ha minimamente condizionato la sua produzione giudiziaria, che si è invece collocata sempre su un piano di altissimo livello, sia quantitativo che di qualità: non si contano le pubblicazioni dei suoi provvedimenti su riviste specializzate in materia civile e penale, così come gli elogi ricevuti per l’azzeramento di pendenze arretrate e, più in generale, per l’alta resa di giustizia degli uffici da lui diretti.
Molto intenso è stato anche il suo impegno, da giudicante e da requirente, nei procedimenti a carico dei principali esponenti di temibili cosche mafiose e dei loro fiancheggiatori, in quelli per misure di prevenzione antimafia, oltre che nella scrupolosa gestione di numerosi collaboratori di giustizia e delle relative richieste di programmi di protezione, anche con carattere d’urgenza.
Il dialogo, il rispetto reciproco e lo spirito di collaborazione sono stati il fondamento del suo rapporto con avvocati ed operatori di giustizia, facendogli ottenere da tutti indiscussa stima e considerazione.
Per i magistrati, Dino Petralia ha rappresentato da sempre un riferimento sicuro, una guida scrupolosa, un trascinatore appassionato; da dirigente d’ufficio e coordinatore di gruppi di lavoro ha tenuto molto a favorire lo scambio di opinioni ed alimentare lo spirito di squadra, ma ha inderogabilmente preteso rigore e massimo impegno; lavorare al suo fianco è stata, per testimonianza unanime, un’esperienza ineguagliabile di arricchimento professionale e gratificazione personale.
L’esemplarità del suo comportamento, da magistrato e da dirigente di Procura, gli ha portato – già nel 2006 - grande rispetto e popolarità tra i colleghi ed ha costituito il presupposto per la sua elezione al Consiglio Superiore della Magistratura, dopo essersi presentato come interprete convincente dei valori di dedizione professionale, di garanzia dei diritti individuali, di efficacia della loro tutela giudiziaria, di tassativa incompatibilità dei magistrati rispetto a qualsiasi centro di potere, interno o esterno.
Quale componente del CSM si è a lungo occupato dell’organizzazione degli uffici giudiziari, facendosi carico della elaborazione delle direttive più importanti in tale materia, ma ha anche avuto parte fondamentale in molte delle più significative determinazioni adottate del Consiglio a tutela dell’indipendenza di singoli magistrati o del corretto funzionamento di interi uffici, specie in relazione a vicende controverse e spinose, oggetto di forti pressioni da parte dell’opinione pubblica.
Ho voluto fin qui dare una sommaria e parziale descrizione delle esperienze affrontate da Dino Petralia nei suoi anni da magistrato, dei risultati che ha conseguito, dei riconoscimenti che gli sono stati attribuiti, del suo straordinario valore di uomo delle Istituzioni.
Ma il ritratto di Dino, almeno per me, rimane incompleto senza i ricordi comuni e le manifestazioni di vera amicizia che li hanno accompagnati, a testimonianza delle sue rare qualità umane.
Il primo incontro con lui risale al 1985, in occasione di un incontro tra magistrati tenuto a Trapani a circa un mese di distanza dal terribile attentato di Pizzolungo, che costò la vita ad una madre di famiglia ed ai suoi due figli piccoli, investiti per pura fatalità dall’esplosione di una autobomba destinata a colpire il sostituto procuratore Carlo Palermo, miracolosamente rimasto illeso.
A quell’epoca la Procura di Trapani era impegnata in prima linea nella forte azione di contrasto alla potente criminalità mafiosa insediata in quel territorio (allora non c’erano ancora le DDA) e si trovava di conseguenza esposta a sanguinose e incombenti ritorsioni: l’attentato di Pizzolungo seguiva difatti l’uccisione del sostituto procuratore Giacomo Ciaccio Montalto, avvenuta nel 1983, ed avrebbe preceduto di pochi anni quella del giudice Alberto Giacomelli, caduto nel 1988; a ciò si aggiungevano vicende molto gravi, interne agli uffici giudiziari trapanesi, che avevano portato all’arresto di un sostituto e all’allontanamento del Procuratore della Repubblica.
In contrapposizione – però - al permanente clima di tensione che per effetto di tali vicende avvolgeva quegli uffici, destava forte ammirazione la lucida determinazione e l’apparente serenità con cui Dino (allora poco più che trentenne), insieme ad altri magistrati ugualmente molto giovani, si mostrava in grado di tenere testa ai pericoli concreti e attuali gravanti su di loro e di affrontare con sicurezza le enormi difficoltà che, in quel contesto, quotidianamente si presentavano.
Negli anni successivi, soprattutto dopo il 1992, il nostro rapporto si è sempre più rafforzato, evolvendosi rapidamente dalla dimensione di stima e collaborazione tra colleghi a quella di autentica amicizia, che tale si è mantenuta nel tempo, consolidandosi specialmente durante il periodo, tra il 2013 e il 2017, nel quale abbiamo fatto parte dello stesso ufficio.
La nostra intesa si è basato certamente sulla forte condivisione di valori e sulla comunanza di idee, specialmente in materia di azione giudiziaria, ma ancora di più sulla collaborazione leale, sul sostegno quotidiano e sul confronto sincero anche nelle (rare) occasioni di disaccordo; lavorando vicino a lui ne ho ininterrottamente apprezzarne la costante onestà intellettuale, la rigorosa coerenza morale e la sconfinata generosità, della quale ho ricevuto svariate prove, sia nell’ambito dei rapporti d’ufficio che di quelli personali.
Dino è persona elegante, dinamica e gentile; lucida nelle sue valutazioni e piena di interessi culturali ed artistici, che ama comunicare agli altri senza spocchia ma cercandone piuttosto la condivisione; manifesta attenzione e rispetto verso i suoi interlocutori, guadagnandone agevolmente la fiducia.
Negli uffici giudiziari dai quali è passato, ha sempre lasciato una generale e incondizionata scia di stima, apprezzamento e spesso di affetto.
I colleghi che ha avuto a fianco e, ancora di più, quelli più giovani, che ha formato con i suoi insegnamenti ed il suo esempio, non hanno quasi mai interrotto i loro rapporti con lui ed hanno al contrario continuato a considerarlo, anche a distanza di anni, come sicuro punto di riferimento e fonte preziosa di consigli, non solo di natura professionale.
Se si considera, in definitiva, che una grande aspirazione dei magistrati in pensione rimane quella di riuscire a lasciare, presso i colleghi chiamati a sostituirli, almeno qualche traccia della propria personalità e delle esperienze vissute, si può davvero comprendere lo straordinario valore dell’imponente patrimonio morale e professionale affidato da Dino Petralia, con il suo pensionamento, a diverse generazioni di colleghi, che l’abbiano personalmente conosciuto o meno!!
Il dissesto finanziario degli enti locali tra tutela dei creditori, “diritto a un tribunale” e tutela della finanza pubblica (nota a Cons. Stato, Adunanza Plenaria n. 1/2022)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Il “diritto della crisi pubblica” e la dinamica dei dissesti - 2. Le criticità del dissesto e la rimeditazione ex art. 99, c. 3, c.p.a. - 3. Aspetti ricostruttivi sul dissesto - 3.1. Prima fase: il dissesto gestito dall’ente stesso. Il dissesto come procedura interna di risanamento - 3.2. Seconda fase: la netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente. Il dissesto come procedura concorsuale atipica - 3.3. Terza fase: il suo perfezionamento - 3.4. Quarta fase: l’incertezza: l’abbandono della disciplina, il venir meno della garanzia dello Stato e la sua ripresa - 3.5. Quinta fase: nuovi strumenti e i vincoli di finanza pubblica dopo la l. cost. n. 1/2012. Il dissesto guidato. Il c.d. predissesto o la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale - 4. L’antitesi Stato-mercato e i contro-limiti nella Plenaria n.1/2022.
1. Il “diritto della crisi pubblica” e la dinamica dei dissesti
Da un recente studio della Camera dei deputati[i] emerge che i comuni che hanno fatto ricorso alla procedura dal 1989 al 2019 sono 607, circa l’8% sul totale dei comuni italiani. Nell’arco del trentennio 45 comuni sono ricorsi per due volte alla procedura del dissesto. La distribuzione dei dissesti presenta una forte caratterizzazione geografica: l’82,4 % delle procedure di dissesto (537) riguarda comuni del Sud Italia, l’11,2 per cento comuni del Centro Italia e appena il 6,4 per cento comuni del Nord.
Il Rapporto Ca’ Foscari sui comuni 2020[ii], con un’analisi accurata di raccolta di dati e documentazione, evidenzia come la dinamica dei dissesti, in pratica azzerata tra il 1996 e il 2007, ha ripreso la crescita a partire dal 2008, con la grande crisi finanziaria: i comuni in dissesto che hanno deliberato la procedura tra il 2015 e il 2019 sono 147.
Evidenzia poi la Corte dei Conti in una sua recente relazione come i dissesti attivi, deliberati tra il 2016 e il 2020, sono 154 con una significativa concentrazione territoriale in Calabria (42 casi), Campania (35 casi) e Sicilia (40 casi). Nel complesso la popolazione dei Comuni in dissesto ammonta a 2.261.765 abitanti. I centri maggiori in dissesto sono: Catania, il più grande comune italiano in dissesto dal 2018 (311 mila abitanti), Terni (111 mila), Caserta (75 mila), Casoria (74 mila), Cosenza (66 mila), Benevento (59 mila), Marano di Napoli (59 mila) e Ardea (49 mila)[iii].
La correlazione tra crisi finanziaria e diritto in generale è oramai una costante e sta portando verso una riconfigurazione di alcune branche del diritto[iv]. Essa è in grado di provocare effetti modificativi sul diritto in generale e nello specifico su quello pubblico (ci si riferisce per gli aspetti considerati al diritto costituzionale e al diritto amministrativo e per quelli trattati al diritto finanziario e contabile, e al diritto dell’economia[v]).
La gestione della crisi e dell’insolvenza s’inserisce in un processo per materie che riguarda materie riferite ai sistemi di finanziamento e di contabilità, alla governance, ai sistemi di pagamento, alla disciplina del rapporto di lavoro, alle regole del mercato e della concorrenza, alla disciplina dei contratti pubblici, alle politiche di finanziamento fino ad arrivare agli aspetti patologici che incidono sull’operatività e sull’esistenza del soggetto stesso[vi].
In tale contesto si colloca l’istituto del dissesto degli enti locali che è uno strumento di risanamento. Di recente è stata definito dalla Corte dei conti come un microcosmo normativo[vii]. Il dissesto è quella fase patologica e irreversibile della vita finanziaria dell’ente territoriale che si verifica quando l’ente non è più in grado di assolvere le funzioni ed i servizi indispensabili ovvero quando esistono nei confronti dell’ente locale crediti liquidi, certi ed esigibili di terzi cui non si può trovare valida copertura finanziaria, a norma di legge, con mezzi di finanziamento autonomi dell’ente senza compromettere lo svolgimento delle funzioni e dei servizi indispensabili.
È un microcosmo perché racchiude le disposizioni che regolano, nel dettaglio, l’intera attività dell’organo straordinario di liquidazione ed al quale va riconosciuto un proprio statuto informato al principio della par condicio creditorum e alla tutela della concorsualità, da presidiarsi proprio da detto organo quale “dominus esclusivo della peculiare procedura finalizzata al risanamento dell’ente”, il quale nel tempo ha assunto una propria specificità, connotandosi sempre più quale organo sostitutivo di quelli ordinari dell’ente, titolare di elevati poteri organizzatori[viii].
2. Le criticità del dissesto e la rimeditazione ex art. 99, c. 3, c.p.a.
La disciplina giuridica sul dissesto può considerarsi un caso di “stortura” e “incertezza” giuridica che è culminata a seguito dell’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001 e della conseguente infinita attesa di attuazione del c.d. federalismo fiscale.
Per molto tempo, infatti, è mancata una visione unitaria e coordinata tra l’indebitamento e il risanamento dell’ente locale che sono da annoverarsi tra gli aspetti fondamentali dell’esistenza amministrativa e finanziaria degli stessi.
Mancava altresì una altrettanto unitaria e coordinata visione tra la qualifica odierna dell’amministrazione pubblica intesa come operatore del mercato (che regola le attività economiche) e come operatore nel mercato (che svolge attività di tipo economico in alternativa o in concorrenza con i soggetti privati, ma soprattutto oggi si pone come un consumatore ottimale che necessita di approvvigionamento, di fornitura di beni e servizi, di opera di beni) e tra la qualifica classica dell’amministrazione come operatore giuridico il cui agire deve essere improntato alla cura dell’interesse collettivo, inteso quale interesse alieno, e al rispetto, sul piano finanziario-contabile, delle garanzie obiettive della collettività alla destinazione del danaro pubblico al fine pubblico e alla correttezza dei criteri di gestione[ix].
La disciplina sul dissesto è una materia relativamente nuova che nel corso dei decenni ha subito importanti interventi non solo dal legislatore, costituzionale e ordinario, ma anche dalla stessa Corte costituzionale, dalla Cedu, dall’Adunanza Plenaria e dal giudice amministrativo in generale nonché dalla Corte dei conti.
La disciplina sul dissesto ha spesso rappresentato terreno di confronto su una serie di questioni che vanno da quelle di natura finanziaria (chi paga?), a quelle costituzionali (di chi è la competenza legislativa?[x] quali limiti ha lo Stato nel garantire i debiti degli enti locali?), fino a alle questioni obbligazionarie (come sono soddisfatti i creditori?) e a quelle procedurali (a chi spetta la gestione della crisi?).
Il recente dibattito si è concentrato sulla questione della soddisfazione dei creditori tra sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo e dell’Adunanza plenaria e così la conformità della normativa sul dissesto con la Convenzione Edu e la Costituzione.
La sezione V del Consiglio di Stato, con ordinanza 21 aprile 2021, n. 3211, ha chiesto che l’Adunanza plenaria rimediti la questione già affrontata con la sentenza n. 15 del 5 agosto 2020[xi] e di considerare i principi non affrontati nella precedente pronuncia n. 15/2020 e, in particolare, quelli emersi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Quest’ultima già nella sentenza n. 43780/2004 del 24 settembre 2013, De Luca c/o Italia ha affermato che l’avvio della procedura di dissesto finanziario a carico di un ente locale e la nomina di un organo straordinario liquidatore, nonché il successivo d.l. n. 80/2004 che impediva i pagamenti delle somme dovute fino al riequilibrio del bilancio dell’ente, non giustificano il mancato pagamento dei debiti accertati in sede giudiziaria, poiché lesive dei principi in materia di protezione della proprietà e di accesso alla giustizia riconosciuti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo[xii].
La pronuncia della Corte aveva come presupposto una situazione di ritardo nella soddisfazione delle pretese e che di fatto assumeva le connotazioni di una espropriazione violando i principi della tutela della proprietà, dell’accesso alla giustizia e della ragionevole proporzione tra i rimedi messi a disposizione. Infatti, secondo la Corte, lo stato di dissesto di un comune dichiarato nel 1993, a fronte del riconoscimento di un credito con sentenza del 2003, ancora paralizzato al momento della pronuncia del 2013, aveva virtualmente privato il ricorrente del suo diritto di accesso a un tribunale per un periodo eccessivamente lungo, con il conseguente venire meno del ragionevole rapporto di proporzionalità che deve esistere tra i mezzi impiegati e lo scopo prefisso.
Il principio espresso dalla Plenaria n. 15/2020 consisteva invece nel sostenere che sono attratti nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, e non rientrano quindi nella gestione ordinaria, non solo le poste passive pecuniarie già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza amministrativa, ma anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta e immediata di atti e fatti di gestione pregressi alla dichiarazione di dissesto[xiii].
La differenza non è di poco conto in quanto ove i crediti rientrino nella massa liquidatoria si applica il principio della concorsualità, della par condicio creditorum con probabilità di riduzione dell’importo e la regola del blocco delle esecuzioni, nell’altra ipotesi invece l’obbligazione rientra nella gestione ordinaria con pieno riconoscimento della pretesa.
Sulla posizione della Plenaria n. 15/2020 è stata chiesta una rimeditazione, ai sensi dell’art. 99, c. 3, c.p.a., e in particolare sull’interpretazione del combinato disposto dell’art. 252 c. 4, d.lgs. 267/2000, nonché dell’art. 5 c. 2 del d.l. 80/2004 convertito nella l. n. 140/2004 in un’ottica costituzionalmente orientata e anche conforme ai principi dettati dalla Cedu[xiv].
Nel caso di specie, il Comune resistente aveva dichiarato il dissesto in data 19 giugno 2017 e il decreto ingiuntivo era stato emanato dopo tale dichiarazione, pur riferendosi a fatti che precedevano lo stato di dissesto, con la conseguenza che la pretesa dei creditori non avrebbe potuto trovare accoglimento, alla luce di quanto affermato dalla Plenaria n. 15/2020.
I creditori dopo aver ottenuto l’ingiunzione di pagamento attivavano la richiesta di adempimento con giudizio di ottemperanza avanti al Tar Lazio. Quest’ultimo aveva dichiarato il ricorso inammissibile considerato che il Comune aveva dichiarato lo stato di dissesto finanziario e che, ai sensi dell’art. 248, c. 2 TUEL dalla data della predetta dichiarazione e sino all’approvazione del rendiconto di gestione da parte dell’organo straordinario di liquidazione, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’ente per i debiti che rientrano nella competenza del predetto organo straordinario (cfr. in ultimo Tar Lazio, II bis, n.1768 del 2019)[xv].
L’analisi storica dell’istituto del dissesto ci permette comprendere meglio la fattispecie in quanto l’impostazione e il modello funzionale del dissesto basato sulla separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, dopo un percorso importante, e come lo ribadisce la stessa Plenaria n. 1, ha assunto una fisionomia analoga al fallimento privatistico, il quale, come è noto, non è sottoposto a termini finali certi senza che, per questo, si sia dubitato della sua legittimità costituzionale, trattandosi peraltro di un istituto diffuso a livello comunitario.
3. Aspetti ricostruttivi sul dissesto
3.1. Prima fase: il dissesto gestito dall’ente stesso. Il dissesto come procedura interna di risanamento.
Il testo unico della legge comunale e provinciale, il R.d. n.383/1934, ha ignorato del tutto l’argomento, a lungo trascurato anche dopo l’instaurazione dell’ordinamento repubblicano. Dapprima la giustificazione si poteva rinvenire nel modello statocentrico dove i comuni e province erano considerati organi di amministrazione indiretta dello Stato, a base territoriale, che perseguivano interessi coincidenti con quelli statali e quindi da assoggettare a un penetrante controllo, di legittimità e di merito, in ossequio al principio dell’unitarietà dell’azione amministrativa.
A seguito della riforma tributaria degli anni Settanta del Secolo scorso fu instaurato un sistema caratterizzato dall’accentramento delle entrate, lasciando in vita solo pochi tributi locali, e dal decentramento della spesa[xvi]. La trasformazione della finanza locale in finanza pressoché interamente derivata, cioè composta prevalentemente da trasferimenti statali, e in minor misura anche regionali, ha comportato una certa propensione degli enti locali, in specie del Comune, a spendere risorse che più non erano onerati a procacciarsi: in ogni caso il rifinanziamento dello Stato, attraverso il Ministero dell’Interno, sarebbe sempre intervenuto a risolvere le situazioni finanziariamente più delicate[xvii].
Nel corso degli anni il comportamento scarsamente responsabile delle amministrazioni locali si è tradotto soprattutto nell’assumere in pianta stabile spese eccedenti: ne è un esempio lampante l’ampliamento spesso irragionevole delle piante organiche, con conseguente abnorme incidenza delle spese di personale sulle spese correnti (talvolta oltre il 60%).
Il fenomeno del dissesto incominciava, dunque, ad assumere proporzioni preoccupanti e sembrò evidente l’insufficienza, almeno nel lungo periodo, del ricorso all’aiuto statale: fin dalla fine degli anni Settanta del Secolo si pose l’esigenza di correggere e di regolamentare appropriatamente la gestione finanziaria degli enti locali.
Il d.P.R. n. 421/1979 ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio: ma tale obbligo, anziché sortire una maggiore oculatezza e responsabilizzazione nei comportamenti finanziari locali, venne fin da subito facilmente eluso. Infatti, il pareggio di bilancio magicamente si materializzava attraverso una sovrastima delle entrate ed una sottostima delle spese e poco importava che, dato il carattere meramente formale di questo pareggio, i fondi prima o poi, durante la gestione, si esaurivano, costringendo le amministrazioni all’indebitamento per far fronte ai sempre più numerosi debiti fuori bilancio.
Il grave fenomeno dei debiti fuori bilancio fu rappresentato per la prima volta dal d.l. n.318/1986, convertito in l. n. 488/1986, il cui art. 1 bis, rubricato “Controllo di gestione” ammoniva gli enti locali al rispetto degli equilibri di bilancio ed al pareggio di bilancio.
Il suddetto articolo 1 bis non riuscì a contrastare con efficacia le più gravi forme di indebitamento spesso derivanti da attività anche formalmente illegittime. Il legislatore statale decise di dettare le prime sostanziali norme in materia, quelle contenute negli artticoli 23, 24 e 25 del d.l. n. 66/1989 convertito nella l. n.144/1989[xviii].
L’art. 25 l. n. 144/1989 introduceva, per la prima volta, il concetto di dissesto per quegli enti locali che non erano in grado di sanare la propria situazione debitoria. Esso affidava la gestione del risanamento allo stesso ente locale che aveva dichiarato lo stato di dissesto[xix]. In questa prima versione dell’istituto del risanamento, l’ente dissestato adottava, a mezzo dei propri organi istituzionali, un unico strumento denominato piano di risanamento finanziario, e destinato sia a regolare i rapporti pregressi che a gettare le basi per una futura corretta conduzione finanziaria.
La normativa sul dissesto prevedeva un intervento eccezionale dello Stato, nel caso in cui gli enti non potessero far fronte ai debiti con l’autofinanziamento, ma chiedeva all’ente locale di contribuire al risanamento attraverso l’adozione di provvedimenti del pari eccezionali. Lo Stato infatti consentiva all’ente dissestato di contrarre con la Cassa depositi e prestiti un mutuo per il finanziamento dell’indebitamento pregresso[xx] il cui onere era a totale carico dello Stato stesso. Lo Stato assicurava l’adeguamento dei contributi correnti alla media pro-capite della fascia demografica di appartenenza, nel caso degli enti sottodotati, nonché il rimborso degli oneri del personale posto in mobilità e la conservazione per sempre dei relativi fondi.
In un primo momento alcuni enti dichiararono il dissesto con una certa leggerezza, allettati dal rilevante contributo statale, e convinti che non fossero poi così stringenti i provvedimenti da adottare. In effetti così non era. Nonostante questi innegabili vantaggi i provvedimenti da adottare in materia di personale e di tributi locali erano ritenuti così pesanti che gli enti arrivavano alla dichiarazione di dissesto solo quando, a seguito delle azioni esecutive dei creditori, non era più possibile pagare gli stipendi al personale dipendente.
3.2. Seconda fase: la netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente. Il dissesto come procedura concorsuale atipica
Con l’art. 21, d.l. n. 8/93, conv. in l. n. 68/93, si è proceduto alla separazione delle competenze tra la gestione della situazione pregressa affidata ad un Organo straordinario di liquidazione e la gestione ordinaria che l’ente locale doveva impostare in modo innovativo, redigendo un’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
Con il d.l. n. 8/93, si passa quindi ad una netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente. In tal modo l’amministrazione locale deve esclusivamente occuparsi del bilancio risanato dal quale iniziare una nuova vita in modo da non ricadere nel disavanzo.
Lo scopo della normativa sul dissesto è liberare gli enti locali dall’indebitamento pregresso e assicurare condizioni di stabile riequilibrio della gestione finanziaria[xxi]. Originariamente la disciplina del risanamento degli enti locali dissestati mostrava una maggiore attenzione agli interessi degli enti ponendo in secondo piano le ragioni dei creditori. In tempi più recenti, anche a seguito di pronunce della Consulta[xxii], il legislatore ha mostrato maggiore attenzione al bilanciamento degli opposti interessi del risanamento dell’ente locale e della piena tutela della posizione dei creditori evidenziando la par condicio creditorum.
In particolare, spicca l’accostamento, sul piano della struttura della procedura, alle procedure concorsuali applicabili al settore delle imprese.
Il fallimento si propone di soddisfare i creditori del debitore insolvente, applicando nella maniera più ampia possibile il principio della par condicio creditorum e destinando la totalità dell’attivo alla totalità dei creditori: la sorte dell’impresa fallita è la sua cancellazione dal mondo giuridico[xxiii].
La normativa in materia di risanamento, invece, se, da un lato, mira a quantificare i debiti esistenti alla data della deliberazione di dissesto, a reperire la massa attiva ed a distribuirla ai creditori - in ciò si ravvisa, dunque, una chiara analogia con le procedure concorsuali - dall’altro, si propone uno scopo ulteriore, e decisamente qualificante, che è la correzione dei guasti della precedente gestione finanziaria, al fine di rimettere l’ente in grado di funzionare senza squilibri e di svolgere i compiti per i quali esso è costituito[xxiv].
La somiglianza della procedure con quella del fallimento privatistico si rinveniva nel fatto che il contributo dello Stato per il pagamento dell’indebitamento pregresso veniva quantificato in rapporto alla popolazione dell’ente dissestato, ma, sempre in rapporto a tale popolazione, e così veniva fissato un importo massimo accordabile.
3.3. Terza fase: il suo perfezionamento
Con il d.P.R. n. 378/93 è stato approvato il regolamento recante norme sul risanamento degli enti locali, la cui disciplina oggi può ritenersi in gran parte superata dalle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 77/1995, ed ora dal t.u. ord. enti locali[xxv].
Poi con il d.lgs. n. 336/1996 seguirono ulteriori modifiche, che hanno previsto una esaustiva definizione di dissesto finanziario.
Infatti, fino a quel momento non poche incertezze ruotavano attorno alla definizione stessa del dissesto. Lo stato di dissesto, secondo la normativa richiamata, consiste nella situazione in cui l’ente non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero quando esistono nei confronti dell’ente crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa far validamente fronte[xxvi]. Si esclude qualsiasi discrezionalità per quanto riguarda la declaratoria di dissesto dell’ente, il quale, in presenza di dati obiettivi, è “obbligato” a dichiararla.
L’ intera disciplina del risanamento finanziario, infine, è confluita nel t.u. ord. enti locali (il d.lgs. n. 267/00).
Sono poi intervenute, in materia procedurale il d.l. n. 13/02, conv. in l. n. 75/02 e il d.l. n. 50/03 conv. in l. n. 116/03 che hanno aggiunto nuove disposizioni al presente t.u. ord. enti locali (artt. 268 bis e 268 ter). Infine, entrambi gli articoli citati sono stati ulteriormente modificati ed integrati dal d.l. n. 44/05 conv. in l. n. 88/05.
3.4. Quarta fase: l’incertezza: l’abbandono della disciplina, il venir meno della garanzia dello Stato e la sua ripresa
L’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha innescato una serie di sconvolgimenti nell’istituto del dissesto finanziario. In attesa dell’ attuazione Titolo V della parte II Cost. Si è proceduto, in un primo momento all’abrogazione delle disposizioni del titolo VIII della parte II t.u. ord. enti locali ed in particolare la soppressione della contribuzione statale sul relativo onere di ammortamento.
La l.f. per il 2003 (art. 31, comma 15, l. n. 289/02), a seguito delle modificazioni apportate al Titolo V della parte II Cost. ed in attesa della fissazione dei nuovi principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, in un primo momento, ha disposto l’abrogazione delle disposizioni del titolo VIII della parte II t.u. ord. enti locali che disciplinano l’assunzione di mutui per il risanamento degli enti locali dissestati, nonché la contribuzione statale sul relativo onere di ammortamento.
Successivamente, con la l. f. per il 2004 (art. 4, comma 208, l. n. 350/03) si è sostituita l’abrogazione con la non applicazione di detta normativa e si è eliminata la previsione che le disposizioni continuassero ad applicarsi per i dissesti deliberati antecedentemente alla riforma costituzionale.
Sorsero non pochi dubbi sulla capacità degli enti dissestati di poter trovare le risorse per risanarsi, ma è pur vero che il pregresso sistema, probabilmente, deresponsabilizzava in maniera eccessiva gli enti stessi[xxvii]. La disciplina, necessariamente condizionata dal divieto della garanzia statale sull’indebitamento degli enti locali introdotto dall’art. 119, ult. c. Cost, consente l’assunzione di oneri da parte dello Stato non inferiori a quelli che assicurino l’erogazione di livelli essenziali di prestazioni a favore dei cittadini degli enti in dissesto, ferma l’opportunità di procedure di controllo, monitoraggio e segnalazione che evidenzino anticipatamente situazioni di difficoltà finanziaria[xxviii].
Attualmente l’intervento sussidiario dello Stato è previsto sotto varie forme.
L’art. 15-bis, l. n. 160/2016 di modifica dell’art. 256, c. 12, TUEL. prevede che in caso di massa attiva incapiente, tale da compromettere il risanamento dell’ente il Ministro dell’interno può stabilire misure straordinarie per il pagamento integrale della massa passiva della liquidazione, anche in deroga alle norme vigenti, in questo caso senza tuttavia oneri a carico dello Stato.
L’articolo 53, c. 1, d.l. n. 104/20 ha istituito un fondo, con una dotazione di 100 milioni di euro per il 2020 e 50 milioni per il 2021 e il 2022, finalizzato a favorire il risanamento finanziario dei comuni che presentano un deficit strutturale, non derivante da patologie organizzative, bensì dalle caratteristiche socio economiche della collettività e del territorio, in attuazione della sentenza n. 115/2020 della Corte costituzionale che ha voluto affermare il profilo dell’equità intergenerazionale. La sentenza stabilisce, in un obiter dictum, che le misure statali di risanamento finanziario in favore degli enti territoriali possono giustificarsi in presenza di deficit strutturale, imputabile alle caratteristiche socio-economiche della collettività e del territorio, e non a patologie organizzative, come nel caso di inefficienze amministrative legate alla riscossione dei tributi.
Con D.M. 11 novembre 2020 sono state ripartite risorse del fondo (200 milioni di euro nel triennio 2020-2022) .
La legge di bilancio 2021 n. 178/2020, art. 1 c. 775-777, ha incrementato la dotazione del fondo per il sostegno ai comuni in deficit strutturale.
Il d.l. n. 34/2019, art. 38, c. 1-septies, ha previsto l’istituzione di un fondo per il concorso al pagamento del debito dei comuni capoluogo delle città metropolitane[xxix].
3.5. Quinta fase: nuovi strumenti e i vincoli di finanza pubblica dopo la l. cost. n. 1/2012. Il dissesto guidato. Il c.d. predissesto o la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale.
L’ulteriore evoluzione è rappresentata dalla costruzione di un sistema di contenimento della crisi in base al principio della proporzionalità, della precauzione e della gradazione degli strumenti di risoluzione delle crisi al fine di ampliare le possibilità per gli enti locali di correggere gli squilibri finanziari ed evitare le conseguenze negative del dissesto che è l’ultima ratio.
In tale ottica sono stati introdotti il dissesto guidato e il predissesto.
Il dissesto guidato è stato introdotto dall’art. 6, c. 2, d.Lgs. 6 settembre 2011, n. 149 nel quale assumono un ruolo centrale le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Tale procedura è finalizzata a prevenire situazioni di squilibrio finanziario e a fare più facilmente emergere i casi di dissesto finanziario. In particolare, la norma prevede che qualora dalle pronunce delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti emergano comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria, violazioni degli obiettivi della finanza pubblica allargata e irregolarità contabili o squilibri strutturali del bilancio dell’ente locale in grado di provocarne il dissesto finanziario, la Corte dei conti assegna all’ente un termine ai fini dell’adozione delle misure correttive necessarie.
Qualora l’ente non provveda, entro il termine assegnato dalla Corte dei Conti, ad adottare le
misure (o comunque le misure adottate non siano ritenute soddisfacenti), la Corte trasmette gli atti al Prefetto (e alla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica), il quale, accertato (entro trenta giorni) il perdurante inadempimento dell’ente locale e la sussistenza delle condizioni di grave squilibrio, assegna al Consiglio un termine non superiore a venti giorni per la deliberazione del dissesto. In caso di inerzia del Consiglio, il Prefetto nomina un commissario per la deliberazione dello stato di dissesto, dando così corso alla procedura di scioglimento del consiglio dell’ente ai sensi dell’art. 141 TUEL.
Gli articoli 243-bis e seguenti del TUEL, inseriti dal d.l. n. 174 del 2012, invece, hanno introdotto la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (c.d. predissesto) degli enti locali che versano in una situazione di squilibrio strutturale del bilancio, in grado di provocarne il dissesto finanziario, allo scopo di evitare, a tali enti, la dichiarazione di dissesto.
La condizione giuridico finanziaria è rappresentata dalla condizione di squilibrio rilevante il si individua nell’incapacità dell’ente di adempiere alle proprie obbligazioni esigibili a causa della mancanza di risorse effettive a copertura delle spese e, solitamente, della correlata mancanza o grave carenza di liquidità disponibile; tale squilibrio è "strutturale" quando il deficit – da disavanzo di amministrazione o da debiti fuori bilancio – esorbita le ordinarie capacità di bilancio e di ripristino degli equilibri e richiede mezzi ulteriori, extra ordinem (in termini di fonti di finanziamento, dilazione passività, ecc.).
La peculiarità dell’istituto del cd. predissesto risiede nel fatto che la procedura è avviata autonomamente dell’ente, con l’obiettivo di valorizzare la responsabilità degli organi ordinari nell’assunzione delle iniziative per il risanamento.
La disciplina del predissesto, ha subito numerose integrazioni e modifiche normative, principalmente volte a consentire agli enti locali, la facoltà di riformulazione e/o rimodulazione dei piani di riequilibrio, per lo più legate all’esigenza di coordinamento tra i contenuti del piano di riequilibrio e gli eventuali effetti peggiorativi derivanti dall’adozione degli adempimenti previsti per il passaggio al sistema di contabilità armonizzata, introdotta dal d.Lgs. n. 118/2011.
Specifiche disposizioni sono state adottate, inoltre, a seguito della crisi connessa all’emergenza epidemiologica da Covid-19.
Sul punto era intervenuta la Corte costituzionale con sent. 14 febbraio 2019, n. 18 censurando l’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015 sost. dall’art. 1, c. 434, l. n. 232/2016 in quanto l’ammortamento sulle anticipazioni di liquidità che consentono agli enti locali in predissesto di finanziare il disavanzo di parte corrente, spalmato su un arco temporale di trent’anni, viola il principio dell’equilibrio dinamico del bilancio al quale tutte le pubbliche amministrazioni sono costituzionalmente soggette, e si pone in contrasto con il principio di responsabilità politica degli amministratori locali di fronte ai propri elettori e contraddicono elementari principi di equità tra le generazioni presenti e future.
Sentenza importante anche per aver riconosciuto la legittimazione delle Sezioni regionali ad adire il Giudice delle leggi nell’ambito del controllo di legittimità-regolarità sui bilanci degli enti territoriali e, in particolar modo, nell’esercizio dei poteri di vigilanza sull’adozione e sull’attuazione delle misure di riequilibrio finanziario.
4. L’antitesi Stato-mercato e i contro-limiti nella Plenaria n.1/2022
La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1/2022 si innesta in questa trama ed è chiamata a rimeditare la posizione assunta nella precedente n. 15/2020 sul rapporto tra la procedura di liquidazione straordinaria e sulla collocazione dei crediti nella procedura di dissesto.
La Plenaria ha comunque confermato la precedente posizione assumendo una posizione di tutela dei conti pubblici senza però pregiudicare la posizione dei creditori privati e le loro pretese.
La trama è data dalla collocazione del dissesto finanziario all’interno dell’antitesi Stato-mercato.
La motivazione della Plenaria a mio avviso è chiara e logica, quasi non necessaria se non per il fatto di essere messa di fronte alla pronuncia della Cedu n. 43780/2004 del 24.9.2013 (De Luca c/o Italia, orientamento che secondo la Plenaria non risulta completamente consolidato a livello di Corte dei diritti dell’uomo).
La Cedu giustamente afferma che un credito certo, liquido ed esigibile, com’è quello derivante da una sentenza passata in giudicato, è un bene e pertanto il mancato pagamento di quel credito reca offesa al diritto al rispetto dei beni del creditore e che la mancanza di risorse di un comune non può giustificare la mancata soddisfazione di un credito certo, liquido ed esigibile derivante da una sentenza passata in giudicato; pertanto, trattandosi di una collettività locale, cioè di un organo dello stato, è quest’ultimo che risulta obbligato a pagare”.
E più incisivamente ribadisce che ne consegue l’obbligo per lo Stato di appartenenza di pagare le somme dovute dagli enti locali nei termini e secondo le modalità prescritte dalla convenzione.
Tuttavia sulla scorta di questa sentenza si vorrebbe applicare senza riserve un tale assunto imputando all’apparato pubblico (ente locale e in ultima istanza allo Stato) l’obbligo di pagare in ogni caso e non solo nelle ipotesi emerse in quella situazione concreta descritta dalla sentenza Cedu n. 43780/2004 (v. sopra) che era di sostanziale espropriazione del credito per effetto dell’eccessiva durata della procedura.
Non si vede la ragione per la quale lo Stato dovrebbe in ogni caso pagare considerate le previsioni degli artt. 81, 97 e 119 Cost. sull’indebitamento e sulle garanzie statali.
La costruzione del sistema del dissesto caratterizzato dalla separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, attesta una fisionomia analoga al fallimento privatistico, il quale blocca le azioni esecutive, instaura una procedura liquidatoria competitiva a garanzia della par condicio creditorum e non è sottoposto a termini finali certi senza che, per questo, si sia dubitato della sua legittimità costituzionale, trattandosi peraltro di un istituto diffuso a livello eurocomunitario.
Inoltre nel caso del dissesto, a differenza dalla posizione storica ante riforma del Titolo V della Costituzione e della l. cost. n. 1/2012, è comunque previsto un intervento, sia pure non illimitato, dello Stato, con funzione tipica di “pagatore di ultima istanza” all’interno del sistema di finanza pubblica che da esso promana.
Nota, infatti, la Plenaria che a ciò si contrappone un regime dei debiti commerciali dell’ente locale proprio delle transazioni tra imprese, in cui non sono ordinariamente previsti interventi di sostegno pubblico contro l’insolvenza.
La questione, come è stato notato[xxx], è forse un’altra e riguarda essenzialmente il rapporto delle norme interne con quelle euro-unitarie e internazionali, potendosi ravvisare sul punto e sulla teoria dei contro-limiti una differenza di vedute tra le recenti posizioni della Corte di giustizia UE e del Consiglio di Stato.
In effetti la Corte di giustizia UE, Grande sezione, 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia s.p.a. ha ritenuto, in via generale, che tutte le norme di diritto interno, anche costituzionali, non possono pregiudicare l’unità e l’efficacia del diritto dell’Unione e gli effetti di tale principio si impongono a tutti gli organi di uno Stato membro, senza che le disposizioni interne relative alla ripartizione delle competenze giurisdizionali possano opporvisi[xxxi].
Invece la Plenaria n. 1/2022 assume la posizione secondo la quale ove si ravvisi un contrasto della legge nazionale con i parametri della CEDU, la soluzione non può essere l’applicazione diretta della stessa e l’unica strada consentita all’interprete è rimettere la questione alla Corte costituzionale perché valuti la costituzionalità della legge alla luce del parametro interposto descritto dall’art. 117, comma 1, Cost.[xxxii].
Talché le norme internazionali – che assumono nel giudizio di costituzionalità la consistenza di parametro interposto ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. – prima di poter essere applicate dal giudice nazionale quale fonte del diritto, devono essere valutate come conformi alle disposizioni della Costituzione e non solo ai principi costituzionali fondamentali[xxxiii].
Per quanto riguarda l’aspetto sostanziale sulla compatibilità della disciplina la Plenaria riconosce che le caratteristiche del procedimento di dissesto siano espressive di un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro lato, di tutelare i creditori.
L’equilibrio così delineato sul piano della vigente normativa, secondo la Plenaria, rende evidente e manifesto che la disciplina sullo stato di dissesto non può ritenersi contrario ad alcun parametro costituzionale, né in via diretta né attraverso il meccanismo della norma interposta ex art. 117, comma 1, Cost.
[i] Camera dei deputati, Servizio studi, XVIII legislatura, Dissesto e procedura di riequilibrio finanziario degli enti locali, 10 febbraio 2022, in https://temi.camera.it/leg18/temi/dissesto-e-predissesto-finanziario-degli-enti-locali.html.
[ii] Rapporto Ca’ Foscari sui comuni 2020, in http://www.cafoscari.eu/studi/public/elen_info.php.
[iii] Corte dei Conti, Relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali, 2021
[iv] F. Merusi, Il sogno di Diocleziano. Ruolo del diritto pubblico nelle crisi economiche, in Riv. Trim. dir. Economia, 1, 2013, 3.
[v] F. Fracchia, Il diritto dell’economia alla ricerca di uno spazio nell’era della globalizzazione, in Dir. dell’economia, 25, n. 77, 11-37.
[vi] Sul modello del processo per materie si rinvia a S. Cassese, La nuova architettura finanziaria europea, in Giorn. dir. amm., 2014, 1, 79. Sia consentito per la crisi e fallibilità delle società pubbliche il mio Le società partecipate tra crisi e insolvenza, in DeS, 2, 2015, 317-365.
[vii] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, 20 luglio 2020, n. 12/2020/QMIG, in https://www.corteconti.it/Download?id=8732180d-477b-4d7c-8631-1e89d4ae48d1.
[viii] G. Vinciguerra, Riconoscimento dei debiti fuori bilancio nei Comuni in dissesto: il parere della Corte dei conti (deliberazione Sezione Autonomie n. 12/2020), in lentepubblica.it.
[ix] F.G. Scoca, in Diritto Amministrativo, Bologna, 2005, a cura di Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi Monaco, Scoca, p. 291 – 299.Sia ancora consentito il rinvio al mio La dinamica relazionale tra collettività e attività finanziaria, in DeS, 2, 2021, pp. 181-222
[x] Come esempio il caso della l.r. della Sardegna n. 13/05, integrata dalla l.r. n. 8/06, ha introdotto l’art. 5bis rubricato “Competenze della Regione” il quale ha stabilito che le funzioni attribuite alle prefetture dal d.lgs. 267/00 sono esercitate dalla Regione Sardegna, salvi alcuni casi.
[xi] La questione oggetto di deferimento ruotava intorno all’interpretazione da riconoscere all’espressione “atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”, contenuta nell’art. 252 TUEL, ovvero al significato da attribuire alla clausola normativa di tipo interpretativo del predetto disposto del TUEL, aggiunta dal citato decreto legge del 2004, l’Adunanza afferma di ritenere che “rientrino nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, non solo le poste passive pecuniarie già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto, bensì anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se stricto jure sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta ed immediata di «atti e fatti di gestione» pregressi alla dichiarazione di dissesto”.
[xii] L. Mercati, Il dissesto degli enti locali dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, in Giur. it., 2014, 373.
[xiii] Con l’ordinanza 20 marzo 2020, n. 1994, la IV Sezione del Consiglio di Stato, trattando di una vicenda di acquisizione sanante che obbligava un ente locale al pagamento dell’indennizzo e del risarcimento ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, ha rimesso all’Adunanza plenaria la questione della corretta interpretazione delle parole fatti ed atti di gestione di cui all’art. 252, c. 4, TUEL, al fine di individuare la competenza o meno dell’organo straordinario di liquidazione sulle poste passive di bilancio. Il principio affermato è il seguente: la disciplina normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, può produrre effetti positivi soltanto se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente possono essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento (giurisdizionale o, come nel caso di specie, amministrativo) sia successivo.
[xiv] News US, 3 settembre 2020, n. 92 in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[xv] Nel caso di specie, il Tribunale di Viterbo aveva emesso un decreto ingiuntivo nei confronti del Comune per il pagamento in favore degli avvocati delle loro parcelle. Il suddetto decreto, non opposto e dichiarato esecutivo, veniva corredato di formula esecutiva, con successiva notifica. A fronte dell’inerzia del Comune, gli interessati avevano proposto al TAR Lazio ricorso per l’ottemperanza, ex artt.112 e ss. c.p.a., con richiesta di nomina di un commissario ad acta in caso di persistente inadempimento. Con sentenza 26 luglio 2019, n. 10043, appellata, il TAR rilevava che il Comune, con delibera c.c. n.10 del 19 giugno 2017 aveva dichiarato lo stato di dissesto finanziario; ai sensi dell’art.248, comma 2, d.lgs. n. 267-2000. Pertanto, trattandosi di provvedimento giurisdizionale intervenuto dopo la dichiarazione dello stato di dissesto, ma relativo a fatti precedenti a detta dichiarazione, i relativi crediti dei privati che avevano agito in sede monitoria dovevano necessariamente essere ascritti alla gestione liquidatoria. Con la conseguenza che, dalla data della predetta dichiarazione e sino all’approvazione del rendiconto di gestione da parte dell’organo straordinario di liquidazione, non potevano essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’Ente per i debiti che rientrano nella competenza del predetto organo straordinario, in relazione al principio della par condicio dei creditori, e che la tutela della concorsualità comportava l’inibitoria anche del ricorso di ottemperanza, in quanto misura coattiva di soddisfacimento individuale del creditore.
[xvi] A. Brancasi, L’ordinamento contabile, Torino, 2005, p. 29.
[xvii] Sul dissesto in generale si veda A. R. De Dominicis, Dissesto degli enti locali, Milano, 2000. Per un’analisi approfondita l’ottimo lavoro di e.k. Danielli e M.G. Pitallis, Il dissesto finanziario alla luce del nuovo assetto normativo, Ministero dell’interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, Roma, 2006. Per la ricostruzione storica dell’istituto si consulti: E. Spicaglia, Il dissesto finanziario degli enti locali, in http://finanzalocale.interno.it/pub/dissesto/ildissestofinanziario.html, 2001 e R. nevola, Il dissesto e il risanamento degli enti locali, in www.dirittoitalia.it, 2, 3, 2001.
[xviii] La ricostruzione storica è bene illustrata da E. Spicaglia, Il dissesto finanziario degli enti locali, in http://finanzalocale.interno.it/pub/dissesto/ildissestofinanziario.html, 2001.
[xix] “Le amministrazioni provinciali ed i Comuni che si trovano in condizioni tali da non poter garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi primari sono tenuti ad approvare con deliberazione dei rispettivi consigli, il piano di risanamento finanziario per provvedere alla copertura delle passività già esistenti e per assicurare in via permanente condizioni di equilibrio della gestione”.
[xx] Per indebitamento pregresso si intende il disavanzo di amministrazione da conto consuntivo dell’ultimo esercizio precedente il dissesto ed i debiti fuori bilancio riconoscibili, in quanto rispondenti ai fini istituzionali dell’ente locale.
[xxi] De Dominicis, op. cit., 17
[xxii] Corte cost. 155/94, 242/94 e 149/94, nonché Circ. Min. Interno 26 gennaio 1999, n. 7/99.
[xxiii] Sulle distinzioni tra procedura fallimentare e quella sul dissesto si veda V. Caputi Jambrenghi, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, a cura di Losurdo, Sabatelli, Virgintino, 2003, 37.
[xxiv] Cfr. E. Spicaglia, Il dissesto finanziario degli enti locali, in http://finanzalocale.interno.it/pub/dissesto/ildissestofinanziario.html, 2001
[xxv] v. Circ. Min. Interno, 20 settembre 1993, n. 1
[xxvi] L’impossibilità di garantire le funzioni e i servizi indispensabili e di onorare i debiti rappresentano indici di insolvenza autonomi che, sotto un profilo temporale, si manifestano distintamente.
[xxvii] D.m. Interno, 7 giugno 2004, n. 3323; Corte conti, n. 10/04, La gestione finanziaria degli enti locali esercizi 2002-2003
[xxviii] Corte conti, Sez. aut., n. 10/04.
[xxix] Camera dei deputati, Servizio studi, XVIII legislatura, Dissesto e procedura di riequilibrio finanziario degli enti locali, 10 febbraio 2022, in https://temi.camera.it/leg18/temi/dissesto-e-predissesto-finanziario-degli-enti-locali.html.
[xxx] Cfr. News US, n. 10 del 18 gennaio 2022, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxxi] Cfr. il dibattito su Questa Rivista La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i "seguiti" a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 -causa C-497/20, Randstad Italia? Interviste di R. Conti a Fabio Francario, Giancarlo Montedoro, Paolo Biavati, Renato Rordorf ed Enzo Cannizzaro, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/2146-la-corte-di-giustizia-risponde-alle-s-u-sull-eccesso-di-potere-giurisdizionale-quali-saranno-i-seguiti-a-corte-giust-g-s-21-dicembre-2021-causa-c-497-20-randstad-italia-3-paolo-biavati; nonché gli Atti del convegno Il caso Randstad Italia spa: questione di giurisdizione o di giustizia?, in https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-e-processo-amministrativo/2190-il-caso-randstad-questione-di-giurisdizione-o-di-giustizia e ancora: F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione europea: la parola alla Corte di Giustizia, in questa Rivista, 11 dicembre 2020; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte dicassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 29 novembre 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021; R. Pappalardo, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327), in questa Rivista, 6 aprile 2021.
[xxxii] Prevede la AP: Pertanto, l’art. 117, comma 1, Cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme (come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dal citato comma 1 dell’art. 117 Cost. e la cui violazione da parte di una legge statale o regionale comporta l’illegittimità costituzionale della stessa, a meno che la norma della Convenzione non risulti a sua volta – a giudizio della Corte - in contrasto con una norma costituzionale (si tratta dell’operatività dei cc.dd. contro-limiti, soggetti a loro volta condizioni chiarite in dottrina come in giurisprudenza, che ne danno una lettura in senso “costruttivo” e non limitativo del diritto convenzionale).
[xxxiii] Cfr. News US, n. 10 del 18 gennaio 2022, in www.giustizia-amministrativa.it. Sul punto la AP n.1/2022: Le norme convenzionali, interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria alla stregua di fonti intermedie tra leggi ordinarie e precetti costituzionali, sono dunque idonee a fungere sia da parametro di costituzionalità ex art. 117 Cost., sia (esse stesse) da oggetto del giudizio di costituzionalità; le disposizioni della CEDU (e quelle della Carta sociale europea), rimanendo pur sempre a un livello sub-costituzionale, non si sottraggono al controllo di costituzionalità, essendo evidente, sul piano logico e sistematico, che la Costituzione non può essere integrata da fonti che ne violino i valori precettivi: la costituzionalità delle norme internazionali è, quindi, una precondizione ineludibile per il funzionamento del meccanismo di interposizione plasmato dall’articolo 117 citato. Al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, tenendo peraltro sempre conto degli interessi costituzionalmente protetti in altri articoli della Costituzione.
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