ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Direttivi e semidirettivi, nomine e conferme. La parola al Consiglio giudiziario
Intervista di Federica Salvatore e Riccardo Ionta a Riccardo Ferrante, Cataldo Intrieri e Giuseppe Sepe
Un professore universitario, un avvocato e un magistrato a confronto sulle rispettive esperienze e visioni relative agli incarichi dirigenziali in magistratura e al ruolo del Consiglio giudiziario. È un sommarsi di letture differenti, dove le voci laiche fanno da contrappunto ai toni del togato.
Le sembra che i Consigli giudiziari, dovendo valutare gli aspiranti a incarichi direttivi e semidirettivi, diano conto a sufficienza nei pareri di avere verificato specificamente i loro atti organizzativi del quadriennio precedente, l’esito di questi e le valutazioni di professionalità che i candidati hanno espresso per i magistrati del loro ufficio?
Ferrante In quanto componente laico non ho modo di esprimermi su questo punto con riferimento specifico all’attività del CG di cui faccio parte. Non so quanto la “cultura della valutazione” si sia poi virtuosamente concretizzata. Detto in soldoni, e per il caso specifico, quanti magistrati hanno subito effettivamente una valutazione di professionalità negativa? Sul piano generale, per converso, credo sia un tema assai delicato per tutti i rami della PA e non solo. La “valutazione” è diventata una sorta di totem contemporaneo col che spesso si agisce non tanto per svolgere le proprie funzioni secondo scienza e coscienza, ma per ottenere una valutazione positiva, rimodellando strumentalmente l’esercizio della propria funzione. Questo si traduce nei fatti in una procedimentalizzazione estrema, nella ossessione di avere le carte in ordine al di là dei reali profili di merito. Tornando ai magistrati, la delicatezza del loro compito istituzionale è tale che questo tema diventa appunto un problema di difficilissima risoluzione, come anche il dibattito di queste ultime settimane ci conferma.
Intrieri Premetto doverosamente che io non ho nessuna esperienza interna da far valere sicché il mio è il parere o meglio l’impressione di un semplice fruitore di ciò che i CG producono. L’impressione generale è che non vi siano mai nell’ambiente della magistratura critiche e censure ufficiali a condotte e comportamenti inadeguati. Non di rado si segnalano alle proprie associazioni o all’ordine comportamenti censurabili di magistrati. A mia memoria non ricordo alcun riscontro ufficiale a tali denunce, Difficile pensare che vi siano nelle valutazioni dei capi degli uffici giudiziari giudizi realmente adeguati al valore dei collaboratori. Ciò che sta emergendo dalle Procure di Milano e Roma, vedasi il processo perugino a Luca Palamara e Stefano Fava, fa emergere situazioni di grave dissidio interno di cui non vi è traccia ufficiale oltre ciò che le inchieste hanno appurato.
Sepe Ho partecipato al Consiglio Giudiziario nel quadriennio 2016-2020 nel distretto di Napoli, che gestisce circa 1000 magistrati. A mio avviso il CG è certamente in grado di valutare tutto ciò che è agli atti del fascicolo di ciascun aspirante. Il punto è allora se le fonti valutative, che ruotano principalmente attorno al rapporto del dirigente – non di rado “appiattito” sull’autorelazione – sia sufficiente a svolgere una valutazione seria e attenta delle capacità organizzative del candidato. Certamente è possibile enucleare una serie di indicatori rivelatori delle attitudini organizzative dell’aspirante e fornire, così, un giudizio individuale motivato. In molti casi, tuttavia, si valutano domande presentate da magistrati anche esperti, ma pressoché privi di precedenti esperienze organizzative in senso stretto sicché le attitudini organizzative si traggono dal positivo esercizio della giurisdizione e dalla proficua gestione del proprio ruolo: desunta dalle statistiche comparate, dalla trattazione di processi di particolare complessità, dallo svolgimento di funzioni di presidenza dei collegi, ecc. Si tenga conto che il parere del CG non è comparativo ma individuale, giacché la comparazione avviene innanzi al Csm. Ne segue che la valutazione del CG si svolge senza particolari “tensioni” perché manca il momento del “confronto” tra i vari curricula.
Si discute del ruolo marginale attualmente assegnato nell’ambito dei Consigli giudiziari ai componenti non togati. Le risulta che a oggi i Consigli dell’ordine forniscano un apporto effettivo in ordine alle segnalazioni riguardanti i dirigenti degli uffici?
Ferrante Non mi è capitato di verificare particolari prese di posizione dei Consigli dell’ordine del nostro Distretto. D’altra parte, devo dare atto che, per lo meno a quanto ho potuto verificare personalmente, non si sono mai verificate durante il mio mandato – e fino ad ora – situazioni di particolare criticità da richiedere prese di posizione formali. Qualora vi siano problemi di portata generale, in un’ottica di “vigilanza” sull’andamento degli uffici, la tendenza credo sia rivolgersi direttamente al Ministero competente, alzando il livello politico dell’istanza o forse non riconoscendo particolare competenze/autorità al CG.
Intrieri L’impressione è che la scelta dei membri non togati sia su base meramente fiduciaria dei COA: ho proposto vere e proprie candidature con valutazioni comparate ed ufficiali. Il meccanismo attuale di designazione non serve a nulla.
Sepe Durante l’intero quadriennio della consiliatura partenopea 2016-2020 non ricordo di alcuna segnalazione pervenuta dal Consiglio dell’ordine degli avvocati riguardante magistrati del distretto. Allo stato, quindi, il ruolo dell’avvocatura nella valutazione dei dirigenti (in sede di nomina così come di conferma) è alquanto marginale mentre sarebbe auspicabile un maggiore più incisivo contributo nell’evidenziare e porre in luce eventuali criticità, ove esistenti.
Da sempre si dibatte sull’ampliamento delle fonti di conoscenza e lo stesso progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario prevede la partecipazione attiva dei componenti laici alle sedute sulle valutazioni di professionalità. In quale direzione il loro apporto può essere utile?
Ferrante Naturalmente la mia risposta potrebbe essere condizionata dal fatto di essere un componente laico, ma non lo sono in quota avvocati, bensì in quota docenti universitari; dunque, in una posizione di terzietà che forse può consentire un approccio più sereno al tema. Ritengo che soprattutto in questa fase storica tutte le realtà istituzionali vadano aperte e rese trasparenti, e che anche la magistratura debba fare la propria parte. Lo dico anche come consiglio spassionato, pensando alle reazioni dell’opinione pubblica ai fatti che hanno coinvolto l’organo di governo autonomo. Lascerei perdere la retorica delle garanzie costituzionali, pure sacrosante, che tutelano lo svolgimento delle funzioni di magistrato, e che possono suonare come autodifesa corporativa. Alcuni hanno parlato di possibili ritorsioni degli avvocati su qualche magistrato “sgradito” sotto valutazione; l’argomento è assai debole, perché controvertibile, in quanto ragionando su questa linea si potrebbe pensare per converso ad atteggiamenti compiacenti, certo non meno temibili.
Se c’è un concetto piuttosto chiaro circa la “valutazione” è che debba essere fatta da soggetti terzi, il più possibile lontani dal valutando. Che proprio in quell’occasione, dal CG siano allontanati i laici – appunto perché “estranei” – è una illogicità evidente, e non credo proprio possa essere giustificata rivendicando i valori dell’indipendenza e dell’autogoverno, che non devono apparire sinonimi di autoreferenzialità.
Intrieri L’avvocato esprime un punto di vista personale ma utilissimo: egli è in grado di valutare autorevolezza, preparazione ed equilibrio del magistrato con cui si misura. Ed anche la capacità produttiva. Comprendo i dubbi, ma la partecipazione attiva degli avvocati alle valutazioni è indispensabile. Dire che vi è il pericolo di commistioni e conflitti di interesse non può costituire uno sbarramento. Come ogni ambiente anche quello della giustizia ne presenta diversi. E’ il criterio generale che deve prevalere.
Sepe Il tema è molto discusso e vi sono sensibilità diverse nella magistratura associata. La componente laica è integrata nei Consigli giudiziari secondo le proporzioni stabilite dalla legge di modo che la sua partecipazione al circuito decisionale sulla professionalità dei magistrati non dovrebbe, in linea di principio, destare perplessità trattandosi di soggetti, particolarmente qualificati, in grado di esprimere un’opinione informata, desunta dalle fonti di conoscenza tipizzate dalla vigente circolare del Consiglio Superiore. Tuttavia il fatto che gli avvocati che compongono i Consigli giudiziari continuino a esercitare la professione negli uffici in cui prestano servizio i soggetti da valutare è discutibile, poiché ne può risultare un certo rischio di condizionamento dei magistrati in verifica (così come può esservi il rischio opposto, perché l’avvocato a sua volta “lavora” con i magistrati e tenderà ad evitare rapporti conflittuali).
In concreto, l’emendamento governativo alla delega al Governo per la riforma dell’O.G. aggiunge la possibilità, per la componente degli avvocati, di esprimere un voto unitario in sede di deliberazione sulla valutazione di professionalità dei magistrati, nel caso in cui il consiglio dell’ordine abbia effettuato segnalazioni sui magistrati in verifica, ai sensi del comma 1, lett. a, della Delega al Governo per la riforma ordinamentale della magistratura. Si tratta, dunque, di una innovazione che avrà, a mio avviso, una limitata incidenza posto che, ad oggi, scarsi sono i casi di segnalazione dei COA.
Frequentemente i provvedimenti organizzativi dei dirigenti degli uffici ritenuti dai Consigli giudiziari non corretti, anziché annullati, vengono, anche più volte, rinviati a loro per consentire le modifiche dei punti in cui si riscontrano carenze. Questa prassi consente alla fine del quadriennio una corretta valutazione dell’attività compiuta dal dirigente? In che misura tale interlocuzione risulta dal fascicolo personale del dirigente?
Ferrante Non posso rispondere per i motivi sopra esposti. Credo comunque lo dovrebbero essere senza dubbio. Il tema dell’organizzazione giudiziaria è spinosissimo, e con ciò quello della formazione dei magistrati alla dirigenza, come ho potuto verificare nel mio mandato nel Direttivo della SSM. Il magistrato non può essere per natura omnisciente; la dirigenza di un ufficio giudiziario non corrisponde pienamente alla categoria della “organizzazione aziendale”, ma ci va vicino e bisogna rassegnarsi. E con ciò rassegnarsi a essere formati, e a fare proprie le competenze relative. Questo avviene nella maggioranza dei casi? Non ci giurerei. Gli atti che passano dal CG sono in effetti un’ottima cartina tornasole; basta farne uso.
Sepe Ritengo che il dialogo tra CG e dirigente dell’ufficio costituisca espressione di un principio di leale collaborazione istituzionale nel cd. “circuito” dell’autogoverno sicché, ferma restando la discrezionalità sulle scelte organizzative che spetta interamente al dirigente dell’ufficio, è corretto che vi sia una continua e feconda interlocuzione con il CG sulle questioni più tecniche (es: interpretazione delle circolari), onde assicurare uniformità nell’applicazione delle circolari all’interno del distretto, evitando pareri contrari e le successive “non approvazioni”. Il rischio che la circolarità tra provvedimenti del dirigente e valutazione del CG possa incidere sulla corretta valutazione dell’attività del dirigente è, a mio modo di vedere, limitato».
Tra i compiti dei Consigli giudiziari vi sono anche funzioni di vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto. Tali compiti vengono realmente svolti dai CG e con quale frequenza, per quanto le consta? In che modo viene dato seguito alle eventuali segnalazioni provenienti dai magistrati dell’ufficio? I dati raccolti in queste procedure vengono inseriti nelle periodiche valutazioni di professionalità?
Ferrante Ripeto che il mio ruolo di componente laico mi impedisce di sapere come si formi in concreto il fascicolo personale e come incidano i vari fattori in gioco sulle valutazioni di professionalità. Detto questo, il CG svolge la verifica minuta delle singole pratiche che gli vengono via via sottoposte (per lo più di natura tabellare), e per quello che ho potuto verificare, con grande serietà. Vi è certamente una necessitata polverizzazione del lavoro. Una valutazione d’assieme, dunque la “vigilanza” in senso proprio, richiederebbe un impegno analitico molto attento, lavorando sullo storico per una corretta valutazione prospettica, con un investimento di tempo nei fatti arduo o che comunque richiederebbe una determinazione esplicita da parte del CG. Non posso dare testimonianza di disfunzioni sull’andamento di qualche ufficio del Distretto che abbiano stimolato una segnalazione al Ministero della Giustizia (salvo un problema circa l’applicazione della normativa di tutela per l’emergenza Covid-19); voglio credere che se nei fatti si fossero verificate, il CG di cui faccio parte avrebbe avuto modo comunque di prenderne atto, quantomeno nei casi eclatanti, e di agire di conseguenza.
Intrieri A queste ultime due domande non so rispondere: non sono mai stato chiamato a ricoprire l’alto incarico dal mio COA.
Sepe Nei distretti di maggiori dimensioni le attività di vigilanza sono svolte da un’apposita commissione istituita in seno al CG (Commissione di Vigilanza). Questa Commissione ha il compito di monitorare l’andamento dell’attività giudiziaria nei vari uffici del distretto, accertare l’esistenza di criticità o disfunzioni, ascoltare, in apposite riunioni, i dirigenti e i magistrati degli uffici, proporre rimedi, soluzioni organizzative, possibilmente concordate con la dirigenza, ai problemi più urgenti; infine segnalare l’esistenza di disfunzioni al Ministro. La Commissione ha dunque un positivo ruolo di analisi, consultazione e di proposta, di rimedi organizzativi atti a rimuovere eventuali criticità. Dopo le modifiche apportate nel 2007 il CG non ha più compiti di vigilanza sul “comportamento dei magistrati” in servizio presso gli uffici né di segnalazione di eventuali fatti suscettibili di rilevanza disciplinare: la norma attributiva di tale competenza, ossia l’art. 15, lett. c), della legge 25/2006, venne abrogata ad opera della legge 111/2007. Quindi non vi è modo che le verifiche disposte in sede di vigilanza transitino nelle valutazioni di professionalità.
L’effettività del principio di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nei piccoli comuni (nota a Corte cost., 25 gennaio 2022, n. 62)
di Silia Gardini
Sommario: 1. Il punto di partenza: la legislazione vigente in materia di parità di genere per le elezioni negli enti comunali – 2. Il caso: l’evidenza del vulnus di tutela e la rimessione della questione alla Corte costituzionale – 3. La decisione: la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale – 4. Concludendo.
1. Il punto di partenza: la legislazione vigente in materia di parità di genere per le elezioni negli enti comunali
In materia di cariche elettive, all’indomani dell’importante evoluzione costituzionale del principio di equilibrio di genere attuata con la Legge costituzionale[1] n. 1 del 2003, il compito che il legislatore si vedeva assegnato era quello – non semplice – di ricucire un quadro regolamentativo estremamente frammentato, individuando regole e principi che potessero delineare una normativa valida e coerente con tale principio, anche a livello locale. Dal canto suo, la corposa giurisprudenza costituzionale formatasi negli anni precedenti lasciava in “eredità” almeno tre importanti direttive di principio: l’illegittimità delle misure volte ad alterare direttamente la parità di chances fra i candidati ai fini dell’elezione, l’ammissibilità delle disposizioni volte a vincolare i partiti nella presentazione delle liste (ossia in un momento in cui la competizione elettorale non fosse stata ancora avviata), al fine di garantire la presenza di entrambi i generi nelle liste e l’ammissibilità del ricorso alla regola della doppia preferenza elettorale declinata al genere[2].
L’adeguamento della legislazione elettorale alle nuove esigenze di tutela è avvenuto con la legge 23 novembre 2012, n. 215, che ha introdotto nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) specifiche misure positive finalizzate a ristabilire una equilibrata presenza di genere negli organismi politici elettivi dei comuni[3].
Le norme introdotte dalla legge n. 215/2012 incidono direttamente sulla composizione delle liste elettorali, prevedendo altresì un regime sanzionatorio in caso di violazione delle relative prescrizioni. Le regole non sono, però, omogenee, poiché si differenziano sulla base di scaglioni demografici. Vengono, così, individuate tre soglie di pervasività della disciplina, parametrate alla popolazione comunale: superiore ai 15.000 abitanti, compresa tra i 5.000 ed i 15.000 abitanti ovvero inferiore ai 5.000 abitanti (c.d. piccoli comuni).
Per tutti i comuni con più di 5.000 abitanti la regola è che le liste elettorali debbano essere predisposte in modo tale che «nessuno dei due sessi» possa «essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati»[4]. A tale previsione si affianca il meccanismo della doppia preferenza di genere, che offre all’elettore la possibilità di esprimere due preferenze a candidati di sesso differente, secondo il sistema ampiamente scrutinato e legittimato dalla Corte costituzionale[5].
Sul versante sanzionatorio, nel caso in cui uno dei due generi sia rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, nei comuni con più di 15.000 abitanti la Commissione elettorale è incaricata dell’estromissione dalla lista dei soggetti appartenenti al sesso sovrarappresentato, partendo dall’ultimo in elenco. La lista non rispettosa della quota di genere non viene, dunque, considerata ipso facto inammissibile: essa può essere ricusata soltanto laddove, dopo le cancellazioni, contenga un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. Nei comuni di medie dimensioni, con popolazione compresa fra i 5.000 ed i 15.000 abitanti, la portata precettiva della misura si alleggerisce notevolmente. L’opera di cancellazione della Commissione elettorale non può, infatti, mai produrre la riduzione dei candidati ad un numero inferiore al minimo prescritto dalla legge per la composizione delle liste. A tale numero minimo l’azione della Commissione elettorale deve, dunque, sempre arrestarsi e l’impossibilità numerica di rispettare la quota non comporterà la decadenza della lista, ma soltanto la riduzione dello squilibrio di genere.
Ancor meno incisiva è la normativa prevista per i comuni con meno di 5.000 abitanti (che in Italia rappresentano circa il 70% del totale[6]), laddove il legislatore si è “accontentato” di prescrivere – alla luce del principio maturato dalla Consulta[7] con la sentenza n. 49/2003 – esclusivamente l’obbligatoria presenza di entrambi i sessi nelle liste.
La ratio della riduzione della soglia di tutela potrebbe, in tal contesto, essere rinvenuta nella necessità di non paralizzare – in ambiti territoriali particolarmente ristretti – l’azione dei partiti nella formazione delle liste. Il bilanciamento del principio di parità di genere con i principi della partecipazione democratica e del pieno collegamento dei rappresentanti politici con il territorio viene, dunque, tradotto in un meccanismo di connotato da una maggiore flessibilità, espressione di equilibrio tra la presenza di entrambi i sessi nelle liste elettorali e la maggiore rappresentatività possibile dei territori. Senonché, l’assenza di una esplicita sanzione per la violazione della seppur minima garanzia paritaria prevista della norma ha prodotto effetti estremamente iniqui sul piano pratico, determinando la diffusissima disapplicazione dei relativi precetti.
Basti pensare che, tra i piccoli comuni che sono stati chiamati alle urne nell’ultima tornata elettorale del 2021, solo uno su due ha garantito una adeguata presenza di entrambi i sessi nelle liste, mentre in ben 79 comuni la presenza maschile è stata superiore all’80% del totale dei candidati[8]. Il dato è chiaro: nei contesti territoriali di modeste dimensioni, che pure rappresentano centri propulsivi di assoluta importanza nella vita del Paese, la tutela della parità di genere ed i precetti dell’art. 51 Cost. risultano ampiamente disattesi.
2. Il caso: l’evidenza del vulnus di tutela e la rimessione della questione alla Corte costituzionale
La vicenda esaminata trae origine dalla competizione elettorale svoltasi nel 2020 in un piccolo comune campano, nel corso della quale una lista composta esclusivamente da candidati di sesso maschile aveva ottenuto tre seggi in Consiglio comunale. I primi due candidati non eletti avevano, dunque, adito il T.A.R. Campania, lamentando l’alterazione del risultato elettorale dovuto alla mancata ricusazione della lista che – in spregio a quanto previsto dall’art. 71, comma 3-bis del T.U.E.L. – aveva presentato candidature monogenere.
Il Giudice amministrativo di primo grado, però, pur rilevando che la l. n. 215/2012, nel modificare il D.lgs. 267/2000 ed il d.P.r. n. 570/1960, ha previsto un controllo e un diretto intervento delle commissioni elettorali circondariali al fine di garantire la rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste dei candidati, evidenziava che – con specifico riguardo ai comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti – la stessa legge non ha disposto alcuna misura sanzionatoria (tantomeno quella della ricusazione) a carico di chi non rispetti tali prescrizioni. Pertanto, escludendo la possibilità di ricorrere ad un’interpretazione analogica della disposizione riferita ai comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, il T.A.R. Campania concludeva per il rigetto del ricorso.
In sede di appello – ribadita l’impossibilità di attuare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, pure ricorrendo all’analogia iuris – la Terza Sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 4294 del 4 giugno 2021, ha ritenuto sussistenti i presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale. Nello specifico, i Giudici di Palazzo Spada hanno sottoposto all’esame della Consulta la tenuta costituzionale dell’art. 71 comma 3-bis del d. Lgs. n. 267/2000 «nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti», e dell’art. 30, lett. d) bis ed e) del d.P.R. n. 570/60, «nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista”, le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti», per contrasto con gli artt. 51, 3 e 117 comma 1 della Costituzione (quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU ed all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU).
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, l’ordinanza di rimessione ha valorizzato la «natura immediatamente precettiva e non meramente programmatica»[9] dell’art. 51 Cost. e, parallelamente, il fondamentale dovere della Repubblica – che da esso discende – di adottare adeguate misure promozionali ai fini della tutela di quel «patrimonio umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere»[10]. Secondo il ragionamento del Giudice amministrativo, considerando obiettivo primario della legge proprio quello di garantire la parità di genere attraverso interventi di riequilibrio, la circostanza che nella maggior parte dei Comuni italiani tali interventi siano di fatto paralizzati dall’assenza di un meccanismo sanzionatorio, finisce per svuotare lo stesso principio di parità di genere della sua effettività e determina, di conseguenza, un preoccupante vulnus di tutela.
In relazione alla violazione dell’art. 3 della Costituzione, il Consiglio di Stato ha, poi, rilevato l’iniquità del regime di differenziazione parametrato alle dimensioni degli enti comunali. Da tale meccanismo discenderebbe, infatti, una discriminazione a valenza bidirezionale idonea, da una parte, ad alterare l’equilibrio tra generi nei piccoli comuni e, dall’altro, a privilegiare i soggetti di genere femminile residenti in comuni con più di 5.000 abitanti, rispetto a quelli residenti nei comuni di piccole dimensioni. La diversità di trattamento riservata ai comuni minori non sarebbe, peraltro, giustificabile dalla presunta difficoltà di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, considerato che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nello stesso comune e che, in ogni caso, eventuali difficoltà derivanti dalla carenza demografica prescinderebbero dal genere dei candidati.
Interessante il richiamo, operato in chiusura, a quella giurisprudenza amministrativa[11] che ha considerato la corretta attuazione del principio di equilibrio di genere alla stregua di un parametro di legittimità sostanziale e di garanzia di “funzionalità” degli apparati amministrativi, al fine del miglior perseguimento degli obiettivi di efficienza, imparzialità e buon andamento dell’azione pubblica. Vista da tale prospettiva, la composizione principalmente monogenere degli organi politici assume un’ulteriore connotazione negativa, poiché, al di là della lesione di diritti costituzionalmente garantiti, determina una vera e propria patologia del sistema democratico. L’aporia rappresentativa influisce direttamente sulla qualità del dialogo istituzionale: lo impoverisce drasticamente, limita la visuale e l’incisività delle azioni politiche che da esso derivano e causa, in sostanza, uno scollamento tra vita politica e società civile, producendo il doppio deficit di rappresentanza e di funzionalità.
3. La decisione: la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale
La Corte costituzionale ha ritenuto di trattare congiuntamente le censure sollevate dall’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, considerandole sostanzialmente convergenti nella sostenuta violazione dell’obbligo costituzionale di promozione della parità di genere nell’accesso alle cariche elettive e nella conseguente irragionevolezza e sproporzione delle scelte operate a tal fine dalla legislazione vigente. Ha, invece, considerato assorbito il riferimento all’art. 117, in relazione all’art. 14 ed all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 12 della CEDU.
L’argomentazione del Giudice costituzionale si è assestata sostanzialmente sull’iter valutativo già condotto dal Consiglio di Stato. Così, premesso il riconoscimento dell’ampia discrezionalità di cui il legislatore gode in campo elettorale (che pienamente giustifica, tra le altre cose, la graduazione delle misure in ragione delle dimensioni degli enti comunali)[12], la Consulta ha spiegato come, nella materia in esame, il dettato legislativo debba essere sempre coerente con l’obbligo costituzionale di «promuove[re] attraverso appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», così come prescritto dall’art. 51 Cost. Di conseguenza, una disciplina elettorale che ometta di contemplare adeguate misure di promozione o che le escluda per determinate categorie di enti, non potrebbe che essere ritenuta costituzionalmente illegittima.
Invero – come già rilevato (e come pure la Corte costituzionale ha evidenziato nel ricostruire la disciplina vigente) – l’art. 71 comma 3-bis del d. Lgs. n. 267/2000, con riferimento ai piccoli comuni, contempla una basica prescrizione attuativa del principio di parità di genere. La norma prescrive, infatti, l’obbligatoria presenza di entrambi i sessi nelle liste elettorali, realizzando quella «misura minima di non discriminazione» cristallizzata dalla nota pronuncia del 2003 resa dalla stessa Consulta con riferimento alla legge elettorale valdostana[13].
Tale disposizione, essendo sprovvista di qualsivoglia rimedio per i casi di violazione dell’obbligo che da essa discende, risulta però totalmente carente di effettività. Tamquam non esset, alla stregua di un fenomeno di normativa rinnegante[14], che si manifesta nello scostamento tra il principio affermato in sede normativa e la sua stessa tangibilità[15]: le regole, seppur formalmente sancite, vengono “rinnegate” in sede applicativa dai soggetti che dovrebbero attuarle, senza che l’ordinamento preveda a tal guisa alcun rimedio.
Il vulnus di tutela è, dunque, evidente e, ad avviso della Corte, la violazione del dettato costituzionale non può essere compensata neppure facendo leva sul bilanciamento tra il principio di equilibrio di genere ed altri principi costituzionalmente rilevanti, in particolare quello di rappresentatività. Un’apposita difesa in tal senso era stata, peraltro, prospettata dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui – benché la normativa vigente non limiti la candidatura ai soli soggetti residenti nel territorio comunale nel quale si svolge la competizione elettorale – la possibile carenza di candidati nelle comunità di piccole dimensioni potrebbe determinare, in presenza di vincoli numerici, la formazione di liste elettorali distanti dall’ente amministrato. Pur considerando tale profilo, la Corte costituzionale ha, tuttavia, ribadito che la soluzione adottata dal legislatore si dimostra manifestamente irragionevole, poiché – oltre a sacrificare oltre il dovuto il principio di parità di genere – determina un’eccessiva ed ingiustificata disparità di trattamento, tanto tra i diversi enti comunali, quanto tra gli aspiranti candidati nei rispettivi comuni.
In conclusione, ferma restando la possibilità per il legislatore di individuare – nell’ambito della propria discrezionalità – una nuova soluzione rispettosa dei principi costituzionali, la Corte ha ritenuto necessario disporre, in tutti i casi di mancato rispetto dell’art. 71-bis, comma 3 del T.U.E.L., l’estensione della sanzione dell’esclusione della lista (già prevista per i comuni di più ampie dimensioni) alla disciplina elettorale dei piccoli comuni.
4. Concludendo
La vicenda esaminata consente di effettuare alcune riflessioni sul modo di attuazione del principio di equilibrio di genere nel nostro ordinamento.
Una premessa è, però, a tal fine necessaria. La costituzionalizzazione della tutela positiva della parità di genere[16], in particolare nell’ambito della rappresentanza politica, ha avviato un complesso processo di sedimentazione normativa e giurisprudenziale che ha condotto alla reinterpretazione – in virtù del rinnovamento profondo dei termini di bilanciamento – degli stessi principi costituzionali che informano la soggettività politica dei cittadini. Alla luce di tali principi, deve essere dunque ben chiaro che tutelare la parità di genere non vuol dire promuovere l’inclusione condizionata in determinati settori di soggetti “deboli”: l’essere donna (o uomo) non è condizione di appartenenza ad una categoria, non è accostabile a gruppi predeterminati o, peggio, minoritari[17], ma rappresenta un fattore irriducibile della stessa persona umana. Il principio di parità tra i sessi si configura, dunque, come irrinunciabile elemento costitutivo di qualsivoglia sistema statale costruito sui principi di libertà ed uguaglianza e proteso al buon funzionamento delle sue istituzioni[18].
Partendo da tali presupposti, in dottrina è stato elaborato il concetto di “democrazia paritaria”, proprio al fine di valorizzare il pieno sviluppo dei diritti e dei doveri connessi alla cittadinanza per entrambi i generi e superare la logica della tutela paternalista di individui deboli per definizione. Obiettivo primario, in tale ottica, è l’affermazione concreta di una nuova eguaglianza formale – intesa come assenza di discriminazioni – che miri a riequilibrare le condizioni di partenza, influendo tanto sulla vita pubblica, quanto sulla sfera privata di tutti i cittadini[19]. Tale nozione è stata fatta propria anche da parte della giurisprudenza amministrativa, secondo cui «(l)a portata della disposizione di cui all’art. 51 Cost., immediatamente e concretamente applicabile nei rapporti intersoggettivi, determina (...) un particolare modo di essere e di agire in capo a qualsiasi soggetto pubblico (...): quello ovverossia di provvedere, quale che sia l’oggetto dei singoli interventi, sulla base dei canoni della c.d. democrazia paritaria»[20].
Se si assume il concetto di democrazia paritaria come punto di partenza, l’analisi della questione del riequilibrio di genere nelle assemblee elettive (e degli strumenti normativi a tale scopo previsti dall’ordinamento) cambia radicalmente prospettiva. Essa non può, infatti, arrestarsi ad un mero dato statistico, ma deve calarsi nel merito della qualità della democrazia rappresentativa, alla luce delle istanze emergenti dal contesto sociale. Così, quella strana vocazione a considerare la parità di genere come una questione formale, un tecnicismo volto ad inserire forzatamente soggetti di genere femminile nella sfera pubblica perde di significato, poiché è la tendenza sociale all’assenza sostanziale di una parte dei cittadini dalle istituzioni a costituire il vero problema. Le stesse misure poste a sostegno della rappresentanza femminile mostrano, infatti, tutta la loro inadeguatezza ed ineffettività proprio quando – come nel caso in esame – non sono accompagnate dalla reale consapevolezza, sul piano culturale, del valore della diversità di genere o, peggio, quando si assestano sulla asettica necessità di una presenza che non sia non realmente partecipativa.
Appare, allora, evidente che – al di là della fondamentale affermazione del principio costituzionale sancito dall’art. 51 Cost. – l’effettività di quelle misure che il legislatore deve porre a presidio della bilanciata presenza dei sessi nell’accesso alle cariche elettive non può prescindere dalla realizzazione di un processo culturale di autoriforma delle forze politiche[21] che preveda, innanzitutto, l’impiego di reali criteri di selezione delle candidature, idonei a garantire non soltanto la quantità, ma soprattutto la qualità della rappresentanza politica per entrambi i generi[22] ed a realizzare quel passaggio – doveroso – da una politica della presenza ad una politica delle idee.
[1] Com’è noto, la Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12 giugno 2003, ha modificato l’articolo 51 della Costituzione, inserendo – accanto alla previsione secondo cui «[t]utti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», il dovere della Repubblica di «promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità fra uomini e donne». L’intervento della legge costituzionale ha, dunque, previsto il dovere giuridico in capo allo Stato ed alle Regioni di legiferare in attuazione della novellata norma costituzionale.
[2] Cfr., le importantissime sentenze della Consulta n. 49/2003 e n. 4/2010, entrambe in www.cortecostituzionale.it. In particolare, con riferimento alla c.d. doppia preferenza di genere – introdotta dalla legge elettorale campana – la Corte ha considerato determinante la circostanza che all’elettore sia consentito di non avvalersi della seconda preferenza e che solo quest’ultima sia travolta da invalidità nel caso in cui non sia rispettata l’alternanza di genere: i votanti, infatti, potrebbero ben disattendere il fine perseguito dal legislatore, semplicemente votando per un unico candidato. Peraltro, proprio nel sindacare la legittimità di tale meccanismo, la Consulta ha fornito un’interpretazione ancor più pregnante del principio di parità di genere, calandolo in una dimensione ultra-individuale, fatta di connotazioni più strettamente sociali ed accogliendo pienamente la tesi secondo cui, nella sua nuova veste, l’art. 51 Cost. giustificherebbe l’adozione di misure direttamente attuative del principio di uguaglianza sostanziale.
[3] La legge n. 215/2012 si è occupata anche della individuazione dei principi fondamentali a cui il legislatore regionale deve far riferimento nella predisposizione della propria normativa elettorale. Rilevanti sono, poi, le norme volte a consolidare la parità di genere nelle giunte e, più in generale, in tutti gli organi collegiali non elettivi degli enti locali. Non vengono, invece, disciplinate le elezioni dei consigli provinciali, successivamente regolamentate dalla legge 7 aprile 2014, n. 56, c.d. Legge Delrio. Per una più approfondita analisi di questi ed altri profili, sia consentito rinviare a S. Gardini, Equilibri di genere negli organi di rappresentanza politica, in Diritto e processo amministrativo, 1/2017.
[4] Con arrotondamento all’unità superiore per il genere meno rappresentato, anche in caso di cifra decimale inferiore a 0,5. È questa la c.d. “quota di lista”. Cfr., art. 71, comma 3-bis T.U.E.L.
[5] Cfr., supra, nota 2.
[6] Su un totale di 7904 Comuni italiani (dati Istat al 20 febbraio 2021), circa 5.500 (secondo il rapporto ANCI “Atlante dei piccoli comuni” del 5 luglio 2019) sono formati da meno di 5.000 abitanti. La popolazione residente in questi enti è pari a quasi dieci milioni di abitanti.
[7] Il giudizio riguardava la norma secondo cui le liste elettorali per l’elezione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta dovessero comprendere, a pena di invalidità, candidati di entrambi i sessi. Secondo la Corte, tale norma «non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva» e «può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell’intento di realizzare la finalità (…) di equilibrio della rappresentanza» (cfr., Corte costituzionale, sent. 10.02.2003, n. 49, in www.cortecostituzionale.it). La pronuncia ha segnato uno dei passaggi fondamentali nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di parità di genere. Per un approfondimento dottrinale, si vedano: L. Carlassare, La parità di accesso alle cariche elettive nella sentenza n. 49: la fine di un equivoco, in Giur. Cost., n.1/2003, 364 ss.; A. Deffenu, Parità dei sessi in politica e controllo della Corte: un revirement circondato da limiti e precauzioni, in Le Regioni, n.5/2003, 918-928; S. Mabellini, Equilibrio dei sessi e rappresentanza politica: un revirement della Corte, in Giur cost., n.1/2003, 372 ss.
[8] I dati sono estrapolati dalle informazioni rese note dal Ministero dell’Interno e consultabili all’indirizzo web www.interno.gov.it/it/speciali/elezioni-2021.
[9] Cfr., punto 15 dell’Ordinanza di rimessione. Il discusso discrimen tra norme programmatiche, applicabili solo dopo un apposito intervento del legislatore e norme precettive, immediatamente cogenti – a ben vedere – può essere fortemente ridimensionato sul piano degli effetti. Come ha rilevato la stessa Corte costituzionale, infatti, «il concetto di norma programmatica non è un indice negativo di qualificazione della disposizione» (cfr., Corte cost., sent. n. 81/2012) ed il proprium delle norme programmatiche non si rinviene tout court nell’assenza di precettività, ma si manifesta nella speciale natura del precetto che esse esprimono, volto alla determinazione di un principio dell’ordinamento, utilizzabile tanto per il superamento delle lacune e delle aporie della legge, quanto in sede di interpretazione sistematica. In dottrina, sulla normatività delle disposizioni costituzionali anche cd. programmatiche, resta insuperato l’insegnamento di V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952. Ritiene che in capo ai principi positivizzati in Costituzione debba essere riconosciuta una funzione suppletiva, integrativa e correttiva delle regole G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006, 114 ss., mentre secondo l’autorevole ricostruzione di G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 158 ss., la funzione meramente accessoria dei principi costituzionali rispetto alle regole legislative è frutto di un vero e proprio pregiudizio positivistico, per il quale «alla fine, le vere norme siano le regole, mentre i principi siano un sovrappiù, qualcosa di cui si sente la necessità solo come “valvole di sicurezza” dell’ordinamento».
[10] Cfr. Cons. di Stato, Sez. I, 4 giugno 2014, parere n. 1801, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Cfr., in particolare, T.A.R. Lazio, 25 luglio 2011, n. 6673, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] In essa si esprime, infatti, al massimo della sua pervasività la politicità della scelta legislativa, che risulta pertanto censurabile solo quando risulti manifestamente irragionevole. Cfr., Corte cost., sent. nn. 35/2017, 1/2014 e 242/2012, tutte in www.cortecostituzionale.it.
[13] Cfr., nota 7.
[14] Il concetto di “normativa rinnegante” fu elaborato, com’è noto, da I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sospettare e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, I ed., Milano, 1979. L’A. identificò con tale locuzione la tecnica di redazione normativa tipica dei regimi nei quali il potere pone in essere regole formali che consentano di agire legibus solutus sul piano sostanziale.
[15] Parla di “diritti dimezzati” sotto il profilo dell’effettività S. Gambino, Sui limiti della democrazia paritaria in Italia, in Verso una democrazia paritaria. Modelli e percorsi per la piena partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale, a cura di A. Falcone, Milano, 2011, 10.
[16] Il principio de quo ha una piena autonomia, anche sul fronte costituzionale. Esso trae origine, storicamente e concettualmente, dal principio di uguaglianza sostanziale, ma non può essere considerato come un mero corollario dell’art. 3, comma 2 della Costituzione. Cfr., A. Deffenu, Il principio di pari opportunità di genere nelle istituzioni politiche, Torino, 2012, 11.
[17] Cfr. M. Barbera, L’eccezione e la regola, ovvero l’eguaglianza come apologia dello status quo, in Donne in quota. È giusto riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, a cura di B. Beccalli, Milano, 1999, 115: «le donne non sono una minoranza ma una maggioranza» e «(...) l’essere donna non costituisce la categoria di un gruppo di interesse fra gli altri, ma di un modo di essere della persona umana».
[18] Cfr. G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà e uguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, passim.
[19] Per un’analisi approfondita del concetto di “democrazia paritaria” e delle sue possibili implicazioni sul sistema costituzionale, si rinvia alla riflessione di M. D’Amico, Il difficile cammino della democrazia paritaria, Torino, 2011, passim, nonché agli acuti inquadramenti di G. Brunelli, Donne e politica, Bologna, 2006, 21 ss. La complessa tematica della cittadinanza e la sua più specifica ed incompiuta declinazione “al femminile” non può, in tale sede, essere oggetto di approfondimento. Si rinvia, dunque, alla riflessione di A. E. Galeotti, Cittadinanza e differenza di genere, in Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, a cura di G. Bonacchi e A. Groppi, Roma-Bari, 1993, 190 ss. Sul punto, si veda anche A. Sabbatini, Donne e welfare. Una cittadinanza incompiuta, in La Rivista delle politiche sociali, 2/2009, 7-15.
[20] In tali termini: T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, n. 622/2010; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, n. 14310/2010, in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Vero è che negli statuti di ogni partito politico – in linea con quanto stabilito dal decreto-legge sull’abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti (D.l. 28 dicembre 2013, n. 149, convertito dalla l. n. 13/2014) – sono presenti previsioni dedicate al rispetto della parità di genere. La presenza maschile risulta, però, ancora irriducibilmente dominante. La stessa Legge individua un meccanismo sanzionatorio soltanto in relazione alle elezioni politiche nazionali. Infatti, nel caso in cui, nel numero complessivo dei candidati presentati da un partito per ciascuna elezione della Camera, del Senato e del Parlamento europeo, uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40%, è prevista la riduzione delle risorse spettanti allo stesso partito a titolo di “due per mille”. In particolare, la misura della riduzione è pari allo 0,5% per ogni punto percentuale al di sotto del 40%, fino al limite massimo complessivo del 10%.
[22] Cfr., P. Scarlatti, La declinazione del principio di parità di genere nel sistema elettorale politico nazionale alla luce della legge 3 novembre 2017, n. 165, in Nomos, 2/2018.
“Braccialetto elettronico” e protezione vittima di violenza di genere
di Maria Monteleone
Il carattere emblematico della vicenda giudiziaria, oggetto delle Ordinanze del Gip, consente alcune riflessioni sulla protezione della vittima di violenza di genere e domestica, tema centrale nell’azione di contrasto, soprattutto nella fase cautelare del procedimento penale.
Il caso all’attenzione degli inquirenti presenta, infatti, i tratti tipici di molti casi di “ordinaria violenza domestica”: una donna che subisce dal convivente abituali aggressioni fisiche, morali e psicologiche; bambini che vi assistono, restandone essi stessi vittime; un uomo, disoccupato, con precedenti penali, assuntore di alcol e stupefacenti, che si difende sostenendo che è “geloso…che vuole bene alla donna”!
Il giudice ha ritenuto l’allontanamento dalla casa familiare, con contestuale divieto di avvicinamento alla vittima, ai sensi dell’art. 282-bis c.p.p., misura idonea a contrastarne la pericolosità, prevedendo – provvidenzialmente - la sorveglianza ed il monitoraggio con il c.d. “braccialetto elettronico”.
Nel volgere di poco tempo, tuttavia, il giudizio sulla pericolosità sociale dell’indagato si è rivelato inadeguato, tanto che, a seguito della violazione delle indicate prescrizioni, è stato tratto nuovamente in arresto nella flagranza del delitto di maltrattamenti in danno della convivente, e raggiunto dalla più grave misura della custodia cautelare in carcere.
Lo svolgimento dei fatti, come rappresentati negli stessi provvedimenti del giudice, evidenziano una “escalation” di violenza tipica di queste forme criminali, ed è ragionevole valutare che, nel caso, l’imposizione del c.d. “braccialetto elettronico”, abbia verosimilmente scongiurato il rischio di un nuovo femminicidio.
Il dispositivo di sorveglianza e controllo imposto all’indagato, cui il giudice ha fatto ricorso quale “modalità nuova di applicazione di misure cautelari preesistenti”[1], previsto dall’art. 275-bis c.p.p., ha fatto ingresso nel nostro sistema processuale oltre 20 anni orsono (D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla Legge 19 gennaio 2001, n. 4), allo scopo dichiarato di ridurre il numero delle persone detenute in carcere, tanto che ne era originariamente prevista l’applicazione soltanto per gli arresti domiciliari e per la “detenzione domiciliare” (art. 47-ter, comma 4-bis, L. 354/75 sull’Ordinamento Penitenziario)[2].
Per le peculiarità tecniche che lo contrassegnano, si è rivelato nel tempo mezzo determinante nel contrasto al “rischio di letalità”, cui sono esposte molte donne vittime di violenza di genere e domestica.
Ed infatti, sebbene, tra problematiche interpretative e non risolte difficoltà operative, abbia a lungo tradito le aspettative che aveva suscitato, nel 2013 la sua applicabilità è stata estesa (ad opera della L. 15 ottobre 2013, n. 119, emanata in esecuzione della Convenzione di Istanbul)[3], dapprima alla misura cautelare dell’allontanamento dall’abitazione familiare (art. 282-bis c.p.p.) e successivamente - con la legge n. 69/2019 - al “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (art. 282-ter c.p.p.).
La nuova, prospettata, opportunità di utilizzo di questo dispositivo di monitoraggio e sorveglianza dell’indagato - particolarmente ampia se si ha riguardo al numero dei reati previsti nel comma 6 dell’art. 282-bis c.p.p. - riveste specifico rilievo nei casi in cui ricorra la pregnante necessità di proteggere una persona offesa “preventivamente individuata”, come tale “candidata” ad essere nuovamente vittima dello stesso indagato.
Questi i motivi per cui anche la stessa potenziale vittima è richiesta di prestare la propria collaborazione, dotandosi di un dispositivo che monitora il rispetto del divieto di avvicinamento entro un raggio spaziale delineato, allertando le forze dell’ordine e la stessa vittima, nel caso di violazione[4].
La descritta modalità di controllo, non è, in effetti, applicata quanto sarebbe opportuno, anche rispetto alle sue odierne potenzialità, come confermano i dati disponibili, secondo i quali, attualmente, i dispositivi elettronici attivi sono complessivamente 4.595, e quelli c.d. anti-stalking, che consentono di monitorare il rispetto delle distanze dalla potenziale vittima, sono 850[5].
Eppure, come conferma anche il caso in esame, l’impiego di detto dispositivo merita di essere riconsiderato, e ciò nonostante il perdurare di alcune problematiche operative, connesse – essenzialmente - ai tempi ed alle formalità necessari per la sua attivazione[6].
Se è pur vero che, nell’adozione di una misura cautelare, il giudice deve ispirarsi al principio del minimo sacrificio per la libertà personale dell’autore del delitto, tuttavia, quando procede per delitti caratterizzati dall’abitualità e dalla ripetitività delle condotte (il che si verifica quasi esclusivamente nei delitti di violenza di genere e domestica), esso è chiamato a valutare la natura ed il grado delle esigenze cautelari, procedendo ad una scelta "individualizzata, attribuendo rilievo specifico anche alla relazione “personale” tra l’autore e la sua vittima, “come tale spesso candidandosi ad essere nuovamente vittima dello stesso autore del reato per cui si procede”[7].
In queste ipotesi, il ricorso alle modalità di controllo mediante mezzi elettronici, può risultare fondamentale per la tutela e la protezione della stessa vittima.
Riguardo all’operatività della disposizione che le prevede – l’art. 275-bis c.p.p. – i giudici delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[8] hanno ritenuto che, a seguito della modifica legislativa di tale norma, ad opera della L. n. 10/2014[9], sono stati ribaltati i termini della valutazione del giudice in ordine all’applicazione di questa speciale forma di controllo: “Mentre prima della novella l’operatività dei meccanismi di cui all’art. 275-bis era subordinata alla circostanza che il giudice li ritenesse “necessari”, nella nuova formulazione della norma, essi devono essere sempre ordinati a meno che si ritengano non necessari, in relazione al grado ed alla natura delle esigenze da soddisfare …..”, tanto da auspicare che i giudici si impegnino in un “adeguato sforzo motivazionale … avendo “l'obbligo di spiegare le ragioni per le quali intendano ricorrere alla misura tradizionale piuttosto che a quella elettronicamente monitorata”.
Il monito assume un rilievo del tutto particolare, laddove il giudice ritenga di applicare una delle misure cautelari previste dagli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p. le quali, in ragione del richiamo in esse contenuto alle modalità di controllo previste dall’art. 275-bis, si deve ritenere che impongano sempre l’applicazione della misura, a meno che il giudice ritenga "non necessario il monitoraggio elettronico del sottoposto, ma in tale caso è necessario un rafforzato obbligo motivazionale in relazione al grado ed alla natura delle esigenze da soddisfare nell'ipotesi specifica”[10].
Proprio la richiamata valutazione (e la conseguente esplicitazione nelle motivazioni) costituisce elemento cruciale nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, e postula un’adeguata specializzazione nei giudici, condizione necessaria che garantisce anche conoscenze dei principi sovranazionali, da tenere sempre presenti nelle valutazioni da operare, anche in sede cautelare.
Centrale, al riguardo, è la Direttiva 2012/29/UE sulle “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, che riconosce a tutte le vittime il “diritto alla protezione” e, pur facendo salvi i diritti della difesa, “richiede agli Stati membri di assicurare che sussistano misure per proteggere la vittima e i suoi familiari da vittimizzazione secondaria e ripetuta, intimidazioni e ritorsioni, compreso il rischio di danni emotivi o psicologici…”.
In questo contesto, secondo i giudici di legittimità[11] “La lettura delle norme interne alla luce delle indicazioni fornite dalla Direttiva è un obbligo che incombe sul giudice nazionale dato che le direttive, anche dopo la loro attuazione, costituiscono atti normativi di indirizzo che orientano l’interpretazione delle norme interne. Spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l’attuazione della direttiva, in tutti i casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, una interpretazione ed una applicazione conformi alle esigenze dell’unione”.
Ma vi è un’ulteriore riflessione che merita svolgimento, ed attiene alla protezione delle vittime di violenza di genere e domestica che scaturisce dai principi previsti dalla Convenzione di Istanbul[12]. Dopo aver affermato - art. 2 - che le Parti “presteranno particolare attenzione alla protezione delle donne vittime di violenza di genere”, la Convenzione precisa, al successivo art. 18, che bisogna “proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza”; circa lo svolgimento dell’azione giudiziaria, non solo richiede espressamente una cooperazione “tra le autorità giudiziarie ed i pubblici ministeri”, ma sottolinea, anche, che le misure devono “essere basate su una comprensione della violenza di genere, e concentrarsi sulla sicurezza della vittima”.
Il legislatore convenzionale richiede, altresì (artt. 50 e seg. ), che “le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e appropriato tutte le forme di violenza”, che offrano “una protezione adeguata e immediata alle vittime ….” che siano valutati “il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno”.
Tutto questo richiede, come accennato, un giudice specializzato[13] capace, quindi, di procedere tempestivamente ad una corretta valutazione di tutti gli elementi del caso concreto, in grado di effettuare valutazioni e giudizi prognostici complessi, sin dall’acquisizione della “notitia criminis”, di individuare gli indici di rischio cui può essere esposta la persona offesa - a volte anche nella sua stessa inconsapevolezza -, e di applicare misure cautelari adeguate a fermare l’aggressore, garantendo la sicurezza personale della sua vittima[14].
Giudici “formati” nella rilevazione del rischio di letalità - cui sia eventualmente esposta la vittima - i quali, nell’individuazione della misura cautelare idonea, in relazione alle “esigenze cautelari” di cui all’art. 274 c.p.p., procedano nella prospettiva concreta indicata dai Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’uomo con la sentenza Talpis[15], nel cui testo si legge che “in materia di violenza domestica, il compito di uno Stato non si esaurisca nella mera adozione di disposizioni di legge che tutelino i soggetti maggiormente vulnerabili, ma si estenda ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva”, e che “l'inerzia delle autorità nell'applicare tali disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti di tutela in esse previsti”.
Nell’esposizione delle problematiche tipiche della fase cautelare del procedimento penale, occorre considerare che il legislatore italiano, nel dare attuazione alle norme convenzionali e alla citata Direttiva europea, a decorrere dal 2009,[16] è intervenuto con modifiche legislative riguardanti il ruolo ed il contributo che la persona offesa può prestare per favorire la sua stessa protezione, attraverso il rafforzamento degli obblighi informativi per la vittima, ma anche prevedendo che essa possa fornire un suo contributo nello stesso procedimento cautelare.
Tra le più significative disposizioni, l’art. 282-quater c.p.p., che rende obbligatoria la comunicazione anche alla persona offesa dei provvedimenti applicativi della misure cautelari di cui agli artt. 282-bis e 282-ter, e l’art. 90-ter c.p.p., introdotto dal D.Lgs. n. 212/2015, che amplia gli obblighi di comunicazione con riguardo all’evasione e alla scarcerazione del violento.
Ruolo centrale è stato assegnato alle disposizioni dell’art. 299, comma 2-bis, c.p.p., che, attraverso ripetuti interventi normativi (a decorre da quelli introdotti con la legge n.119/2013, di esecuzione e ratifica della Convenzione di Istanbul), mirano ad assicurare una effettiva possibilità di partecipazione della vittima all’incidente cautelare.
Il percorso ha avuto un significativo potenziamento con la recente legge n. 69 del 2019, che ha rafforzato gli obblighi informativi anche nei confronti del difensore della vittima - “ove nominato” – con riguardo sia all’applicazione delle indicate misure cautelari (art. 282-quater c.p.p.), sia ai casi di evasione o scarcerazione dell’autore di violenza (art. 90-ter c.p.p.), ovvero all’ipotesi di revoca o sostituzione delle misure cautelari (art. 299 c.p.p.).
Trattasi di obblighi informativi dei quali non va sottovalutata la rilevanza, perché assolvono ad una funzione fondamentale, essendo “volti ad assicurare alla persona offesa, attraverso la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen., uno strumento per offrire ulteriori elementi di conoscenza che, presumibilmente, possono essere desunti solo da un rapporto diretto tra vittima e aggressore”[17].
Pertanto, come rilevato in altra pronuncia dai giudici di legittimità[18], il diritto di ricevere le notifiche di cui all’art. 299, comma 3, c.p.p. nei casi di delitti commessi con violenza alla persona, è fondato sul rischio di “recidiva personale” per la vittima.
In altri termini, ricorrendo un rischio “personale”, candidandosi la vittima ad essere nuovamente vittima dello stesso autore del reato per cui si procede, la particolare relazione intercorrente tra autore e vittima, giustifica il sacrificio del diritto dell’indagato ad una rapida definizione dell’incidente cautelare a vantaggio del diritto della persona offesa a fornire il suo contributo alle decisioni in tema di libertà.
In questo ambito normativo e giurisprudenziale, è fondata la considerazione di carattere generale per la quale le persone offese da questa particolare tipologia di reati, hanno assunto un ruolo nuovo e diverso nel processo penale, dovendosi prendere atto che esse non sono presenti per vantare un mero diritto al risarcimento dei danni, quindi pretese di natura economica - che pure sussistono ed hanno spesso un rilievo non secondario -, ma innanzi tutto per essere salvaguardate dal rischio di reiterazione di aggressioni violente ad opera di uno stesso soggetto, ben individuato.
Quanto esposto legittima alcune ulteriori riflessioni sul caso all’attenzione del giudice che ha adottato i provvedimenti esaminati.
Innanzi tutto, il percorso giudiziario, in merito ai tempi di risposta del sistema, non si è rivelato adeguato; una prima denuncia della donna (risalente a diversi mesi prima dell’arresto dell’indagato), non risulta abbia avuto un seguito di rilievo, dopo un primo intervento delle forze di polizia presso l’abitazione del nucleo familiare, su richiesta della donna, atteso che, nella relativa annotazione, si legge che la donna “presentava evidenti escoriazioni ed ematomi sul corpo….riconducibili ad una lite con il compagno alla presenza dei figli”!
È evidente la “confusione”, non certo lessicale, tra “lite” e “violenza”, che non dovrebbe appartenere ad un operatore di polizia giudiziaria “specializzato”, tanto più che era anche emerso come la donna ed i bambini fossero stati costretti più volte ad allontanarsi dall’abitazione per sottrarsi alle aggressioni dell’uomo violento.
È stata pericolosamente ridotta al rango di “lite”, una grave forma di violenza domestica, mettendo sullo stesso piano la vittima e l’aggressore.
In sintesi: una violenza domestica non “letta”, non individuata, malgrado presentasse, fin da subito, i tratti caratteristici di questa forma criminale; l’escalation della violenza, la sua ripetitività, caratterizzata da gravi minacce di morte alla vittima-donna.
L’indagato, a ben considerare, presentava, sin dall’inizio, tutti i caratteri del soggetto affetto da pericolosità “specifica”, come può esserlo chi, alla presenza dei suoi tre bambini, usa sistematicamente violenza nei confronti della loro madre, non lavora, abusa di alcol e di stupefacenti, vive con i proventi del lavoro della convivente, ha precedenti penali e giudiziari e, per di più, si dichiara “geloso”, così rientrando nei parametri del “potenziale femminicida”.
Si consideri – in proposito – il dato statistico. Dall’indagine condotta dalla Commissione di Inchiesta del Senato sul femminicidio[19], l’analisi relativa ai 197 femminicidi commessi in Italia nel 2017/2018, riguardo agli autori dei delitti, ha rivelato che poco meno della metà degli assassini - il 46,4% - non svolgeva alcuna attività di lavoro, mentre il 60% delle donne uccise dall’ex convivente lavorava, il 32,3 % degli uomini aveva precedenti penali o giudiziari, più di un quarto (il 27,1%) era dipendente da alcol, droghe, psicofarmaci o altre sostanze[20].
La fattispecie in esame conferma, lo si ripete, l’esigenza, imprescindibile, di una valutazione di tipo “specialistico” da parte del magistrati, fin dall’immediatezza dell’acquisizione della notizia di reato, affinché la protezione della vittima non sia affidata al caso, alle intuizioni, più o meno fortuite o “felici”, dell’inquirente di turno[21].
Si consideri, anche, che, nel caso, un “ruolo” determinante nelle diverse fasi della vicenda delittuosa è stato svolto da persone “vicine” alla donna, in particolare da compagni di lavoro che avevano assistito a precedenti aggressioni e minacce e, certamente, uno di essi è stato “provvidenziale” nel proteggerla nell’ultima aggressione, quella che ha determinato la carcerazione dell’indagato.
Questa volta, una persona presente ai fatti non è rimasta “indifferente”, probabilmente ha contribuito a salvarle la vita, a conferma che la violenza - anche contro una donna - non deve mai essere considerata un fatto privato.
I rilievi ci fanno riflettere sul diritto alla vita di una persona, tutelato proprio dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con L. n. 848/1955; i giudici della Corte Europea, nella citata sentenza Talpis, hanno ritenuto che questo diritto, oggetto di violazione ad opera dell’Italia, non può dipendere da mere coincidenze favorevoli: un giudice che applica correttamente lo strumento di controllo elettronico, una persona vicina alla vittima che non rimane indifferente alla sua aggressione.
Bisogna garantire un sistema, anche normativo, che assicuri -sempre ed in ogni fase del procedimento - la possibilità del concreto ed effettivo esercizio di tutti i diritti riconosciuti alla vittima, il primo dei quali è evidentemente quello alla vita.
Si ritengono, pertanto, maturi i tempi per garantire nel processo penale, a tutte le persone offese da questi delitti, una difesa tecnica, che deve essere obbligatoria ed effettiva, proprio in ragione delle diverse specificità – oggettive e soggettive - ampiamente richiamate, che rendono queste persone in condizione di “particolare vulnerabilità”, soprattutto quelle affettivamente e psicologicamente dipendenti dall’autore dei reati (art. 90-quater c.p.p.).
Difesa tecnica e specializzata, dunque, che assuma, dall’avvio del procedimento, le iniziative necessarie alla tutela della vittima vulnerabile, per la garanzia di una corretta tutela dei suoi diritti, nell’esercizio dei poteri processuali già indicati, nella prospettiva tracciata dall’art. 56 della Convenzione di Istanbul, che richiede “un'adeguata assistenza, in modo che i loro diritti e interessi siano adeguatamente rappresentati e presi in considerazione”.
Ricordando, infine, i moniti dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, contenuti nella sentenza Talpis: “i diritti dell’aggressore non possono prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime”, ma anche che gli inquirenti devono procedere con serietà ed attenzione, poiché “la mancanza di diligenza pone inevitabilmente in dubbio la buona fede degli inquirenti agli occhi dei denuncianti, perpetuandone le sofferenze”.
[1] In tal senso Cass. Sez. U, Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016) Rv. 266651.
[2] Il comma 4-bis, aggiunto dall'articolo 17, comma 1, del D.L. n. 341/2000, è stato successivamente abrogato dall'articolo 3, comma 1, lettera f), del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 10.
[3] Al riguardo si veda: Cass. Sez. U., Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016) Rv. 266651 – 01, nella quale, dopo avere evidenziato la sostanziale disapplicazione della disciplina di questo istituto, il giudice di legittimità ha espressamente auspicato il potenziamento di questa strategia da parte degli organi politici ed amministrativi coinvolti al fine di aumentarne la disponibilità .
[4] Ci si riferisce al superamento delle iniziali riserve di diverse vittime donne a dotarsi del dispositivo in grado di rilevare la presenza dell’aggressore nelle vicinanze, generando, nel caso di violazione, allarme immediato al centro elettro di monitoraggio, strumento che necessariamente costituisce una limitazione della privacy.
[5] I dati sono stati acquisiti presso la competente struttura del Ministero dell’interno. In argomento ulteriori elementi di valutazione sono contenuti nelle risposte a due interpellanze parlamentari, la prima del 13712/2019 (n.2-00599) e la seconda del 15/1/2021 (n.2-01022). In particolare in quest’ultima il Ministero dell’interno ha riferito che al 31/12/2020 i braccialetti attivi erano 4215 .
Non è disponibile il dato sulle misure cautelari previste dagli artt. 282 bis e 282 ter, che sono in esecuzione ad aprile 2022 per i delitti di violenza di genere e domestica. Il dato statistico disponibile è quello pubblicato dal Ministero della Giustizia, secondo il quale nel 2018 sono state adottate complessivamente 86.697 misure cautelari e che gli allontanamenti dall’abitazione familiare –ex art. 282 bis c.p.p.- sono stati 3158.
[6] Ci si riferisce ai tempi di attivazione dei sistemi di monitoraggio previsti che sono: 10 e 4 gg. a seconda delle concrete modalità di comunicazione tra i dispositivi elettronici di sorveglianza ed il centro elettronico di monitoraggio, a seconda che debba avvenire attraverso la rete radiomobile mediante utilizzo della SIM o con linea fissa.
[7] In argomento vedi: Sez. 2, Sentenza n. 17335 del 28/03/2019 Cc. (dep. 19/04/2019) Rv. 276953.
[8] Vedi: Sez. U, Sentenza n. 20769 del 28/04/2016 Cc. (dep. 19/05/2016 ) Rv. 266651.
[9] La legge n. 10/2014, di conversione del D.L. n.146/2013, ha sostituito nel primo periodo del comma 1 dell’art. 275-bis in parola la locuzione “se lo ritiene necessario” con l’espressione “salvo che le ritenga non necessarie”.
[10] C.f.r Cass. Sez. Unite 28/4/2016, n. 20769, cit.
[11] Cass., Sez. 2, Sentenza n. 17335 del 28/03/2019, cit.
[12] Legge 27 giugno 2013, n. 77, Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011. (13G00122) (GU Serie Generale n.152 del 01-07-2013).
[13] Al riguardo si veda la Delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 9 maggio 2018 “sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”, e la recente Delibera del 08/11/2021 prot. 20227/2021, sui “risultati del monitoraggio sull’applicazione delle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”.
[14] In questo contesto occorre prendere atto che, a fronte di chiare e specifiche indicazioni della legislazione Convenzionale internazionale, sulla necessità che la materia sia trattata da magistrati specializzati, siamo ben lontani da questo traguardo, come risulta dal “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” del 17/6/2021 della Commissione Parlamentare di inchiesta del Senato sul femminicidio e dalla citata delibera del CSM dell’8/11/2021 prot. 20227/2021. Se, infatti, il 90 % circa delle procure hanno adottato un sistema organizzativo che prevede la trattazione in via esclusiva della materia da parte di sostituti specializzati, in nessun tribunale del nostro Paese è prevista un’analoga organizzazione per gli uffici del Gip, che tuttavia, nel nostro ordinamento processuale svolge un ruolo fondamentale fino dall’avvio del procedimento penale.
[15] Corte Europea Diritti dell’uomo - Provvedimento del 02/03/2017, Numero del Ricorso: 41237/14. Caso: TALPIS contro ITALIA.
[16] Ci si riferisce al D.L. 23/272009 n.11 convertito nella L. 23/4/2009 n. 38 contenente misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”.
[17] In argomento si vedano: Sez. 2, Sentenza n. 43353 del 14/10/2015 Cc. (dep. 27/10/2015) Rv. 265094 e Sez. 6, Sentenza n. 6717 del 05/02/2015 Cc. (dep. 16/02/2015) Rv. 262272.
[18] Cass. Sez. 2 , Sentenza n. 17335 del 28/03/2019 Cc. (dep. 19/04/2019) Rv. 276953 - 01.
[19] Relazione della Commissione di inchiesta sul femminicidio su: “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze . Il biennio 2017-2018”.
[20] Una dettagliata ed interessante analisi statistica dei femminicidi avvenuti in Italia nel 2017/2018 si trova nel capitolo II della Relazione della Commissione di inchiesta citata nella nota precedente.
[21] Una dettagliata ed interessante analisi statistica dei femminicidi avvenuti in Italia nel 2017/2018 si trova nel capitolo II della Relazione della Commissione di inchiesta citata nella nota precedente.
Non si attende il legislatore. Lo spinoso problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni unite*
di Arnaldo Morace Pinelli
Sommario: 1. I termini del problema - 2. Le Sezioni unite del 2019 (sent. n. 12193/2019). Le ragioni del divieto di maternità surrogata - 3. L’intervento della Corte costituzionale. L’esigenza di tutelare più incisivamente il nato da una pratica di maternità surrogata (sent. n. 33/2021) - 4. La prima sezione civile della Corte di cassazione richiede un nuovo pronunciamento delle Sezioni unite, aprendo alla maternità surrogata (ord. n. 1842/2022) - 5. Critica alla proposta ermeneutica dell’ordinanza interlocutoria - 6. Conclusioni. È indispensabile l’intervento del legislatore.
1. I termini del problema
Esiste un filone giurisprudenziale che, confondendo il desiderio di genitorialità con un vero e proprio diritto ad avere figli, pretende di sdoganare la pratica della surrogazione di maternità, pur di darvi piena attuazione. Nella coppia omosessuale maschile, in particolare, il figlio non può nascere a seguito di una fecondazione eterologa, «ma, di necessità, a seguito di un contratto con il quale una donna si presti ad essere fecondata artificialmente, per poi consegnare alla coppia committente il nato», contratto che, nel nostro ordinamento, non solo è vietato, ma anche penalmente sanzionato (art. 12 n. 6, l. 40/2004),[1] in quanto – come è stato recentemente ribadito della Corte Costituzionale - «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane»,[2] «assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale».[3] Le ragioni del divieto – come subito diremo – sono anche altre.
Essendo ormai chiaro che la legittimazione della pratica non può avvenire, come pure si era tentato, attraverso il riconoscimento di un inesistente diritto soggettivo ad avere figli (in ipotesi, certamente spettante anche ai membri della coppia omoaffettiva),[4] si cerca di perseguire l’obiettivo facendo leva, surrettiziamente, sull’esigenza di tutelare il minore, il cui preminente interesse sarebbe quello di conservare lo status filiationis, in qualsiasi modo acquisito all’estero.[5] Dalla condivisibile premessa che le conseguenze della «violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 - imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia – non possono ricadere su chi è nato», si fa discendere , alla stregua di un corollario, il principio per cui l’interesse del minore sarebbe tutelato attraverso un automatismo, ossia mediante il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia del provvedimento che attribuisce lo status filiationis, validamente formato all’estero, indipendentemente dal fatto che i genitori siano ricorsi ad una pratica di p.m.a. vietata in Italia.[6] Agitando la formula del the best interest of the child - di cui autorevole e attenta dottrina non ha mancato di sottolineare l’ontologica vaghezza[7] -, si finisce con l’ammettere la surrogazione di maternità,[8] seppure circoscrivendo la mercificazione ai corpi di donne straniere e, soprattutto, si legittimano ex post le scelte degli adulti, al di fuori di qualsiasi valutazione in concreto dell’effettivo interesse del minore nato da maternità surrogata.
2. Le Sezioni unite del 2019 (sent. n. 12193/2019). Le ragioni del divieto di maternità surrogata
Siffatta impostazione è stata, però, fermamente rifiutata sia dalla Corte di cassazione, nel suo più autorevole consesso, sia dalla Corte costituzionale.
Le Sezioni unite, con una nota pronuncia del 2019,[9] hanno negato la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che affermi il rapporto di genitorialità tra un bambino nato a seguito di maternità surrogata e il c.d. genitore d’intenzione, sul presupposto che il divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma sesto, l. n. 40/2004, integra un principio di ordine pubblico, posto a tutela di valori fondamentali, rispetto ai quali la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto.
Tale pratica comporta una mercificazione del corpo della gestante, la quale rinuncia alla propria maternità a favore dei committenti, lesiva della sua dignità. Diversamente da quanto accade nella fecondazione eterologa, che attiene al problema degli atti di disposizione del proprio corpo, la gestazione per altri realizza una disposizione di status, indipendentemente dal fatto che sia onerosa o gratuita.[10] D’altro canto, l’idea di una surrogazione di maternità c.d. solidale, frutto di un progetto condiviso, espressione della libertà di autodeterminarsi della gestante, si scontra con una realtà assai meno candida della favola bella, assai diffusa,[11] che vede come protagonista una donna, già madre, felice di risperimentare nel suo ventre la vita nascente e desiderosa di aiutare il prossimo, compiendo un atto d’amore. E’ doveroso, infatti, domandarsi quante siano effettivamente le donne che mettono a disposizione il proprio utero per dare un figlio alla propria sorella o a una coppia di amici non fertile e se i rimborsi e gli indennizzi a favore della gestante per il periodo della gravidanza, di regola contemplati dai contratti di surrogazione di maternità c.d. altruistica, gestiti da intermediari prezzolati, non celino in realtà un vero e proprio compenso. Senza poi considerare, esulando dalle nostre specifiche competenze, da un canto, i danni fisici che sempre subisce la madre surrogata, in quanto costretta a sottoporsi a cure ormonali propedeutiche alla gestazione, a impianti di embrioni e, nelle pratiche più barbare, a prelievi di ovuli e ad aborti selettivi degli embrioni che hanno attecchito in eccesso; dall’altro, il trauma psichico che provoca l’abbandono del nato, pacificamente riconosciuto nelle donne costrette ad abbandonare i figli, che poi vengono adottati, ma metodicamente negato nel caso dell’utero in affitto.
La maternità surrogata, anche se le Sezioni unite non l’hanno rilevato, lede anche la dignità del nascituro, «trattato al pari di una res» ed esposto «al rischio d’incertezza in ordine alla sua identità filiale».[12] Senza addentrarci nell’ardua questione se l’embrione umano sia persona, soggetto di diritto o nulla di tutto ciò, è certo che, anche prima dell’impianto, ne viene riconosciuta la dignità, «quale entità che ha in sé il principio della vita»,[13] valore «di rilievo costituzionale riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.».[14] Per questo motivo l’embrione è fatto oggetto di precise tutele (artt. 13 e 14 l. n. 40/2004) e soltanto la necessità di salvaguardare il diritto alla salute della donna (che è già persona e dunque prevale sull’embrione, che persona ancora deve diventare) consente un affievolimento della tutela e, dunque, l’interruzione della p.m.a., con il rifiuto dell’impianto[15] (l’embrione non può però essere soppresso: art. 13 l. n. 40/2004), ovvero, ove questo sia avvenuto, con il ricorso all’aborto.
Se si ritiene che il rapporto materno sia creato dalla gestazione, con conseguente applicabilità dell’art. 269 c.c. anche alla p.m.a., la sottrazione del figlio alla madre uterina è anche lesiva dell’interesse del minore «a mantenere il rapporto materno già naturalmente costituito e vissuto».[16] In effetti, nel caso di fecondazione eterologa la legge stabilisce chi è il padre e chi la madre (artt. 6, 8 e 9 l. n. 40/2004). Nulla dice, invece, con riguardo al nato da maternità surrogata e notoriamente la dottrina è divisa tra coloro che ritengono che madre sia la gestante[17] e coloro secondo i quali «paternità e maternità, e così lo stato del nato, debbano riportarsi a chi ha concorso alla fecondazione e quindi alla creazione dell’embrione».[18] Un siffatto nodo può essere sciolto soltanto dal legislatore, chiamato anche a decidere il ruolo che deve essere assegnato al genitore d’intenzione.
La maternità surrogata, secondo la pronuncia delle Sezioni unite, contrasta infine con l’istituto dell’adozione, ossia lo strumento individuato dalla legge per creare una genitorialità disgiunta da qualsiasi legame biologico: il bambino nato da maternità surrogata è trattato in modo diverso da quello sottoposto a procedimento d’adozione, che ne valuta e garantisce il concreto interesse. A nostro avviso, tuttavia, quest’ultimo argomento è meno convincente, essendo difficile assimilare la surrogazione di maternità all’adozione. Si tratta di due mondi diversi e non comparabili: la legge sull’adozione presuppone l’esistenza in vita di un minore in stato d’abbandono, di cui occorre tutelare il fondamentale diritto ad avere una famiglia, attraverso il rigoroso procedimento stabilito dalla legge. La p.m.a. realizza, invece, il progetto procreativo di una coppia favorendo una nascita ed una genitorialità in parte disgiunta dal legame biologico. Il nato non si trova in stato d’abbandono, avendo comunque un genitore biologico.
L’argomento del contrasto della gestazione per altri con la legge sulle adozioni è, peraltro, valido nell’ipotesi limite, unanimemente rifiutata, in cui coloro che ricorrono a siffatta pratica procreativa non apportino alcun contributo biologico.
Le Sezioni unite, non si sono, tuttavia, arrestate ad affermare la contrarietà della pratica fecondativa all’ordine pubblico, ma si sono giustamente preoccupate di tutelare il frutto di tale pratica, ossia il nato, che – come è stato autorevolmente rilevato - non ha colpa della violazione del divieto ed è «bisognoso di tutela come ogni altro e più di ogni altro», benché il legislatore, in questa materia, si sia limitato a vietare e sanzionare, mentre «avrebbe dovuto… regolare la sorte del nato malgrado il divieto».[19] Siffatta tutela, secondo le Sezioni unite, non si realizza attraverso l’automatica trascrizione dei provvedimenti stranieri che riconoscono lo stato di filiazione, validamente formati all’estero, di per sé ostativa a qualsiasi valutazione del concreto ed effettivo interesse del minore, ma mediante la possibilità della stepchild adoption da parte del genitore d’intenzione, con cui si salvaguarda «la continuità della relazione affettiva ed educativa» eventualmente instauratasi tra il minore e tale soggetto,[20] risultando dall’indagine propedeutica all’adozione particolare che il genitore d’intenzione è diventato genitore sociale, avendo costruito con il minore un rapporto fondamentale per la sua crescita ed il suo sviluppo. In effetti, se si astrae dall’inesistente diritto degli adulti alla genitorialità, in una prospettiva genuinamente minori-centrica, con riguardo al nato da una pratica di maternità surrogata il problema non è quello di tutelare il suo diritto ad avere una famiglia, giacché egli ha già un genitore biologico, bensì quello di preservare il legame affettivo eventualmente creatosi con il genitore d’intenzione.
3. L’intervento della Corte costituzionale. L’esigenza di tutelare più incisivamente il nato da una pratica di maternità surrogata (sent. n. 33/2021)
Questo lodevole sforzo ermeneutico, volto ad operare un equo bilanciamento tra i valori in gioco, presentava, peraltro, un limite oggettivo, derivante dalla peculiare disciplina dell’adozione particolare, istituto eccezionale inidoneo a tutelare pienamente il minore. Esso, ad esempio, prima del recente intervento della Corte costituzionale,[21] non istituiva un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante e neppure tra l’adottante e la famiglia dell’adottato (art. 300 c.c. e 55 l. adoz.). Inoltre - è stato rilevato – l’adozione particolare è rimessa alla volontà dell’adottante e dipende dall’assenso del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo, in caso di crisi della coppia.
Muovendo da tali considerazioni, una pronuncia della prima sezione civile della Corte di Cassazione, a meno di un anno dalla sentenza delle Sezioni unite, ha ritenuto di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, l. n. 40/2004, dell’art. 64, comma 1, lett. “g” l. n. 218/95 e dell’art. 18 d.p.r. n. 396/2000 «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente (fornita dalle Sezioni unite), che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico».[22]
Non si è mancato di criticare il revirement, che metteva in discussione il risultato ermeneutico appena conseguito dalle Sezioni unite, attraverso il ricorso alla Corte costituzionale.
Le attese del giudice rimettente sono peraltro andate deluse. La Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato inammissibili le questioni sollevate,[23] affermando con particolare incisività che, nel bilanciamento dei valori in gioco in caso di maternità surrogata praticata all’estero, occorre collocarsi dalla parte del minore. Il problema non è, infatti, quello di riconoscere un inesistente diritto degli adulti ad avere figli, bensì quello di tutelare i diritti fondamentali del nato da p.m.a., quando questa sia avvenuta in un paese straniero, in spregio ai divieti della l. n. 40/2004.
Nelle decisioni che lo riguardano deve, dunque, essere sempre ricercata «la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca…la miglior “cura della persona”», e non vi è dubbio «che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita…da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia».[24]
La Corte costituzionale ha ribadito con fermezza la condanna della maternità surrogata e la necessità di bilanciare l’interesse del minore «alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore». Ha quindi condiviso il diniego delle Sezioni unite in ordine alla trascrivibilità dei provvedimenti giudiziari stranieri e, a fortiori, dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il c.d. padre d’intenzione, ritenendo che l’interesse del minore ad ottenere il riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia, che lo abbiano accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale, debba realizzarsi senza automatismi, «attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato,…sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice» in ordine all’esistenza e al valore di tale relazione.
L’importante pronuncia ha, peraltro, denunziato i limiti dell’adozione particolare nell’assicurare siffatta tutela, rilevando, tuttavia, che il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata non può che spettare, almeno «in prima battuta», al legislatore, «al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco».
4. La prima sezione civile della Corte di cassazione richiede un nuovo pronunciamento delle Sezioni unite, aprendo alla maternità surrogata (ord. n. 1842/2022)
Nonostante la Corte costituzionale abbia invocato l’intervento del legislatore, immediata è stata la chiamata alle armi dei giudici da parte di coloro che con maggior zelo portano avanti la battaglia del riconoscimento della filiazione alle coppie omoaffettive[25] ed altrettanto rapida è stata la risposta. Appena dieci mesi dopo il deposito della sentenza della Corte costituzionale, sul duplice presupposto che la stessa, denunziando l’inefficienza dell’adozione particolare a tutelare l’interesse del nato da maternità surrogata, abbia determinato il superamento del diritto vivente espresso dalla sentenza n. 12193/2019 delle Sezioni unite e che, stante l’asserita inattività del legislatore, si sia generato un vuoto normativo, una pronuncia della prima sezione civile della Corte di cassazione[26] ha chiesto un nuovo intervento delle Sezioni unite, sottoponendo una soluzione interpretativa ritenuta «adeguata a rispondere all’implicita chiamata “interpretativa” posta in essere con la sentenza n. 33/2021 dalla Corte costituzionale».
Si tratta, all’evidenza, di una forzatura, anche in ragione della tempistica, giacché la Corte costituzionale aveva chiamato in causa il legislatore, unico soggetto in grado di individuare soluzioni di carattere generale e astratto, contemperando tutti gli interessi in conflitto ed evitando disarmonie nel sistema complessivamente considerato, ed, in difetto, ipotizzava un proprio intervento, ritenendo peraltro di non poter porre, allo stato, rimedio al pur rilevato grave vuoto di tutela. Del resto gli invalicabili limiti che incontra il giudice in questa peculiare materia sono stati ammirevolmente e ripetutamente riaffermati anche di recente dalla medesima prima sezione della Corte di cassazione, ribadendo senza possibilità d’equivoci che una «diversa (rispetto alla stepchild adoption) tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto» con il genitore d’intenzione, «ove anche se ne reputi la necessità, rientra comunque nella piena discrezionalità del legislatore ed è sottratta…a qualsiasi possibile sindacato». L’eventuale vuoto di tutela implica «in questa materia eticamente sensibile scelte legislative di riscontro in base all’equilibrio di diversi valori costituzionali – tutti coinvolti e tutti in gioco – a fronte delle quali scelte non sarebbe ammissibile, perché potenzialmente arbitraria, una qualsivoglia attività di supplenza in termini solo giurisprudenziali».[27]
In effetti, il divieto di surrogazione di maternità costituisce un principio d’ordine pubblico, posto a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, all’esito di un bilanciamento operato dal legislatore. La l. n. 40/2004 è una di quelle leggi costituzionalmente necessarie, attuativa di principi fondamentali della nostra Costituzione, rientranti nella nozione di ordine pubblico.[28] Le questioni da essa affrontate «toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore».[29]
Come riteneva un illustre e compianto Maestro, la giurisprudenza riveste un ruolo fondamentale, giacché «le applicazioni giurisprudenziali che si traducono in orientamenti consolidati conferiscono alla norma un significato che tende ad essere recepito nel tessuto sociale».[30] Ciò non significa, tuttavia, «né conferire né riconoscere un potere normativo ai giudici né dare ingresso alla “consuetudine giurisprudenziale” come fonte del diritto».[31] In effetti, l’interpretazione della giurisprudenza non possiede un’autorità legislativa[32] e, soprattutto, secondo l’insegnamento dello stesso giudice di legittimità, non può correggere o sostituire la voluntas legis, dovendosi arrestare di fronte al limite di tolleranza ed elasticità segnato dal significante testuale della norma, nell’ambito del quale questa, di volta in volta, adegua il suo contenuto, piegandosi all’evoluzione che «l’interesse tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche nel bilanciamento con contigui valori di rango superiore, a livello costituzionale e sovranazionale».[33] A tale limite di tolleranza ed elasticità della norma soggiace anche l’interpretazione costituzionalmente orientata.[34]
A ben vedere, il diritto vivente costituisce un fenomeno oggettivo, legato alla peculiare struttura della norma giuridica e determinato dall’evoluzione dell’ordinamento. La giurisprudenza «lo disvela, ma non per questo lo crea».[35]
È compito del legislatore, dunque, di fronte ad una realtà moralmente inadeguata, quale è certamente l’attuale con riguardo alla posizione giuridica del minore nato da un pratica di maternità surrogata, operarne il mutamento ed apprestare l’invocata tutela.[36] E il legislatore - diversamente da quanto reputa l’ordinanza interlocutoria che ha rimesso la questione alle Sezioni unite - si sta muovendo. E’ notizia di questi giorni che è stata adottato come testo base dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati la proposta di legge C. 306 Meloni (denominata «Modifica all'articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all'estero da cittadino italiano») che, al chiaro fine di fermare il turismo riproduttivo, ravvisa nella maternità surrogata un reato universale, confermando la valutazione negativa a tutto campo, da parte del nostro ordinamento, di tale pratica procreativa.
5. Critica alla proposta ermeneutica dell’ordinanza interlocutoria
Non convince in ogni caso la proposta ermeneutica sottoposta all’esame delle Sezioni unite. Con specifico riguardo alla posizione del minore, la Corte Edu ha escluso che dall’art. 8 CEDU si possa inferire un diritto al riconoscimento dei rapporti di filiazione conseguiti all’estero, facendo ricorso alla maternità surrogata, e ha dato atto di un ampio margine di apprezzamento spettante agli Stati membri in ordine alla possibilità di riconoscere siffatti rapporti di filiazione.[37] D’altro canto ha affermato la necessità di tutelare l’interesse del minore a preservare il legame che si sia venuto a consolidare con il genitore d’intenzione con «modalità che garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera».[38] La Corte costituzionale, dal suo canto, non ha mancato di sottolineare come la scelta operata dal nostro ordinamento del ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari (opportunamente emendato) abbia il pregio di «tenere in equilibrio molteplici istanze implicate nella complessa vicenda» e al contempo «di garantire una piena protezione all’interesse del minore».[39]
L’ordinanza interlocutoria muove, invece, da un’opposta impostazione, ritenendo che, «in assenza di un intervento innovativo del legislatore, è necessario partire da una rivalutazione degli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione) per verificare se in questa materia sussista un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto penale». Ciò reputa di poter escludere a condizione che siffatti strumenti non operino automaticamente e che la compatibilità della delibazione o della trascrizione con i valori sottesi al divieto di surrogazione «sia compiuta non in astratto ma con riferimento ad ogni singolo caso concreto sia pure alla luce di criteri che abbiano validità generale» ed in base ad un bilanciamento dei valori in conflitto ispirato ai principi di proporzionalità e ragionevolezza «senza che vi sia un’aprioristica definizione di prevalenza di un interesse in gioco».
L’ordinanza passa dunque in rassegna i due valori che la giurisprudenza di legittimità e la Corte costituzionale pongono alla base del divieto della maternità surrogata, ossia la tutela della dignità della gestante e «la preservazione dell’istituto dell’adozione».
La lesione della dignità della donna viene esclusa (e quindi il provvedimento estero sarebbe delibabile o trascrivibile) quando, in base alla legislazione straniera, la gravidanza per altri «sia il frutto di una scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e se tale scelta sia revocabile sino alla nascita del bambino». Del resto – osserva la Corte di cassazione – l’autodeterminazione della gestante è valorizzata anche nel nostro ordinamento laddove si consente alla partoriente di restare anonima, escludendo in tal modo l’instaurazione del rapporto di filiazione. A ben vedere, secondo tale impostazione, si dà ingresso non soltanto alla surrogazione di maternità c.d. solidaristica ma anche a quella onerosa, giacché, se la donna non si trova in stato di bisogno, la sua scelta non può ritenersi condizionata da eventuali contropartite economiche.
Quanto poi alla «preservazione dell’istituto dell’adozione», l’ordinanza interlocutoria reputa che il discrimen alla delibabilità/trascrizione del provvedimento straniero sia costituito «dalla tutela del minore da pratiche elusive e illegali intese a vanificare le norme che lo garantiscono, specificamente nei procedimenti di adozione internazionale, da qualsiasi forma di mercificazione». Sarebbe dunque contraria all’ordine pubblico la «strumentale e occulta utilizzazione della surrogazione di maternità», che, secondo la pronuncia, si verifica quando coloro che la richiedono non possono accedere alle procedure di adozione in Italia «e intendono avvalersi delle tecniche di procreazione assistita mediante surrogazione di maternità senza rispettarne le condizioni legali di ammissione» e quando i genitori intenzionali non hanno apportato alcun contributo genetico alla procreazione, trovandoci in tal caso in presenza di «una vicenda pattizia che normalmente viene gestita da un intermediario per fini economici e che esclude in radice la partecipazione dei genitori intenzionali e della madre gestazionale a un progetto procreativo» determinandosi «nella normalità dei casi, e salva una verifica in concreto, una lesione della dignità della donna che assume l’obbligo della gestazione e un attentato all’istituto dell’adozione».
Ora, a noi pare che il divieto di surrogazione di maternità – come abbiamo esposto al superiore § 2 - abbia un respiro ben più ampio di quello che gli attribuisce l’ordinanza interlocutoria.
La mercificazione della maternità, anche se, allo scopo di realizzare l’inesistente diritto degli adulti ad avere figli, la si ammanta del nobile proposito di rispettare l’autodeterminazione della gestante, oltre che lesiva della sua personale dignità, pone sempre un problema di disposizione di status. Indipendentemente dal titolo, oneroso o gratuito, e dalla situazione economica in cui ella versa (eventuale stato di bisogno), l’atto dispositivo ha ad oggetto il futuro stato familiare del nascituro,[40] ossia un diritto indisponibile.[41] La pretesa di avvalorare l’autodeterminazione della gestante con il rilievo che l’ordinamento attribuisce alla volontà della donna, al momento del parto, di restare anonima e, dunque, di non assumere la genitorialità nei confronti del nato, è fuorviante. Il diritto della madre a restare anonima – come chiarito a più riprese dalla Corte costituzionale – non ne tutela l’autodeterminazione ma è posto a salvaguardia della vita del figlio, essendo volto a distogliere la madre «da decisioni irreparabili», ossia dalla possibile scelta di abortire.[42]
La maternità surrogata è lesiva anche della dignità del nascituro, trattato alla stregua di una res ed esposto «al rischio d’incertezza in ordine alla sua identità filiale»,[43] e se, nel silenzio della legge, si ritiene che madre sia colei che partorisce, è lesiva pure dell’interesse del minore «a mantenere il rapporto materno già naturalmente costituito e vissuto».[44]
Poco limpido è l’argomento in punto di contrasto della maternità surrogata con le regole dell’adozione. Le Sezioni unite, nella nota sentenza del 2021,[45] rifacendosi alla nozione di ordine pubblico internazionale accolta da Cass., S.U. 12193/2019, in materia di maternità surrogata, hanno affermato che «non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell'adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale, ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione». Questa pronuncia, espressamente richiamata dall’ordinanza interlocutoria a sostegno del proprio iter argomentativo, in realtà si colloca perfettamente in linea con il precedente del 2019 ed anzi, nel ribadire la contrarietà della gestazione per altri ai principi vigenti di ordine pubblico, è ancora più radicale, «non distinguendo tra maternità surrogata per fini commerciali o altruistica, oppure tra committenti di diverso o dello stesso sesso».[46] Era stata sottoposta all’attenzione del giudice di legittimità un’adozione disposta all’estero, sulla scorta del consenso prestato dai genitori biologici ed in favore di due persone dello stesso sesso, di cui i locali servizi avevano accertato l’idoneità genitoriale. Il limite di siffatta pronuncia è semmai quello di avere ritenuto delibabile un provvedimento di adozione straniero, assunto senza il compimento di alcun accertamento in ordine allo stato di abbandono, quale essenziale condizione di garanzia del minore.[47]
In ogni caso, essendo stata presa la decisione delle Sezioni unite sul presupposto che, nel caso di specie, certamente non ricorreva un’ipotesi di maternità surrogata e che, in caso contrario, la delibazione sarebbe stata impedita dall’ordine pubblico internazionale, non è certamente suffragabile con tale autorevole arresto il principio affermato dall’ordinanza interlocutoria secondo il quale la delibazione/trascrizione del provvedimento straniero sarebbe preclusa soltanto nel caso in cui si sia tentato di aggirare la disciplina straniera ammissiva della surrogazione di maternità.
In definitiva, la contestuale lesione della dignità della donna e del nascituro e, se si ritiene che madre sia colei che partorisce, il diritto del minore a mantenere il rapporto materno già naturalmente costituito e vissuto inducono a ritenere che il riconoscimento ab initio del rapporto di filiazione con il genitore d’intenzione in nessun caso sia funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere figli a tutti i costi. A ben vedere, il divieto di maternità surrogata non determina alcun affievolimento dell’interesse del minore, in nome di un asserito superiore interesse dello Stato a disincentivare la peculiare pratica procreativa,[48] ma è posto proprio a tutela di quel preminente interesse. La strumentalizzazione del minore non ci pare, del resto, mai conciliabile con la tutela del suo interesse, obiettivo primario che l’ordinamento persegue.
A distanza di qualche anno, ci si avvede, dunque, di quanto equilibrio e saggezza abbiano ispirato la decisione delle Sezioni unite del 2019 che, in una prospettiva genuinamente minori-centrica, ha subordinato la formalizzazione del rapporto tra il nato ed il genitore d’intenzione alla verifica giudiziale, da effettuarsi in concreto, della sussistenza di una relazione affettiva fondamentale per il minore (la c.d. stepchild adoption).
6. Conclusioni. È indispensabile l’intervento del legislatore
Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata non può che spettare, almeno «in prima battuta», al legislatore, «al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco».[49] La Corte costituzionale ha, peraltro, indicato la strada, che non è quella della delibabilità/trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un più o meno accentuato automatismo funzionale ad «assecondare … il mero desiderio di genitorialità» degli adulti, che ricorrono all’estero alla pratica vietata nel nostro ordinamento, ma di riformare l’adozione particolare, istituto per sua natura volto alla realizzazione del preminente interesse del minore (art. 57, comma 1, l. adoz.) e capace di tenere in equilibrio i molteplici valori in conflitto, garantendo la piena protezione di tale interesse.[50] In quest’opera di adeguamento dell’istituto, tale giudice ha recentemente dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 55 l. adoz., nella parte in cui, mediante il rinvio all’art. 300, comma 2, c.c., escludeva la parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante, rimuovendo un ostacolo all’effettività della tutela offerta dall’adozione in casi particolari. In tal modo il minore si avvantaggia delle garanzie personali e patrimoniali che discendono dal riconoscimento giuridico dei legami parentali ed è, al contempo, salvaguardata l’identità che gli deriva dall’inserimento nell’ambiente familiare adottivo.[51]
Il legislatore, ove decidesse di porsi lungo questa via, è chiamato ad introdurre una nuova tipologia di adozione, con un procedimento celere ed una disciplina che l’avvicini, negli effetti, all’adozione piena. Dovrà, peraltro, rimanere il vaglio del giudice, che accerti, in concreto, la sussistenza del legame tra il minore e il genitore d’intenzione, ossia che quest’ultimo è divenuto genitore sociale.
In senso critico è stato da più parti osservato che l’adozione, lungi dal costituire un deterrente alla maternità surrogata, «lascia nelle mani del genitore intenzionale la scelta se costituire il rapporto, attraverso la disciplina dell’adozione, ovvero abbandonare il nato al suo destino».[52]
Abbiamo già espresso le nostre riserve sul fatto che il minore possa essere, in alcun modo, strumentalizzato per disincentivare la pratica illecita. Vero è piuttosto che la valutazione dell’efficienza dell’adozione particolare a rispondere all’interesse del minore, ovvero l’opportunità di scegliere strumenti diversi, molto dipende dalla risposta che il legislatore deciderà di dare al fondamentale quesito se madre del nato sia quella uterina ovvero, così come avviene per la fecondazione assistita, omologa o eterologa che sia (artt. 6, 8 e 9 l. n. 40/2004), la genitorialità giuridica possa fondarsi sulla volontà della coppia che ha voluto e organizzato la procreazione assistita, risultato allo stato non conseguibile in via ermeneutica, costituendo la fattispecie della maternità surrogata un reato.
Nel primo caso, il primario interesse del minore è quello di mantenere il rapporto con la madre che l’ha partorito; la madre genetica, ragionevolmente, potrà far valere il suo legame biologico se e quando la madre uterina abbia rifiutato la sua maternità. E’, invece, «difficile giustificare l’accertamento del rapporto di filiazione adducendo l’interesse del minore», quando manchi il nesso biologico, come avviene con riguardo al genitore d’intenzione.[53] Non entra in gioco, in tal caso, il diritto del nato ad avere una famiglia, giacché egli ha già un genitore biologico. Vi è piuttosto da tutelare il suo diritto a mantenere un legame per lui fondamentale, e l’adozione particolare, opportunamente riformata, da questo punto di vista, costituisce uno strumento adeguato. Semmai, per superare il rilievo che l’adozione particolare è rimessa alla discrezionalità del genitore d’intenzione, potrebbe essere ragionevole riconoscere al minore l’azione ex art. 279 c.c.
Ove, invece, la scelta sia quella di escludere la madre uterina[54] e di valorizzare il consenso prestato dai committenti, un ragionevole compromesso tra la tutela del nato ed il rispetto del divieto d’ordine pubblico di maternità surrogata potrebbe essere ravvisabile nell’introduzione di una regola analoga a quella dell’art. 128, comma 2, c.c., in caso di matrimonio dichiarato nullo, che avrebbe il pregio di proteggere il minore senza favorire gli adulti che hanno agito violando la legge e ledendo i valori ad essa sottesi.[55]
Si vede, insomma, come soltanto il legislatore possa disciplinare la spinosa materia della maternità surrogata, contemperando gli interessi in gioco ed individuando la migliore tutela per colui che nasce attraverso la pratica illecita.
Rileviamo, infine, che, a nostro avviso, nell’auspicata riforma delle adozioni, il legislatore dovrà favorire la costituzione di rapporti di filiazione giuridica tra persone esistenti, anziché il ricorso alle tecniche di p.m.a.[56] Essendo fuori discussione l’idoneità genitoriale delle coppie omoaffettive[57] ed in virtù dei sempre maggiori riconoscimenti delle convivenze, in un’epoca in cui il matrimonio non costituisce garanzia di stabilità affettiva, ci pare che il legislatore debba prendere seriamente in considerazione la possibilità di ammettere i conviventi, anche dello stesso sesso (ed, a ben vedere, pure la persona singola) all’adozione piena. Se – come ci sembra innegabile - l’adozione ha una chiara matrice solidaristica ed accedendo ad essa si adempie anche un «dovere di solidarietà verso i minori in stato di abbandono»,[58] è certamente auspicabile un’apertura dell’adozione nazionale e – in questo peculiare momento storico – di quella internazionale anche alle coppie conviventi, comprese quelle dello stesso sesso, ed alle persone singole, previa individuazione di ragionevoli requisiti e presupposti d’accesso ai due istituti.[59]
*Questo scritto è dedicato al Prof. C. Massimo Bianca, il quale mi ha insegnato che il compito del giurista è quello di leggere il diritto in modo da costruire una società più giusta.
[1] F. GAZZONI, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla recente legge, in www.personaedanno.it.
Conf. C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2017, 445.
[2] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79; Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, in Familia, 2021, 391, con nota di A. MORACE PINELLI, La tutela del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata; Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272, in Foro it., 2018, I, 5.
[3] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79, che richiama Corte cost., 8 marzo 2021, n. 33 cit.
[4] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, cit., precisa che «non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino»; Corte cost., 9 marzo 2021 n. 32, in Fam. e dir., 2021, 677, esclude propriamente «l’esistenza di un diritto alla genitorialità delle coppie dello stesso sesso»; Corte cost., 20 ottobre 2020, n. 230, ivi, secondo la quale «l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.».
Corte Edu, Grande Camera, 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli c./ Italia, Foro it., 2017, IV, 105, con nota di CASABURI, afferma con cristallina chiarezza che la CEDU «non sancisce alcun diritto di diventare genitore» (§ 215).
Sul punto, cfr. il nostro Per una riforma dell’adozione, in Dir. fam., 2016, 720 e ss.
[5] Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, in Foro it., 2016, I, 3329.
[6] Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, cit.
[7] M. BIANCA, Prefazione, in The best interest of the child, a cura di M. BIANCA, Roma, 2021, XV e ss.
[8] App. Trento 23 febbraio 2017, in Foro it., 2017, I, 1034.
[9] Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, in Foro it., 2019, I, 1951.
[10] M. BIANCA, La tanto attesa decisione delle Sezioni Unite. Ordine pubblico versus superiore interesse del minore?, in Familia, 2019, 375.
[11] Cfr., da ultimo, la narrazione di Chiara Lalli, apparsa su www.corriere.it, Corriere Daily, episodio 555, 28 aprile 2022, La maternità surrogata reato universale? Una proposta di legge che fa discutere, a cura di T. Pellizzari.
[12] M. BIANCA, La tanto attesa decisione, cit., 377.
[13] Corte cost., 13 aprile 2016, n. 84, in Giur. it., 2017, 307, con nota di D. CARUSI, Embrioni in soprannumero e destinazione alla ricerca: il diritto vigente; Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229, in Dir. pen. e processo, 2016, 62, con nota di A. VALLINI, Gli ultimi fantasmi della legge 40: incostituzionale il (supposto) reato di selezione preimpianto.
Cfr. pure Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, in Foro it., 2009, I, 2301.
[14] Corte cost., 13 aprile 2016, n. 84, cit.; Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229, cit.
[15] Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, cit.
[16] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 445.
[17] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 445.
[18] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in G. OPPO, Scritti giuridici, VII, Padova, 2005, 52.
[19] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in G. OPPO, Scritti giuridici, VII, cit., 49 e ss.
[20] Così già Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272, in Foro it., 2018, I, 5.
[21] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
[22] Cass., I Sez. civ., ord., 29 aprile 2020 n. 8325, in giudicedonna.it, 2/2020, con nota di M. BIANCA, Il revirement della Cassazione dopo la decisione delle Sezioni Unite. Conflitto o dialogo con la Corte di Strasburgo? Alcune notazioni sul diritto vivente delle azioni di stato.
[23] Sent. n. 33/2021, cit.
[24] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, cit.; Corte cost., 10 febbraio 1981 n. 11.
[25] G. FERRANDO, Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 del 2021, in www.giustiziainsieme.it.
[26] Cass., 21 gennaio 2022, n. 1842.
[27] Cass.25 febbraio 2022, n. 6383.
Cfr. anche Cass., 7 marzo 2022, n. 7413, secondo la quale la prevalenza da accordarsi all’interesse del minore «non legittima l’automatica estensione delle disposizioni dettate per la p.m.a. anche ad ipotesi estranee al loro ambito di applicazione, non potendo questa Corte sostituirsi al legislatore, cui spetta, nell’esercizio della propria discrezionalità, l’individuazione degli strumenti giuridici più opportuni per la realizzazione del predetto interesse, compatibilmente con il rispetto dei principi sottesi alla l. n. 40 del 2004». Nel medesimo senso, cfr. Cass., 4 aprile 2022, n. 10844; Cass., 5 aprile 2022, n. 11078; Cass., 23 agosto 2021, n. 23321; Cass., 23 agosto 2021, n. 23320.
[28] Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, cit.; Cass., S.U. 31 marzo 2021, n. 9006, in N.g.c.c., 2021, 797, con nota di L. TORMEN, Via libera alla trascrizione dell’adozione per le coppie omoaffettive.
Corte cost., 28 gennaio 2005, n. 48, in Foro it., 2005, I, 627, ha chiarito che la l. n. 40 del 2004 reca «la completa ed esclusiva disciplina della procreazione medica assistita» (conf. Corte Cost., 28 gennaio 2005, n. 47, ivi).
Corte Cost., 28 gennaio 2005, n. 45, in Foro it., 2005, I, 629, ha ritenuto la l. n. 40/2004 la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore… che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa». Si tratta, dunque, di normativa «costituzionalmente necessaria», che rende inammissibile la richiesta di sottoporre a referendum abrogativo l’intera l. n. 40/2004.
[29] Corte cost., 26 settembre 1998, n. 347.
Cfr. pure Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, cit.
[30] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, I, 1, 207.
[31] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 203 e ss.
[32] Non essendo quello italiano un ordinamento di common law, il giudice non è vincolato dal precedente, per quanto autorevole. Cfr., in tal senso, Cass., S.U., 3 maggio 2019, n. 11747.
[33] Si veda, soprattutto, Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144. Nel medesimo senso, cfr. Cass., S.U., 20 dicembre 2016, n. 26271; Cass., S.U., 23 dicembre 2014, n. 27341; Cass., S.U., 22 marzo 2019, n. 8230.
Cass., S.U., ord., 6 novembre 2014, n. 23675, sottolinea che «la “creatività” dell’interpretazione giurisprudenziale deve interpellare il senso di misura e soprattutto il senso di responsabilità dell’interprete».
[34] Corte cost., 13 aprile 2017, n. 82, in Foro it., 2017, I, 1819. Conf. Corte cost., 19 febbraio 2016, n. 36.
[35] Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144.
[36] Cfr., in generale, C.M. BIANCA, Lo pseudo-riconoscimento dei figli adulterini, in Realtà sociale, cit., I, 1, 303 e ss.
[37] Corte EDU, 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, cit., §§ 197-199.
[38] Corte EDU, Grande Camera, parere consultivo 10 aprile 2019, in N.g.c.c., 2019, 757, con nota di A. GRASSO, Maternità surrogata e riconoscimento del rapporto con la madre naturale, § 54.
[39] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
[40] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 445.
[41] Corte cost., 26 settembre 1998, n. 347; Cass., 9 aprile 2019, n. 9905; Cass., 12 marzo 2014, n. 5710; Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713.
Nel merito, cfr. App. Potenza, 4 agosto 2010.
[42] Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, in Foro it., 2014, I, 4; Corte cost., 25 novembre 2005, n. 425, in Guida al dir., 2005, fasc. 47, 28.
Sul punto, cfr. il nostro Il diritto a conoscere le proprie origini, in The best interest of the child, a cura di M. BIANCA, cit., 1011 e ss.
[43] Cfr. sopra, il § 2.
[44] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 445.
[45] Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.
[46] G. RECINTO, Le pericolose oscillazioni della Suprema Corte e della Consulta rispetto alla maternità surrogata, in Fam. e dir., 2021, 1009.
[47] M. SESTA, Adozione consensuale estera e ordine pubblico: una decisione che non persuade, in Fam. e dir., 2021, 1014.
[48] Così, invece, Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, cit.
[49] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, cit.
[50] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
[51] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
[52] U. SALANITRO, L’adozione e i suoi confini. Per una disciplina della filiazione da procreazione assistita illecita in N.g.c.c., 2021, 947.
[53] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 447.
[54] E’ lecito interrogarsi se sia ragionevole e confacente all’interesse del minore attribuire la maternità ad una donna che in realtà non ha alcuna volontà di maternità, destinata ad eclissarsi subito dopo la nascita. Perlomeno nel caso (che costituisce la regola) in cui non sussista alcun legame biologico tra la gestante e il nato.
[55] In tal senso, cfr. A. NICOLUSSI, Famiglia e biodiritto civile, in Europa e dir. priv., 2019, 713 e ss.
[56] Cfr., in tal senso, già il nostro Il problema della filiazione nell’unione civile, in Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. BIANCA, Padova, 2017, 318 e ss.; Id., Per una riforma dell’adozione, cit., 724 e ss.
[57] Cfr., da ultimo, Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79; Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.
[58] Così Cass., S.U., ord., 16 febbraio 1995, n. 78.
[59] In tal senso ci eravamo già espressi nel nostro Il problema della filiazione nell’unione civile, cit., 318 e ss.; Id., Per una riforma dell’adozione, cit., 725 e ss.
Un’importante apertura, nel senso indicato, proviene oggi da Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.
Nei giorni cinque e sei maggio 2022 si svolge a Palermo la Conferenza europea dei Procuratori generali, promossa dalla Procura generale della Corte di Cassazione, dal Ministero degli Esteri e dal Ministero della Giustizia, in cooperazione con il Consiglio d'Europa, dedicata all'indipendenza e alla responsabilità del pubblico ministero rispetto ai temi della protezione dei diritti umani e della cooperazione nell'accertamento dei reati transnazionali. Nella sessione finale è prevista la commemorazione dei giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino. In questa occasione la Procuratrice capo di Eppo Laura Codruţa Kövesi ha dedicato le sue riflessioni al ruolo della Procura europea nel contrasto al crimine organizzato transnazionale ed alle frodi transfrontaliere. A Lei vanno i sensi di riconoscenza della Rivista. Il testo originale dell'intervento in lingua inglese, riportato in calce a quello in italiano, è stato tradotto dal collega Geri Ferrara, Procuratore Europeo Delegato al quale rivolgiamo il nostro particolare ringraziamento.
Le sfide della Procura europea nella memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
di Laura Codruţa Kövesi -Procuratore capo europeo-
Trent'anni dopo il loro assassinio, l'eroica lotta e il tragico destino di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rimangono uno stimolo e un monito per ogni società democratica.
Un'ispirazione che dimostra quanto l'integrità e il coraggio siano importanti. Che non si tratta solo di qualità nobili, ma anche efficienti ed efficaci.
Un monito ed un avvertimento per farci comprendere che la criminalità organizzata deve essere combattuta in ogni momento e con la massima determinazione, poiché lo stato finale del suo sviluppo è la conquista dello Stato e l'instaurazione del terrore.
L'anniversario è anche un'occasione per chiederci se noi, come loro successori, siamo stati in grado di dare un senso collettivo al loro sacrificio.
Io come primo Procuratore Capo Europeo, mi sento vincolata dalla loro visione.
Fin dal primo giorno del mio mandato, ho costantemente guidato la Procura europea (EPPO) in modo tale da dimostrare la sua rilevanza nel contrasto alle forme più gravi di criminalità organizzata.
La nostra strategia investigativa è quella di sostenere gli sforzi nazionali per indagare le attività delle più complesse associazioni criminali, particolarmente se hanno una dimensione internazionale.
L'EPPO ha avviato la sua operatività il 1º giugno 2021.
Molti dubitavano che fosse possibile. Eppure noi stiamo lavorando.
Alla fine del 2021: abbiamo registrato e analizzato 2832 notizie di reato, denunce e rapporti sulla criminalità; abbiamo avviato 515 indagini per un danno stimato di 5,4 miliardi di euro (di cui il 30% per indagini transfrontaliere); abbiamo sequestrato beni per oltre 147 milioni di euro (tre volte il nostro budget per il 2021).
L'EPPO è competente ad indagare sulle frodi che coinvolgono fondi UE per una somma superiore a 10.000 euro e sulle frodi IVA transfrontaliere che comportano danni superiori a 10 milioni di euro.
Io sono convinta che l'EPPO offra, finalmente, la possibilità di infliggere un colpo senza precedenti alla criminalità organizzata in Europa.
In primo luogo, stiamo instaurando forti rapporti di cooperazione con tutti gli organismi investigativi interessati, per beneficiare della loro esperienza e conoscenza. Abbiamo, inoltre, posto all'attenzione delle Autorità nazionali competenti la necessità della individuazione delle frodi che rientrano nelle nostre competenze.
In secondo luogo, supportiamo le Autorità nazionali nelle attività per l'aggressione ai patrimoni criminali; per noi di tratta di una priorità assoluta.
In terzo luogo, stiamo instaurando legami particolarmente stretti con i competenti servizi giudiziari specializzati operativi negli Stati membri che partecipano alla Procura Europea. Nel pieno rispetto delle reciproche competenze e dell'indipendenza di ognuno, ritengo che l'unica modalità che può fare una vera differenza in concreto è condividere le informazioni e coordinare le indagini in modo efficiente. In quest'ottica il primo accordo di lavoro è stato sottoscritto con la Direzione Nazionale Antimafia Italiana. E non è una coincidenza.
Una stretta cooperazione tra la Procura Europea e le Autorità nazionali competenti apre possibilità senza precedenti nei seguenti settori:
- la corruzione transfrontaliera, anche se commessa in paesi terzi, qualora siano coinvolti fondi UE;
- le frodi transfrontaliere in materia di IVA. Si tratta di un territorio quasi inesplorato. La stima di base è che ogni anno, in tutta l'Unione Europea, si perdono più di 50 miliardi di euro di entrate IVA:
- frodi doganali e frodi doganali in materia di IVA (ad esempio contrabbando di merci provenienti da paesi terzi). Questi crimini si riferiscono generalmente il contrabbando di tabacchi, ma il fenomeno è in realtà molto più ampio.
Quale è il valore aggiunto che può apportare la Procura Europea?
- La capacità di svolgere indagini transfrontaliere senza alcun formalismo nella assistenza giudiziaria reciproca, già in 22 Stati membri dell'UE.
- Il nostro Case Management System è uno strumento rivoluzionario: ci garantisce un accesso immediato e diretto a tutte le informazioni, in tutti gli Stati membri partecipanti ad EPPO, fornendoci la capacità di agire con una velocità che non ha precedenti.
- Un ufficio centrale costruito con l'obiettivo di aiutare gli Stati membri, come nessuno ha mai fatto prima, al recupero dei danni economici subiti.
- La capacità di riunire indagini e azioni penali attualmente frammentate tra diversi Stati membri. Finalmente siamo in grado di lanciare veri e propri attacchi strategici contro i gruppi criminali organizzati a livello europeo.
- La conoscenza, a livello centrale dell’EPPO, dei sistemi giuridici di 22 Stati membri. Non siamo un organismo di coordinamento, non siamo un network, noi siamo integrati nei rispettivi sistemi giudiziari nazionali.
- Una stretta cooperazione con Europol, OLAF ed Eurojust fin dalle fasi iniziali delle indagini.
- L’ accesso ineguagliabile a tutte le banche dati disponibili e ai c.d. "facilitatori internazionali”, come CARIN, Interpol, il gruppo Egmont e le UIF.
L'EPPO ha le potenzialità per cambiare il paradigma delle indagini transfrontaliere, che sono particolarmente rilevanti per il contrasto alla criminalità organizzata e ai gruppi mafiosi.
Per fare un esempio particolarmente recente: operazione "Platinum rush". Nel luglio 2019, le autorità tedesche hanno avviato un'indagine su una frode IVA. In Germania, per questo tipo di frode, l'aspettativa è di ottenere le prime condanne in media entro tre anni dall'inizio delle indagini. Invero, le autorità nazionali hanno già condotto gli accusati davanti al Giudice.
Nel giugno 2021 la Procura Europea ha avocato il caso, ampliando la portata dell'indagine ad altri tre Stati membri e individuando nuovi indagati e beni da aggredire. Nel novembre 2021, abbiamo effettuato i primi arresti e siamo stati in grado di sequestrare effettivamente beni per un valore di tre milioni di euro. Cinque mesi dopo, abbiamo una lista di trenta indagati, così come la prima condanna definitiva e la decisione di confisca. Come qualsiasi operatore del settore può confermare: noi siamo stati uno spettacolare strumento di accelerazione del procedimento. Cosa ancora più importante: siamo stati gli unici in grado di spazzare via l'intero gruppo organizzato.
Abbiamo già dimostrato che la Procura Europea porta notevoli vantaggi in termini di efficienza delle indagini e la possibilità di implementare una politica penale transnazionale.
La nostra ambizione è quella di diventare il migliore strumento possibile per perseguire i più gravi gruppi criminali organizzati, e per colpirli concentrandoci in particolare sulle attività criminali dei “colletti bianchi”.
Thirty years after their murder, Giovanni Falcone’s and Paolo Borsellino’s heroic fight and tragic fate remain both an inspiration and a warning to any democratic society. An inspiration by demonstrating that integrity and courage matter. That they are not only noble, but also efficient qualities. A warning by making us understand that organized crime has to be fought with utmost determination at all times, as its ultimate development stage is State capture and the rule of terror.
It is also an occasion to ask ourselves, whether we, as their successors, have been able to make collective sense of their sacrifice. As first European Chief Prosecutor, I feel bound by their vision. Since the first day of my mandate, I have consistently steered the European Public Prosecutor’s Office (EPPO) in such a way to prove its relevance for the fight against the most serious organized crime. Our prosecutorial policy is to support national efforts in investigating the activities of the most complex organised criminal groups, with an international reach.
The EPPO started operations on 1 June 2021. There were many who doubted it could be done. Yet we are working. By the end of 2021: we have registered and analysed 2832 crime reports; we had 515 active investigations for an estimated damage of 5.4 billion EUR (30% of them were cross-border investigations); we have seized more than 147 million EUR of assets (three times our budget for 2021).
The EPPO investigates fraud involving EU funds of over 10,000 euro and cross-border VAT fraud involving damage above 10 million euro. I am convinced that the EPPO provides, at last, the possibility of dealing an unprecedented blow to organised crime in Europe.
First, we are establishing strong cooperative relations with all the relevant investigative bodies, to benefit from their experience and knowledge. We also put the focus of the relevant national authorities on the detection of fraud falling under our competence.
Second, we support the national authorities in particular with asset recovery; this is an absolute priority for us.
Third, we are establishing particularly close ties with the relevant specialised prosecution services of participating Member States. In full respect of each other’s competences and independence, the only way we are making a difference on the ground is by sharing information and coordinating efficiently connected investigations. The first working arrangement signed in this spirit was with the Italian Antimafia Directorate. This is no coincidence.
A close cooperation between the EPPO and the relevant national authorities opens unprecedented possibilities in the following fields:
- Cross-border corruption, including in non-EU countries, whenever EU funds are involved;
- Cross-border VAT fraud. This is terra almost incognita. The baseline estimate is that more than 50 billion euro VAT revenue is lost every year in the whole of the EU.
- Customs and customs-related VAT fraud (for instance smuggling of goods from outside of the EU). This includes tobacco, but is a much larger phenomenon.
What does the EPPO bring to the table?
- The ability to investigate cross-border without cumbersome Mutual Legal Assistance formalities, so far in 22 Member States of the EU.
- Our Case Management System is a revolutionary tool: it grants us immediate and direct access to all the information, in all the participating Member States, with the ability to act with unprecedented speed.
- A central Office built with the aim to help Member States as no one before in recovering damages.
- The ability to merge investigations and prosecutions currently fragmented between several Member States. At last, we are able to launch strategic strikes against organised criminal groups at EU level.
- The knowledge, at the central level of the EPPO, of the legal systems of 22 Member States. We are not a coordinator, we are not a network, we are embedded in the respective national systems.
- A close cooperation with Europol, OLAF and Eurojust from the initial stages of any investigation.
- Unprecedented access to all the available databases and to international “facilitators’, such as CARIN, Interpol, the Egmont Group and the FIUs.
The EPPO has the potential to change the paradigm of cross border investigations, which is especially relevant for organized crime and mafia-style groups.
To take a very recent example: operation “Platinum rush”. In July 2019, German authorities started an investigation into a VAT fraud scheme. In Germany, for this kind of fraud, the expectation is to get first convictions on average within three years from the start of investigations. Indeed, national authorities brought the first suspects to Court accordingly.
As the EPPO took over this case in June 2021, it enlarged the scope of the investigation to three other Member States and identified new suspects and assets. In November 2021, we made the first arrests and were able to effectively seize assets worth three million EUR. Five months later, we have a list of thirty suspects as well as the first definitive conviction and confiscation. As any practitioner will confirm: we have been a spectacular accelerator. More importantly: we are the only ones in a position to wipe out the whole organized group.
We have already demonstrated that the EPPO brings considerable efficiency gains and the possibility to implement a transnational prosecution policy. Our ambition is to be the best tool available to go after the most serious organized criminal groups, and to strike them a blow by focussing on their white-collar criminal activities.
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