ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La società filosofica italiana promosse nella metà degli anni ’80 del secolo scorso un’inchiesta sul futuro della Filosofia nei licei italiani. In quell’occasione avvalendosi anche del Patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione, la Società elaborò un questionario molto complesso e lo propose all’attenzione di un campione di mille docenti su tutto il territorio nazionale. I risultati dell’Inchiesta furono pubblicati da” Laterza” nel 1987 a cura di L. Vigone e C. Lanzetti. Da quel lavoro emergeva un quadro abbastanza omogeneo dei desideri e delle tendenze del corpo docente italiano nell’insegnamento della Filosofia: l’approccio diretto alle fonti, l’analisi dei problemi senza perdere di vista l’assetto storico-cronologico, la necessità di studiare di più gli autori maggiori, una più elastica interpretazione dei programmi ministeriali, un più attento collegamento della Filosofia alle altre materie di studio e all’attualità. I docenti invocavano per il rinnovamento della didattica della disciplina corsi di aggiornamento e una sperimentazione vivificata dal rapporto più diretto con istituti e personale qualificato. In sostanza si auspicava un serio impegno a ricercare nuovi strumenti per una didattica in grado di guidare gli studenti alla lettura delle opere filosofiche. Che cosa è cambiato da quel rapporto così bene illustrato dai curatori? Io credo che non siano intervenuti grossi mutamenti per quel che attiene i desideri e gli orientamenti del corpo docente e che siano invece intervenute novità negli strumenti e nella politica scolastica. Innanzi tutto i libri di testo. C’è stata negli ultimi dieci anni una proliferazione di nuove edizioni di manuali. Molti, per carità, ben fatti e ben presentati. Quasi tutti costruiti con l’intento di articolare percorsi problematici affiancati da pagine e pagine tratte dalle opere degli autori. Scopo nobilissimo ma spesso disatteso dai risultati: una storia delle idee presentate come piccole o grandi isole, con brutto termine “decontestualizzate”. L’assetto storico-cronologico è stato via via minimizzato fino a ridursi in alcuni manuali a piccole note a margine! Questa operazione era stata già attuata in campo letterario e aveva avuto un grande e tuttavia effimero successo. Io sono convinta che il metodo si debba necessariamente costruire sui contenuti e che i contenuti non possano essere avulsi dal contesto storico in cui certe costruzioni teoriche hanno rappresentato e rappresentano risposte storicamente determinate a problemi concreti. La Filosofia può dirsi il regno dell’astratto, ma l’astrazione è un risultato. E senza partire dal concreto davvero i giovani troveranno sempre più inaccessibile questo mondo e gli adulti, burocrati non acculturati, ne approfitteranno per decretare la scomparsa progressiva dalle nostre scuole dell’insegnamento della Filosofia come in parte è avvenuto in Germania con pessime conseguenze. Non mi piace ripetere le grandi e pur fondate apologie del valore formativo della Filosofia, la certezza consolidata che i grandi logici, fisici, giuristi o chi per loro non sarebbero tali senza essere comunque “filosofi”. Era scritto sulla Porta dell’Accademia:” Non entri chi non è matematico”. Vorrei, invece, proporre qualche riflessione di più modesto profilo ricordando un’esperienza che, per rinnovare gli strumenti della didattica, vide protagonista il liceo classico in cui ho insegnato nei primi anni duemila. Rispondendo all’invito di Rai Educational, i nostri alunni prepararono una serie di puntate del programma culturale “Il Grillo”. La varietà e complessità delle tematiche inizialmente aveva spaventato anche i più bravi…ma di alcuni problemi non sappiamo nulla, sulla modernizzazione dell’Italia e sulla Imprese abbiamo cognizioni vaghe, Croce non lo abbiamo ancora studiato…” e via discorrendo. Le perplessità erano del tutto legittime, ma poi quegli stessi ragazzi un po' aiutati dai filmati, un po' spinti a letture specifiche dagli autori e dagli insegnanti, furono capaci di interagire con filosofi, uomini politici, scienziati, letterati, giornalisti…meglio di tanti adulti ricchi di cognizioni tecniche ma poveri di pensiero. Voglio dire che fin dagli ultimi anni della scuola superiore appare evidente la differenza strutturale tra quelli che hanno letto e compreso qualche pagina di Platone e quelli che neppure ne immaginano l’esistenza. Smettiamola dunque con questa illusione di nuovismo, con la corsa alle mode e all’imitazione di modelli considerati più vicini alle esigenze del mondo digitalizzato. Quali modelli? Quello americano, cinese, indiano? Questi sono stati già nel passato gli effetti del provincialismo, delle mode appunto, e oggi sono espressione delle pretese del mercato allargato, di un mercato globale sempre meno controllato che mangia le teste come un risorto orribile Leviatano. Incontrarsi tra i popoli per dialogare ognuno con i suoi strumenti, con il retaggio ineliminabile del suo passato, con la ricchezza del suo linguaggio e della sua filosofia. Questo bisogna insegnare, ognuno come può, come tanti bravi ciabattini. Perché la Filosofia (e Croce in questo aveva ragione) scaturisce sempre dalla vita e i problemi non sono isole nell’oceano senza sponde, sono espressioni concrete delle domande eterne che gli uomini si pongono mentre lavorano e producono, mentre scoprono nuovi cieli e costruiscono macchine, alcune così potentemente distruttive. Anziché tecnicizzare e aziendalizzare i licei classici (come appare evidente nelle nuove politiche scolastiche), inseriamo lo studio della Filosofia in tutti gli istituti, perché al di là dei massimi sistemi è assurdo che uno nato in Italia non sappia neppure cosa significhi Magna Graecia. O pensiamo davvero di sclerotizzare le differenze proprio a partire da chi studia e da chi non studia determinate discipline? Nelle scuole regionali, specie quelle leghiste del nord quale cultura si costruirà? I bianchi poveri e gli immigrati li cuciniamo tutti nel grande calderone delle professionali, i figli ricchi della borghesia ignorante nelle scuole private, e chi resta? C’è solo un grande impegno per evitare che gli studenti, nella rinata apologia di Dio Patria e Famiglia, siano educati all’affettività, al riconoscimento guidato delle distorsioni della sessualità in un Paese dove le donne vengono massacrate un giorno sì e l’altro pure? E che dire del controllo dell’attività didattica e della libertà di insegnamento anche attraverso un revisionismo storico del tutto ideologico? Immagino i salotti “culturali” del prossimo futuro come copie di Porta a Porta. Un incubo. È dunque un dovere morale resistere al nuovo oscurantismo di questi tempi durissimi in cui molti ministri in carica, pure loro, non hanno mai studiato, e si sente, la Filosofia.
Immagine: Giuseppe Le Grù e Innocenzo Ceppi, Allegoria della Filosofia, 1755-1761.
Pubblichiamo l'appello a tutela della indipendenza dei magistrati della Corte Penale Internazionale che ha già tra i suoi firmatari numerosi docenti universitari, avvocati, giuristi, magistrati e ricercatori di tutta Europa.
Nel pdf allegato si trova il testo dell'appello in diverse lingue. Per aderire https://forms.gle/5h31AFns3NBi3JxA9.
Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni ai magistrati della Corte penale internazionale che hanno emesso il mandato di arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Con queste misure, sono stati inseriti nella stessa blacklist che comprende individui associati al terrorismo.
Si tratta di provvedimenti unilaterali e punitivi, la cui unica origine è la ritorsione contro una decisione giurisdizionale.
Le conseguenze sono immediate e gravi. Tra l’altro, a causa dell'interconnessione tra banche americane ed europee, i magistrati colpiti dalle misure ritorsive non possono più utilizzare carte di credito e le possibilità di effettuare bonifici sono fortemente limitate. Inoltre, la quasi totalità dei servizi digitali è loro inaccessibile, essendo questi per lo più statunitensi. La loro vita quotidiana risulta così profondamente compromessa.
Si tratta di una vicenda inaudita per gravità, ma finora le istituzioni europee hanno mantenuto il silenzio.
Tutti gli Stati membri dell'Unione hanno ratificato lo Statuto di Roma, che è il presupposto della giurisdizione della Corte penale internazionale. È qui però in gioco un valore fondativo dell'identità europea: l'autonomia e l’indipendenza della funzione giurisdizionale sono il fondamento dello Stato di diritto, parametro essenziale delle nostre democrazie.
A prescindere dall’opinione che ciascuno può avere sul contenuto del mandato di arresto, è necessario prendere atto dell’intollerabile clima di intimidazione generato dalle misure ritorsive nei confronti della CPI, che rischia di incidere profondamente sull’operatività della Corte e sull’indipendenza dei magistrati, ben oltre il caso specifico. Gli altri magistrati della CPI vengono avvisati che, in caso di decisioni sgradite, potrebbero essere chiamati a pagare un prezzo a titolo personale
Se chi indaga o giudica in materia di crimini internazionali viene sanzionato e le istituzioni europee restano in silenzio, a sgretolarsi non è soltanto la giustizia internazionale: è la credibilità dell’Europa come spazio nel quale il diritto viene garantito.
Per queste ragioni, chiediamo che le istituzioni europee adottino con urgenza tutte le misure necessarie per tutelare l’indipendenza dei magistrati della Corte penale internazionale e per garantire che nessuna forma di rappresaglia contro l’esercizio della funzione giurisdizionale resti senza risposta.
To:
President Roberta Metsola and the Members of the Bureau of the European Parliament
Subject: Urgent EU action to safeguard the independence of ICC judges targeted by US sanctions
Dear President Metsola,
Dear Vice-Presidents and Quaestors,
The United States has imposed sanctions on the magistrates of the International Criminal Court (ICC) who issued the arrest warrant for Benjamin Netanyahu for war crimes and crimes against humanity. These unilateral and punitive measures, the sole purpose of which is retaliation against an impartial judicial act, have placed the affected magistrates on the same financial blacklist as individuals deemed to be terrorists.
The consequences are immediate and grave. American and European banks are closely connected. Thus, among other penalties, the affected magistrates can no longer use credit cards, or receive bank transfers. Moreover, almost all digital services are inaccessible to them, as these are mostly based in the United States. Their daily lives are significantly disrupted.
This is an unprecedented use of government-initiated sanctions. However, to date, European institutions have remained silent.
All EU member states have ratified the Rome Statute, which is the legal foundation for the jurisdiction of the International Criminal Court. At stake here is nothing less than a fundamental value of European identity and democracy: the rule of law and the autonomy and independence of the judicial system on which the rule of law depends.
Regardless of one's opinion on the content of the arrest warrant, it must be acknowledged that the climate of intimidation generated by retaliatory measures against the ICC cannot be tolerated. That climate risks profoundly undermining the ICC's operations and the independence of its magistrates, well beyond the specific case involved. The unmistakable message to all ICC magistrates is that, in the event their decisions are unwelcome in certain quarters, the magistrates themselves will be personally sanctioned solely for performing their judicial duty.
If those investigating or adjudicating international crimes are personally sanctioned, yet European institutions remain silent, not only international justice suffers. Such silence calls into serious question Europe’s own dedication to the rule of law.
For these reasons, we call on the European institutions to urgently take all necessary measures to protect the independence of the International Criminal Court's magistrates and to ensure that no form of reprisal against the exercise of judicial office goes unanswered.
L’altro è il limite che continuamente ci interroga. Così Emmanuel Levinas identifica nell’alterità quella ineludibile, incontournable, possibilità di uscire dalla monoteticità, dalla normatività internalista, per porsi in un dialogo che innanzitutto è domanda, dubbio. È nel limite che l’altro individua che è data la possibilità stessa di riaffermare ciò che al di sotto di ciascuna identità – sia essa soggettiva, sia essa intersoggettiva – condivide con l’altra (identità).
Ci pare quantomai attuale e promettente tornare sulla esperienza, la parola e l’azione istituzionale di Giovanni Gronchi partendo da questa premessa. Una premessa che permette di situare le riflessioni che seguono in relazione sia alla dimensione dell’altra parte come limite e come forza in quanto bilanciamento, sia alla dimensione della necessità.
Camminare col pensiero lungo il percorso tracciato dalla esperienza istituzionale e culturale di Giovanni Gronchi significa riflettere innanzitutto sul tema della trasformazione del sistema giuridico e politico italiano su tre livelli, quello delle dinamiche fra posizioni culturali interne al partito politico, quello delle dinamiche fra profili istituzionali dei componenti delle istituzioni di rango costituzionale di carattere collegiale e collettivo, quello delle dinamiche fra organi di rango costituzionale nella prospettiva storica della progressiva – e faticosa – attuazione delle previsioni normative incardinate nella Costituzione Repubblicana.
In altri termini leggendo trasversalmente al decennio che va dal 1955 al 1965 i discorsi di Gronchi e ricostruendo alla luce di questi le azioni istituzionali in materia di promozione della attuazione della Costituzione repubblicana si nota che il tema del bilanciamento come effetto – auspicato ed auspicabile – dell’esistenza dell’altra parte tocca:
Su questi tre livelli diremo esemplificando in breve.
Gronchi nasce a Pontedera nel 1887. Nel 1919 partecipa alla fondazione del Partito Popolare Italiano. Eletto deputato in una Italia che già vive in una cultura carsicamente scossa da sentori di contrazione delle garanzie libera-costituzionali, viene nominato Sottosegretario all’Industria e al Commercio nel 1922, la cui posizione ricopre sino a quando – come è noto a seguito del Congresso tenutosi a Torino dove il Partito Popolare Italiano prende una posizione di non collaborazione con il governo i rappresentanti del Partito si ritirano dalle loro cariche.
L’esperienza istituzionale si ripresenta nel 1944 quando Gronchi viene nominato Ministro dell’Industria e del Commercio e nel 1946 quando eletto deputato alla Assemblea costituente, si avvia ad attraversare con crescente rilievo la vita delle nascenti istituzioni democratiche. Tale percorso trova il punto di apogeo prima nella carica di Presidente della Camera dei deputati nel 1948 e nel 1955 nella elezione – inattesa – come Presidente della Repubblica.
Le parole chiave che si trovano in questo breve ma già indicativo excursus biografico sono capaci di tratteggiare e di evocare quelli che saranno temi presenti nella agenda dell’azione di promozione della attuazione della Costituzione, l’importanza dell’economia, del raccordo fra centro e realtà del territorio del paese, la vivacità della cultura intra-partitica, la apertura inter-partitica in una prospettiva di realizzazione dello spirito stesso della Costituzione repubblicana – comune ai diversi partiti e per ciò stesso, con Levinas, capace di essere meglio attuata proprio nel dia-logos con l’alterità – ed infine la convinta adesione alla interpretazione della figura della Presidenza della Repubblica in una ottica di garanzia e elemento propulsore – le due cose mai essendo in contraddizione – della vivace, partecipata, evolutiva, e radicata nella società realizzazione della Costituzione.
Per suffragare la tesi che il titolo delle riflessioni qui tratteggiate già rivela si procede su tre passi, che corrispondono ai tre livelli di cui sopra:
La questione dell’adeguamento
Il Presidente svolgerà «una insostituibile funzione per far sì che l’ordinamento giuridico venga impegnato nell’accompagnare senza intralci e senza ritardi […] le trasformazioni economiche e sociali». Ed anche nella chiusura del discorso sottolinea: «Io compirò quanto la Costituzione mi impone […] mi sia vicino il Parlamento”. L’importanza del fattore “attore” ossia della dimensione individuale nell’inverare l’ordinamento costituzionale ricorre già nella modalità con la quale Gronchi pensa ed interpreta il ruolo dei partiti politici nel sistema democratico, a partire dal ruolo che egli ritiene debba svolgere la Democrazia Cristiana. Afferma: “da tutti i partiti politici, ed in specie dalla D.C. deve essere considerato impegno indilazionabile il completare questo ordinamento secondo Costituzione, la quale ha voluto dettare le norme e i limiti per i tre poteri che sono alla base dello Stato”. Fra quei limiti uno è rappresentato dalla Corte Costituzionale. Il CSM sarà il formate istituzionale del connubio fra diversità alterità collegialità e garanzia che l’ordinamento attraverso l’azione legislativa accoglie nella democrazia italiana. Il richiamo al ruolo dei partiti politici va inteso in quel raccordo che Gronchi ritiene necessario con la vita del paese, raccordo che la organizzazione partitica è chiamata a realizzare e garantire.
Gronchi ebbe forte sensibilità per l’adeguamento evolutivo della Costituzione proprio interpretando il suo ruolo Presidenziale. L’effettiva attuazione della Costituzione è problema che interessa la generalità dei cittadini, dirà. Pertanto, come Capo dello Stato non può non rendersi attivamente sensibile alla stessa. Trattasi di questione super partes, che attraversa la vita dei partiti politici e li accomuna, pur nelle loro diversità. È solo così che le istituzioni diventano feconde. Tale loro capacità generativa è necessaria perché lo Stato e la società – nelle parole di Gronchi Presidente – siano in una dinamica virtuosa e moderna.
Questa viva vox è una ars generativa.
Il tema dell’attuazione
Appena eletto Presidente della Repubblica Gronchi indirizza un saluto al III Congresso Nazionale Giuridico Forense, il 21 settembre 1955. Nell’esprimere i suoi “cordiali sentimenti” il Presidente aggiunge: “desidero a questi associare un caldo augurio perché gli avvocati e i procuratori – dalle cui file viene un contributo così assiduo e così vasto alle più importanti attività della vita nazionale e la cui alta missione di umanità si affianca, in armonica collaborazione, a quella del giudice per le supreme finalità della giustizia – possano raggiungere proficue intese. Se si uniscono queste parole a quelle pronunziate in occasione dell’VIII Congresso Nazionale dei Magistrati del 6 aprile 1957 si trova il connubio che è in oggetto delle nostre riflessioni. Augura Gronchi che “i lavori che si iniziano conducano ad un sempre più efficiente adeguamento dell’ordine giudiziario ai principi solennemente fissati dalla Costituzione”.
Il binomio fra adeguamento e attuazione che si fa e si invera ad opera degli attori istituzionali – così come nella giurisdizione è solo per tramite della leale collaborazione basata su comuni valori fra parti dinnanzi ad un terzo che professionalmente condivide lo stesso riconoscimento del valore della Costituzione con le parti giacché se sul piano funzionale si resta nel perimetro delle proprie attribuzioni nel più alto ed astratto piano dei valori orientativi si è appartenenti allo stessi sistema demo-costituzionale – si trova qui. Nella Presidenza di Gronchi tale binomio segnerà il ritmo e la direzione dei suoi passi verso la realizzazione – la attuazione – di ciò che la Costituzione prevede.
Al tempo presente l’accostamento della semantica dell’efficienza a quella della evolutività – efficiente adeguamento – appare particolarmente rivelatore. Gronchi mette l’accento sull’efficienza di un processo che non ha per sua natura un punto di fine, non è teleologico. Non si tratta di efficacia, ma di efficienza, quella che il Presidente auspica. Si tratta cioè dell’auspicio che le forze politiche si rendano non solo responsabili della prima traduzione adeguatrice della Costituzione ma anche promotrici della stessa. Si tratta di un auspicio che nasce dalla esperienza dei ritardi di cui Gronchi ha potuto essere attento osservatori e attore suo malgrado della attuazione dell’articolo 134 che voleva la creazione della Corte costituzionale.
L’urgenza attuativa – così potremmo definire la concretizzazione di quella viva vox constitutionis di cui Calamandrei apprezza profondamente le pronunzie – si fa ancora più forte con il proseguire del mandato Presidenziale. Il 19 marzo del 1958 Gronchi scrive al primo Presidente Eula della Suprema Corte di Cassazione e al Procuratore Generale presso la Cassazione, Pafundi, in merito alla approvazione della legge che alfine istituisce il Consiglio Superiore della Magistratura: “con l’attuarsi della norma costituzionale [i magistrati italiani] vedono rafforzata, nell’autonomia e nel prestigio, la loro alta funzione”. Sia qui permessa una digressione sul tema del prestigio e dell’alta funzione.
I bilanciamenti e le “altre parti” nel dettato costituzionale e nel funzionamento degli organi dello Stato
Come detto l’azione istituzionale di Giovanni Gronchi è segnata da una attenta e puntuale sensibilità per la questione del buon funzionamento dell’ordinamento. Non si tratta soltanto di incardinare e mettere al sicuro nelle norme di rango costituzionale quelle condizioni formali che attengono alla esistenza stessa della forma di regime politico democratico e alla impronta valoriale repubblicana. Si tratta anche – e soprattutto – di renderne la vita possibile ed efficace. Come Presidente della Camera dei Deputati prima e come Presidente della Repubblica la proattiva ideazione e la moral suasion esercitata a ché le forze politiche convergessero verso soluzioni istituzionali orientate rispetto ai principi di cui sono costanti. Richiamiamo qui quel tratto costante dell’agire di Gronchi con riferimento a quattro temi: la realizzazione della riforma regolamentare alla Camera con l’inserimento della Conferenza dei Capigruppo, l’esperienza fatta relativa alla creazione della Corte costituzionale ed in particolare alla vexata quaestio della elezione dei giudici “parlamentari” con connessione alle tensioni interne al sistema partitico italiano; la istituzione e l’insediamento del Consiglio Superiore della Magistratura; la realizzazione del decentramento regionale. Ci si limita a tratteggiare il pensiero di Gronchi a titolo esemplificativo di quella che, a tutti gli effetti, è una postura di carattere valoriale, culturale, ancor prima che politica e sostanziale.
Il Consiglio Superiore della Magistratura
È certamente il percorso di creazione e di insediamento del CSM che permette di vedere nelle azioni e nei discorsi di Gronchi Presidente della Repubblica il tratto più evidente della sua visione e della interpretazione non solo del ruolo della Presidenza della Repubblica ma anche del principio di bilanciamento. Sono la “autonomia e l’indipendenza” così Gronchi nel suo discorso di insediamento “che derivano dalla divisione dei poteri che vanno poste al vertice dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Ognuna di queste parole è performativa. Farà, appena giunto al Quirinale, sì che il principio di divisione dei poteri e di bilanciamento che ne deriva attraverso la esistenza stessa dell’altra parte sia la ratio essendi della autonomia nelle rispettive prerogative delle istituzioni. Appare ante litteram ma estremamente promettente la visione di una relazione causale, peraltro comprovata dalla ricerca comparata sul funzionamento dei sistemi politici e, con particolare rilievo, dei sistemi giudiziari, di cui oggi disponiamo, che vede la freccia dell’influenza – e quindi della garanzia – andare dalla condizione del bilanciamento verso l’autonomia e non viceversa. Ciò a richiamare quanto la esistenza dell’altra parte sia necessaria per la qualità dell’istituzione sia essa monocratica sia essa collegiale che sta di qua dal limite e proprio per quel limite e in virtù di quel limite si trova a potere essere garantita, quasi confortata nella certezza non tanto del non errore, ma della possibilità effettiva di continuo e perpetuo miglioramento nell’autonomo perimetro del proprio funzionamento così come sancito dalla Costituzione. È con queste premesse che Gronchi si appresta ad incoraggiare l’uscita dallo stallo della legge che deve istituire il Consiglio Superiore della Magistratura, legge che arriverà come è noto solo dieci anni dopo l’inizio del funzionamento effettivo delle istituzioni democratiche. Ciò è tanto più forte nel caso del CSM in quanto Gronchi vede un congelamento dei lavori parlamentari e nel discorso di insediamento da Presidente della Repubblica neoeletto auspica il disgelo costituzionale, così come lo definisce Alessandro Pizzorusso. Si trattava di sciogliere il nodo della maggioranza parlamentare che al centro aveva approntato i lavori preparatori di uno Schema legislativo del CSM già nel 1951. Il disegno di iniziativa parlamentare del 1952 finì tuttavia per restare bloccato. Ed è proprio seguendo – forte della esperienza fatta nella precedente carica di Presidenza della Camera – l’iter legislativo, promuovendo una tempistica certa ed effettiva – le parole tornano – che Gronchi riesce ad esercitare quella “più-che-moral-suasion” che molti videro come la capacità di inverare (nel senso di fare diventare vera) la Costituzione Repubblicana. Si ritrovano nel discorso inaugurale di Gronchi tutti i pilastri della sua cultura constitutional-politica. Ricordando l’azione della Costituente sottolinea quanto sia stato importante lo sforzo di assicurare la autonomia e l’indipendenza dei giudici, garantendo la unitarietà del corpo giudiziario. Ed è proprio attraverso la figura del Presidente – che Presiede il CSM – che la legge istitutiva garantisce quel bilanciamento e quel raccordo con gli altri poteri dello Stato nei quali si combinano la esistenza effettiva dell’altra parte con l’uscita dall’isolamento nel rispetto delle autonomie di carattere ordinamentale.
Una attualità che non è congiunturale
Un equilibrio costituzionale non statico. La frase di Gronchi che data del 1959 non può non essere qui richiamata. Si tratta di un equilibrio. Si tratta di una dinamica. La conditio sine qua non di tale dinamica è l’esistenza dell’altra parte. Non si tratta solo di pesi e di contrappesi. Si tratta di giocare un “gioco” interistituzionale la cui somma è sempre positiva perché nessuno dei giocatori assorbe, per così dire, l’altro.
Nel discorso di insediamento del neo istituito Consiglio Superiore della Magistratura ricordando che il CSM non è organo ignoto al diritto positivo italiano – ma implicitamente già individuando nel diritto vivente una diversità che segna un cambio di paradigma entro cui la norma positiva di rango costituzionale si radica – Gronchi afferma: “ben diverso [da quello previsto in periodo pre-Repubblicano n.d.r.] si presenta invece il Consiglio Superiore della Magistratura previsto dalla Costituzione, diversità nei suoi componenti, per un terzo estranei all’ordine giudiziario, diversità nelle attribuzioni, non più in prevalenza consultive, ma di governo dell’ordine”. Siamo al 18 luglio del 1959.
Letto questo passaggio con una prospettiva scientifico-culturale attenta a ciò che resta per ragioni scientifiche ed oggettive al di là delle situazioni che congiunturalmente si presentano nella storia di un sistema politico la parola diversità appare di straordinaria forza euristica. Essa coglie quella necessità di una dialettica con l’altra parte, che sia incardinata sia a livello di strutture – fra organi dello Stato – sia a livello interno alla struttura – per esempio, in questo contesto, nella diversità dei componenti. La ratio scientifica induce a mantenere un piano di astrazione sufficiente da potere “navigare nel tempo”. Al di là delle forme organizzative la necessità dell’altra parte appare di garanzia al buon funzionamento del sistema. Sempre nello stesso momento di alta allocuzione dinnanzi al CSM istituzione che Gronchi promosse fortemente si trova l’espressione forse più sinteticamente esemplificativa del pensiero dell’allora interprete del Quirinale: “Il rapporto interorganico [corsivo di chi scrive] – strutturale – che ne deriva, trasformandosi in collaborazione funzionale tra le istituzioni supreme, consente di attuare nell’adeguamento continuo della realtà giuridica alle mutevoli realtà politico-sociali in cui si identifica l’aspetto più positivo della nuova Costituzione”. In tal senso quella alterità è prevenzione dell’isolamento e della – in letteratura comparativa così definita – balcanizzazione degli organi dello Stato, soprattutto di quelli che sono chiamati ad esercitare una funzione di oversight, ovvero di bilanciamento, la cui legittimazione si fonda sulla terzietà.
Quel principio che tende a non ridurre la terzietà all’isolamento appare capace di “navigare nei tempi e negli spazi”. Perché isolamento non si dà nella realtà. Gronchi lo afferma. La Costituzione lo insegna. Per garantire che le interazioni siano sempre inserite in un sistema dove è possibile prendere quelle distanze anche dalla posizione monotetica e internalista che apparirebbe autoreferenziale sarà dunque una altra parte – parte dell’insieme basato su valori comuni – ma altra per diversità – sia per meccanismi di legittimazione, sia per forme di professionalità, sia per rispondenza e accountability. È l’altro che mi impone essendoci la responsabilità di etica pubblica. Il pluralismo che è prodromico all’ammissione della necessità di una evoluzione. Non è mai una evoluzione che obbedisce a logiche puramente endogene. Sarebbe un monologo. Non è mai una evoluzione che obbedisce a logiche puramente esogene. Sarebbe un dominio. È un dialogo fra alterità. Che si riconoscono. Si rispettano. Si aspettano. Co-partecipano di un destino comune (cum-parte).
Nulla ci appare più attuale.
Il testo integrale sarà pubblicato in "Giovanni Gronchi fra politica ed istituzioni, Atti del Convegno Roma 6 novembre 2025 Associazione Vittorio Bachelet". In corso di pubblicazione.
La legge 23 settembre 2025, n.132, costituisce la nuova disciplina organica nazionale in materia di intelligenza artificiale. Il provvedimento legislativo composto da 6 capi e 28 disposizioni, interviene in diversi settori tra cui: sicurezza, difesa nazionale, sanità e diritto d’autore. L’intervento legislativo ha poi avuto inevitabili riflessi sul diritto penale; il presente contribuito intende pertanto delineare le modifiche apportate in ambito penalistico sia alla disciplina codicistica che extra-codicistica.
Law No. 132 of 23 September 2025 establishes the new comprehensive national framework on artificial intelligence. The legislative measure, consisting of 6 chapters and 28 provisions, addresses several sectors, including security, national defence, healthcare, and copyright law. The legislative intervention has also had inevitable repercussions on criminal law; this contribution therefore aims to outline the amendments introduced in the field of criminal law to both codified and non-codified regulations.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Le nuove circostanze aggravanti - 3. Il nuovo delitto di cui all’art. 612-quater c.p. - 4. Le ulteriori modifiche - 5. Conclusioni
1. Introduzione
La legge 23 settembre 2025, n.132[1], in vigore dal 10 ottobre ed avente ad oggetto «Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale» si inserisce nel più ampio quadro normativo europeo, rappresentato dal Regolamento (UE) 2024/1689 (c.d. “AI Act”). Il capo V della sopramenzionata legge, rubricato «Disposizioni penali» e costituito dall’unica disposizione normativa di cui all’art. 26 recante «Modifiche al codice penale e ad ulteriori disposizioni penali»ha rimodellato diversi aspetti del diritto penale sostanziale, incidendo in particolare sulla configurazione delle condotte penalmente rilevanti poste in essere mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale[2]. Le modifiche hanno riguardato: l’introduzione di nuove circostanze aggravanti, sia esse comuni che speciali; la creazione di una nuova fattispecie incriminatrice per contrastare nuovi fenomeni di devianza sociale e la modifica di reati già esistenti previsti da leggi speciali in materia di diritto d’autore e intermediazione finanziaria.
2. Le nuove circostanze aggravanti
Tra le circostanze aggravanti comuni di cui all’art. 61 c.p. figura ora la numero 11-undecies[3], che prevede l’aumento di pena per chi abbia commesso il fatto mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando questi abbiano costituito un mezzo insidioso, ostacolato la pubblica o privata difesa o aggravato le conseguenze del reato.
La previsione si innesta in un contesto normativo caratterizzato da aggravanti in parte sovrapponibili. Si pensi, ad esempio, all’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61 numero 5 c.p.[4], che già prevede un aumento di pena per chi approfitta di circostanze di tempo, luogo o persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, o all’art. 61 numero 8 c.p.[5], che incrimina l’aggravamento anche nella forma tentata delle conseguenze del reato. Sebbene la nuova aggravante comune appaia in parte “ridondante”, il legislatore ha voluto esplicitamente sottolineare la pericolosità dei sistemi di intelligenza artificiale come strumenti sui generis di offesa.
Inoltre, è stata introdotta un’aggravante speciale per il delitto di attentato contro i diritti politici del cittadino ex art. 294 c.p., secondo comma, che prevede la reclusione da due a sei anni qualora la condotta incriminata nel primo comma[6] , sia posta in essere mediante sistemi di intelligenza artificiale. Tale modifica comporta un significativo inasprimento rispetto alla pena prevista per l’“ipotesi delittuosa base” di cui al comma 1 - punita invece con la reclusione da uno a cinque anni - confermando la volontà del legislatore di rafforzare la tutela di beni giuridici particolarmente sensibili ai rischi connessi alle tecnologie emergenti.
3. Il nuovo delitto di cui all’art. 612-quater c.p.
La novità di maggiore rilievo è rappresentata dall’introduzione del nuovo delitto di cui all’art. 612-quater c.p., rubricato «Illecita diffusione di contenuti generati o alterati con sistemi di intelligenza artificiale». La collocazione della disposizione all’interno del Titolo XII del Libro II del codice penale, dedicato ai delitti contro la persona, e più precisamente nella Sezione III, relativa ai delitti contro la libertà morale, consente di individuare il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice nella dignità e nell’autodeterminazione dell’individuo[7].
Si tratta di un reato comune di evento a condotta vincolata. Infatti, il primo comma[8] richiede anzitutto il verificarsi di un danno ingiusto e punisce le condotte – realizzate mediante sistemi di intelligenza artificiale – consistenti nella pubblicazione, diffusione o cessione. L’oggetto materiale della condotta è costituito da immagini, video o voci falsificati o alterati. Il presupposto oggettivo affinché si possa configurare il delitto è rappresentato dalla mancanza del consenso del soggetto passivo. Inoltre, si richiede una «idoneità» del sistema di intelligenza artificiale, che deve essere tale da indurre in inganno sulla genuinità dei contenuti elaborati. L’elemento soggettivo richiesto dalla norma risulta esser il dolo generico, non essendo previsto uno specifico fine ulteriore.
Il delitto è ordinariamente procedibile a querela della persona offesa, come stabilito dal secondo comma. Mentre invece, il terzo ed ultimo comma prevede la procedibilità d’ufficio in via eccezionale ogniqualvolta: la persona offesa sia una pubblica autorità e il fatto sia commesso a causa delle funzioni esercitate; la vittima sia incapace di intendere e di volere per età o infermità; il fatto sia connesso con altro reato perseguibile d’ufficio.
4. Le ulteriori modifiche
Tra le ulteriori novità, due in particolare hanno riguardato la modifica di disposizioni contenute in leggi speciali. La prima, relativa al diritto d’autore, è intervenuta sull’elemento costitutivo del reato, ampliando le condotte penalmente rilevanti; la seconda, in materia di intermediazione finanziaria, ha invece inciso su un elemento accessorio del reato, introducendo una circostanza aggravante speciale.
Per quanto attiene al diritto d’autore, è stato introdotto all’art. 171, comma 1, la lettera a-ter[9], L. n. 633/1941 che estende la rilevanza penale anche alle condotte - poste in essere tramite sistemi di intelligenza artificiale – riproduttive o estrattive di testi o dati da opere o altri materiali disponibili in rete o in banche dati, in violazione degli artt. 70 ter e quater della medesima legge.
Mentre invece in materia di intermediazione finanziaria, è stata introdotta un’aggravante speciale al reato di manipolazione del mercato, c.d. aggiotaggio finanziario[10], ex art. 185 D.lgs. 58/1998, che ora prevede la reclusione da due a sette anni e la multa da venticinque mila a sei milioni di euro se la condotta delineata nel primo periodo della disposizione[11] è commessa mediante sistemi di intelligenza artificiale.
In coerenza con tale modifica, anche il reato di aggiotaggio societario e bancario[12] , ex art. 2637 c.c. è stato integrato, prevedendo l’inasprimento della pena – da due a sette anni di reclusione – se i fatti di cui al primo periodo[13] sono commessi tramite sistemi di intelligenza artificiale. Ancora una volta assistiamo ad una netta diversificazione sul piano sanzionatorio tra l’ipotesi aggravata dall’uso di sistemi di intelligenza artificiale e l’“ipotesi delittuosa semplice” per cui è invece prevista la reclusione da uno a cinque anni.
5. Conclusioni
La nuova Legge n.132/2025 rappresenta un intervento organico e sistematico volto ad aggiornare il diritto penale rispetto alle sfide poste dall’intelligenza artificiale. Le innovazioni introdotte si muovono lungo due direttrici principali: da un lato, l’esplicita qualificazione dell’intelligenza artificiale come possibile mezzo aggravante della condotta criminosa; dall’altro, la creazione di una nuova fattispecie incriminatrice idonea a colmare il vuoto di tutela rispetto a fenomeni emergenti, come la diffusione di contenuti manipolati, c.d. “deepfake”[14].
Tuttavia, l’introduzione di aggravanti parzialmente sovrapponibili a disposizioni già vigenti rischia di generare incertezze interpretative e conseguentemente applicative, ponendo il problema della loro effettiva utilità sistematica. Inoltre, la scelta di inasprire significativamente le pene per le condotte realizzate tramite sistemi di intelligenza artificiale riflette una logica prevalentemente repressiva, che potrebbe non essere sufficiente a fronteggiare la complessità tecnologica e sociale del fenomeno.
In un’ottica futura, sarà necessario osservare l’evoluzione della prassi giurisprudenziale e verificare se tali disposizioni saranno in grado di garantire effettivamente un equilibrio tra esigenze di tutela e proporzionalità della risposta penale.
[1] Il testo integrale della Legge 23 settembre 2025, n.132, è disponibile in www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2025/09/25/25G00143/sg
[2] L’art.2 della Legge n. 132/2025 fornendo la definizione giuridica di sistema di intelligenza artificiale, prevede che esso sia identificato con: «il sistema definito dall’articolo 3, punto 1), del regolamento (UE) 2024/1689». Si dimostra così l’intenzione del legislatore italiano di coordinare la disciplina giuridica nazionale dell’intelligenza artificiale con la regolamentazione normativa europea.
[3] Più propriamente l’art.61 c.p. n.11-undecies prevede un aumento di pena per: «l’aver commesso il fatto mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi, per la loro natura o per le modalità di utilizzo, abbiano costituito mezzo insidioso, ovvero quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa, ovvero aggravato le conseguenze del reato».
[4] Seppur non strettamente correlato all’utilizzo di determinati strumenti per la realizzazione del delitto, l’art.61 c.p., n.5 prevede già un aumento di pena per: «l’aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa».
[5] Di scarsa applicazione giurisprudenziale l’art.61 c.p. n.8 dispone un aumento di pena per: «l’aver aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso».
[6] L’art.294 c.p., comma 1, punisce con la reclusione da uno a cinque anni: «chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà».
[7] Emblematica in tal senso, la scelta del legislatore di collocare la nuova fattispecie di cui all’art.612-quater c.p. subito dopo il delitto ex art.612-ter c.p., quest’ultimo rubricato «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti».
[8] Il comma 1 del nuovo art.612-quater punisce con la reclusione da uno cinque anni: «chiunque cagiona un danno ingiusto ad una persona, cedendo, pubblicando o altrimenti diffondendo, senza il suo consenso, immagini, video, o voci falsificati o alterati mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale e idonei a indurre in inganno sulla loro genuinità».
[9] Che ora punisce chiunque, senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma: «riproduce o estrae testo o dati da opere o altri materiali disponibili in rete o in banche di dati in violazione degli articoli 70-ter e 70-quater, anche attraverso sistemi di intelligenza artificiale».
[10] Per tale si intende il reato finanziario - punito più severamente rispetto all’analoga fattispecie societaria e bancaria ex art.2637 c.c. - volto ad influire sul corretto processo di formazione dei prezzi degli strumenti finanziari ammessi alla negoziazione, ossia quotati in mercati regolamentati.
[11] Il primo periodo dell’art.185, D.lgs. 58/1998, punisce con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni: «chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari».
[12] Per tale si intende la fattispecie di reato finalizzata ad influire sul corretto processo di formazione dei prezzi degli strumenti finanziari non quotati, ovvero per i quali non sia stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato.
[13] Il primo periodo dell’art.2637 c.c., punisce con la reclusione da uno a cinque anni: «chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato, ovvero ad incidere in modo significativo sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari».
[14] Fenomeno in crescente aumento volto a falsificare ed alterare contenuti generati tramite sistemi di intelligenza artificiale.
Foto via Wikimedia Commons.
Produzione sistemico relazionale della fiducia e delle certezze (nota a Cons. Stato, sez. VII, 10 giugno 2025, n. 5020)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. “La rivolta dei topi d’ufficio” e il paradosso dell’autocertificazione. 2. Quando il cittadino spera che l’amministrazione non guardi (…). 3. Le dichiarazioni dei privati e la funzione di certezza nell’amministrazione contemporanea. 4. Verità, veridicità e certezza. 5. Gli orientamenti giurisprudenziali. 6. Il consolidamento del principio di fiducia oggettiva.
1. “La rivolta dei topi d’ufficio” e il paradosso dell’autocertificazione
Nel racconto di Andrea Camilleri, La rivolta dei topi d’ufficio, con la prefazione di Franco Bassanini e le illustrazioni di Luciano Vandelli, la vicenda prende le mosse dall’introduzione della legge sull’autocertificazione, accolta con sospetto e ironia dai funzionari pubblici della “Montelusa”[1].
Il dottor Sinagra, impiegato modello e fedele custode del timbro e del modulo, reagisce con indignazione alla prospettiva che i cittadini possano dichiarare da soli ciò che finora spettava alla pubblica amministrazione attestare. Egli afferma: «Almeno, questa legge non è fatta per noi. Può funzionare in Svezia o in Germania, dove se qualcuno dice una cosa, quella è Vangelo. Ma qui da noi, come fai a fidarti della parola di uno sconosciuto?» E continua: «Da noi intende in Italia?» - spiò il ragionier La Piana[2]. Nel proseguio del dialogo Camilleri fa pronunciare al ragionier La Piana un’amara ironia sul costume nazionale: se mai si dovesse riscrivere la Costituzione, bisognerebbe sostituire l’articolo 1 con un principio diverso, poiché «l’Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro, ma sulla diffidenza reciproca»[3]. Camilleri suggerisce che, in luogo della cooperazione, l’ordinamento si regge su un sistema di controlli difensivi e sospetti reciproci — una “costituzione della diffidenza” che mina alla radice ogni forma di fiducia pubblica.
Questa battuta sintetizza la tensione tra l’ideale di un’amministrazione di fiducia e la realtà di un apparato fondato sul sospetto[4]. L’ironia che ne emerge non è solo satira: è la rappresentazione letteraria di un nodo politico e istituzionale. L’introduzione dell’autocertificazione è (era) percepita come un attentato alla certezza documentale e all’ordine amministrativo fondato sul controllo[5].
L’intera narrazione si fonda su questa paradossale inversione: l’autocertificazione, nata per semplificare, viene trasformata in simbolo di anarchia, mentre la burocrazia, nata per garantire la legalità, diventa strumento di sospetto generalizzato. In questo saggio si mostra come una riforma amministrativa può fallire non per difetto di norme, ma per assenza di fiducia: la certezza pubblica non è una questione di modulistica, ma di credibilità collettiva[6].
2. Quando il cittadino spera che l’amministrazione non guardi (…)
L’ironia di Camilleri anticipa un tema che il diritto amministrativo contemporaneo affronta quotidianamente: la difficoltà di tradurre la fiducia in regola.
Nel racconto, il dottor Sinagra rappresenta la burocrazia della diffidenza, quella che teme l’autonomia del cittadino perché identifica la fiducia con la perdita di controllo. La legge sull’autocertificazione gli appare come un attentato alla certezza pubblica, poiché sposta il potere di dire il vero dall’amministrazione al privato.
Un caso recente deciso dalla giurisprudenza sembra riflettere, quasi per coincidenza, la stessa tensione rappresentata da Camilleri, ma in forma speculare. Nella sentenza in commento[7], relativa a una procedura di chiamata universitaria per un posto di professore universitario, il giudice amministrativo affronta il caso di un candidato che aveva indicato nel curriculum la titolarità di tre brevetti, quando due risultavano soltanto in corso di domanda.
Non è dato sapere se si trattasse di dolo o di semplice errore, ma certamente di una di quelle situazioni in cui l’incertezza sul contenuto delle dichiarazioni e la leggerezza nella loro formulazione producono effetti giuridici rilevanti. L’autodichiarazione, in questi casi, diventa il terreno fragile su cui si misura la tenuta della fiducia pubblica.
Il Consiglio di Stato ha affermato che, ai sensi degli articoli 46 e 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, non rileva la sede formale della dichiarazione – sia essa inserita nella domanda o nel curriculum – poiché l’autocertificazione copre l’intero contenuto documentale, e la non veridicità, anche solo parziale, comporta la decadenza dalla procedura. La ratio non è tanto quella di sanzionare, quanto di preservare la coerenza del sistema: garantire parità di responsabilità tra i concorrenti e mantenere integro il circuito fiduciario che regge la certezza amministrativa.
Questa vicenda potrebbe rappresentare il naturale seguito della Rivolta dei topi d’ufficio. Non più la burocrazia che diffida del cittadino, ma il cittadino che, tra malizia, incertezza o mera leggerezza, confida nella distrazione dell’amministrazione. Un racconto che descriverebbe non tanto la malafede quanto la fragilità della consapevolezza civica: quella zona grigia in cui la fiducia si trasforma in superficialità e la certezza giuridica diventa vittima dell’inerzia reciproca. Forse lo si potrebbe intitolare Quando il cittadino spera che l’amministrazione non guardi: una parabola moderna su come, tra sospetto e disattenzione, la verità finisca sempre per smarrirsi dietro uno sportello.
3. Le dichiarazioni dei privati e la funzione di certezza nell’amministrazione contemporanea
La certezza giuridica costituisce una delle funzioni essenziali dell’ordinamento amministrativo[8]. Essa è volta a garantire la stabilità e la sicurezza dei rapporti giuridici, economici e sociali, attraverso la conoscenza di fatti, stati e qualità che il diritto qualifica come veri. In questa logica, i principi di autocertificazione e decertificazione rappresentano il tentativo di tradurre la certezza da valore statico a meccanismo dinamico di cooperazione tra cittadino e amministrazione[9].
Nel modello amministrativo tradizionale, la certezza giuridica si fondava sul potere esclusivo della pubblica amministrazione di accertare e attestare il vero, mediante atti aventi fede privilegiata, capaci di fondare l’affidamento dei cittadini nella veridicità delle informazioni provenienti dall’autorità pubblica.
Come osservava Giannini, la pubblica amministrazione è l’organo di produzione delle certezze pubbliche, ossia di quelle rappresentazioni normative del reale che costituiscono il presupposto dell’azione amministrativa.
Con la riforma del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, si è compiuta una trasformazione importante di questa funzione.
La disciplina delle dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà (artt. 46 e 47) si è posta l’obiettivo di introdurre un modello di amministrazione semplificata e fiduciaria, che trasferisce al cittadino una parte della funzione di produzione della certezza pubblica.[10] Il privato è chiamato ad attestare, sotto la propria responsabilità, fatti e stati di cui la pubblica amministrazione prende atto “come veri”, salvo successivo controllo.
In sostanza il cittadino diviene co-produttore della conoscenza giuridica, in un sistema che presume la sua veridicità fino a prova contraria. La pubblica amministrazione, a sua volta, non è più solo ente certificatore, ma ente verificatore, che assume la dichiarazione come punto di partenza del procedimento e ne controlla l’esattezza a posteriori.
Il d.P.R. n. 445/2000 risponde a un duplice obiettivo: da un lato, la semplificazione amministrativa e la riduzione degli oneri documentali; dall’altro, la responsabilizzazione del cittadino, intesa come costruzione di un nuovo equilibrio tra fiducia e controllo.
Il principio di semplificazione non si limita a velocizzare i procedimenti, ma incide sul concetto stesso di certezza, che da formale si trasforma in sostanziale.
La certezza amministrativa non discenderebbe più dal documento pubblico, ma dall’affidabilità della dichiarazione privata, in un contesto di fiducia reciproca tra amministrazione e cittadino. Il sistema sarebbe retto dal principio di autoresponsabilità del dichiarante, espresso dall’art. 75 del medesimo testo unico, secondo il quale la falsità comporta la decadenza dai benefici conseguiti sulla base della dichiarazione.
Il meccanismo dell’autocertificazione, pertanto, è costruito su una presunzione di verità che l’amministrazione è tenuta a rispettare, ma che può essere ribaltata in presenza di prova contraria: la certezza è presunta, ma non cieca.
La decadenza prevista dall’art. 75 Testo unico non può essere ridotta a una misura meramente punitiva, poiché persegue anche una finalità di salvaguardia dell’affidabilità del sistema amministrativo. Essa si colloca in una zona intermedia tra sanzione e strumento di garanzia, volta a preservare la fiducia collettiva nella veridicità delle dichiarazioni e nella certezza giuridica pubblica[11].
4. Verità, veridicità e certezza
Nel contesto del paradigma autoritativo della certezza e di quello cooperativo, va richiamato il triangolo concettuale che ne rappresenta la struttura teorica: verità, veridicità e certezza[12].
Questi tre termini, solo apparentemente sinonimi, delineano in realtà tre diversi livelli del rapporto tra conoscenza e potere nell’amministrazione, e spiegano come l’ordinamento contemporaneo tenda a sostituire la ricerca della verità con la costruzione della veridicità istituzionale, e quest’ultima con la certezza giuridica come valore condiviso e operativo.
La verità costituisce l’ideale di corrispondenza tra rappresentazione e realtà, che il diritto assume come orizzonte ma non come presupposto.
La veridicità è la qualità operativa che rende una rappresentazione idonea a essere accettata come vera: è la misura della fiducia giuridica nella plausibilità.
La certezza è il risultato istituzionale della veridicità riconosciuta e stabilizzata dall’ordinamento, la sua traduzione in valore pubblico.
Il diritto amministrativo, per sua natura, tendenzialmente non può che operare su questo piano intermedio. Non conosce la verità assoluta, ma crea e regola verità sufficientemente affidabili, capaci di garantire l’efficienza, la legittimità e l’imparzialità dell’azione pubblica. Nel modello contemporaneo, questa funzione è condivisa: l’amministrazione produce certezza attraverso la fiducia nella veridicità delle dichiarazioni private, e il cittadino contribuisce alla certezza pubblica mediante la lealtà dichiarativa.
Come è stato efficacemente sintetizzato, la certezza giuridica contemporanea non è più autoritativa, ma cooperativa: nasce dall’incontro tra la fiducia dell’amministrazione e la responsabilità del dichiarante[13]. La certezza contemporanea è quindi relazionale: essa nasce da rapporti di fiducia reciproca e da meccanismi di verifica diffusa, più che da una fede autoritativa.
Le autodichiarazioni sono l’esempio paradigmatico di questa trasformazione: instaurano un patto fiduciario temporaneo, fondato sull’autoresponsabilità del dichiarante. In effetti, con l’introduzione delle autocertificazioni (d.P.R. n. 445/2000), parte di questa funzione è stata delegata al cittadino, che diventa corresponsabile della verità dei dati prodotti. L’amministrazione accetta la veridicità del dichiarante e costruisce su di essa il proprio giudizio, spostando l’asse della certezza dal controllo preventivo alla fiducia postuma. Tale dinamica traduce il principio gianniniano della certezza per rappresentazione in un sistema fiduciario, in cui la falsità non è solo errore fattuale, ma rottura del patto di certezza che regge la cooperazione amministrativa[14].
5. Gli orientamenti giurisprudenziali
Nel presente contributo si prendono in esame le problematiche giuridiche e le elaborazioni giurisprudenziali relative al falso nelle autocertificazioni rese nelle procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego, ambito nel quale si è progressivamente affermata una lettura che riconosce alla veridicità dichiarativa una funzione di garanzia della parità tra i concorrenti.
In questa prospettiva, la veridicità non è soltanto un requisito formale, ma rappresenta un valore sostanziale del procedimento concorsuale: tutela la leale competizione tra i candidati e consente all’amministrazione di fondare il proprio giudizio comparativo sulla correttezza delle informazioni fornite. La falsità, anche parziale, si traduce così in una violazione non solo del rapporto di fiducia con la pubblica amministrazione, ma anche dell’equilibrio tra i partecipanti, poiché altera la base comune di affidamento reciproco sulla quale si regge la selezione.
Restano esclusi, in questa analisi, altri ambiti applicativi dell’autocertificazione, nei quali l’istituto opera con logiche e finalità in parte differenti: le procedure per l’ottenimento di contributi, sovvenzioni e agevolazioni economiche o fiscali; le istanze per il rilascio di titoli abilitativi nell’ambito della semplificazione e liberalizzazione amministrativa, o in edilizia e urbanistica (in particolare la Scia e i titoli edilizi sostitutivi); le autodichiarazioni nel settore energetico e ambientale; le procedure di affidamento di contratti e appalti pubblici che sono dotate di una disciplina dettagliata e specifica più volte rivista dalla giurisprudenza e dal legislatore; nonché le autocertificazioni di natura anagrafica, sanitaria, previdenziale o scolastica, introdotte in attuazione dei principi di digitalizzazione amministrativa. Rientrano in un filone autonomo, infine, le autodichiarazioni emergenziali del (passato) periodo Covid-19, che hanno rappresentato una peculiare applicazione del modello in chiave di regolazione diffusa dei comportamenti sociali.
Tornando al caso di specie, dalla lettura della più recente giurisprudenza possono principalmente individuarsi tre posizioni interpretative in materia di falsità dichiarativa ai sensi dell’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000, le quali evidenziano l’evoluzione del sistema da un approccio proporzionale a una concezione tendenzialmente oggettiva della decadenza.
Una prima teoria si fonda su una concezione funzionale della falsità. La decadenza è ritenuta applicabile soltanto quando la dichiarazione non veritiera abbia avuto efficacia causale rispetto al beneficio conseguito, ossia quando la falsità sia risultata determinante ai fini dell’adozione del provvedimento favorevole. Si configura, in tale logica, una distinzione tra falso rilevante e falso innocuo: solo il primo è idoneo a incidere sulla validità dell’atto, mentre il secondo, in mancanza di effetti concreti, non comporta conseguenze sanzionatorie. L’impostazione riflette una visione proporzionale della reazione amministrativa, in cui la gravità della sanzione si commisura all’impatto effettivo del mendacio[15].
Una seconda teoria introduce un’ulteriore distinzione, tra dichiarazione mendace e dichiarazione ambigua o imprecisa. La falsità, in questa prospettiva, si identifica solo nella rappresentazione consapevolmente contraria al vero, mentre l’imprecisione o l’opacità espositiva restano escluse dal perimetro dell’art. 75. La giurisprudenza riconosce, così, che non ogni difformità semantica rispetto alla realtà costituisce falsità giuridicamente rilevante: la non veridicità deve essere intenzionale e oggettiva, non il mero risultato di una comunicazione imperfetta. Si tratta ancora di una logica casistica e prudenziale, che tenta di conciliare l’esigenza di tutela della certezza amministrativa con quella di proporzionalità[16].
c) La teoria oggettiva e unitaria della falsità
Una terza e più recente teoria segna il superamento del criterio proporzionale e l’affermazione di una concezione oggettiva della falsità. L’autocertificazione viene considerata un atto unitario e inscindibile, la cui attendibilità complessiva risulta compromessa anche in presenza di una sola informazione non veritiera. La falsità, pertanto, potenzialmente assume rilievo in sé, quale violazione del vincolo fiduciario che regge il rapporto tra amministrazione e cittadino. Non rileva più l’incidenza della falsità sull’esito del procedimento, ma il fatto stesso che l’atto dichiarativo non risponda al vero, poiché ciò mina la credibilità del sistema delle certezze pubbliche. L’elemento soggettivo dell’autoresponsabilità si salda con il valore oggettivo della fiducia istituzionale: il dichiarante non può trarre vantaggio da un atto che, anche solo parzialmente, manchi di veridicità[17].
Questa impostazione riflette una trasformazione culturale: la falsità non è più vista come una devianza individuale da sanzionare in misura proporzionata, ma come una lesione sistemica della fiducia pubblica, che giustifica la decadenza automatica in quanto misura di tutela dell’affidabilità complessiva del sistema[18].
6. Il consolidamento del principio di fiducia oggettiva
La decisione n. 5020/2025 rappresenta il punto di arrivo di questa evoluzione.
La vicenda trae origine da una procedura valutativa bandita ai sensi dell’art. 24, commi 5 e 6, della legge n. 240/2010, per la chiamata di un professore universitario. Il candidato aveva dichiarato nel proprio curriculum la titolarità di tre brevetti, due dei quali, tuttavia, risultavano solo in fase di domanda e non ancora formalmente concessi.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto che tale circostanza integri una falsità rilevante ai sensi degli artt. 46 e 75 del d.P.R. 445/2000, precisando che l’art. 46 del testo unicio non distingue tra dichiarazioni rese nel curriculum e quelle contenute nella domanda, giacché entrambe concorrono a formare l’autocertificazione dei titoli valutabili. Inoltre, evidenzia come l’autodichiarazione copre l’intero contenuto documentale e il bando di concorso richiedeva espressamente che il curriculum fosse accompagnato da una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la veridicità dei titoli e delle attività scientifiche. Infine, evidenzia che l’oggetto della dichiarazione non veritiera era essenziale ai fini della valutazione comparativa e, dunque, della nomina, indipendentemente dalla collocazione formale della notizia mendace.
Quindi, il Consiglio di Stato afferma i seguenti principi.
Primo, unità della dichiarazione: «Sul piano normativo, l’art. 46 cit. non reca alcuna distinzione tra fatti dichiarati nel curriculum vitae e fatti dichiarati nella domanda di partecipazione, facendo generale e astratto riferimento all’autodichiarazione di fatti personalmente o professionalmente rilevanti».
Secondo, essenzialità del falso: «L’oggetto della dichiarazione non veritiera risulta essenziale ai fini della nomina, a prescindere dalla sua materiale collocazione all’interno del curriculum vitae ovvero della domanda di partecipazione».
Terzo, funzione valoriale della veridicità: «La ratio legis (…) è quella di mettere tutti i concorrenti su un piano di parità (…) confidando sulla correttezza ed esattezza di quanto reciprocamente dichiarato».
La decisione si colloca nella prospettiva che riconosce alla certezza pubblica un valore sistemico, in cui la tutela della fiducia nella veridicità amministrativa prevale sulla verifica dell’incidenza causale della dichiarazione non veritiera.La sentenza n. 5020/2025 pare riqualificare l’art. 75 d.P.R. 445/2000 da norma sanzionatoria a dispositivo di tutela della certezza pubblica. Il falso non è più misurato sulla base del vantaggio conseguito, ma sul suo potenziale distruttivo per l’affidabilità del sistema.
[1] A. Camilleri, La rivolta dei topi d’ufficio, Edizione Este, 1999, su http://www.bassanini.it/wp-content/uploads/2013/10/La-rivolta-dei-topi-dufficio.pdf
[2] A. Camilleri, La rivolta dei topi d’ufficio, cit., p.4.
[3] Ibidem, p. 5.
[4] F. Bassanini, Presentazione in A. Camilleri, cit, p. 1.
[5] Di fronte a quella che vivono come un’umiliazione istituzionale, gli impiegati si organizzano nel BAAC – Burocrati Anti Auto Certificazione – con lo scopo di sabotare il nuovo sistema e dimostrarne la fallacia. Camilleri riassume il loro intento in poche, efficaci parole: «I vivi sarebbero risultati morti, i morti vivi, i celibi sposati, e via scambiando: fino a rendere incredibile ogni autocertificazione.» Il BAAC diventa così la caricatura della resistenza burocratica: un apparato che, pur di difendere il proprio monopolio sulla verità amministrativa, è disposto a falsificare la realtà pur di dimostrare l’inattendibilità del cittadino. Il ragionier La Piana sintetizza il senso di tale sfiducia nella battuta: «Bisognerebbe, una volta per tutte, stabilire che l’Italia è una Repubblica basata sulla diffidenza reciproca». Quindi, là dove la Costituzione proclama la centralità del lavoro, l’esperienza quotidiana sembra mostrare che la Repubblica funziona piuttosto come un sistema di reciproca sfiducia regolata — tra cittadini e pubblici poteri, tra amministrati e amministratori, tra dichiaranti e verificatori.
[6] Nella prefazione, Franco Bassanini sottolinea esattamente questo nodo culturale. Egli ricorda come la riforma dell’autocertificazione nascesse dall’esigenza di abbandonare il mito del bollo, del timbro, del certificato, delle complicazioni burocratiche e di sostituire al culto dei formalismi il primato dell’efficienza e della responsabilità del cittadino. Il racconto di Camilleri, osserva Bassanini, descrive con realismo la difficoltà italiana di accettare la fiducia come strumento amministrativo: l’autocertificazione non è soltanto una semplificazione procedurale, ma un atto politico di fiducia reciproca tra amministrazione e cittadino — e proprio per questo incontra la resistenza più profonda.
[7] Cons. Stato, Sez. VII, 10 giugno 2025, n. 5020.
[8] Sul tema, si richiama in via introduttiva innanzitutto la seguente dottrina: P. Calamandrei, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1955, I, 164 ss.; A. Falzea, Accertamento (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, I, Milano, 1958, 205 ss.; M. S. Giannini, Certezza pubblica, in Enciclopedia del diritto, VI, Milano, 1960, 769 ss.; S. Pugliatti, Conoscenza, in Enciclopedia del diritto, IX, Milano, 1961; A. Predieri, Premessa ad uno studio sullo Stato come produttore di informazioni, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, II, Milano, Giuffrè, 1974, 1626 ss.; M. Mazzamuto, Dichiarazioni sostitutive: le principali innovazioni delle leggi Bassanini, in N AUT, 1999, 45 ss; A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, Padova, 2003; I.d., Certezza pubblica, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, II, Milano, Giuffrè, 2006, 851 ss.; G. Gardini, Autocertificazione, in D. disc. pubbl. (Agg.), Torino, 2005, 107 ss; F. Fracchia - M. Occhiena, I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006; A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze private”, Milano, 2010, 30 ss.; E. Carloni, Le verità amministrative. L’attività conoscitiva pubblica tra procedimento e processo, Milano, 2012, 24 ss.; A. Benedetti, Seeking “Certainty” between Public Powers and Private Systems, in Italian Journal of Public Law, 2012, p. 356; I.d, Certezza pubblica [dir. amm.], in Treccani – Diritto on line, 2014; I.d., La ricerca della certezza, tra poteri pubblici e sistemi privati, in https://www.giustamm.it/private/new_2012/ART_4442.pdf; A. Carratta – C. Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino, 2017, 169 ss. In sintesi ricostruttiva: la linea classica distingue tra verità (ideale di corrispondenza al fatto) e accertamento (procedimento giuridico di conoscenza: Falzea), evidenziando nel processo la dialettica verità/verosimiglianza (Calamandrei) e, sul versante amministrativo, il progressivo superamento del “mito della verità” a favore della certezza pubblica come prodotto istituzionale (Giannini). La conoscenza giuridica opera così per rappresentazioni affidabili più che per verità assolute (Pugliatti), entro uno Stato che è primario produttore di informazioni pubbliche (Predieri). In chiave contemporanea, la certezza assume profilo relazionale e funzionale all’affidabilità dei rapporti (Fioritto), può ibridarsi con “certezze private” regolate pubblicisticamente (Benedetti) e si sostanzia in verità amministrative costruite tramite procedure e garanzie, con il rischio, se ridotte al solo “sigillo del potere”, di scollarsi dalla realtà (Carloni). Sullo sfondo, la dogmatica processuale recente continua a misurare l’operatività di verità, verosimiglianza e probabilità come gradi di attendibilità decisoria (Carratta–Mandrioli).
[9] I principi di autocertificazione e di decertificazione rappresentano due cardini delle riforme di semplificazione amministrativa, nati per alleggerire gli oneri burocratici gravanti sui cittadini e riequilibrare il rapporto con l’amministrazione. Il primo solleva il cittadino dall’onere di certificare fatti, stati o qualità personali, consentendogli di sostituire la documentazione con una dichiarazione formale, la cui veridicità è soggetta a successivo controllo da parte della pubblica amministrazione. Il secondo, invece, ne rovescia la logica, imponendo al responsabile del procedimento di acquisire d’ufficio i dati che è compito dell’amministrazione stessa certificare. Entrambi i principi sono confluiti nell’art. 18 della legge n. 241/1990, che, insieme al d.P.R. n. 445/2000, costituisce la base del sistema di “documentazione amministrativa semplificata”. Le riforme successive — in particolare quelle introdotte dal d.l. n. 76/2020 (“Semplificazioni”) e dal d.l. n. 34/2020 (“Rilancio”) — ne hanno ampliato l’ambito di applicazione, estendendolo anche ai rapporti tra privati e alla gestione dei benefici economici. Tuttavia, la piena attuazione di tali principi resta incompleta, frenata dalla carenza di interoperabilità tra banche dati pubbliche e da una persistente sfiducia dell’amministrazione verso il cittadino, che continua a tradursi in un aggravio di adempimenti formali, cfr. A. Giurickovic Dato, L’inattuazione dei principi di “autocertificazione” e “decertificazione” tra digitalizzazione ed emergenza, in Rivista CERIPAD, fasc. 3, 2021, https://ceridap.eu/linattuazione-dei-principi-di-autocertificazione-e-decertificazione-tra-digitalizzazione-ed-emergenza/
[10] Per una ricostruzione si rinvia a M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 “decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in Questa Rivista, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1128-la-trappola-dell-art-264-del-dl-34-2020-decreto-rilancio-per-le-autodichiarazioni-la-norma-sulla-semplificazione-amministrativa-nasconde-nuove-sanzioni-per-gli-amministrati; I.d., Autodichiarazioni e dichiarazione "non veritiera". La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (*), in Questa Rivista, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1347-autodichiarazioni .
[11] Il venir meno della veridicità dichiarativa, anche in singoli casi, mina infatti l’affidabilità complessiva del sistema, alterando la credibilità della certezza che esso intende garantire. La pubblica amministrazione accetta la dichiarazione come vera fino a prova contraria, ma si riserva la possibilità di verificarne la fondatezza, a tutela dell’interesse pubblico alla certezza e alla parità di trattamento.La certezza amministrativa, nel modello attuale, è dunque fiduciaria ma controllabile, relativa ma garantita: una costruzione che vive dell’equilibrio tra fiducia e verifica, tra collaborazione e potere.
[12] Le riflessioni di questo paragrafo si ricollegano, senza pretesa di esaustività, a una tradizione dottrinale ampia che ha approfondito il rapporto tra conoscenza, verità e certezza nel diritto amministrativo e nella teoria generale: A. Falzea, Accertamento (teoria generale), in Enc. dir., I, Milano, Giuffrè, 1958; S. Pugliatti, Conoscenza e diritto, Milano, 1961; M. S. Giannini, Certezza pubblica, cit.; E. Carloni, Le verità amministrative, cit.; A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze private”, cit.; C. Faralli, Certezza del diritto o diritto alla certezza?, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1997; A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, cit.; A. Romano Tassone, Amministrazione pubblica e produzione di certezza: problemi attuali e spunti ricostruttivi, in Dir. amm., 2005; M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009.
[13] A. Benedetti, Certezza pubblica [dir. amm.], cit.
[14] Ibidem.
[15] Cons. Stato, Sez. V, 20 agosto 2019, n. 5761; Cons. Stato, Sez. V, 6 luglio 2020, n. 4303.
[16] Cons. Stato, Sez. VII, 31 gennaio 2022, n. 638.
[17] Cons. Stato, Sez. VII, 8 giugno 2022, n. 4680.
[18] Cons. Stato, Sez. VII, 10 febbraio 2025, n. 5020.
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