ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nel 2011, con la nomina di Giovanni Tamburino a capo del Dipartimento, l'Amministrazione Penitenziaria aveva avviato un processo di cambiamento profondo, poi recepito nei lavori degli “Stati Generali sull’Esecuzione della Pena”, avviati nell’aprile del 2015, il cui prodotto ha rappresentato la base della proposta formulata dalla Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario nominata con decreto ministeriale 19 luglio 2017, solo in minima parte recepita negli schemi di decreto legislativo nn. 121, 123 e 124 del 2 ottobre 2018.
Il percorso di riforma legislativa si è sostanzialmente arrestato ma soprattutto si è arrestato il processo di mutamento dell’azione amministrativa e così, a più di quarant’anni di distanza, si può amaramente constatare che i principi scritti nell’Ordinamento Penitenziario del 1975 e nel Regolamento di esecuzione che seguì nel 2000 non sono ancora completamente attuati.
L’impegno avviato nel 2011, che allora fu definito “rivoluzione normale”, era infatti semplicemente quello di dare attuazione alla legge del 26 luglio 1975, n. 354 e al Regolamento realizzando per ciascun detenuto condizioni detentive dignitose e soprattutto facendo in modo che, attraverso tali condizioni, il periodo di detenzione restituisca alla società un cittadino migliore. Questa è infatti la funzione che la Costituzione assegna alla pena (art. 27 comma 3) quando prescrive che essa "non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato".
Il fine della pena è quello di promuovere, sostenere, incoraggiare un percorso di vita facendo affidamento sulla responsabilità della persona.
La rieducazione, il trattamento e la valutazione del percorso in carcere del detenuto dipendono innanzitutto dalle condizioni detentive e dal rispetto dato alle specificità di ognuno.
Parlare di trattamento significa parlare innanzitutto di condizioni detentive e condizioni migliori per tutti vuol dire innanzitutto differenziare il trattamento in ragione della specificità di ciascuno: detenuti definitivi/in attesa di giudizio, italiani/stranieri, nuovi giunti/dimettendi, sani/ammalati, condannati a pene lunghe/condannati a pene brevi….
Il nucleo fondamentale del modello detentivo che era alla base della riforma avviata è la differenziazione degli istituti penitenziari e l’individuazione di obiettivi diversi per ciascuno di essi, così da indirizzare l’azione amministrativa in ragione della specificità delle singole strutture, anche attraverso una specifica formazione del personale.
Allocare i detenuti in istituti e sezioni distinti per gruppi omogenei e creare le condizioni affinché ogni detenuto possa trascorrere la maggior parte del proprio tempo al di fuori della camera detentiva in refettori e spazi dedicati alle attività comuni ove sono favorite la responsabilizzazione e una osservazione davvero efficace, con l’intervento di operatori e volontari appartenenti a professionalità diverse varie professionalità, dell’interazione del singolo nel gruppo.
Nel mondo penitenziario lavorano singole professionalità che, con importanti contributi di energie e idee, hanno saputo costruire realtà considerate all’estero come modello. Molte lavorazioni di eccellenza, progetti culturali importanti, scuole di teatro, esperienze numerosissime portate avanti anche con il lavoro prezioso e insostituibile del volontariato e delle tante associazioni che operano all’interno del carcere. Purtroppo però queste sono ancora opportunità destinate a pochi.
Non soltanto il lavoro, l’istruzione, le attività culturali o sportive però hanno una finalità di risocializzazione.
In effetti tutto nell’organizzazione della vita carceraria, dalle regole dello stare insieme, alle modalità con cui si rendono possibili i rapporti con i familiari e con la “società esterna'”, deve essere pensato e realizzato in funzione di questo scopo. Di per sé partecipare alla vita carceraria e accettarne in concreto le regole, consente di sviluppare una prospettiva di vita e di condotta in armonia con i diritti degli altri e con le esigenze della società.
Le donne detenute, che sono solo una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale, rappresentano certamente una specificità. Riconoscere appieno i diritti delle donne vuol dire innanzitutto riconoscere la diversità di sesso e la loro specificità, perché uomini e donne hanno caratteristiche proprie ed esigenze diverse, e perché per i gruppi minoritari quali le giovani e le cittadine straniere, si aggiungono specificità ulteriori per le quali è particolarmente difficile poter avere adeguate risposte.
Il dato statistico ci porta a riflettere. La popolazione femminile rappresenta circa il 4% della popolazione detenuta.
Nel passato, questa differenza era correlata al diverso ruolo rivestito dalla donna nella società: la donna non era nelle condizioni di delinquere perché relegata nel ruolo di madre e moglie, ma in realtà per quanto riguarda l’Italia le cifre delle donne che delinquono rimangono abbastanza stabili e la percentuale di donne su tutti i denunciati negli ultimi anni è rimasto pressocchè costante (circa il 17/18%).
Le Regole Minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite, approvate per la prima volta il 30 agosto 1955 e periodicamente aggiornate, affermano (Regola 8) che “uomini e donne, per quanto possibile, devono essere ristretti in istituti separati, o in sezioni completamente separate dello stesso istituto”; le Regole penitenziarie europee del 2006 (regola 18.8b) affermano che deve essere dato rilievo alla necessità di tenere separati uomini e donne, e il 21 dicembre 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato un nuovo testo di disposizioni volte a colmare una lacuna negli standard internazionali riguardanti le esigenze specifiche delle donne in conflitto con la legge penale.
Sono le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Tailandia nella loro elaborazione. Seppure sprovviste di efficacia vincolante, le 70 Regole di Bangkok fanno parte dell’ampia raccolta di principi e linee guida, standard e norme, sviluppate dalle Nazioni Unite nel corso di più di 50 anni.
Esse sono divise in due sezioni, una contenente le disposizioni di applicazione generale e l’altra le regole dedicate a categorie speciali quali le madri, le straniere, le giovani . E’ interessante sottolineare che nella parte relativa alla valutazione del rischio le Regole considerano che generalmente le detenute presentano una pericolosità relativamente debole e che le misure di alta sicurezza su di loro hanno un effetto particolarmente negativo.
La regola n. l fissa il principio di individualizzazione del trattamento (“bisogna tenere conto delle esigenze peculiari delle donne detenute per l'attuazione delle presenti regole. Le misure adottate per soddisfare tali necessità non devono essere considerate discriminatorie”). E’ necessario prendere in considerazione le esigenze diverse delle donne rispetto a quelle degli uomini: l’attenzione a queste esigenze non è discriminatoria “il concetto di eguaglianza significa ben più che trattare tutte le persone allo stesso modo. Il trattamento uguale di persone in situazioni diseguali contribuirà a perpetuare l’ingiustizia e non a eradicarla”.
Proprio perché le donne costituiscono una minoranza nell’ambito penitenziario i loro bisogni specifici sono spesso disattesi .
Tradizionalmente le carceri sono progettate e costruite da uomini per ospitare uomini, quindi secondo un modello che mal si adatta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili. In molti Paesi le donne sono ospitate in sezioni sommariamente separate dalle sezioni maschili, per evitare situazioni di promiscuità ad esse è negato l’accesso alle strutture comuni per le attività sportive, lavorative e formative. Spesso sono ristrette in carceri che si trovano molto lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento, rendendosi così difficili e onerosi i contatti con le loro famiglie.
Le detenute sono spesso madri. La lontananza dai figli aggiunge sofferenza alla pena detentiva e i locali per le visite raramente offrono uno spazio adatto per ritrovare la vicinanza tra madre e figlio. In genere, la mancanza di affetti e i ritmi del carcere sono più difficili da accettare per le donne che per gli uomini e ciò si traduce in un numero maggiore di suicidi e di atti di autolesionismo.
In Italia gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne sono cinque (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca) e per il resto le donne sono collocate in 52 piccoli reparti all’interno di penitenziari maschili. Quindi nella maggior parte dei casi la donna detenuta si trova a vivere una realtà fatta e pensata dagli uomini e per gli uomini, nella struttura, nelle regole e nelle relazioni, senza cogliere gli aspetti di specificità e tipicità proprie delle donne, che la detenzione non cancella, ma anzi rafforza.
Le donne hanno una minore possibilità di accesso alle attività trattamentali. E’ una discriminazione involontaria dovuta al loro numero limitato e all’impossibilità di condividere con gli uomini le strutture.
La detenzione di coloro che sono in attesa di giudizio è molto meno tutelata dal punto di vista del trattamento. Differenziare detenuti definitivi da quelli in attesa di giudizio è già difficile, differenziare ulteriormente all’interno di queste categorie tra uomini e donne è quasi impossibile, così le donne detenute definitive e non definitive si trovano sempre assieme.
Le donne mediamente hanno condanne più brevi di quelle degli uomini e hanno maggiori probabilità di essere single e meno probabilità di avere qualcuno cui affidare la casa e la famiglia. Così anche una breve condanna per una donna arreca danni e conseguenze a lungo termine. Se le pene detentive brevi, in generale rappresentano una punizione scarsamente efficace, esse lo sono ancora meno per le donne. Molto più efficace le alternative al carcere, misure di probation e di giustizia ripartiva, diffuse in altri Paesi e quali assenti nel nostro.
In effetti concordare il modo migliore per riparare il danno e reintegrare le donne nella società vuol dire sostenere i loro figli, con risultati doppi in termini di abbattimento di recidiva per l’ulteriore effetto di ridurre la possibilità che i figli a loro volta delinquano.
Sempre nella stessa stagione del 2011 è stata approvata la legge 21 aprile 2011, n. 62, che offre alle madri detenute nuove possibilità di assistere ed accudire il figlio minore fuori dall’istituto di pena inteso in senso stretto. Ma anche questa legge non è ha trovato ancora piena attuazione.
Il legislatore, per rafforzare la tutela del rapporto tra i minori e le madri che si trovino in stato di privazione della libertà personale, ha previsto la collocazione delle madri negli ICAM istituti a custodia attenuata (sul modello di quello che fu attuato a Milano nel 2007), dotati di caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali ed ispirate a quelle di una casa di civile abitazione. In queste strutture è attuato un regime penitenziario di tipo familiare-comunitario incentrato sulla responsabilizzazione al ruolo genitoriale per garantire una adeguata tutela della genitorialità e dell’infanzia nel corso dell’esecuzione penale assicurando una crescita armoniosa e senza traumi dei minori.
Per quanto riguarda gli arresti domiciliari la stessa legge ha introdotto la specifica figura della casa-famiglia protetta previste anche per le ipotesi di detenzione domiciliare cd. per fini umanitari (ex art. 47-ter comma 1 lett. a l.354/75), previste nei confronti di donna incinta, o madre di prole convivente di età inferiore ai dieci anni, per l’espiazione delle pene detentive non superiore a quattro anni (anche se costituenti parte residua di maggior pena). La stessa legge ha modificato la disciplina della cd detenzione domiciliare speciale disciplinata (art. 47-quinquies l.354 del 1975) e destinata alle madri con prole non superiore ad anni dieci anche nel caso di esecuzione di pene di lunga durata. E’ stata introdotta infatti la possibilità di espiare la parte di pena prodromica all’ammissione del beneficio (almeno un terzo della pena o 15 anni nel caso di condanna all’ergastolo) presso gli ICAM (solo cinque, a Milano, Venezia, Torino, Avellino e Cagliari) e, se non vi è pericolo di fuga o di reiterazione del reato, presso il proprio domicilio e, in assenza di quest’ultimo, presso le case famiglia protette. Queste strutture consentono quindi a soggetti sprovvisti di riferimenti familiari e abitativi di accedere alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla misura alternativa della detenzione domiciliare e in questo senso rappresentano uno snodo essenziale per l’attuazione pratica della legge.
Per consentire l’attuazione della legge del 2011 alcune Associazioni di volontariato sul territorio nazionale si sono attivate per mettere a disposizione numerose strutture aventi i requisiti previsti e predisponendo percorsi personalizzati in grado di garantire il reinserimento nella società.
La presenza in carcere di detenute madri con prole negli ultimi anni è oscillata tra le 60 e le 40 unità e, dopo il dato più basso registrato il 31.12.2014 (28 bambini presenti negli istituti italiani), il 30.11.2018 i figli di detenute presenti in carcere erano 55.
Se il legislatore si è occupato dei bambini (fino a tre o dieci anni d’età) che vivono in carcere con la madre, molte però sono le madri detenute che non vedono mai i loro figli o li vedono saltuariamente durante le ore di colloquio perché troppo spesso i colloqui con i figli avvengono in situazioni logistiche che per questi ultimi sono raccapriccianti, mancano ambienti idonei, pochi istituti hanno la ludoteca e a volte le procedure di ingresso sono traumatiche (anche i bambini vengono perquisiti e addirittura i neonati, perché potrebbe esserci droga nascosta nel pannolino). Queste situazioni creano vuoti affettivi inammissibili e spesso i genitori tengono nascosta ai figli la loro detenzione perché non sanno con quali parole spiegarla o perché temono che i servizi per minori intervengano e spesso è impossibile intervenire nelle situazioni di crisi familiare. Con una separazione forzata, il rapporto madre-figlio può essere facilmente compromesso; il distacco, le difficoltà oggettive di mantenere rapporti continuativi e regolari, la distanza del luogo di detenzione fanno sì che spesso i figli subiscono la situazione più come una sparizione che non come un allontanamento momentaneo e quando la mamma detenuta è stata l’unica a prendersi cura di loro, il distacco è intollerabile. Spesso per i figli minori andare a colloquio (anche nella stessa città) è difficile perché banalmente può significare dover perdere un giorno di scuola (è ancora limitata la possibilità di effettuare colloqui nel pomeriggio o nel fine settimana).
Tanti sono gli interventi che volontari e associazioni realizzano in molti istituti italiani: accompagnano i bambini ai colloqui in carcere, rendono più brevi le attese e sostengono i bambini durante le perquisizioni, rendono più gradevoli i locali adibiti al colloquio; danno sostegno al genitore che si rifiuta di condurre il figlio in carcere a visitare il padre o la madre; aiutano ai bambini a mantenere rapporti costanti con il genitore detenuto; danno modo agli stranieri di mettersi in contatto telefonico con la propria famiglia in modo che chi ha problemi di fuso orario possa comunque interloquire con i figli lontani.
C’è una sostanziale differenza di genere nel modo di vivere il carcere. Gli uomini hanno una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente o di accettare la carcerazione come conseguenza di comportamenti devianti.
Gli uomini surrogano la privazione del ruolo di sostegno alla propria famiglia lavorando e mandando soldi a casa. Per le detenute invece essere private di questo ruolo è una sofferenza enorme. Gli uomini hanno sempre una donna che porta il pacco e lava i panni, non si vede mai il contrario. Ma questo non sembra essere un motivo di disagio per le detenute le quali vorrebbero poter lavare e stirare i panni del marito in stato di libertà.
Le donne subiscono con sofferenza il carcere e per esse il bisogno di aggregazione e socialità è molto più forte che per gli uomini e i loro rapporti interpersonali rispondono più a logiche di espressione di affettività, che a quelle di comparazione della forza, sia essa forza fisica o forza del prestigio criminale.
Generalmente le donne considerano i reati che le hanno portate in carcere come incidenti di percorso e non scelte di vita consapevoli. Hanno un senso di vergogna e la preoccupazione per il dopo, legata non soltanto alla possibilità di reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale (esse spesso hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle).
Le celle e gli spazi individuali vengono curati dalle donne con attenzione particolare: le stanze sono ordinate e pulite, tenute meglio di quelle maschili ; le donne tendono a riprodurre nella loro stanza l'ambiente familiare e i gesti consuetudinari compresa l’attenzione al proprio corpo.
Nel 2013 è stato diffuso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria uno schema di Regolamento interno predisposto per le sezioni femminili che tiene conto della dimensione affettiva, delle specifiche necessità sanitarie, del diverso rapporto con le esigenze della propria fisicità, della necessità di offrire pari opportunità di reinserimento sociale e in cui sono valorizzati i momenti di compresenza con i detenuti maschi (scuola e formazione in genere, iniziative culturali, ricreative e sportive, partecipazioni alle commissioni di rappresentanza previste dall’Ordinamento penitenziario, ecc.). In alcuni Regolamenti di istituto è previsto espressamente che la detenuta possa tenere con sé la fede, catenine, orecchini e oggetti di bigiotteria (di modico valore); creme depilatorie, deodoranti, creme, smalto, cosmetici, pinze per le ciglia, depilatore elettrico, extention, tinta per i capelli , crema lisciante per capelli crespi; lenti a contatto, ferri per lana con punta arrotondata, kit per cucito. All’atto dell’ingresso la detenuta riceve anche un kit per l’igiene personale tra cui assorbenti igienici. L’arredo della cella comprende uno specchio, infine sono disponibili una lavatrice e un servizio di parrucchiera.
Nel 2010 i detenuti in Italia sfiorarono i 70 mila. Quando giunsi al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nel 2012, erano 66 mila e due anni dopo, quando nel 2014lasciai la guida del DAP, erano poco più di 52 mila. Tale risultato si ottenne grazie a una serie di interventi normativi che non previdero nessun indulto e nessuna amnistia. Contrariamente alle insistenti declamazioni di taluni politici, lo sfollamento rispetto a una situazione invivibile ed ingestibile, che ci aveva guadagnato due severe condanne da parte della C.E.DU. (sentenze Sulejmanovic del 16 luglio 2009 e Torreggiani dell’8 gennaio 2013), si realizzò senza provvedimenti svuotacarceri di tipo indulgenziale, anche se fu certamente necessario il ricorso a qualche misura straordinaria di ampliamento dei preesistenti normali istituti penitenziari di carattere premiale. Come si ricorderà, venne dilatata in particolare la portata della misura della liberazione anticipata, istituto, questo, esistente in Italia dal 1975 e ben noto, in forme e modalità diverse, in tutti i Paesi considerati civili, compresi gli Stati Uniti tanto decantati dai laudatores della certezza della pena, dove si attua una più o meno estesa flessibilizzazione della pena detentiva.
E’ noto che l’istituto giuridico della liberazione anticipata non può essere assimilato a una misura indulgenziale perché gestito dalla magistratura ed applicato attraverso una valutazione singola, caso per caso, della meritevolezza del richiedente. Molte critiche possono farsi alla liberazione anticipata, ma certamente non si può assimilarla a una amnistia o a un indulto, istituti questi che, del resto, saggiamente il legislatore costituente ha marginalizzati quando ha introdotto nell’articolo 79, con la legge costituzionale n. 1 del 6 marzo 1992, la condizione della approvazione a maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Per prossimità di argomento ricordo che anche un altro istituto indulgenziale previsto nella Costituzione è caduto sostanzialmente in desuetudine: si tratta della “grazia sovrana” prevista quale prerogativa esclusiva del Capo dello Stato dall’articolo 87, penultimo comma. In questo caso la obsolescenza non è stata conseguenza di un intervento normativo, bensì di un progressivo self restraint dei Presidenti succedutisi, i quali hanno compreso, con una sensibilità istituzionale di cui va dato atto, come la progressiva evoluzione dell’ordinamento penitenziario, sempre più raffinatosi ed ampliatosi, abbia reso quasi sempre ingiustificato il ricorso alla grazia. Al proposito è di grande interesse la lettura di un elaborato che la stessa Presidenza ha diffuso per dar conto della gestione del proprio potere di incidenza sulle pene. E’ da ricordare, peraltro, che anche in taluno degli ormai pochissimi casi in cui il Capo dello Stato ha fatto ricorso a tale potere si sono levate forti critiche e non ingiustificate perplessità.
Tornando alla questione del sovraffollamento, va ricordato che la rapida riduzione del numero dei reclusi nel biennio 2012/2014 non ha determinato – a differenza di ciò che sempre accadeva con gli indulti – contraccolpi in termini di accrescimento dell’allarme sociale, mentre fu accompagnata dalla adozione di ulteriori misure, alle quali accennerò tra un momento, ed anche da un certo ampliamento del parco carceri grazie sia grazie all’apertura di alcuni nuovi istituti, sia al recupero di posti inutilizzati.
Con questo complesso di iniziative - stimolate dalla voce autorevole e preoccupata del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, armonizzate dalla sapiente guida di un ministro sensibile e competente quale Paola Severino, attuate da una Amministrazione penitenziaria in gran parte tesa al risultato e spronata da un vice capo del Dipartimento quale Luigi Pagano, profondo conoscitore della realtà penitenziaria, e con lui da alcuni bravi direttori generali, direttori di istituto e provveditori regionali e grazie anche, in misura tutt’altro che marginale, a una Magistratura di sorveglianza sensibile alla necessità di superare una situazione spesso oltre il limite del trattamento disumano, si ottenne il grande risultato che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 4 dicembre 2014, in occasione della verifica che la C.E.D.U. aveva fissato per l’anno successivo alla definitività delle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani, ebbe a “felicitarsi” con l’Italia riconoscendo che si era operato un miglioramento tale che i casi potevano ormai essere trasferiti nelle procedure standard.
Come ho accennato sopra, in quel brevissimo, convulso biennio venne adottato dal DAP un complesso di misure organizzative interne finalizzate a modificare il trattamento dei reclusi. Molte riguardarono modalità minute, ma estremamente rilevanti nella vita quotidiana di un carcere, come le visite dei familiari, la corrispondenza, la tutela della salute, il lavoro. Senza diffondermi su tali disposizioni – che, ripeto, sembrano di poco conto, ma in realtà pesano molto nella vita nel carcere – voglio ricordare tre interventi che rispecchiavano una nuova filosofia della pena detentiva. Il primo consistente in una maggiore apertura delle celle finalizzata ad ottenere che i tempi della vita in comune divenissero, di regola e per detenuti di non grave pericolosità, la maggior parte del tempo diurno vissuto dal recluso; il secondo, correlato a tale maggiore apertura, consistente nella adozione di strumenti diretti ad accentuare la responsabilizzazione del detenuto; il terzo destinato alla modernizzazione delle modalità operative della Polizia penitenziaria negli istituti. Tali modalità dovevano diventare maggiormente “dinamiche”, superando l’idea del posto di vigilanza fisso per realizzare, fin dove possibile, l’idea del pattugliamento del territorio, della conoscenza dei soggetti, della sicurezza anche preventiva.
Non tutto di tale filosofia è stato realizzato anche a causa della miopia di una certa politica e di uno dei sindacati autonomi di polizia. Tuttavia, i frutti positivi di quella impostazione – ovviamente da attuare con accortezza e non estensibile all’intero universo carcerario – sono evidenti in non pochi istituti le cui modalità operative da Milano, Roma, Padova, dalla Sardegna, alla Sicilia e alla Toscana si sono diffuse pressoché nell’intero territorio, seppure a macchia di leopardo, vedendo l’aumento del lavoro anche qualificato, un clima interno più accettabile e la riduzione degli episodi di aggressività, autolesionismo e violenza. Pensando all’oggi, ciò su cui occorre soprattutto lavorare è l’idea di un “patto” di responsabilità realizzato attraverso un momento di impegnativa presenza personale da parte della istituzione tendente a far comprendere al detenuto che il suo recupero si attua attraverso la assunzione di responsabilità negli spazi di autonomia, pur relativi e controllati, che gli vengono affidati. Ciò corrisponde alla idea di comunità carceraria come un paese, seppure provvisorio, dove abituarsi al rispetto delle regole di convivenza e dove assumere un ruolo produttivo per anticipare ciò che ci si attende con la liberazione definitiva. Un obiettivo ambizioso, ma non impossibile se attuato con gradualità e capacità di discernimento.
Dal 2014 la popolazione penitenziaria, come era stato previsto, ha ripreso a crescere ed oggi ha superato la soglia delle 60 mila unità. Si tratta di una soglia critica, che ripropone in parte gli stessi problemi degli anni scorsi. Scrissi allora che occorre insistere sulle misure alternative. Queste misure vanno non soltanto difese, ma anche potenziate. Tuttavia è dannoso ignorare che in Italia occorrono anche nuove carceri perché la popolazione reclusa difficilmente potrà rimanere a lungo sotto le 70 mila unità. Dobbiamo essere consapevoli che non esiste nessuna contraddizione tra una linea di potenziamento delle alternative al carcere e la consapevolezza che essendo il carcere oggi ineliminabile è necessario evitare la replica di fenomeni di sovraffollamento.
Un’ultima considerazione. E’ un errore sovraccaricare il sistema penale. Vanno potenziate le sanzioni extrapenali rendendole più efficaci, più certe, eque e corrette nella gestione. Sanzioni di facile e pronta applicazione che non consenta le tante astuzie in cui è maestro il nostro Paese.
Pochi esempi. In una discoteca vengono ammessi mille giovani quando i posti sono cinquecento. Alcuni giovani muoiono per la avidità dei titolari. La sanzione penale in un caso simile è inevitabile, ma occorre ancor prima e immediatamente che il locale sia sprangato e tale resti per anni. Occorre che al gestore venga tolta per sempre la autorizzazione senza consentire facili elusioni come il trasferimento a un congiunto o un amico.
Altro esempio: omicidio stradale di chi è ubriaco o drogato. Sanzione penale, d’accordo, ma, ancor prima, confisca immediata del veicolo chiunque ne sia proprietario (il proprietario facilone diventerà creditore dell’affidatario) salvo il caso di furto, e rottamazione pure immediata se si ritiene la vendita meno conveniente. Reazione analoga nel caso di incidente del non-assicurato. Vi è un diffuso sistema elusivo attraverso intestazioni fittizie a soggetti o società fasulle finalizzato ad evitare esborsi del premio assicurativo, delle sanzioni e simili. E’ evidente che anche in tali casi la sanzione penale, quando fosse inevitabile, va comunque preceduta da una risposta amministrativa che deve essere immediata, libera da questioni di pregiudizialità, fondata su un accertamento estremamente semplificato.
Si tratta di un paio di banalissimi esempi, ma è certo che un ventaglio di sanzioni non penali, purché adeguatamente deterrenti, immediate, imparziali, avrebbe una notevole capacità di prevenzione. Ciò significa che nel medio periodo avremmo un sicuro e notevole sgravio del lavoro dei Tribunali penali. Ai quali va piuttosto riservato il compito di sanzionare quei funzionari amministrativi che per incapacità o peggio concorrono nella produzione dell’anomalia tutta italiana dell’abnorme ricorso alla pena.
Keyword: esecuzione penale esterna, probation, riforma, misure di comunità, organizzazione, messa alla prova, diritti.
Abstract: l’esecuzione penale esterna adulti nasce e si configura come una modalità non accessoria al carcere ma con un proprio mandato e una propria autonomia. Dopo il suo accorpamento con la giustizia minorile e la nascita del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità ci si aspettava dalla riforma dell’Ordinamento Penitenziario, varata nel 2018, un rilancio dell’esecuzione penale esterna grazie a misure come la probation. Così non è stato.
1. Che cosa fa l’esecuzione penale esterna oggi?
Per rendere meglio comprensibili senso e struttura dell’esecuzione penale esterna oggi in Italia è forse più utile partire da cosa essa fa; questo perché, in generale, il prodotto del lavoro sociale può essere più facilmente afferrato, data la sua natura relazionale, se viene “oggettivato”, vale a dire reso riconoscibile e posto di fronte ad un osservatore – problema che, del resto, riguarda in genere tutti i sistemi di lavoro che attengono alla “cura” o alla presa in carico della persona (Manoukian, 1998).
Cominciamo con il dire che il sistema dell’esecuzione penale esterna italiano nell’anno 2017 ha seguito 77.070 persone, di cui 53.578 soggetti in esecuzione di pena esterna e 23.492 in messa alla prova. A questi si aggiungono i 15.200 detenuti seguiti in osservazione e trattamento intramoenia.
Volendo meglio dettagliare l’universo in esame possiamo osservare che: 28.219 sono stati i soggetti in affidamento in prova al servizio sociale, 25.483 soggetti in detenzione domiciliare, 1.569 soggetti in semilibertà e in semidetenzione, 5.968 in libertà vigilata e libertà controllata, 15.831 soggetti al lavoro di pubblica utilità ed infine 23.492 soggetti in messa alla prova con sospensione del procedimento ex L.67/14.
Dalle statistiche ufficiali risulta che al 31/12/17 i soggetti che hanno scontato la condanna definitiva in regime intramoenia sono stati 37.451, mentre ben 48.385 sono stati i soggetti in esecuzione penale esterna. In sintesi, se consideriamo l’intero universo dei condannati emerge come il 53% di essi abbia scontato la pena in esecuzione penale esterna e solo il 47% in regime detentivo. Altro accostamento, non del tutto improprio in considerazione delle molteplici variabili qualitative dell’oggetto d’analisi, potrebbe essere fatto tra i 19.815 detenuti che risultano ristretti in attesa di una condanna definitiva e i 23.492 soggetti in sospensione del procedimento con messa alla prova ex L.67/14.
In ogni caso, i dati statistici rendono più chiaro e d’immediata evidenza il fatto che in Italia il sistema dell’esecuzione penale nel suo insieme, sia pure per condanne definite di media o lieve entità, si realizza attraverso i programmi d’inclusione sociale e di controllo di un complesso sistema organizzativo appositamente dedicato, quello degli uffici di esecuzione penale esterna, con interventi di prossimità realizzati a seconda della capacità inclusiva delle comunità locali, sempre più chiamate a svolgere un ruolo da “co-protagonista” nell’opera d’inclusione sociale e nella riparazione.
Alla luce di quanto fin qui detto è ora più semplice mostrare l’identità di questo complesso sistema: un’organizzazione che è presente sull’intero territorio nazionale attraverso 11 Uffici dirigenziali con compiti di coordinamento regionale o sovraregionale, denominati Uffici Interdistrettuali di esecuzione penale esterna (UIEPE), 18 uffici di coordinamento distrettuali denominati Uffici distrettuali di esecuzione penale esterna (UDEPE) ed infine 43 Uffici Locali di Esecuzione Penale Esterna (ULEPE), con competenza tendenzialmente provinciale e 11 sezioni distaccate.
2. Nasce il Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità
Dal 2015, con il DPCM 15 giugno n. 84 (“Regolamento di riorganizzazione del Ministero della Giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche”), gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (uepe) fuoriescono dal comparto ministeriale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - dove risultavano iscritti a seguito della loro istituzione con il DPR 354 del 1975 - e, dopo trent’anni, transitano nel Dipartimento della Giustizia Minorile, il quale diviene ora Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità.
Il nuovo Dipartimento, oltre alle funzioni attribuitegli in materia di minori, amplia la competenza con interventi dedicati all’esecuzione penale esterna e alla messa alla prova degli adulti.
Questa riorganizzazione si riverbera localmente ma ha un’estensione che ricopre l’intero territorio nazionale e mantiene l’obiettivo di sostenere, orientare e controllare i soggetti condannati in via definitiva che scontano una pena del tutto o in parte fuori dal carcere, favorendone il reinserimento sociale. Dal 2014, inoltre, con l’introduzione della “messa alla prova” per adulti ex L.67/14, gli uepe operano anche nei confronti degli imputati in collaborazione con la magistratura di cognizione e l’avvocatura.
Il sistema dell’esecuzione penale esterna adulti opera principalmente per tutti coloro che scontano una pena all’esterno ma anche all’interno degli istituti, partecipando anche all’osservazione e al trattamento dei detenuti intramoenia.
Il personale, oltre ai ruoli amministrativi e di contabilità, è prevalentemente di servizio sociale, anche se a seguito della riforma del 2015 le piante organiche sono state allargate - sebbene ancora oggi solo in parte o solo formalmente - a esperti psicologi, educatori e mediatori, nonché alla polizia penitenziaria, quest’ultima con un ruolo nuovo in linea con l’obiettivo di favorire percorsi d’inclusione sociale e per garantire il controllo e le esigenze di sicurezza sociale della comunità esterna.
Questo riferimento al nuovo quadro organizzativo dell’Esecuzione Penale Esterna, seppur breve, è d’obbligo per comprendere aspettative e prassi legate al cambiamento introdotto dalla recente Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, entrata in vigore il 10 novembre 2018, aspettative che verranno riprese a chiusura del testo.
3.Perimetro e conseguenze della riforma dell’Ordinamento Penitenziario
La riforma portata dai decreti legislativi n. 123 e n. 124 ha dato (parziale) attuazione alla legge delega 23 giugno 2017, n. 103, (la cosiddetta Riforma Orlando); in particolare sul versante esecuzione penale intramoenia, il d. lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 (Riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario), in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere g), h) e r), della legge 23 giugno 2017, n. 103.
Nell’ambito della complessa riforma va compreso infine anche il d.lgs. n. 121 relativo alla Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 81, 83 e 85, (lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103.
Entrando nel vivo del d. lgs. 2 ottobre 2018, n. 123 e con particolare riguardo alle disposizioni dei capi II e III relativi rispettivamente alla semplificazione delle procedure e alle modifiche in tema di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, emerge il seguente quadro:
al Capo II (Disposizioni per la semplificazione dei procedimenti) l’art 4, modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione, al comma 1 lettera a) prevede la modifica dell’art. 656 CPP (Esecuzione Pene Detentive), stabilendo una riduzione dei tempi per la semplificazione della procedura, laddove introduce per le istanze dei condannati dalla libertà il termine di quarantacinque giorni dall’avvenuto ricevimento dell’istanza, entro il quale il Tribunale di Sorveglianza è tenuto a decidere, e comunque non prima dei trenta giorni.
Per quanto concerne il procedimento di sorveglianza di cui all’art 678 CPP, l’introduzione del comma 1-ter) dispone che, quando la pena da espiare non è superiore a un anno e sei mesi, per la decisione sulle istanze di cui all’art. 656, comma 5, cpp, il presidente del Tribunale di sorveglianza, acquisiti i documenti e le necessarie informazioni, designa il magistrato relatore e fissa un termine entro il quale questi, con ordinanza adottata senza formalità, può applicare in via provvisoria una delle misure menzionate all’art. 656 comma 5 citato.
Il termine di opposizione per l’ordinanza di applicazione provvisoria è di dieci giorni, al termine del quale il Tribunale di Sorveglianza conferma senza formalità la decisione del magistrato. La semplificazione del procedimento di sorveglianza per i cosiddetti “liberi sospesi” attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di decisione in via provvisoria sulla concessione della misura con ordinanza emessa “senza formalità”, che potrà essere validata dal Tribunale di sorveglianza con le stesse modalità, trascorsi dieci giorni.
L’art. 5 (Modifiche in tema di sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà e di sospensione e revoca delle misure alternative ) novella l’art. 51 ter della L354/75, attribuendo al Presidente del Tribunale di Sorveglianza il potere di eseguire, e non solo di adottare, il provvedimento di cessazione di una misura alternativa perché non più ammissibile, con il conseguente accompagnamento nell’Istituto di pena disposto direttamente dal giudice.
All’art 6 (Disciplina delle pene accessorie in caso di concessione delle misure alternative) l’introduzione all’art 51 del comma quater O.P., prevede che, in caso di applicazione della misura alternativa alla detenzione, sono eseguite anche le pene accessorie, salvo che il giudice che ha concesso la misura, tenuto conto delle esigenze di reinserimento sociale del condannato ne disponga la sospensione, e nel caso di revoca ove disposta l’applicazione delle pene accessorie, il periodo espiato è computato ai fini della loro durata.
L’art. 7 (Ulteriori misure di semplificazione in tema di accesso alle misure alternative) alla lettera a) modifica l’art. 47 O. P., comma 2, introducendo la previsione di un mese di osservazione da parte dell’ufficio di esecuzione penale esterna, prodromico all’ottenimento dell’affidamento anche per coloro che propongono l’istanza dallo stato di libertà, già previsto per le richieste intramoenia.
Altra novità riguarda il riformato art. 57 O.P. (Legittimazione alla richiesta di misure) che amplia la possibilità di presentazione dell’istanza per ottenere l’ammissione ai benefici di legge alternativi, permessi e licenze, liberazione anticipata, remissione del debito, oltreché per il condannato anche per i prossimi congiunti, per il difensore e per i componenti del Gruppo di Osservazione e Trattamento.
Infine, l’art 8 (Modifiche in tema di comunicazioni e attività di controllo) introduce la possibilità di espletare il controllo territoriale da parte della polizia penitenziaria che, su indicazione del direttore dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e previo coordinamento con l’autorità di pubblica sicurezza, può controllare le prescrizioni contenute nei singoli programmi di trattamento individualizzati.
Il Capo III “Modifiche dell’ordinamento penitenziario in tema di competenze degli Uffici locali di esecuzione penale esterna e della polizia penitenziaria” all’art. 9 vede l’introduzione delle modifiche in tema di competenze dell’ufficio laddove all’art. 72, comma 2, lettera b) Dell’ordinamento penitenziario è prevista l’attività di osservazione del comportamento del soggetto quale ulteriore approfondimento conoscitiva del medesimo, in vista dell’applicazione di una misura alternativa.
Da ultimo, il Capo IV “Disposizione di vita penitenziaria”, in particolare l’art. 11 (Modifiche all’ordinamento penitenziario in tema di competenze degli uffici locali di esecuzione penale esterna e della polizia penitenziaria), rinforza l’intervento dell’esecuzione penale esterna, finalizzandolo all’inclusione sociale dei condannati intramoenia; in particolare tramite il richiamo all’uso di modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione.
La lettera d) modifica l’art. 13 O. P., introducendo e rinforzando le finalità trattamentali individualizzate del condannato intramoenia, laddove, attraverso l’osservazione scientifica della personalità, nell’ambito della quale, al di là degli aspetti psicofisici e delle cause determinative della commissione del reato, viene valorizzata l’attività di riflessione del reo (condannato o internato) sul fatto criminoso, sulle motivazioni, sulle conseguenze cagionate alla vittima e sulle possibili azioni di riparazione. Viene ridotto da nove a sei mesi il termine entro il quale occorre formulare un programma trattamentale dall’ingresso in istituto del soggetto.
Altra novità è offerta dalla modifica dell’art. 15 O. P. che prevede progetti di pubblica utilità a valere sui programmi trattamentali dei detenuti e, la previsione, contemplata all’ art 45 OP, dell’iscrizione per il detenuto o internato privo di residenza anagrafica nei registri della popolazione residente del comune dove è ubicata la struttura; quanto sopra per far fronte alle esigenze dei dimittendi senza fissa dimora e tuttavia solo su segnalazione del Direttore.
Sempre nell’ottica dei cambiamenti introdotti dal Decreto legislativo 124 a valere sulle modifiche delle competenze del sistema dell’esecuzione penale esterna, al CAPO II, l’art. 20 OP introduce la creazione di una commissione interna aperta anche al funzionario di servizio sociale e al direttore del Centro per l’Impiego o suo delegato, per incrementare il lavoro penitenziario e il numero dei detenuti internati da occupare, ed ancora l’introduzione dell’art. 20 ter OP che prevede la possibilità per i detenuti e gli internati di richiedere l’inserimento in programmi di pubblica utilità sempre a titolo volontario e gratuito. Il lavoro di pubblica utilità è configurato come un elemento del trattamento rieducativo per detenuti e internati e per coloro che non hanno i requisiti per essere ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21. Questa si qualifica come una possibile azione responsabilizzante del detenuto nei confronti del bene comune.
Infine l’Ufficio di esecuzione penale esterna dovrà produrre l’esito di un’indagine finalizzata alla concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, misura che prima era prevista soltanto per l’istanza intramoenia.
Ancora, alla lettera b), viene modificato l’art 57 O.P. (legittimazione alla richiesta di misure) che allarga la presentazione delle istanze di ammissione ai benefici di legge alternativi alla detenzione, ma anche ai fini di quanto previsto dagli artt. 30, 52, 53, 54 e della remissione del debito, oltre al condannato e all’internato, anche ai prossimi congiunti o al difensore, introducendo peraltro la legittimazione del gruppo di osservazione e trattamento a proporre la concessione di una misura.
4. Una riforma riuscita?
Sono molti coloro i quali hanno definito questa riforma del sistema penitenziario come una versione ridotta se non addirittura mutilata. Ció è molto evidente in tema di esecuzione penale esterna, laddove è venuto meno l’ampliamento delle misure alternative a causa di un’interpretazione “ideologica” del sistema e della c.d. probation. Una riforma in realtà era fortemente auspicata ed attesa, specie in considerazione del recente disegno riorganizzativo del 2015 che ha posto l’intero asse dell’esecuzione penale esterna dentro il Dipartimento della Giustizia Minorile, prefigurando un’azione di sviluppo dell’obiettivo relativo all’inclusione all’esterno attraverso misure e sanzioni di comunità, in stretta aderenza ad un uso della pena detentiva come extrema ratio. A fianco del disegno riorganizzativo, questa riforma risulta invero parziale, debole, di certo non ha orientato l’azione degli uffici verso i moderni sistemi di probation; di contro sembra piuttosto, almeno in parte, di essere ritornati indietro, laddove si incrementa e rinforza l’azione intramuraria, recuperando una vecchia rappresentazione dell’esecuzione penale esterna nuovamente a servizio dell’obiettivo penitenziario intramurario da un lato e, dall’altro, prevedendo delle forme di semplificazione e snellimento, ancorate sempre al vecchio quadro normativo, che sembrano, più che altro, motivate dal volere essere d’aiuto a sistemi organizzativi e amministrativi quali i Tribunali di sorveglianza, impossibilitati spesso a dare corso a tutte le richieste.
È forte la sensazione che questa occasione mancata sia diversa dalle altre e ciò perché quello che ci si attendeva – vale a dire una nuova forma di probation a cui dedicarsi con nuovi dispositivi anche teorici - era la risposta allo stimolo prodotto dalla nota sentenza “Torreggiani” del 2013, dalla quale sono scaturiti per la prima volta nuovi concetti come la “sicurezza dinamica” dentro gli istituti o la “messa alla prova” per gli adulti.
5. L’esecuzione penale esterna come leva abilitante
Alla luce di quanto fin qui detto, possiamo chiederci se gli uffici di esecuzione penale esterna - già strumenti per la realizzazione del percorso penale - non attendano un riconoscimento anche quali leve per l’abilitazione dei singoli, colpevoli di reato, e delle comunità di riferimento; altrimenti non si capirebbe la ragione del nuovo Dipartimento in cui sono confluiti gli UEPE. Se, infatti, lo sviluppo locale va inteso come l’esito di un affrancamento dei singoli dagli ostacoli strutturali che impediscono loro di potersi emancipare e agire, allora ne consegue che non è sufficiente lavorare solo con i soggetti beneficiari delle misure alternative alla detenzione.
Come spiega bene Marta Nussbaum: “Garantire una capacità a una certa persona non è sufficiente a produrre stati interni di disponibilità ad agire; è almeno altrettanto necessario predisporre l’ambiente materiale e istituzionale in modo che le persone siano effettivamente in grado di funzionare”. [M. Nussbaum, 2002]
Sotto tale profilo, allora, si comprende bene che le sole capacità individuali, prive di un contesto strutturato in cui farle agirle liberamente, risultano del tutto inutili alla crescita individuale e allo sviluppo generale. Per questo, organizzazioni strutturate come gli UEPE possono lavorare anche per accrescere le “capacità combinate”, definite dalla somma delle capacità individuali e delle condizioni istituzionali e sociali in cui dette capacità interne funzionano.
Ne consegue che le misure alternative, strumento dell’esecuzione penale esterna, dovrebbero contribuire a creare territori abilitanti, vale a dire comunità in cui le risorse del singolo possano esprimersi e farlo crescere. Su questo occorrono politiche penitenziarie che sappiano identificare, oltre la pena, un piano di intervento che abbia come obiettivo le istituzioni dedite all’esecuzione della pena, quale attori di primo piano nella ricostruzione del legame sociale, la sola condizione per la tenuta della società italiana, ad oggi fragile e più che mai sull’orlo della disgregazione.
Di contro, è sempre più evidente, soprattutto ai tecnici della pena, che l’istituzione penitenziaria, se lasciata da sola, rischia di essere un altro contenitore compartimentato separato dalla legge, dal giudizio, ma soprattutto dalla comunità, quella stessa comunità da dove ha origine ogni forma di esclusione o criminalizzazione.
Del resto, se l’escluso viene lasciato al solo codice penale, ai dottori della legge o alla filantropia, è forte il rischio che l’istituzione penitenziaria diventi solamente e tristemente “guardiana delle case dei poveri”.
6. Bibliografia
Censis, rapporto annuale 2018
Statistiche www.giustizia.it
Bove Valeria, La messa alla prova, Quid Iuris n.3, 2018;
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Canepa, Marcheselli, Merlo, Lezioni di diritto penitenziario, Ed. Giuffrè, 2002;
Canepa, Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Ed Giuffrè, 2008;
Colombo Gherardo, Il perdono responsabile, Ed. Ponte alle Grazie, 2011;
De Vito, Camosci e Girachiavi. Storia del carcere in Italia, Ed. La terza, 2009
Fiandaca Giovanni, Prima lezione di diritto penale, Ed. Laterza 2017
Fabio Fiorentin, Osservatorio della giustizia penale- misure alternative alla detenzione, 2017
2012 Ed Giappichellio, Torino;
Mannozzi e Lodigiani, La giustizia riparativa: Formanti, parole e metodi, Ed Giappichelli, 2017;
Nussbaum Marta, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino Bologna 2002. Pag 82
Rodotà Stefano, Un’utopia necessaria, Ed. Laterza 2016
Ruggiero Vincenzo, Il delitto, la legge e la pena, la contro idea abolizionista, Ed.EGA Gruppo Abele, 2011;
Vergani Emilio, Costruire visioni. Fare il mondo come dovrebbe essere, Exorma Ed., Roma 2016.
Stato e persona nell’era della paura*
di Marco Dell'Utri
1. L’accostamento dei temi del potere dello Stato e dei diritti della persona al sentimento della paura risponde ai termini di un lessico antico.
La valenza politica della paura risale, nella storia del pensiero e delle idee sull’arte di governo, alle pagine del Principe di Machiavelli, là dove le qualità dell’uomo di potere appaiono misurate sull’attitudine a procurare la soddisfazione dello spontaneo ed elementare bisogno umano di protezione dei sudditi.
Ancora più evidenti, nella prospettiva dello scambio tra la prestazione di sicurezza del sovrano e la cessione di libertà dei singoli, sono i passaggi del Leviatano di Hobbes (il terrificante mostro biblico) sul carattere simbolico del pactum subiectionis; segno di un preteso contrattualismo che, pur coattivamente imposto dall’alto, comunque si lega, idealmente, a una promessa di protezione.
Più vicina a noi nel tempo, nello sviluppo del pensiero archeologico di Michel Foucault, l’idea di fondo della pervasività costrittiva del potere finisce col travalicare i confini della riflessione dei teorici dello Stato assoluto, e si fa espressione costitutiva e identitaria del potere dello stato moderno in quanto tale, e della stessa concezione moderna della politica che rimonta fino alle catastrofi del XX secolo.
Secondo i canoni della governamentalità foucaultiana, il potere dello stato moderno è il lascito ereditario dell’antico potere pastorale della Chiesa: potere di conduzione e di cura delle anime sperse e impaurite, da guidare e dirigere secondo quegli stessi canoni che indurranno il Grande Inquisitore dostoevskiano a rimproverare, al Cristo redivivo, l’assurda parola sul libero arbitrio.
È proprio lo strutturale rapporto antinomico tra bisogno di sicurezza ed esercizio della libertà a tracciare l’orizzonte moderno della politica: nessuna prestazione di sicurezza collettiva potrà mai efficacemente adempiersi in assenza di adeguate restrizioni delle libertà individuali.
2. Dalla seconda metà del ‘900 (compiuta la parabola dello stato moderno con le follie del nazifascismo e del sovietismo malamente sopravvissuto fino al termine degli anni ‘80), il rapporto tra politica, paura e bisogno di sicurezza assume contorni nuovi.
Con la progressiva democratizzazione delle società avanzate e l’affermazione delle cosiddette costituzioni del dopo Auschwitz (secondo il parallelo percorso dei principi del codice di Norimberga e della rivoluzione del consenso informato - per cui nulla è più possibile al potere dello Stato sul corpo dell’individuo, se non legittimato dal consenso della persona), la prestazione di sicurezza del sovrano non legittima più, di per sé, la limitazione della libertà: il potere politico dev’essere in ogni caso legittimato dal consenso collettivo effettivamente espresso dall’intero corpo sociale.
Significativamente, il testo della Convenzione europea sui diritti dell’uomo sottolinea (agli artt. 8-11) come eventuali limitazioni al diritto della persona al rispetto della propria vita privata e familiare, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, alla libertà di espressione o alla libertà di riunione e di associazione, sono possibili solo attraverso l’adozione di misure legislative che, a loro volta, costituiscano, in una società democratica, l’unico mezzo indispensabile per la tutela della sicurezza, della difesa dell’ordine e della protezione dei diritti e delle libertà altrui.
L’imbrigliamento del potere attraverso la condizione della necessaria acquisizione del consenso collettivo sollecita il singolare ritorno delle classi dirigenti contemporanee all’impiego di tecniche antiche, che richiamano alla memoria le pratiche già sperimentate nell’esperienza della democrazia ateniese, come attesta la riscoperta della retorica o dell’arte della persuasione.
Occorrerà procurarsi o fabbricare il consenso politico attraverso il ricorso alla sollecitazione emotiva, più ancora del discorso razionale.
Il modello commerciale della pubblicità, funzionale alla più larga distribuzione dei prodotti di massa, diventa il parametro metodologico o strategico della fabbricazione scientifica del consenso politico.
Si tratta della dimensione critica più profonda e delicata dei temi imposti dalla crisi delle democrazie contemporanee.
Non casualmente, nel cuore tenebroso del Novecento, Martin Heidegger selezionerà, tra le diverse passioni mirabilmente descritte da Aristotele nel secondo libro della Retorica, la paura (il Φόβος) – e dunque l’emozione dettata da una minaccia incombente – come la disposizione dell’animo collettivo tra le più propizie su cui far leva a fini di persuasione e di consenso.
Da qui il mutamento di strategia del potere, attraverso l’uso politico della paura: la paura rende docili e il bisogno di sicurezze induce più agevolmente il consenso alle limitazioni della libertà.
La risposta politica al bisogno di sicurezza, là dove si materializza attraverso la coazione fisica nelle società civilmente involute e in quelle totalitarie, si risolve, nelle società democraticamente più sofisticate, nella surrettizia e massificata induzione di modelli o stili di vita disponibili alla conformazione, e dunque nell’organizzazione strutturale del controllo sociale dei comportamenti, che lega l’idea carceraria del Panopticon di Jeremy Bentham alla riflessione foucaultiana della sorveglianza generalizzata.
Si tratta del consolidamento della c.d. società della sorveglianza ritratta dai capolavori di un genere letterario (quello delle c.d. distopie politiche) che con lungimirante sensibilità restituisce il tratto, mostruoso e nascosto, della vita collettiva delle contemporanee società di massa.
Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley propone, negli anni ’30, la descrizione futuribile dell’uniformazione materiale dell’uomo (della produzione in serie, fordista, dell’umano) attraverso la cancellazione della sua storia, delle sue memorie culturali e di una qualunque idea della diversità.
È l’oscura prefigurazione del tempo a venire (quella che alimenterà i sogni, o gli incubi, di una certa letteratura o di una certa cinematografia al confine tra fantascienza e orrore) ribadita da un altro capolavoro distopico – il 1984 di Orwell, composto a ridosso degli anni della seconda guerra mondiale – che apre allo sguardo comune il carattere perverso dei legami tra il potere politico e la sorveglianza totale del Grande Fratello.
La sorveglianza di cui si parla è propriamente il controllo sul rispetto di standard e di uniformità di stili di vita; lo stato controllante è lo stato che induce l’idea dell’esistenza conformata come l’unica modalità di realizzazione della prestazione di sicurezza: una modalità che necessariamente nega o rifiuta le differenze.
Con il termine differenza occorre qui intendere, non solo (o non tanto) il dissenso o la protesta – che pure possono essere consentite o tollerate, al fine di propagandare l’idea di una (superficiale) apertura al dialogo democratico – ma, più in profondità, il rilievo negativo delle difformità dei valori o degli stili di vita di individui e di minoranze.
Il limite positivo che il costituzionalismo interno o sovranazionale impone alla codificazione formale del controllo sociale dei comportamenti, non impedisce che questo avvenga surrettiziamente, o di fatto, attraverso gli strumenti della tecnologia informatica, con la raccolta e l’indicizzazione di masse di dati personali (la vicenda del c.d. scandalo Cambridge Analytica costituisce solo una pallida idea del tema) e della comunicazione sociale (dalla televisione, al cinema, alla stampa, fino alla frequentazione scolastica e universitaria, ai dialoghi sul posto di lavoro, allo scambio sui social networks), attraverso i processi di normalizzazione culturale che preludono all’omologazione e al conformismo nei modi di conduzione e di realizzazione della vita delle persone.
Si tratta dei temi che, nel discorso esistenzialista di metà secolo, venivano traducendosi nella denuncia del conformismo come rischio proprio della convivenza e dell’heideggeriana dittatura del ‘si’ (si fa, si dice, si pensa...), ossia della tirannia dell’opinione o della chiacchiera fugacemente scambiata nel tratto superficiale della quotidianità.
Circolano, in queste forme di scambio (profittando della distrazione, della pigrizia o anche solo della stanchezza intellettuale), modelli di costruzione di senso e paradigmi simbolici che sono conseguenza di una drastica e ben selezionata riduzione dei temi del dialogo pubblico e, insieme, degli stereotipi comunicativi destinati a diffonderli.
Esemplificando, non è difficile, esponendo con studiata metodologia la frequenza delle incursioni furtive nei luoghi privati, unita al rilievo dell’inefficienza degli apparati statali, indurre il tema della legittimità dell’autodifesa, anche armata.
Neppure è difficile, attribuendo un calibrato rilievo formale alla comunicazione giornalistica delle periodiche follie terroristiche (malamente legate a confuse ispirazioni confessionali di matrice estera), insieme alla descrizione degli esiti fallimentari delle politiche di integrazione urbana degli stranieri, indurre l’idea dell’immigrazione come la fonte di pericolo par excellence per l’ordine e la sicurezza collettivi.
Ancora agevole, legando la cronaca civile all’happening di genere, risulta l’insinuazione del sospetto che la procreazione assistita, come una più realistica disciplina dell’adozione o la parità omosessuale, valgano a preludere alla catastrofica dissoluzione della famiglia tradizionale.
In breve, la gestione politica della paura tende a far leva sul naturale sentimento di inquietudine che inevitabilmente accompagna il rapporto con la diversità, nella misura in cui la diversità rappresenta il simbolo di ciò che non è noto, di ciò di cui non sono conosciuti, né i termini, né le forme.
E le espressioni più profonde, e ultimative, di ciò che non è noto sono proprio le conseguenze dell’esercizio della libertà (la paura delle responsabilità) e il pensiero stesso del futuro, rispetto ai quali occorrerebbe saper assumere una posizione capace di scorgere – oltre la sconfitta della chiusura o della conservazione – i segni di una possibile apertura critica.
All’astratta declamazione della varietà del catalogo dei diritti della persona (dal diritto all’informazione, a quello di manifestazione del pensiero, alle libertà associative, di riunione, di professione di fede, dalle forme di esplicazione della sessualità fino alle espressioni della libertà nell’esercizio delle preferenze di consumo) corrisponde, in senso largamente riduttivo, l’insinuazione di modelli culturali inclini a favorire un esercizio il più possibile conformato (o conformistico) delle prerogative individuali: finalità che pericolosamente si saldano con l’esigenza di uniformazione del gusto proprio del sistema della produzione di massa.
Il carattere paradossale del fenomeno può essere misurato se solo si rifletta come, tutto al contrario, il riconoscimento dei diritti comparve, tra i principi fondamentali della Costituzione italiana del 1948, come la solenne celebrazione dell’originalità della persona, affidata all’esercizio delle proprie libertà e delle prerogative di autodeterminazione (lo svolgimento della personalità di cui all’art. 2) fuori da ogni forma di controllo eteronomo.
La scelta adottata dall’Assemblea costituente (con riguardo alla tutela della salute sancita dall’art. 32 della Costituzione) di imporre al legislatore il limite assoluto costituito dal rispetto (non già della dignità, ma) della persona umana, nella sua integralità e originalità, volle significare il riconoscimento della libertà di ciascuno di costruire la propria nozione di dignità in funzione delle proprie scelte personali e dei valori individualmente perseguiti; l’identificazione dello spazio di praticabilità di quell’esistenza libera e dignitosa (dignitosa in quanto libera) che l’art. 36 della Costituzione andava legando ai temi del lavoro e della retribuzione.
Il vero tema politico degli anni a venire è dunque il tema (eterno) – oggi destinato a rinnovarsi con accenti di drammaticità – dello spazio riservato all’edificazione dell’autenticità della persona.
Volendo ridurre ai termini di uno slogan il senso ultimo del discorso, può affermarsi la necessità di coltivare, da parte di ciascuno – vorrebbe dirsi cartesianamente – una sorta di capacità dubitativa, un’attitudine a sospettare criticamente dei propri consensi pubblici e privati, cercando di sorvegliare con cura le ragioni che animano le adesioni prestate o i dissensi opposti alle continue offerte del mondo circostante.
3. Ci si può allora interrogare sui rischi cui è esposto il lavoro del giudice (o, più in generale, dell’interprete di testi giuridici) quando è richiesto di contribuire (com’è suo dovere, secondo il vincolante imperativo costituzionale) a garantire la praticabilità di quegli spazi riservati all’edificazione dell’autenticità della persona.
La vita dei testi giuridici (il diritto vivente) è ciò che risulta da quell’eterno dialogo tra le memorie culturali di una comunità (i principi e i valori sperimentati e filtrati dal suo tempo storico) e le emergenze del tempo presente; dall’incontro di tradizione e innovazione; dalla combinazione dinamica (talora tragica) tra cultura e politica.
Il tema dell’edificazione dell’autenticità della persona è valore compreso e conquistato nel tempo storico; si è imposto dalle pagine dei filosofi (dal sapere aude kantiano) alla violenza politica dei rivoluzionari americani e francesi, fino a percorrere il deserto delle drammatiche evoluzioni dello stato moderno caduto ad Auschwitz.
Le implicazioni dei processi di Norimberga, divenute materia di normazione costituzionale, sono la parte dove si colloca il diritto democratico e la cultura che spetta al giudice di difendere e garantire.
Quando si afferma che l’esercizio della discrezionalità politica, nell’ambito dei rapporti internazionali tra Stati, può avvenire legittimamente senza alcuna adeguata considerazione delle condizioni minime di rispetto della dignità delle persone e dei loro corpi ristretti, in assenza di un quadro definito di legalità, si fanno affermazioni che, pur quando possano trovar riscontro sul piano formale, insinuano veleni di cui è dubbio si siano intuiti con chiarezza le implicazioni e i pericoli.
Quando si afferma che il riconoscimento di un diritto a una morte dignitosa si porrebbe in palese contrasto con lo spirito della Carta costituzionale e con diverse norme della legislazione vigente, si rischia di assolutizzare in modo improprio una lettura del tutto opinabile del sistema, peraltro interpretato in termini diametralmente opposti dalle più recenti prese di posizione della Corte Costituzionale.
Sono passaggi che pure hanno trovato un’eco in taluni testi formali della nostra giurisprudenza e di cui sfuggono le ragioni o i motivi di coerenza con i principi della cultura democratica chiamata a opporsi alle ricorrenti forzature della politica.
Lungo gli itinerari dei diritti della persona capita di annoverare le occasioni del conflitto e della reciproca incompatibilità delle pretese: si ripropone, in questo contesto, un tratto caratteristico dell’esperienza giuridica del nostro tempo, che è quella dell’impossibilità di individuare ragioni assolute di prevalenza, là dove si rende opportuna la comparazione, il confronto e il dialogo tra prospettive differenti od opposte in vista di una possibile conciliazione.
Il modello dell’obiezione di coscienza è quello in cui, nel modo più esemplificativo, a una tecnica propria della società pluralista (qual è il diritto dell’obiettore di difendere, dallo strapotere dell’etica dei più, la fedeltà al sistema di valori cui è informata la propria coscienza morale) può accadere di incontrare, in termini di tragica contraddizione, l’esercizio di fondamentali prerogative altrui.
È un confronto per cui dallo stesso contesto pluralistico da cui muove il senso dell’obiezione di coscienza occorre si tragga anche l’indispensabile attitudine al bilanciamento delle istanze incompatibili, in nome della convivenza possibile e sul presupposto che il principio di autodeterminazione, per sua stessa natura, non può che ripudiare un esercizio delle proprie facoltà con effetti diretti di eterodeterminazione.
Anche nell’ambito delle forme di esercizio dell’obiezione di coscienza varrà imparare a smascherare l’abuso opportunistico, che risale all’iniziativa di singoli, così come l’ideologia che ne alimenta il ricorso strumentale da parte di minoranze fortemente organizzate a fini di sabotaggio di provvedimenti legislativi non condivisi.
Un approccio consapevole alla difficile attività di interpretazione dei testi giuridici richiede, nella prospettiva contemporanea dell’emancipazione di individui e di gruppi, la capacità di calare il formante legislativo in un contesto di formanti diversi, talora di livello anche superiore all’ordine legislativo, e di valorizzare gli aspetti di una normatività debole, flessibile o mite, suscettibile di insinuarsi in modo compatibile ed efficace nella disciplina dei singoli casi concreti.
La caratteristica verosimilmente più salente del diritto contemporaneo è quella di essere un diritto a vocazione giurisprudenziale, per cui è richiesta al giudice la capacità di svolgere un’adeguata riflessione a fini di coordinamento, di consolidamento e di sistematizzazione, per l’immanente necessità di rendere compatibili le diverse fonti che incidono contestualmente all’interno di un medesimo ambito collettivo.
Si è in precedenza accennato – ricordando i nomi di Aldous Huxley e di George Orwell – a talune tra le più note distopie letterarie del Novecento.
Da un’altra di queste – il Farheneit 451 di Ray Bradbury (composto nei primi anni ’50) – varrà trarre l’invito o lo spazio per una comune riflessione.
Il libro sull’incendio dei libri suggerisce, al termine del racconto, la speranza in una salvezza possibile, attraverso la custodia della memoria e del pensiero critico come servizio da offrire all’emancipazione di ciascuno e della collettività intera.
Chi, nel tempo presente, ha il privilegio di svolgere una funzione intellettuale, ha il dovere di non dimenticare mai, per la fruttuosità di quell’impegno, accanto alla dolente ricapitolazione delle miserie umane, il senso vivo di una responsabilità comune.
* Il testo riprende l’intervento svolto nel corso dell’Assemblea Nazionale di Area Democratica per la Giustizia, in Roma, il 23 novembre 2018, nell’ambito della Sessione dedicata a I diritti nell’era securitaria e della paura.
L’applicazione pratica del nuovo art. 360, n. 5, c.p.c. conferma che l’ambito del sindacato della Corte di Cassazione sui «fatti» non sia limitato alle sole ipotesi della mancanza formale della motivazione e dell’omesso esame di un dato materiale, garantendosi tuttora un controllo di legittimità sulla coerenza logica e sulla plausibilità delle conclusioni della decisione impugnata.
Sommario: 1. Sindacato di legittimità e motivazione della sentenza di merito – 2. Un controllo solo formale? - 3. La coerenza della sentenza di merito e l’interferenza della Corte di Cassazione - 4. L’omesso esame degli elementi istruttori - 5.Conclusioni.
1.Sindacato di legittimità e motivazione della sentenza di merito - Sono trascorsi già più di sei anni dall’entrata in vigore del nuovo art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla l. n. 134 del 2012, e risale ad oltre quattro anni fa la prima interpretazione che di tale norma diede Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053.
La formulazione del vizio di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» ha, in sostanza, ripristinato nel nostro ordinamento l’originario parametro di censura adottato dal Codice del 1942, fatta salva l’apparente innocua sostituzione della preposizione «circa» alla preposizione «di», niente più di un “solecismo” imputabile al legislatore del 2012, a dire delle Sezioni Unite.
Il testo del 1942 venne spiegato nella stessa relazione al Re del Ministro di Grazia e Giustizia Dino Grandi come un segnale da dare alla pratica giudiziaria, che aveva adattato le disposizioni del codice del 1865 (il quale, di per sé, non contemplava uno specifico motivo di ricorso in cassazione per vizio di motivazione) arrivando a delineare, accanto al vizio formale di motivazione, il cosiddetto «vizio logico» di motivazione, consistente nella mancanza di adeguate argomentazioni idonee a dimostrare che fosse «giusta» la soluzione delle questioni di fatto raggiunta nella sentenza. Poiché i limiti dell’«omesso esame di un fatto» vennero presto agevolmente elusi dai protagonisti del processo censurando la nullità della sentenza mal motivata per violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, e 156 c.p.c., già nel 1950 il legislatore reagì modificando l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ed adottando il testo «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio», dettato rimasto immutato fino al d.lgs. n. 40 del 2006, allorché il «punto» divenne, piuttosto, «un fatto».
La prima lettura della Riforma del 2012, data dalla pronuncia del 2014 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, intese, allora, la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, limitata alle fattispecie nelle quali sia ravvisabile la nullità della sentenza per «mancanza della motivazione», ai sensi dell’art. 132, n. 4, c.p.c.
Ciò fece dubitare parte della dottrina della compatibilità del sistema così delineato con l’obbligo di motivazione imposto dall’art. 111, comma 6, Cost., imputandosi alla Corte di Cassazione di aver ridotto a quattro i numeri dell’art. 360[1]. E’ vero che si richiede al giudice di merito la ricerca e la valutazione dei fatti, mentre “in Cassazione ciò che conta è il diritto”[2], ma sarebbe certamente inesatto pretendere che la Suprema Corte giudichi solo in diritto, dovendo essa comunque rilevare gli “errori di fatto” che abbiano causato errori di giudizio, in quanto l’errore che interessa la definizione della premessa minore dei vari sillogismi in cui si struttura una sentenza è errore che di regola ne inficia anche la conclusione[3].
Il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza di merito è, allora, l’unico mezzo attraverso il quale è possibile controllare la giustificazione giuridica e razionale della decisione giudiziale.
2. Un controllo solo formale?- Per Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, rimane oggetto del sindacato di legittimità la sola mancanza della motivazione intesa come «contenitore documentale», mancanza perciò percepibile dalla lettura del testo della sentenza impugnata, senza necessità di alcun raffronto con le risultanze processuali. Venivano individuate in tale pronuncia come fattispecie di inesistenza della motivazione, peraltro, anche quelle della «motivazione apparente», del «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili», e della «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile».
La lettura delle successive decisioni della Suprema Corte conferma, però, come i giudici abbiano data «sostanza» a tale controllo dichiaratamente solo formale della motivazione, attuando, nei fatti, tuttora una verifica di intima coerenza della decisione di merito, e cioè di connessione tra le parti di cui essa si compone.
Si è così ritenuta nulla, per mancanza del requisito dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., la sentenza che motivi l’accoglimento della pretesa sostanziale sulla base della lettura dei motivi esposti nell’atto introduttivo della domanda, dei documenti ad essa allegati e di una consulenza tecnica, senza riprodurre la parte di tali atti giustificativa della valutazione espressa[4]; parimenti nulla per “mancanza della motivazione” è stata dichiarata la sentenza che non consenta di cogliere le ragioni giuridiche della decisione[5].
E’ stata poi definita «apparente» la motivazione che consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento «di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice»[6].
La motivazione è, invece, intrinsecamente contraddittoria quando è strutturata su proposizioni successive che affermano che una stessa circostanza sia e non sia, ovvero su fatti reciprocamente escludentisi[7]. La verifica di non contraddittorietà attiene, allora, innegabilmente alla plausibilità del giudizio finale, ovvero proprio a quell’intima coerenza argomentativa della decisione che, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.
3. La coerenza della sentenza di merito e l’interferenza della Corte di Cassazione - Pure l’elaborazione di Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, preserva un sindacato della Corte di cassazione sulla «coerenza» della motivazione, sotto il profilo della «plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze».
D’altro canto, la verifica di non «implausibilità delle conclusioni» difficilmente può spiegarsi come controllo “esterno”, dimostrandosi, piuttosto, il frutto di un’analisi intrinseca dei contenuti della sentenza, a meno di non forzare l’assimilazione tra motivazione strutturalmente mancante nel “documento-sentenza” e “motivazione ineffettiva”.
Per Cass. 5 luglio 2017, n. 16502, ad esempio, senza remora alcuna, il controllo della Corte di cassazione sul procedimento logico inferenziale seguito dal giudice di merito, «pure restando assai limitato, deve persistere, a presidio dell’intima coerenza della conciliabilità delle affermazioni operate quale garanzia di attendibilità del giudizio di fatto a sua volta premessa di quello di diritto, quanto alla verifica della correttezza del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, come pure alla verifica della congruità – o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità – della premessa in sé considerata; in mancanza di tale congruenza o plausibilità, la motivazione sul punto resterà soltanto apparente».
4. L’omesso esame degli elementi istruttori - Seguendo l’insegnamento di Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, il mancato esame di un mezzo di prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui abbia determinato l’omesso esame circa un fatto storico decisivo della controversia e, segnatamente, quando la prova non esaminata offra la dimostrazione di una circostanza di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento.
Eppure, il riformato art. 360, n. 5, c.p.c., come visto, adopera la preposizione «circa» (un fatto decisivo), invece che «di».
Si fanno allora strada, anche su questo profilo, interpretazioni giurisprudenziali meno restrittive: altresì l’esame incompleto, incoerente o illogico di un mezzo di prova finisce talvolta per equivalere all’omesso esame del fatto che quella prova dovrebbe dimostrare[8].
Un «fatto» non può, del resto, dirsi insindacabilmente esaminato dal giudice di merito sol perché egli abbia esaminato una delle tante risultanze probatorie che di quel fatto dimostrano l’esistenza o l’inesistenza. Se un medesimo fatto è oggetto di più prove, il giudizio su quel fatto non può che essere l’esito di una valutazione combinata che includa tutte le prove che lo riguardano. Tale valutazione va operata considerando e comparando le diverse possibili versioni del fatto, per poi stabilire quale tra queste versioni risulti logicamente confermata da un grado più elevato di attendibilità. Chiedere alla Corte di cassazione di verificare la logicità della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie significa, dunque, non implorare da essa una nuova valutazione della ricostruzione della vicenda concreta, quanto invocare un controllo di legalità della decisione in riferimento all’applicazione delle norme di diritto che regolano l’accertamento dei fatti e la formazione del convincimento giudiziale.
In definitiva, l’omessa valutazione di una delle prove che verte sullo stesso fatto può rendere quel fatto non esaminato, agli effetti del vigente art. 360, n. 5, c.p.c.
5.Conclusioni.
La lettura della applicazione pratica che la giurisprudenza sta dando al nuovo art. 360, n. 5, c.p.c., dovrebbe acquietare coloro che avevano manifestato il timore che la Suprema Corte, col concorso del legislatore del 2012, avrebbe cancellato la rilevanza del vizio di motivazione quale oggetto del sindacato di legittimità.
Pur dovendosi riconoscere l’obiettiva maggiore complessità della formulazione del motivo di ricorso per ‹‹omesso esame circa un fatto››, i provvedimenti richiamati dimostrano come la Corte di Cassazione non stia svolgendo una pigra verifica burocratica dell’assolvimento soltanto formale dell’obbligo di motivazione, ed anzi spinga ancora il proprio controllo fino al riscontro che la decisione sia altresì apparentemente ”giusta”, ovvero razionalmente giustificata ed intimamente coerente.
Resta l’ostacolo selettivo della necessaria “decisività” del fatto non esaminato, ove intesa come connotazione di prognosi certa (e non solo possibile o probabile) di un diverso esito della controversia, atteso che la percorribilità di una diversa ricostruzione inferenziale della quaestio facti non appartiene per sua natura alla cognizione propria del giudice di legittimità. Con riguardo all’omesso esame di un fatto secondario, come anche alla mancata ammissione di un’istanza istruttoria, il filtro preliminare di decisività rischia, anzi, di gravare la Corte di Cassazione di un inesigibile riesame di tutto il materiale istruttorio acquisito alla causa e di una riformulazione del giudizio di fatto affidato al giudice del merito, ovvero di un improprio vaglio sull’ingiustizia di fondo della sentenza impugnata.
[1] L. Passanante, Le Sezioni unite riducono al « minimo costituzionale » il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 179 ss..
[2] P. Calamandrei, La Cassazione e i giuristi, in Studi sul processo civile, III, Padova 1934, 274.
[3] F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, IV, Padova 1931, 244 ss.
[4] Cass. 23 marzo 2017, n. 7402.
[5] Cass. 22 giugno 2015, n. 12864.
[6] Cass., sez. un., 3 novembre 2016, n. 22232.
[7] Cfr. Cass. 21 maggio 2018, n. 12527; Cass. 22 febbraio 2018, n. 4367; Cass. 9 novembre 2017, n. 26538.
[8] Cass. 27 luglio 2016, n. 15636, ha equiparato all’omesso esame di un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il giudizio «non radicato in un critico esame della documentazione prodotta»; per Cass. 31 maggio 2018, n. 13770, come per Cass. 29 maggio 2018, n. 13399, il mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio integra un vizio che può essere fatto valere ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.; secondo Cass. 12 aprile 2017, n. 9356, l’‹‹errore di percezione››, in cui sia incorso il giudice di merito nell’esaminare il contenuto delle prove offerte dalle parti, è invece censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c. Afferma, infine, Cass. 5 novembre 2018, n. 28174, che il travisamento della prova, e cioè la verifica che un’informazione probatoria utilizzata in sentenza sia contraddetta da uno specifico atto processuale, esclude che possa vertersi in ipotesi di cosiddetta ‹‹doppia conforme››, preclusiva del ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., giusta l'art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.
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