Sir – Cenerentola a Mumbai recensione di Franco Caroleo
Una difficile storia d’amore nell’India delle caste. Una critica sussurrata all’ipocrisia di un sistema sociale, nella contraddizione tra progresso e tradizione.
In questi giorni in sala c’è un film genuinamente indiano. Ma se state pensando a Bollywood siete fuori strada.
Sir - Cenerentola a Mumbai (titolo originale Sir, ma i titolisti italiani, invece di lasciarlo semplicemente così, non hanno perso la ghiotta occasione di giustapporre questa discutibile evocazione fiabesca), opera prima di Rohena Gera, tratteggia la difficile storia d’amore tra un ricco benestante di città (Ashwin) e la sua domestica (Ratna) che viene dai villaggi.
Ma, attenzione, niente strizzatine d’occhio alla commedia romantica improntata all’omnia vincit amor. No, qui la differenza di ceto tra i due protagonisti non cerca riparo nei sentimenti.
La Mumbai descritta da Gera è caotica, frenetica, piena di colori, di luci e di odori.
Così dinamica, eppure disvela all’interno il contraddittorio immobilismo della sua società, visceralmente conformata alla divisione in caste.
Ecco allora che proprio la divisione diventa il prepotente perno del racconto.
Le convenzioni sociali dividono plasticamente Ashwin e Ratna, come le sottili pareti dell’appartamento dividono l’elegante camera da letto del padrone (ateo ma religiosamente assorto nel suo Mac) dalla misera stanzetta (contornata di altarini votivi) della donna di servizio.
Divide l’abbigliamento: lui, vestito all’occidentale, con capi ricercati; lei, sempre e solo avvolta nel tradizionale sari.
Divide il cibo: lui a gustare invitanti pietanze comodamente seduto a tavola e lei tenuta a mangiare per terra con le mani (e questa dei domestici resta comunque una categoria “privilegiata” rispetto ad altre, perché non contrattualizzata ma regolarmente retribuita).
C’è un chiaro riferimento a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, in questa impossibilità di vivere pienamente un sentimento, seppure nello spazio minimo di un corridoio che divide e, al contempo, unisce.
La piccola rivoluzione di Sir (che è l’appellativo con cui Ratna si rivolge ossequiosa al suo datore di lavoro) sta tutta qui. Nel sussurrare, senza enfasi o romanticismi, una riflessione su un tabù dell’India di oggi.
Nell’agiato appartamento di uno sfavillante grattacielo si apre una parentesi di sguardi, di silenzi, di non detti, di gesti semplici tra due persone che appartengono a due classi diverse. E sembra poter affiorare un amore dolce, fragile, che ispira la fiducia di darsi all’altro.
Vibra quel bacio (l’unico) strappato nella confusione emotiva. È un attimo. Ma dura giusto il tempo di rendersi conto che la barriera castale è insormontabile, che l’umiliazione per la donna è dietro l’angolo, che per la ribellione ai costumi millenari non bastano un sorriso e delle belle parole.
La magia, il sogno: è tutta roba da favole (tanto care ai titolisti italiani), buone per illudersi?
Una famiglia alto-borghese indiana non potrebbe mai accettare che il figlio convoli a nozze con una domestica, ma anche la famiglia di lei verrebbe ricoperta dal disonore.
Chi è sotto, resta sotto. Ed è bene così. Forse.