ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’opera-continente di Pasolini e gli pseudo-intellettuali di oggi
Intervista di Andrea Apollonio a Roberto Chiesi
Roberto Chiesi è uno dei più profondi e autorevoli conoscitori dell’opera pasoliniana, non solo per essere da molti anni il responsabile del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna (assoluto punto di riferimento per gli studiosi del Poeta), ma anche per aver cercato, nelle vesti di critico letterario, tracce del genio pasoliniano nell’odierno scenario artistico. Giustizia Insieme l’ha intervistato.
A cento anni dalla nascita, come viene percepito Pier Paolo Pasolini oggi?
Viene percepito in molti modi: in generale come l'artista che ha saputo comprendere e descrivere in anticipo come saremmo diventati, come un artista di dimensione rinascimentale e come l'intellettuale che ha pagato con la vita le sue idee.
I giovani come reagiscono alle opere di Pasolini?
Devo dire che rimango spesso impressionato dalle reazioni dei giovani lettori o spettatori di Pasolini, nel senso che spesso sono colpiti nel profondo dalle sue parole e dalle sue immagini. Riesce ancora a parlare molto alle loro coscienze, a stimolarli, a suscitare delle reazioni, a metterli in crisi nel senso più positivo del termine. È probabile che molti ragazzi scoprano in Pasolini un antidoto alla mediocrità contemporanea, alla malafede di tanti pseudo-intellettuali di oggi, alla loro aggressività priva di qualsiasi senso, alla loro dialettica che è intesa soltanto ad aggiudicarsi al miglior compratore. Sono in vendita, mentre Pasolini non lo era.
Molti temi che Pasolini aveva lanciato e rilanciato nella sua opera artistica - il rispetto della diversità, l'affermazione degli orientamenti sessuali, l'emancipazione femminile - sono oggi patrimonio comune. Ma secondo lei il modo con cui vengono trattati, è il modo con cui Pasolini avrebbe voluto venissero trattati?
Per la verità ho molti dubbi che oggi il rispetto della diversità sia veramente un bene comune. Anzi credo che sia in atto e non soltanto riguardo a questo, una pericolosa regressione, accompagnata da una reviviscenza del peggior moralismo, spesso travestito da progressismo. Per questo credo che Pasolini avrebbe detestato il nostro presente e avrebbe odiato, in particolare, la confusione indifferenziata di destra e di quel che resta della sinistra in molte, troppe questioni. Il fenomeno che ha portato all'attuale confusione, peraltro, inizia proprio negli anni Settanta e viene denunciato da Pasolini che subito ne coglie la pericolosità. Quando si smarriscono le differenze, si perde anche l'identità.
Nonostanti i tanti studi apparsi su Pasolini e Sciascia, è forse ancora in ombra il rapporto tra queste due figure di intellettuali. Cosa se ne può dire, oggi?
Non è in ombra: è appena uscito un corposo volume edito dal Centro Studi Pasolini di Casarsa e da Marsilio su Pasolini e Sciascia. Provavano entrambi un senso di profondo sdegno, di rabbia nei confronti della corruzione della classe politica e delle sue collusioni con la criminalità organizzata. Uno sdegno e una rabbia che si traducevano nella tensione a decifrare come funzionava questa degenerata classe politica e quali fossero gli effetti nefasti della sua azione.
È noto che Pasolini ha messo in luce le contraddizioni della modernità, in Italia e altrove - pensiamo alle sue riflessioni svolte in terra di Israele. Ma non ha potuto vedere gli abissali effetti della rivoluzione tecnologica e la conseguente "modernità virtuale", che tutti noi oggi viviamo. È un azzardo, ma giocando di fantasia: cosa avrebbe detto Pasolini di tutto questo?
Pasolini amava la fisicità della vita quindi avrebbe disprezzato la virtualità, l'avrebbe analizzata ma penso che l'avrebbe combattuta in tutto e per tutto come una sottocultura che aliena l'individuo dalla realtà delle cose. Il che, probabilmente, non gli avrebbe impedito di usarla, a modo suo, magari contro se stessa.
L’opera pasoliniana è stata segnata, soprattutto nell'ultimo periodo, da taluni eccessi artistici, parte di un discorso organico e carico di significato del poeta. E allora, a distanza di oltre quarant’anni, come vanno interpretati gli eccessi delle sue ultime opere, quali quelli che si scorgono nel suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”?
Per la verità il gusto della provocazione e dell'eccesso agiva anche prima di Salò in Pasolini, si pensi alle tragedie della metà degli anni '60, Orgia e Affabulazione. Certo con l'ultimo film questa tendenza si radicalizza e il senso di questo intensificarsi della provocazione risiede, secondo me, nella rabbia e nella delusione che viveva nei confronti del presente e nella necessità che avvertiva di aggredirlo e quindi di aggredire gli spettatori mettendoli a disagio. Ma non si trattava di provocazioni gratuite: Salò è un film di grande complessità e uno dei suoi modelli di riferimento è l'Inferno di Dante. La violenza espressiva è solo uno strato dell'opera, sotto al quale si cela una macchina metaforica di grande complessità.
Pasolini ha avuto una tortuosa evoluzione artistica, spaziando dalla poesia degli esordi, alla narrativa, passando dalla saggistica e approdando alla cinematografia, che sembrava essere diventato il suo principale porto espressivo. Secondo lei è possibile dire in che modo si sarebbe ancora sviluppato il suo percorso artistico?
Impossibile. Ma dato che ha quasi sempre praticato varie forme d'arte contemporaneamente, si può presumere che avrebbe continuato a farlo.
E, specularmente, come sarebbe cambiata e come si sarebbe evoluta la cultura italiana se Pasolini non fosse stato barbaramente ucciso a poco più di cinquant'anni?
L'unica cosa che si può dire è che il suo degrado sarebbe stato più lento e problematico, proprio per la presenza critica e vitale del pensiero pasoliniano.
Quale è l'eredità più grande del poeta; e, sopratutto, chi ha raccolto la sua eredità? Se l'ha raccolta qualcuno...
Non credo nessuno. Ma in compenso esistono tanti artisti importanti che si sono “nutriti” dell'opera e del pensiero di Pasolini senza diventare degli epigoni, per fortuna. Per quanto riguarda il cinema, pensiamo a Matteo Garrone, che non si può assolutamente definire un imitatore di Pasolini ma ha un suo stile e un suo modo di raccontare, con delle interessanti e autonome analogie rispetto al cinema pasoliniano. Pensiamo anche a film italiani come Su Re (2012) di Giovanni Columbu, un'originale interpretazione della Passione di Cristo, il notevole Agadah (2017) di Alberto Rondalli, che si ispira a Potocki ma ricorda a tratti la sensualità favolosa del Fiore delle Mille e una notte, e i recenti Re Granchio di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi, e Piccolo corpo di Laura Samani.
Da ultimo: cosa rappresenta per lei la figura di Pier Paolo Pasolini?
Per me rappresenta una figura chiave per comprendere alcuni fenomeni nodali che hanno segnato la vita del Paese negli ultimi 50-60 anni e, di per sé, l'autore di un'opera-continente di importanza fondamentale, dove la poesia, la narrativa, il cinema, la saggistica, il teatro hanno raggiunto risultati geniali e di eccezionale spessore.
Il coordinamento tra gli articoli 8 e 10 Cedu in una recente pronuncia della Supreme Court inglese*
di Mario Serio
Sommario: 1. La non dismessa sensibilità della giurisprudenza inglese nei confronti delle pronunce delle corti europee. - 2. La idoneità lesiva del diritto al rispetto della vita privata posseduta dalla divulgazione dell'esistenza di indagini a carico di una persona. - 3. I termini fattuali della vicenda giudiziale. - 4. La ratio decidendi della Supreme Court. - 5. Le conclusioni della Supreme Court e l'aria del continente che ancora si respira a Parliament Square.
1. La non dismessa sensibilità della giurisprudenza inglese nei confronti delle pronunce delle corti europee
Tra i luoghi comuni capaci di riscuotere successo nell'esame degli effetti riconformativi della scena giuridica inglese conseguenti alla fuoriuscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea uno dei più comprensibilmente temuti è quello della progressiva perdita delle consistenti tracce della diffusione nel common law d'oltremanica dei portati della finestra da questo aperta verso il continente. Tracce riscontrabili non soltanto nel prima necessario recepimento nell'ordinamento interno di disposizioni normative europee, ma riferibili anche al dichiarato ed attuato desiderio dei giuristi inglesi di sviluppare un dialogo con i loro corrispondenti di civil law intessuto di confronti, emulazioni, circolazioni di concetti e soluzioni in vista di processi variamente denominabili come di ravvicinamento, uniformazione, omologazione. Si è propagato il timore, così, che dal voto referendario del giugno 2016 non potesse che derivare l'abbandono di quella ricca stagione passata, presumendo che essa avesse trovato i natali e la successiva forza per mantenersi in vita solo nel doveroso rispetto degli obblighi comunitari, dai quali il dialogo avrebbe tratto esclusivo vigore e ragion d'essere.
Per quanto in astratto non ingiustificata, la preoccupazione si sta rivelando largamente eccessiva alla luce dell'esperienza giurisprudenziale inglese, che ha offerto di sé il volto del radicato interesse ad interiorizzare, in termini di nuovo costume intellettuale, il patrimonio ideale e culturale acquisito in lunghi anni di incisiva presenza del Regno Unito nelle istituzioni comunitarie.
Tra i molti e benefici esempi dimostrativi dell'incancellabile eredità ricavata dal diritto inglese in virtù della continuità tra il canale della Manica ed il territorio continentale se ne sceglie in questa sede uno particolarmente probante sia in ragione della provenienza sia con riguardo alla materia trattata.
2. La idoneità lesiva del diritto al rispetto della vita privata posseduta dalla divulgazione dell'esistenza di indagini a carico di una persona
Ormai da tempo la giurisprudenza inglese ha allontanato da sé il sospetto di concepire come possibile solo all'interno del proprio ordinamento il reperimento dei criteri di diritto positivo (includendo ovviamente nell'accezione il complesso delle pronunce giudiziali) utilizzabili nella propria attività, dirigendo anzi il proprio sguardo verso sistemi ordinamentali diversi, nazionali e transnazionali.
Non è possibile stabilire anche in via di approssimazione alla certezza quali chiare ragioni abbiano contribuito a spingere la letteratura giuridica inglese in genere fuori da un isolamento culturale che appariva molto più pronunciato nei decenni scorsi. Sul piano della ragionevolezza probabilistica ben può ritenersi che la facilitazione al dialogo esterno ai confini nazionali abbia trovato salda origine nella quasi semisecolare presenza della Gran Bretagna nell'Unione Europea, la cui aria ha saputo respirare, beneficamente inalandola anche nel proprio polmone giudiziario. Argomenti, scritti, citazioni, esempi tratti dal diritto europeo quale autonomo corpo normativo e dai diritti degli Stati-membri dell'istituzione comunitaria hanno riforgiato il modo stesso di pensare delle corti di giustizia britanniche nel duplice senso di escludere la possibilità aprioristica di prescinderne e di consigliare di adottare come metro di misura dell'adeguatezza delle proprie decisioni la conformità, o la ragionata difformità, rispetto agli orientamenti accreditati in altri ambiti spaziali.
È motivo di consolazione, per chi osservi da una prospettiva, almeno potenzialmente, eurounitaria, constatare che questo profondo sommovimento in un terreno storicamente poco votato agli innesti non patriottici si sia consolidato fino al limite della creazione di feconde radici, mostrandosi indifferente al mutato quadro di riferimento istituzionale dei rapporti con l'Unione Europea.
Ad oltre un decennio dal debutto sulla scena giudiziaria di ultima istanza della Supreme Court è doveroso il riconoscimento che la fattiva partecipazione della giurisprudenza inglese allo scenario europeo ha trovato nel nuovo organo un interprete di rilievo centrale sia per la calibrata provenienza dei suoi componenti da tutte le regioni del Regno Unito sia per la loro partecipazione al circuito delle giurisdizioni superiori europee ed al collegato apporto in termini di rivisitazione, rinnovamento, adattamento di categorie concettuali prima coltivate nell'esclusivo recinto domestico.
Il caso che qui si presenta, Bloomberg v ZXC[1], deciso dalla Supreme Court il 16 febbraio 2022, si pone nella scia dei nessi comunicativi tra common law inglese e diritto europeo in senso ampio tanto per la trasversalità del problema affrontato quanto per la ricerca di soluzioni di cui non si è in alcun modo tentato di dissimulare la riconducibilità, se non l'identità, ad una comune ispirazione “continentale”.
Lo spinoso punto di diritto attorno al quale si è sviluppata nei tre gradi di giudizio la controversia è stato così precisamente riassunto nella parte introduttiva della sentenza redatta dai Lord Hamblen e Stephens ed adottata con l'approvazione degli altri tre componenti il Collegio: se, in via generale, una persona sottoposta ad indagini penali abbia, nel periodo antecedente alla formale incriminazione, una ragionevole aspettativa di riservatezza circa l'esistenza delle stesse indagini.
Un preliminare chiarimento concettuale è di fondamentale importanza per rendere comparabile la vicenda in questione con gli istituti processualpenalistici propri del diritto italiano (e di altri ordinamenti europei di civil law). L'espressione in lingua originale utilizzata per definire la fase delle indagini penali anteriori all'incriminazione è “prior to being charged”. E questa circostanza potrebbe condurre alla conclusione che letteralmente la sentenza abbia preso in considerazione il momento del procedimento penale che, secondo il metro italiano, parrebbe equiparabile a quello in cui la persona sottoposta ad indagini acquista, per effetto della richiesta di rinvio a giudizio rivolta dal pubblico ministero procedente al giudice dell'udienza preliminare, la qualità di imputato con il conseguente avvio dell'indagine penale. Accedendo a questa prima impressione sarebbe innegabile il notevole spostamento in avanti del momento fino al quale l'aspirazione alla riservatezza di cui si dibatte potrebbe trovare riconoscimento e protezione. Tuttavia, il dubbio può agevolmente sciogliersi non solo ricorrendo ad una nozione di “charge” coerente con l'acquisizione di una qualità processualmente rilevante e definita dal punto di vista anche delle garanzie soggettive, quale quella di persona sottoposta ad indagini secondo il nostro lessico familiare. D'aiuto ad avallare questa opinione si mostra anche la collocazione degli elementi di fatto rilevanti nel caso, i quali chiaramente fanno risaltare che il problema si pose con riguardo ad informazioni relative alla fase delle indagini preliminari di un'agenzia governativa che nella massima riservatezza stava raccogliendo presso autorità anche straniere elementi utili per determinarsi ad una successiva e del tutto eventuale fase diretta a muovere alla persona interessata contestazioni di rilevanza penale: queste, al contempo, avrebbero assicurato alla stessa l'attribuzione di una condizione soggettiva protetta in termini di garanzie procedimentali. In altri termini, la divulgazione della notizia dell'esistenza di indagini era avvenuta allorché le informazioni richieste non consentivano, nel momento della relativa formulazione, di prospettare alcuna chiara e definita posizione, secondo i canoni del diritto positivo, della persona interessata. Né, d'altro canto, lo stadio puramente embrionale di queste indagini dirette a verificare anticipatamente la possibilità di una loro estensione e di una contestuale eventualità di contestazione poteva in alcun modo lasciar prefigurare una qualche forma di determinazione stabile ed orientata da parte dell'autorità procedente. Ed invero, il nodo della lite, per come focalizzato dalla persona su cui si acquisivano notizie, risiede proprio nella mancata, preventiva assegnazione di una condizione rientrante nei paradigmi propri del procedimento penale dal cui alveo si era ancora lontani: ed in ciò, ossia nella predizione di un'evoluzione pregiudizievole per l'interessato, ben prima che questo evento si fosse avverato, veniva ravvisato il pregiudizio alla riservatezza della vita privata di cui si chiedeva la salvaguardia attraverso il rinvio alle previsioni convenzionali europee.
La precisazione non è di poco rilievo in quanto, soprattutto in un ancora fluttuante spazio applicativo delle disposizioni domestiche, racchiuse nel d.lgs.188/2021[2] sulla presunzione di innocenza e sui limiti all'informazione pubblica che potrebbe comportare, essa consente di restringere in modo ragionevole e non ingiustificatamente angusto lo scenario della vicenda esaminata dalla Supreme Court e, pertanto, di prevenirne una sconsigliabile interpretazione speculare che induca ad identificare nel common law inglese un avallo, in effetti non rinvenibile, ad una visione soffocante degli obblighi e dei corrispondenti diritti informativi. Può al contrario anticiparsi che i principii di diritto desumibili dalla giurisprudenza inglese sembrano apprezzabilmente riproporre, dotandoli dell'irrobustimento europeo, il complesso precettivo, garante della riservatezza sia dal punto di vista oggettivo sia da quello soggettivo, che il diritto italiano riserva alla fase delle indagini non ancora risoltesi nella individuazione di ipotesi di responsabilità penali individuali.
3. I termini fattuali della vicenda giudiziale
Ridotta ai suoi termini essenziali la questione dedotta in giudizio aveva ad oggetto la pubblicazione nei mezzi di informazione di cui il convenuto era editore di notizie riguardanti l'esistenza di indagini svolte da un ente investigativo inglese, lo United Kingdom Law Enforcement Body (d'ora in poi UKLEB), istituito per legge all'interno di una visione specialistica degli organi titolari dell'iniziativa penale. Esse erano intese a mettere a fuoco lo svolgimento delle proprie attività all'estero da parte di una società di capitali, della quale l'attore era direttore di divisione proprio nello Stato straniero al quale l'agenzia si era rivolta, con espressa e cogente richiesta di massima riservatezza o della indicazione della impossibilità di garantirla (nel qual caso la richiesta avrebbe dovuto essere intesa come oggetto di revoca), allo scopo di apprendere notizie utili circa la sussistenza di ipotesi di condotte di rilevanza penale per corruzione e frode. La lettera con cui si richiedevano notizie allo Stato straniero era inquadrata come una forma di mutua assistenza giudiziaria tra Stati in materia di corruzione ai sensi della Convenzione ONU siglata nell'ottobre 2003. La pubblicazione da cui il procedimento giudiziale poi devoluto all'esame della Supreme Court aveva tratto origine si incentrava, in particolare, sulla rivelazione che l'UKLEB aveva interrogato nell'ambito delle proprie indagini l'attore in quanto dipendente della società di cui si sospettava un'attività illecita all'estero. Malgrado le diffide dei suoi legali la notizia dell'interrogatorio dell'attore - danneggiato, nei cui confronti non sarebbe stato in seguito mai avviato un procedimento penale, era stata diffusa in via mediatica, al pari di quella della richiesta di informazioni presso lo Stato straniero nel quale l'attore prestava la propria attività lavorativa.
L'agenzia investigativa britannica espresse la propria costernazione per la pubblicazione della notizia relativa alle indagini, ed al connesso oggetto, che stava conducendo, poiché la propalazione le avrebbe certamente pregiudicate.
Sulla base di questo contesto fattuale l'attore, che, si ripete, lavorava alle dipendenze della società di cui si investigavano le condotte all'estero, convenne in giudizio l'editore facendo valere il proprio diritto a coltivare un'aspettativa di riservatezza in ordine alla circostanza che l'UKLEB avesse richiesto all'estero informazioni in merito alla sua attività nonché a quella, correlata, che lo stesso ente stesse svolgendo indagini che lo riguardavano. L'ombrello protettivo addotto dall'attore era costituito dall'art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo del 1950, trasposta nello Human Rights Act inglese del 1998 (entrato in vigore due anni dopo) intitolato al rispetto della vita privata e di quella familiare. In entrambi i gradi di giudizio anteriori a quello della Supreme Court (rispettivamente davanti la High Court e la Court of Appeal) la pretesa attrice fu ritenuta fondata sotto il profilo che alla condotta del convenuto andava addebitata una specifica forma di illecito civile classificato come “tort of misuse of private information”, vale a dire come un uso a fini indebiti di un'informazione di natura privata (perché riferita ad una persona titolare del diritto tutelato dall'art. 8 citato). La accertata violazione del diritto alla riservatezza personale e familiare fu ritenuta ragione sufficiente per decretare la prevalenza del bene giuridico protetto dall'art. 8 della CEDU rispetto a quello garantito dal successivo art. 10 in materia di libertà d'espressione. La misura risarcitoria, a carico dell'editore giudicato responsabile del tort, dapprima accordata in sede monocratica dal giudice Nicklin della High Court e poi mantenuta nelle susseguenti sedi collegiali, fu pari a 25.000 sterline.
La doppia decisione conforme delle Corti inferiori fu confermata dalla Supreme Court infruttuosamente adita dall'editore soccombente nei due gradi.
4. La ratio decidendi della Supreme Court
I Giudici di ultima istanza risolsero il “thema decidendum” muovendo da una preliminare condivisione dell'impianto metodologico che era servito ad orientare in senso identico le pronunce del doppio grado. E proprio nel criterio di giudizio adottato è agevole scorgere non solo il metro valutativo adibito per rigettare l'impugnazione ma anche e principalmente la bussola capace di indirizzare in linea di principio future decisioni su analoghi casi di denunciato conflitto tra le norme poste dagli articoli 8 e 10 della CEDU ed i valori in essi rispettivamente incarnati.
Ed invero, il metodo informatore che deve guidare l'interprete in simili contingenze va suddistinto in due separate verifiche, il cui esito positivo soltanto può lasciar certi sulla effettiva commissione dell'illecita utilizzazione a fini divulgativi di dati afferenti alla sfera individuale convenzionalmente protetta dall'art. 8 più volte citato, riassunta nella locuzione “tort of misuse of private information”.
Il primo stadio dell'indagine è diretto a stabilire se le circostanze del caso concreto obiettivamente autorizzino l'attore nel giudizio risarcitorio a nutrire una ragionevole aspettativa di riservatezza in relazione all'informazione concernente la sua sfera personale, poi resa pubblica. Lo stadio successivo, che presuppone il superamento del precedente, si propone il fine di acclarare se l'aspettativa alla tutela della riservatezza piuttosto che cedevole possa nella fattispecie ritenersi preminente, in una logica di bilanciamento tra interessi in competizione, rispetto alla libertà di espressione: proposta in termini diversi la questione implica lo scioglimento della concorrenza tra gli articoli 8 e 10 della CEDU alla stregua del parametro di giudizio fornito dalla sezione 12 (4) della legge inglese del 1998 traspositiva della Convenzione stessa secondo cui occorre tener conto, tra gli altri elementi della fattispecie, dell'interesse pubblico alla diffusione della notizia.
Nel concludere che le decisioni di primo e secondo grado avevano fatto buon governo dei principii applicabili ai due stadi del test appena illustrato la Supreme Court confermò che essi erano certamente meritevoli di doppia replica positiva. La risposta al quesito poggia convincentemente sulle basi fornite da recenti precedenti di giurisdizione sia interna sia europea.
Tra i primi certamente degno di menzione è quello della House of Lords del 2004 in Campbell v MGN LTD[3] che, nel sancire la transizione della figura di illecito per antigiuridica diffusione di notizie attinenti alla sfera protetta dall' art. 8 CEDU, pur commisurata al valore della libertà di informazione, dall'originaria configurazione di “breach of confidence” (costruita sull'idea che una simile violazione realizzasse caratteristicamente un attentato alla fiducia da una parte coltivata nel corretto e discreto operato dell'altra in possesso di informazioni riservate a sé relative) a quella del “misuse of private information” (evidentemente declinata sul piano oggettivo dell'approfittamento di conoscenze lesive dell'altrui riservatezza), ritenne illecita, in quanto trasgressiva del precetto dell'art. 8 CEDU, la pubblicazione di fotografie ritraenti una celebre modella, Naomi Campbell, che usciva dai locali di un'associazione frequentata da persone dipendenti dall'uso di narcotici. La sentenza della House of Lords, al cui interno si segnalano le potenti opinioni dissenzienti di Lord Nicholls of Birkenhead e di Lord Hoffmann, paladini dell'idea che il caso andasse ricondotto ai consentiti margini di apprezzamento discrezionale spettanti all'editore in tema di pubblicazione di notizie o immagini di persone note al pubblico, si è, tuttavia, posta in linea con un orientamento dottrinario di poco precedente che, seguendo un'interpretazione evolutiva dell'art. 8 conseguente all'emanazione dello Human Rights Act inglese, aveva sostenuto il valore primario della norma in quanto diretta a promuovere lo sviluppo di una concezione della personalità umana meritevole di essere protetta da indebite interferenze esterne[4].
L'altro precedente cui la Supreme Court si è ispirata nel caso Bloomberg deciso nel 2022 proviene dalla Court of Appeal inglese in Murray v Express Newspapers plc del 2008[5] in cui fu statuito il diritto degli attori a non vedersi rigettare in via preliminare per manifesta infondatezza la propria domanda nei confronti di un giornale che aveva pubblicato la loro foto (ossia quella di una celebre coppia, la moglie essendo la creatrice ‒ con il nome di J. K. Rowling ‒ della serie di libri dedicati al personaggio di Harry Potter) mentre spingevano in una via pubblica di Edimburgo il passeggino con il figlio di pochi mesi, ossia una scena raffigurante un momento di intimità familiare che si riteneva riconducibile alla previsione dell'art. 8 della CEDU. Nell'escludere la carenza di plausibilità “prima facie” della domanda risarcitoria, la sentenza si preoccupò di indicare una serie di fattori (da allora in poi noti come i “Murray factors”) da tenere in considerazione nella prospettiva del bilanciamento tra i valori ed i principii, in ipotesi confliggenti, derivanti dai citati articoli 8 e 10 della Convenzione europea del 1950. In particolare, tali elementi vengono ancora oggi, come è accaduto nel caso Bloomberg, considerati risolutivi ai fini della prima fase del test in esso sperimentato dai Giudici e consistente nello stabilire,come già ricordato, se all'attore potesse accreditarsi una ragionevole aspettativa di riservatezza con riferimento alle informazioni poi pubblicate. Tra tali indici si ricordano le caratteristiche professionali del danneggiato; la natura dell'attività espletata ed il luogo di suo svolgimento; le modalità e lo scopo dell'invasione della sfera privata; l'assenza di consenso alla pubblicazione o la ragionevole previsione che sarebbe stato negato; gli effetti di ogni genere prodotti dalla pubblicazione sulla persona dell'attore; l'occasione nella quale le informazioni sono pervenute nella disponibilità dell'editore ed il fine perseguito. Il catalogo delle linee di indirizzo nella soluzione del quesito circa la ragionevolezza dell'attesa di riservatezza circa informazioni di carattere personale è stato poi dalla Supreme Court integrato attraverso l'approvazione di ulteriori criteri formanti la presunzione della relativa sussistenza che autorevole dottrina è andata suggerendo[6].Vengono, infatti, citati i seguenti, ulteriori fattori, attagliantisi allo stato soggettivo della persona offesa, che normalmente vanno apprezzati come indici probatori dell'illiceità dell'intrusione nell'altri sfera intima: le condizioni fisiche o mentali; le origini etniche o razziali; il particolare momento emozionale o di tensione; la natura delle relazioni familiari; l'orientamento sessuale; l'esposizione di dettagli riservati della vita personale; l'acquisizione delle informazioni nell'ambito di uno speciale rapporto fiduciario; le opinioni politiche e le eventuali appartenenze associative; il credo religioso; il riferimento della notizia alla sfera finanziaria o a quella della corrispondenza personale; il richiamo di precedenti penali o di altri procedimenti giudiziari. La Supreme Court rinvia, a sostegno della utilità di questo ricco elenco, ad altra dottrina specialistica, anche in tema di protezione di dati personali[7]: è da notare, tuttavia, che la sentenza oggetto di studio non manca di chiarire opportunamente che sfuggono alla lista di presunzioni di ragionevole aspettativa di riservatezza numerose informazioni che siano ormai entrate nel dominio pubblico, quali quelle riflettenti dati notori sulla situazione di una società quotata in borsa, il generale discredito suscitato dall'attività pubblica svolta dalla persona che invoca la riservatezza, la sua implicazione in gravi procedimenti giudiziari, le notizie tratte da processi oggetto di commento mediatico, etc.
Si è anticipato che la sentenza pronunciata nel caso Bloomberg ha propiziamente spalancato il proprio orizzonte conoscitivo in esso includendo la giurisprudenza europea, meticolosamente citata ed analizzata quale imprescindibile fondamento decisorio. In particolare, munito di promettenti e certamente spendibili spunti è stato riconosciuto il precedente della Corte Europea dei diritti dell'Uomo nel caso Von Hannover v Germany del 2004[8] attinente ad una causa promossa in Germania dalla figlia maggiore del Principe Ranieri di Monaco contro un editore che aveva pubblicato parecchie foto della di lei vita privata.
Varii ed abbondantemente argomentati sono i principii che la Corte europea rese allora espliciti: ad essi ha espresso motivata adesione la Supreme Court nell'identificare la linea di confine, o meglio di non interferenza reciproca, tra le pretese individuali azionabili ai sensi dell'art. 8 CEDU e le eccezioni opponibili al rispetto della vita personale e familiare in virtù della libertà di espressione consacrata dal successivo art. 10. Una volta di più la tensione che ha animato la Supreme Court nel reperimento del conforto della giurisprudenza europea è stata quella di circondare l'intera materia del potenziale e frequente conflitto tra due norme di primaria importanza della Convenzione europea sui diritti umani del maggior numero possibile di presidi precostituiti per almeno affievolire il ricorrente rischio di discontinuità interpretative propedeutiche a possibili e destabilizzanti arbitrii decisori. La Corte di Strasburgo, nel decidere il primo dei tre ricorsi proposti in poco meno di un decennio dalla erede della dinastia monegasca, si attenne ad un parametro di rigore definitorio della nozione (fatta propria in Bloomberg dalla Supreme Court) di vita privata rilevante ai sensi dell'art. 8, individuandola estensivamente negli aspetti relativi all'identità personale, quali il nome, ed includendovi l'integrità fisica e psicologica. E ciò nell'ottica, già menzionata perché frutto di interiorizzazione da parte della giurisprudenza inglese, di favorire lo sviluppo delle personalità individuali, svincolandole dai rischi delle interferenze esterne, nei rapporti con gli altri esseri umani. Ed i Giudici dei diritti umani anticiparono quel concetto di ragionevole aspettativa della protezione della vita personale e familiare che le corti inglesi avrebbero concordemente esaltato quale modello di civiltà dei rapporti interindividuali applicabile senza il diaframma di confini nazionali. La lingua parlata a Strasburgo (dai Giudici anglofoni d'oltremanica interamente tradotta in omologhi e collimanti segni semantici) sulla portata dell'art. 8 fu ancora più eloquente perché ne rese certa la propensione a creare negli Stati-membri, in aggiunta a quello negativo di astenersi da condotte interferenti con la vita personale e familiare degli individui, l'obbligo di adempiere prestazioni positive rivolte a rendere effettivo il diritto soggettivo incapsulato nella disposizione in esame. L'investimento culturale effettuato dalla Supreme Court in Bloomberg produsse ulteriori ed opulenti dividendi a proposito della delicatissima questione ‒ a propria volta costituente una delle più intricate svolte del caso ‒ del bilanciamento tra i beni presi in considerazione dagli articoli 8 e 10 CEDU. Ed infatti, nella decisione Von Hannover n.1 la Corte europea espose l'aggregazione dei criteri di ragionamento proiettati verso la soluzione dei possibili grovigli conflittuali. Facendo leva sul presupposto del ruolo essenziale della stampa, quale organo di informazione collettiva, in una società democratica allo scopo di diffondere notizie di interesse pubblico, la Corte non volle ignorare il problema dei limiti invalicabili di tale opera, riferendoli al rispetto ed alla reputazione altrui. In questo senso un primo criterio discretivo venne colto tra l'attività informativa svolta mediante la cronaca di fatti e quella volta a riportare dettagli di vita privata. La precisazione intese rispondere alla sollecitazione intellettuale generata dall'ammissione, dalla medesima Corte resa, che la tutela della vita privata valica l'area della cerchia familiare, comprendendo una dimensione sociale. È, infatti, necessario garantire a qualunque individuo il pieno godimento di legittime aspettative di protezione e rispetto per la propria vita personale. E l'esito circolare di questa forma di sillogismo giudiziale portò a cogliere il decisivo elemento idoneo a fungere da bilanciamento tra l'aspirazione alla tutela della vita privata ed il perseguimento della libertà espressiva nella qualità del contributo ad un dibattito di interesse generale che la pubblicazione di fotografie o notizie si rivela in grado di fornire. La stessa Corte europea dei diritti umani si è impegnata nella sentenza resa nel 2018 nel caso Denisov c Ucraina[9], anch'essa richiamata dalla Supreme Court, nel rinvigorire, attraverso un processo di integrazione in via logica del relativo contenuto, la nozione di “vita privata” aggiungendo alle sue stesse pregresse definizioni l'osservazione secondo cui essa, pur insuscettibile di un'esauriente descrizione, assorbe molteplici aspetti dell'identità fisica e sociale, incluso quello che si esplica nel diritto a stabilire e sviluppare relazioni con altre persone e con il mondo esterno in genere.
La risorsa costituita dall'attingimento agli insegnamenti della giurisprudenza europea dei diritti dell'uomo fu ulteriormente sfruttata dalla Supreme Court in Bloomberg nel prefiggersi di scolpire il concetto di reputazione personale meritevole di essere difesa, ai sensi dell'art. 8 CEDU da illegittime intrusioni: ragione e finalità di tale difesa sono state, infatti, scorte nell'esigenza di rimuovere qualunque ingiustificata limitazione al pieno godimento del rispetto della vita privata, in totale simmetria con l'analogo principio espresso dalla Grande Camera nel 2012 a Strasburgo in Axel Springer AG c Germania[10]. Ma il controlimite, rispondente alla necessità di soluzioni proporzionate, è stato prontamente esposto dalla Supreme Court nella esclusione dalla sfera di tutela consentita dall'art. 8 dei casi in cui il danno reputazionale trovi la propria fondamentale scaturigine nella stessa condotta penalmente rilevante dell'attore: così abbracciando il plesso di pensiero fatto esplicito dalla Corte EDU nel citato caso Denisov, a propria volta tributario della precedente sentenza del 2007 in Pfeifer c Austria[11].
Da questa premessa, che riveste evidente carattere di eccezione rispetto ai più permissivi postulati dedotti dall'art. 8, la Supreme Court trae una conclusione solo parzialmente attenuativa nel senso di richiedere, perché operi a favore dell'editore l'esimente della precedente condotta riprovevole dell'attore, che essa sia stata definitivamente affermata sulla base di un processo dalle conclusioni univoche: il che sterilizza la possibilità che l'attore stesso possa alimentare una ragionevole aspettativa di riservatezza circa le informazioni ruotanti attorno ai propri misfatti.
5. Le conclusioni della Supreme Court e l'aria del continente che ancora si respira a Parliament Square
Il dovere di generoso riconoscimento alla Supreme Court del merito di aver compiuto un tentativo largo e privo di predeterminazioni geografiche o ideologiche per dipanare fili ad alta tensione perché capaci di innescare un nocivo corto circuito tra valori di alto rango giuridico e sociale a confronto non può che esaurirsi concentrandosi sul precipitato decisorio delle molteplici premesse tratte in prevalenza dai precedenti citati. In effetti, sarebbe fallace l'impressione che considerasse l'epilogo del caso come una mera operazione deduttiva della Corte dal proprio esteso e diffuso preambolo argomentativo. Ed infatti, nell'avvicinarsi alla pronuncia definitiva i supremi giudici sembrano disposti a decampare dalla linea consequenzialista-sillogistica per indulgere alla rappresentazione della propria (unanime) concezione di un rapporto tra diritti del singolo alla difesa della propria immagine pubblica ed interesse pubblico all'informazione particolarmente attento a non concedere uno spazio eccedente limiti rigidamente prefissati al secondo. E questo non per preconcetta insensibilità ai benefici effetti di uno scorrevole flusso informativo, quanto, piuttosto, per il timore che, invertendo i rapporti tra regola ed eccezione a favore della seconda (pubblicazione illimitata), si finirebbe con il porre a carico della persona che si professa danneggiata il difficoltoso onere di controbattere, con il semplice ed opinabile riferimento alla propria condizione personale e familiare, la presunzione dell'interesse alla pubblicazione in tutti i casi in cui non sia possibile dimostrare il contrario.
Forse la matura consapevolezza, che nell'affrontare un tema conflittuale di queste dimensioni, per di più aggravato dalle imponenti implicazioni inter-ordinamentali, il margine di fallibilità di soluzioni anelastiche e stentoree è sensibilmente elevato, ha suggerito alla Supreme Court di abbinare all'analisi generale svolta sul filo di principii e regole di giudizio astratti un metro valutativo ispirato alla puntuale valutazione delle particolarità del singolo caso. Più esattamente il criterio che la Corte battezza come “fact-specific enquiry” viene indicato come la via maestra per rispondere alla domanda indotta dal primo stadio del test bi-fasico prima illustrato, quello tendente ad appurare se le circostanze del caso autorizzassero l'attore a coltivare una ragionevole aspettativa di riservatezza in ordine alle informazioni sulla sua vita privata arrivate nella disponibilità dell'editore. Soluzione che non si può esitare a qualificare come saggia e prudente nella ovvia misura in cui ben si guarda dal legare le mani al futuro interprete-decisore che potrebbe trovarsi a giudicare intorno ad un caso fuoriuscente dai cliches abituali ed involgente profili prima mai esaminati. Ed in fondo, proprio dirigendosi verso un'analisi “fact-specific” la sentenza ha confermato la dichiarazione di fondatezza della domanda attrice già effettuata nei due precedenti gradi di giudizio poiché ha ritenuto che la cornice storico-fattuale della controversia concorresse a consolidare l'aspettativa di riservatezza dall'attore fatta valere in giudizio, esattamente percepita dalle Corti sottostanti. Ma la Supreme Court non si è accontentata di decidere sulla semplice base di una valutazione “ex post” della fondatezza delle aspettative della persona danneggiata: essa non ha, infatti, voluto eludere nella parte finale della propria pronuncia il più grave nodo problematico che sin dall'inizio avvolgeva l'intera fattispecie: quello del confronto tra il rispetto della vita privata e la libertà di espressione giornalistica rivendicata dall'editore con riferimento alla notizia dell'indagine. La risposta data, ancora una volta ricavata dalla ponderata analisi delle circostanze del caso, tronca il dubbio alla stregua del valore attribuito alla concreta individuazione del pubblico interesse preminente nel caso di specie. Ed infatti, la sentenza afferma senza circonlocuzioni che a primeggiare dovesse essere un terzo genere di interesse, anch'esso di natura pubblica: quello a che venisse salvaguardata la necessità, chiaramente segnalata dall'autorità inquirente britannica nella lettera di richiesta di informazioni indirizzata allo Stato straniero, di segretezza della richiesta stessa. La sede del commento ad una pronuncia di simile rilevanza non può scoraggiare, dovendo anzi incoraggiare, una considerazione non esattamente allineata al merito della causa. Guardando fino in fondo questo argomento risolutivo, seppur concorrente nell'economia della decisione, esso si disvela come una specie di diversivo motivazionale rispetto all'intima radice della controversia, più volte qui spiegata come sintomatica di un conflitto tra le posizioni soggettive, individuali e collettive, rispettivamente declamate dagli articoli 8 e 10 CEDU. Nel ragionamento della Supreme Court entra in scena, addirittura con un ruolo da protagonista, un attore del tutto non evocato nel teatro del conflitto tra norme e titolari dei diritti da esse conferiti. Ed invero, l'interesse alla segretezza della comunicazione interistituzionale non solo non sembra correlabile alla dinamica competitiva tra le due norme; esso è addirittura imputabile ad un soggetto terzo rispetto allo stesso processo, ossia l'agenzia inquirente inglese. Questo dimostra che la via scelta è stata elegante e, al contempo, sfuggente: per dirimere la controversia tra le parti vertente sulla preponderanza di uno dei due interessi contrapposti si è preferito privilegiare quello di un terzo estraneo al giudizio in quanto più fedele rappresentante di un interesse pubblico ‒ quello alla segretezza delle comunicazioni interistituzionali, appunto ‒ esterno al perimetro della lite. A propria volta questa via di fuga non ha prodotto effetti neutri in quanto, al tirar delle somme, si è risolta nell'attribuzione all'attore vittorioso di un vantaggioso merito in effetti spettante ad altri, dietro le cui prerogative si nasconde, quindi, il successo giudiziale. E non può certo dirsi che la Supreme Court sia stata ignara del bisogno di donare alla propria sentenza un fondamento al tempo stesso razionale e di principio, in tal modo destreggiandosi per non naufragare tra i marosi delle critiche degli osservatori, soprattutto militanti nel campo dell'informazione. Il terz'ultimo capoverso della pronuncia, infatti, (il n. 156) con grande schiettezza dichiara ‒ citando un proprio precedente del 2016[12] ‒ che l'esercizio orientato al bilanciamento tra i diritti discendenti dagli articoli 8 e 10 della CEDU va descritto come analogo a quello proprio dei poteri discrezionali[13].
Alla luce di questa intelligente virata verso un porto dogmaticamente più sicuro a sostegno di una opzione a favore del diritto al rispetto della vita privata, che nella fattispecie probabilmente aveva dalla sua parte il favore del maggior peso del rispettivo piatto della bilancia (in special modo apprezzando l'abusiva violazione del segreto investigativo responsabile dell'evaporazione delle indagini a causa del venir meno dell'effetto “sorpresa” espressamente lamentato dall'agenzia UKLEB) può concludersi l'esplorazione sul singolo caso senza inscriverlo duramente ed inappellabilmente nella cerchia di quelli venati da un preconcetto penalizzante a danno della libertà di espressione.
Vi è, tuttavia, un delicato fronte che resta aperto e si annida non solo nelle pieghe della sentenza del 2022, ricorrendo in tutta la recente linea giurisprudenziale inglese e, in maniera non dissimile, della Corte europea dei diritti umani. Si tratta della ennesima legittimazione come punto di partenza iniziale di ogni giudizio in questa materia[14] dell'idea che, in ogni caso in cui si controverta della liceità della pubblicazione di notizie concernenti un'investigazione ancora in fase preliminare e non sfociata in addebiti formali, debba ritenersi sussistente la ragionevole aspettativa della persona interessata dall'indagine stessa alla riservatezza per non veder compresso il proprio diritto alla tutela della vita privata. Quel che qui si vuol porre in rilievo non è certo una qualsiasi perplessità sull'esattezza di un siffatto criterio in quanto espressione di piena aderenza a specifici divieti normativi sulla segretezza delle indagini (ed il discorso è perfettamente trasponibile all'esperienza giuridica italiana) nonché a sane regole di civiltà giuridica. Su un altro aspetto, di affatto secondaria importanza, può essere consigliabile proseguire il dibattito per approssimarsi ad una più solida e ferma base di giudizio: vi è, infatti, da porsi la domanda se questo punto di partenza, che, come visto, è solito giocare una parte di somma decisività, possa realmente ascendere, come molti concorrenti indizi sembrano suggerire, al rango di una presunzione, quanto meno semplice e, come tale, soggetta ad essere “rebuttable” secondo le regole probatorie del common law inglese in materia di relativo superamento. La questione si manifesta in tutto il suo rilievo in casi come quello esaminato in quanto, attribuendo al punto di partenza un valore dirimente, si renderebbe superflua la valutazione delle circostanze del caso concreto per stabilire la ragionevolezza (che, a quel punto, non richiederebbe di essere provata volta per volta) dell'aspettativa di riservatezza vantata dalla parte danneggiata. La più recente casistica giudiziale inglese offre spunti univoci per reputare che questo dato iniziale di riflessione (lo “starting point”) tenda a tramutarsi in regola di giudizio fondata sostanzialmente su una presunzione, di talché l'indagine, che, comunque, viene effettuata per trarre conferma di questa convinzione dalle concrete circostanze del caso, finisce inevitabilmente con l' asseverare la risposta positiva preventivata. Ed allora, non può non dirsi rispondente a coerenza logica, che si esprima l'auspicio che la giurisprudenza di common law britannico non si fermi a metà del guado e guadagni rapidamente la riva dell'affermazione dell'esistenza di una presunzione, almeno semplice, nel senso delineato. Ne otterrebbe beneficio il quadro dei rapporti tra norme appartenenti al medesimo corpo disegnato dalla Convenzione europea del 1950. Ed in pari misura il dialogo interordinamentale taglierebbe un ulteriore traguardo di compiutezza.
* Scritto destinato ad onorare il personale debito di gratitudine umana ed accademica verso Rodolfo Sacco, co-fondatore della comparazione giuridica italiana, accademico dei lincei, giovanissimo partigiano piemontese.
[1] (2022) UKSC 5.
[2] Sui cui prodromi genetici si può vedere N. Rossi, Il diritto a non essere additato come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questione Giustizia, on line, 2021.
[3] (2004) UKHL 22.
[4] G. Phillipson, Transforming breach of confidence?Towards a common law right of privacy under the Human Rights Act, in The Modern Law Review, 2003, 726 ss. ed in particolare pag. 732 nota 52 in cui cita a suffragio la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in Botta c. Italia del 1998.
[5] (2008) EWCA Civ 446.
[6] Viene citata una delle più note opere in tema di diffamazione a mezzo stampa e non, R. Parkes QC, A. Mullis, G. Busuttil, A. Speker, A. Scott, Gatley On Libel and Slander, 12° ed., London, 2017, parr. 22-25.
[7] C. Doley, A. Mullis, Carter-Ruck On Libel and Privacy, 6°ed., London, 2010, par. 19.
[8] Causa 59320/00.
[9] Ricorso 76639/11.
[10] Ricorso 39954/08.
[11]Ricorso 12556/03.
[12] PJS v News Group Newspapers Ltd (2016) UKSC 26, che, a sua volta, richiama una sentenza della Court of Appeal di tre anni precedente in AAA v Associated Newspapers Ltd (2013) EWCA Civ 554.
[13] “The exercise of balancing article 8 and article 10 rights has been described as analogous to the exercise of a discretion”.
[14] L'espressione “starting point” è ripetuta in numerosi passaggi della sentenza della Supreme Court ed assunta a taumaturgica formula di giudizio: si veda per tutti il paragrafo 146, che definisce “legitimate” l'adozione di tale criterio di ponderazione delle opposte ragioni in conflitto.
Intervista a Luciano Violante di Paola Filippi e Roberto Conti
Onorevole Violante, Lei è entrato in magistratura nel 1966 e né è uscito nel 1983.
È stato magistrato in un periodo di transizione fondamentale. Da magistrato ha vissuto l’Italia della contestazione degli anni 70’, il riflusso degli anni ‘80 e infine il terrorismo. Com’era la magistratura alla fine degli anni ‘60 e come era quando l’ha lasciata? Quanto ha cambiato la magistratura l’ingresso delle donne?
Luciano Violante: sono stato giudice istruttore sino al 1977, poi all’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia sino al 1979, anno in cui sono stato eletto per la prima volta alla Camera. Mi sono dimesso nel 1983, dopo aver vinto la cattedra di istituzioni di diritto e procedura penale. In magistratura c’era una forte divisione tra la componente prevalentemente giovane che si sentiva impegnata per un’applicazione totale della Costituzione e quella prevalentemente più anziana che considerava con sospetto questa tendenza, ritenuta politicizzata. La mia generazione era la prima interamente educata in età repubblicana ed era naturalmente propensa alla innovazione. Aggiunga il più generale spirito modernizzatore di quegli anni. Ci sentivamo portatori di uno spirito diverso dal passato. Eravamo fortemente integrati con l’Università; cito a caso le intense discussioni sui caratteri del diritto nuovo con Stefano Rodotà, Alessandro Baratta, Franco Bricola, Giorgio Ghezzi. Pietro Barcellona, Giorgio Marinucci. Al centro ponevamo la critica alla neutralità del diritto e alla sacralizzazione del ruolo. La più intensa stagione di riforme mai vissuta nella storia repubblicana cancellava l’autorità maritale, l’adulterio della donna, il delitto d’onore, stabiliva che l’adozione serviva per dare una famiglia a un bambino e non un bambino a una famiglia. Lo statuto dei diritti dei lavoratori e il processo del lavoro rovesciavano i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori. Il terrorismo bloccò questo processo. Le divisioni si posero quindi su un altro piano. Tra coloro che ritenevano giuste tutte le misure restrittive, quelli che valutavano caso per caso (io ero tra questi) e quelli che le ritenevano sempre e comunque incostituzionali.
Era comunque forte il senso di far parte di una aristocrazia della Repubblica; anche perché questo ti insegnavano i capi migliori. La cortesia, la buona educazione, specie a Torino, erano componenti essenziali della professione. Alcuni intendevano un privilegio corporativo l’essere considerati come un’aristocrazia; altri la intendevano come un sovrappiù di responsabilità.
Quanto alle donne, mia moglie é una delle otto prime donne entrate in magistratura. Siamo stati la prima coppia di magistrati e il CSM non sapeva che regole applicare; ci suggerirono di scegliere una grande città; decidemmo per Torino. All’inizio per le donne non fu facile; non c’ertano neanche i bagni per loro. Ma anche in questo campo valeva una distinzione generazionale.
È stato pretore mandamentale e poi giudice istruttore, le stesse funzioni di Giorgio Falcone e Paolo Borsellino, una funzione che condivideva il ruolo requirente con quello giudicante, erano altri tempi e il rito era quello del codice Rocco, indagare e poi rinviare a giudizio rendeva i processi meno giusti? Il referendum (che propone l’eliminazione del passaggio) e il DDL in discussione al Senato sulla riforma ordinamentale (che riduce il passaggio ad un’opzione da esercitarsi entro sei anni dalla prima legittimazione) hanno riacceso il dibattitto, mai sopito, sulla separazione dei pubblici ministeri dai giudici. Qual è il suo pensiero in proposito? L’appartenenza all’ unico ordine, quello dell’art. 104 Cost., ritiene possa effettivamente minare l’indipendenza dei giudici e ledere il principio del giusto processo?
Luciano Violante: Non ho mai fatto il pretore. Fui prima giudice a latere in tribunale e poi giudice istruttore. Aver fatto l’esperienza della valutazione delle prove mi è stato utile quando ho dovuto raccoglierle. Certo il giudice istruttore che faceva l’istruttoria e poi decideva se assolvere o rinviare a giudizio (e a volte, grazie a un escamotage, esercitava anche l’azione penale) era una figura assolutamente anomala. Credo che la separazione delle professioni sia un errore. A maggiori esperienze corrisponde un migliore bagaglio professionale. In Francia e in Germania, ad esempio, è un merito aver esercitato diverse funzioni.
Negli ultimi sedici anni il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto 2 magistrati su mille, quello inverso 3 su mille (compresi passaggi in corte di appello e in Cassazione) secondo lei come può sostenersi che la separazione delle carriere (questo l’effetto dell’introduzione dell’opzione entro un termine), potrebbe influire positivamente sul processo penale?
Luciano Violante: Non c’entra nulla. Se si considera l’alta percentuale di proscioglimenti e di assoluzioni, ci si rende conto che quello della subalternità del giudice al pm è un sospetto infondato.
In Magistrati, Lei ha affermato che “bisogna fissare il principio dello stare decisis”, invocando anche ragioni di natura economica. Una parte consistente della magistratura, critica aspramente la proposta di riforma ordinamentale che prevede la creazione del fascicolo delle c.d. performance. Si sottolinea che una valutazione parametrata all’esito degli atti e dei provvedimenti, nelle successive fasi rischia di minare l’indipendenza e ingessare il diritto vivente, svuotandone il ruolo propulsivo, fino a introdurre un sistema contrario al dettato costituzionale (art.101 Cost.) e gerarchico, come lei lo definì nello stesso saggio. Non intravede il pericolo che un sistema di valutazione della professionalità fondato sulle verifiche degli esiti dei procedimenti rischi di produrre l’effetto di trasformare il giudice da interprete dei principi costituzionali e delle carte dei diritti fondamentali a mero ratificatore del precedente per evitare che la sua decisione, magari innovativa, sia censurata e che l’effetto finale sia, per eterogenesi dei fini, quello dell’abbassamento dell’impegno a cambiare la giurisprudenza per la migliore tutela possibile dei diritti fondamentali?
Luciano Violante: Sono anche io critico sul cosiddetto fascicolo. È la proposta di chi non sa che cosa è un processo. L’ordinamento che prevede tre gradi di giudizio presuppone che siano possibili valutazioni diverse. Tuttavia ci sono state troppe iniziative penali avventate che hanno distrutto senza fondamento la reputazione e la vita di troppe persone e di troppe famiglie. Gli errori si pagano sempre. E poi, guardi non è che le decisioni innovative siano di per sè corrette. Possono anche essere delle emerite sciocchezze. Lei comunque tocca un punto di fondo. Compito principale del giudice è la riforma dell’ordinamento o l’equa risoluzione dei conflitti? Io penso che la riforma sia compito primario delle istituzioni politiche.
Pensi alla vicenda della procreazione medicalmente assistita, alla quale sono seguiti diversi interventi del giudice costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo che ne confermarono pienamente le ragioni di base. Non la considera, paradossalmente, una conferma di quella sua affermazione “Il diritto che non riconosce il valore creativo della contestazione alla legge non progredisce, statico” che Lei stesso scrive in Giustizia e mito, insieme a Marta Cartabia. Non crede che la naturale vocazione del diritto ad implementarsi per effetto dell’interpretazione innovativa dei giudici, al quale concorre quella dei pubblici ministeri degli affari civili costituisca un valore fondamentale dei moderni sistemi democratici?
Luciano Violante: Purché il magistrato comprenda che lui non é il sagace inventore di nuove intelligenti interpretazioni, ma il custode della certezza dei diritti. Cito il caso Stamina. Molti uffici giudiziari disapplicarono direttamente il decreto legge Balduzzi, senza ricorrere alla Corte Costituzionale. Fu un abuso grave.
Il nostro ordinamento prevede come mezzo per contestare la legge il ricorso alla Corte Costituzionale. Questa è la via per fare evolvere il diritto. In ogni caso tra il puro arbitrio interpretativo e il subalterno ossequio al precedente ci sono molte vie di mezzo. Puoi certamente discostarti da una interpretazione dominante, ma devi spiegarne accuratamente le motivazioni. Nei paesi di common law il giudice è vincolato al precedente non per questo è meno indipendente di un giudice europeo. Il cittadino ha diritto di sapere prima, non dopo, che cosa può fare e che cosa non può fare. Il nostro ordinamento, come altri in Europa, si sta evolvendo verso il diritto giurisprudenziale, che dà centralità alla sentenza piuttosto che alla legge; questo cambiamento esige un di più di responsabilità e di professionalità. E forse anche una riflessione più attenta da parte della stessa magistratura sulle trasformazioni che sono in corso.
Lei ha dedicato un libro ai doveri dell’uomo e, nel suo più recente “Senza vendette”, si duole del fatto che la nostra sia un’era che tende verso i diritti senza riflettere adeguatamente sui doveri, tanto cari a Mazzini. Qual è, secondo lei, il dovere più pregnante al quale il magistrato – sia giudice che pubblico ministero- non può e non deve sottrarsi: ricercare la verità, osservare la legge, salvaguardare i diritti? Oppure quale?
Luciano Violante: Il dovere di pensare che potrebbe sbagliare.
Non pensa che nel dovere di fedeltà alla Repubblica, sul quale pure Lei ha insistito, imponga ad ogni magistrato l’impegno di rendere viva la Costituzione nella infinita varietà delle vicende giudiziarie? Quale potrebbe e dovrebbe essere la sintesi fra diritti fondamentali dell’uomo e certezza del diritto, se mai si possa giungere ad una sintesi?
Luciano Violante: Dal punto di vista procedurale lo strumento é sempre il ricorso alla Corte. Ma non basta. Il magistrato acquisisce, attraverso l’esercizio colto, non puramente burocratico, della professione, un complesso di competenze e di valutazioni che lo legittimano come intellettuale capace di affrontare anche sul piano della letteratura scientifica le questioni che lei pone. Ho l’impressione che la magistratura debba riconquistare un proprio protagonismo nella cultura giuridica.
La proprietà pubblica: oblio di un concetto di Giancarlo Montedoro
Che fine ha fatto la proprietà pubblica?
Se lo chiede un libro di Paolo Maddalena “La rivoluzione costituzionale – Alla riconquista della proprietà pubblica”, un libro sincero ed appassionato, franco al limite della durezza come si conviene ai testimoni del nostro tempo (specie se lungamente impegnati nel difficile mestiere del giudicare).
La rivoluzione costituzionale è ovviamente un ossimoro.
Ma nemmeno tanto a ben vedere, sempre la nozione di Costituzione si muove fra potere istituente o costituente e potere istituito o costituito, sempre c’è nella vita sociale e del diritto la perenne dialettica fra movimento ed istituzione.
Quanto poi alla rivoluzione che ha condotto all’adozione della nostra Carta Costituzionale essa è stata sempre vista nostalgicamente alla luce della esperienza repubblicana come una “rivoluzione tradita” e dai laudatores temporis acti, alla luce dell’esperienza pre-repubblicana, al più come una illusoria “rivoluzione promessa” (ma, si sottintendeva, difficilmente attuabile).
Quindi l’accostamento della parola rivoluzione e della parola Costituzione non è un azzardo ed ha numerosi precedenti.
Il libro coglie una questione che è al cuore del progetto moderno: il deperimento della sfera pubblica. E – con essa – il deperimento della proprietà pubblica.
La crisi del demanio.
Le tante crisi drammatiche, tragiche che si affacciano sul teatro della storia (dalle crisi ambientali a quelle finanziarie fino ad alcuni conflitti bellici che ritornano nel cuore dell’Europa) ne sono il portato ed il sintomo.
Il libro è un j’accuse - la lettera di Zola del 13 gennaio 1898 metteva sotto accusa un sistema militare e giudiziario - in questo caso è un esponente della magistratura prima contabile e poi costituzionale, dedicatosi per anni allo studio del diritto romano e poi del diritto ambientale, a criticare l’assetto di tutto un sistema giuridico, interrogandosi sullo stato di salute della proprietà pubblica come vicenda paradigmatica per comprendere gli esiti del progetto moderno.
Il libro è una lamentazione, nel solco di una letteratura intera dal profeta Geremia a Giobbe e Kafka.
Geremia lotta con Dio quando grida: “Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?” (Ger. 12, ,1.3).
Giobbe lotta per avere un Dio vicino (a volte disperiamo di ciò) e sperimenta l’assoluta vanità dell’innocenza personale (l’esito bellico del capitalismo finanziario deregolato assume l’aria del già visto alla luce delle Scritture così come l’inanità degli sforzi personali e collettivi per la tutela della sfera pubblica di fronte allo scatenamento degli egoismi incontrollati è).
In tutti i racconti di Kafka la giustizia è un’entità lontana ed inaccessibile, remota ed incomprensibile.
La lamentazione ha una tradizione anche musicale.
Le lamentazioni fanno parte delle nuove tendenze cinquecentesche che mostrano una particolare attenzione al rapporto tra musica e poesia. I musicisti in questo periodo cercano di dare visibilità sonora alle parole. Grazie a particolari procedimenti compositivi, riescono a trasporre musicalmente o addirittura graficamente, il significato del testo poetico nelle loro composizioni.
Un esempio molto famoso di lamentazione è l’aria (una delle mie preferite) “When I am laid in earth”, tratta dall’opera “Dido and Aeneas” (1689) di Henry Purcell (1659-1695). Qui compare il tetracordo cromatico discendente (sol – fa# – fa – mi – mib – re) che è ripetuto incessantemente e attorno a esso si muove l’intera aria.
Per questo particolare esempio possiamo già parlare di aria-lamento, cioè un pezzo musicale con una sua autonomia, aderente alle esigenze del testo. La voce di un solista si erge su un accompagnamento strumentale e attraverso questo monologo sonoro il cantante dilata il tempo della rappresentazione ed esprime la sua dimensione interiore.
La lamentazione per la privatizzazione del mondo dispiegata in analisi storica delle dinamiche giuridiche della proprietà; questo offre il libro.
Una sorta di generale sguardo sul complessivo abbandono di strade ragionevoli.
Ma la lamentazione di un giurista non sarebbe sufficiente.
Un giurista (e Maddalena tale è) deve saper indicare strade.
La strada è l’impegno civile.
Un libro di impegno civile che fa pensare a Rousseau al Discorso sull’origine della disuguaglianza, a quell’apologo sulla nascita del possesso e della proprietà come origine dell’infelicità umana.
Va letto così come un libro testimonianza, un libro accusatorio.
La posizione assunta è coraggiosa: essa presuppone che siano fatti i conti con la funzione dell’intellettuale nel mondo della finanziarizzazione dell’economia, della tecnicizzazione del sapere, del conflitto generalizzato e caotico che dissolve gli Stati e li ricrea.
Una funzione – quella intellettuale – in via di deperimento, assediata come è dal muoversi di potenti organizzazioni di comunicazione create per la manipolazione del consenso e la passivazione delle masse, ultimo triste esito del Soggetto moderno, prefigurato dai francofortesi (analizzando il mondo dell’opinione pubblica travolto dalla dottrina Goebbels).
La dottrina manipolatoria delle masse che dilaga nell’assenza o nella vacanza dei moderni soggetti del pluralismo sociale (partiti organizzati, sindacati, organizzazioni religiose, uniche queste ultime a resistere con dignità ma purtroppo senza ricucire un afflato ecumenico che sia in grado di frenare l’involuzione in atto) e nell’insorgenza di nuovi populismi e di tecniche digitali disumanizzanti.
Naturalmente il giurista è un intellettuale specifico, poi quando si tratta di un magistrato o di un ex magistrato (e giudice costituzionale) è pacifico che il ruolo incontri i limiti del riserbo e del dover evitare uno schieramento aperto per specifici partiti, senza rinunciare ad un’etica dell’impegno che è la sola che può vivificare la professione, evitando che scada nel mero problem solving.
Per il magistrato il magistero intellettuale non può non essere tutto nel riferimento alla Costituzione.
Una Costituzione che va riletta oggi – realisticamente – nel quadro del globalismo (di cui l’autore evidenzia tutti gli squilibri).
Il problema della de-territorializzazione del diritto, della nascita di un diritto privato globale (anche detto lex mercatoria per le intuizioni di Francesco Galgano) e poi di un diritto globale senza Stato, basato sulla sola dinamica e primazia dei diritti individuali ed economici.
A queste dinamiche arcinote si accompagna la crisi del costituzionalismo e dei partiti che ne sono stati il motore ed il soggetto.
Ai partiti spettava un ruolo di direzione intellettuale e morale che è andato perduto.
Una tragedia moderna.
L’economico ha finito con il prevalere sul politico.
La globalizzazione – per i più - è accettata come un dato e non vissuta come un problema.
Ed eccoci qui di fronte a catastrofi che non casualmente si succedono, non cigni neri, ma eventi a lungo preparati e ben comprensibili che dovremmo capire nella loro interna logica se vogliamo realmente difendere le società aperte, le società decenti.
Si tratta del portato di una sorta di “pensiero magico” che ci ha infettato le menti.
Un pensiero che si stende su di noi come una cappa opprimente. Una cappa che svuota tristemente la modernità.
La politica ha perso la sua capacità di esercitare un ruolo direttivo intellettuale e morale sulla vita e sulle società.
La crisi del costituzionalismo è insieme crisi dei partiti e crisi dello Stato; da questa consapevolezza, approfondendo il solco della riflessione del pensiero novecentesco della crisi ( Kelsen – Schmitt – Santi Romano ) ora emerge l’economico come dato insuperabile mentre dovremmo vederlo come problema e quindi come dato – certo – ma governabile.
Ossia dovremmo iniziare a domandarci: quale globalizzazione è desiderabile (prima di metterla rapidamente in soffitta rimpiazzandola con chiusure nazionalistiche e guerre)? Quale declino (se declino ormai sembra il destino dell’Occidente) ? con quali vinti e quali vincitori? Siamo ancora in tempo per una globalizzazione ben temperata che non soffochi le sfere pubbliche nazionali e per questo motivo non determini reazioni antiliberali?
La post-modernità è stata spesso funestata da un pensiero unico (questo Maddalena lo mette bene in evidenza nel capitolo sul contesto finanziario e globale connotato dal pensiero neoliberista che Todorov chiamava neo-totalitarismo liberale).
Tale pensiero ha improntato le politiche economiche, in risposta alla crisi fiscale dello Stato (cfr. Buchanan e Wagner, La democrazia in deficit – L’eredità politica di Lord Keynes) costruendo una logica onnipervasiva del sacrificio che, peraltro, non ha esitato a continuare a far debito nel tentativo di comprare tempo.
Lo vuole l’Europa è stato il mantra e così, dai famosi parametri macroeconomici di Maastricht ( 60% nel rapporto debito/PIL 3% del deficit ), sono fiorite molteplici conseguenze costituzionali in forma di regole di bilancio precipitate - attraverso gli obiettivi di medio termine, che disegnavano la marcia di avvicinamento a detti parametri - nel calcolo del deficit c.d. strutturale mediante sofisticati strumenti come l’output gap ce rendono le politiche dipendenti dal calcolo tecnico e svuotano dall’interno le possibilità di politiche democratiche ( peraltro spesso improntate solo ad assecondare i desideri della propria constituency ).
Ormai è un ricordo la lunga marcia dei trenta gloriosi, la lunga vicenda dell’attuazione costituzionale italiana ( la Costituzione è in gran parte fuori centro nel mondo post - ideologico e post-partitico ).
Si succedono – Maddalena lo ricorda citando Luciano Gallino – “privatizzazioni”, “modernizzazioni”, “aziendalizzazioni”, sistematiche politiche di svalutazione del lavoro (fondamento della Repubblica).
La partita tuttavia è ancora aperta.
La storia è sempre aperta.
Comprendere la fase che stiamo attraversando per viverne le contraddizioni.
Ordine e caos si fronteggiano (lo abbiamo scritto nel testo Il diritto pubblico fra ordine e caos).
Se la crisi del ‘29 è stata crisi di sovrapproduzione, quindi dell’economia reale la crisi del 2007 – 2008 è stata in origine crisi finanziaria poi comunicatasi all’economia reale.
La crisi del 2007-2008 non ha trovato risposte sistemiche (una risposta sarebbe stata l’adozione del c.d. global legal standard elaborato dal Ministro Tremonti alcuni anni fa se il G20 l’avesse adottato e poi implementato ma i tempi non erano maturi e si preferì una politica dei due tempi , salviamo le banche prima e riformiamo il sistema poi e l’unione bancaria attende ancora di essere completata mentre l’UE è investita ormai da venti di guerra).
Si verifica quindi ancora la profezia marxiana che è lode al capitale “ Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”.
Le forme giuridiche dominanti sono quelle del capitalismo finanziario: le scommesse (studiate da Luca Buttaro mio indimenticato maestro di diritto commerciale), i derivati conformati da troppo scarsi limiti, ma investiti dalla giurisprudenza amministrativa che ha ammesso come legittime forme di autotutela su detti contratti quando sperequati a danni del pubblico erario.
Occorre continuare a produrre una critica del paradigma neoliberista (niente affatto liberale) per approdare ad una sorta di liberalismo non aggressivo come orizzonte del futuro.
Le democrazie sono forti perché (e quando) sanno autocorreggersi.
Occorre vedere ostinatamente il lato oscuro delle cose.
Ed allora sia chiaro che il paradigma neoliberale viene veicolato in molti modi ed in un processo complesso che qui si ricorda sinteticamente per punti:
1 - Il centro dell’ordine economico europeo è la UE – ordinamento incompleto (singolare esperimento di una burocrazia, di un’amministrazione, che tenta di farsi costituzione), tecnocratico, con deficit democratico, peraltro anche connotato da veti paralizzanti, a dominanza tecnico-scientifica e intergovernativa connotato dal modello della governance che significa spesso dominio di potenti lobbies economiche nella regolazione;
2 - La suddetta UE è passata da forme di integrazione attraverso il diritto (la giurisprudenza della Corte di Giustizia dal caso Costa Enel in avanti) a forme di integrazione attraverso la moneta, ma non è riuscita a realizzare, purtroppo, una unione attraverso la politica;
3 - La mancanza di integrazione politica si accoppia ormai alla mancanza di integrazione sociale nelle nazioni europee più deboli;
4 - La troppo rigida primazia del diritto UE – di impronta tecnicizzante – e la sua invadenza sono evidenti, marginalizzando i Parlamenti nazionali e mortificando il principio di sussidiarietà;
5 - L’ordine giuridico del mercato (Irti) è affidato al solo diritto dei contratti e della concorrenza (troppo poco ma è quello che è possibile quando l’economico domina il politico) e la costituzione economica è pensata come una sfera separata di rapporti, autonomizzati dalla restante parte della Carta fondamentale;
6 - Le libertà economiche – sacrosante ovviamente – sono uno strumento di ridisegno anche fiscale e di armonizzazione (senza direttive) dei diversi ordinamenti nazionali;
7 - La concorrenza smantella gli aiuti di Stato e gli investimenti pubblici devono rispettare il principio (criterio) dell’investitore privato principio che evita sprechi ma può condizionare le politiche sociali;
8 - Si sancisce la neutralità dei regimi proprietari (proprietà pubblica e proprietà privata vengono equiparate nelle politiche di concorrenza) con il risultato di rendere invisibili i beni pubblici confinati in una regola di indifferenza che li penalizza (le spiagge contano per fare sacrosante gare ma la loro disciplina dovrebbe anzitutto essere disciplina di usi del territorio a favore delle popolazioni oscurata dalla concorrenza per un mercato dei beni);
9 - Il dialogo fra le Corti – fino a quando non saranno rivisti a fondo i presupposti della giurisprudenza CILFIT – appare a dominanza della Corte UE con conseguente rischio di trasformazione del dialogo in monologo che schiaccia i margini di apprezzamento dei giudici nazionali;
10 - L’inter-legalità è una prospettiva oggetto di studio ma ancora di Là da venire;
11 - La prospettiva analizzata da Teubner (Conflitti costituzionali) appare irenica e svaluta eccessivamente il ruolo del diritto pubblico confidando in un ruolo costituente della lex mercatoria;
12 - Più praticabile e realistica la prospettiva delineata di Azzariti che passa attraverso una costante e progressiva rivalutazione delle costituzioni nazionali, per l’elaborazione di un’Europa politica fondata sul patrimonio costituzionale comune e non sul diritto dei mercati.
Il libro di Maddalena analizza questi processi di privatizzazione del mondo, la finanza creativa, i derivati, la finanziarizzazione dei mercati, i meccanismi di superamento delle imprese pubbliche, le privatizzazioni, liberalizzazioni e delocalizzazioni parlando di sistema “predatorio” neoliberista e della necessità del ritorno ad un sistema keynesiano (ritorno delineato, con molta pragmatica prudenza anche da Giuliano Amato in “Bentornato Stato, ma…”, breve interessante saggio appena uscito quest’anno).
A volte Maddalena mostra troppa fiducia nella democrazia dal basso (mitizzando la nozione di “popolo” talvolta scritto con la maiuscola come un tributo al titolare della sovranità cfr. pag. 47 ): chi scrive ritiene che la democrazia sia un delicato ed imperfetto sistema di pesi e contrappesi (checks and balances) per porre limiti al potere ma soprattutto un sistema per scegliere delle elite governanti, con un processo aperto, connotato dalla presenza dei partiti e non incentrato sulla democrazia diretta (che pure può essere utilizzata ma senza abusarne).
Ma l’evocazione del popolo (ossia di tutti i cittadini) a ben vedere si lega, nella riflessione di Maddalena, al ruolo della proprietà pubblica, vera e propria cenerentola di questi anni.
Il demanio è dimenticato.
Esso è stato fatto oggetto di politiche di dismissione.
Non è più nemmeno tanto studiato dal punto di vista teorico (si rinvia per questo al nostro “Alla ricerca del demanio perduto ovvero le vicende della proprietà pubblica fra Stato e regioni” in AA.VV. La demanialità fra presente e futuro, pubblicazione dell’Istituto Veneto di Scienze lettere ed arti del 2015 dovuta all’intelligente e profondo sguardo di Luigi Garofalo, coltissimo romanista, appassionato lettore dei giuristi della crisi e curatore della pubblicazione e degli atti del convegno ospitato allora dall’Istituto).
La strada per recuperare è la ricostituzione del patrimonio pubblico e non la teorica dei beni comuni secondo Maddalena privi delle caratteristiche di inalienabilità, inusucapibilità e inespropriabilità che hanno pur sempre i beni demaniali.
La parabola della teorica dei beni comuni, intesi come beni che si collocano oltre il pubblico ed il privato, vede i beni demaniali sparire, come fu proposto dalla Commissione Rodotà (ben al di là delle convinzioni del grande studioso secondo Maddalena avendo Rodotà solo preso atto dell’orientamento della maggioranza dei membri della Commissione nominata dal Ministro Mastella) per essere attribuiti a privati o pubbliche amministrazioni che possono alienarli.
Un esito da evitare – secondo l’autore - attraverso i rimedi azionabili anche in sede giudiziaria espressivi del diritto di resistenza di dossettiana memoria (diritto che viene sugellato dall’esistenza di un giudice delle leggi) le quante volte scelte legislative risultino effettuate irragionevolmente a detrimento del patrimonio pubblico e dei beni demaniali.
Non resta che augurarsi che ad una scelta oppositiva – che sovraespone la giurisdizione e non è alla lunga sostenibile, segua – finalmente – una politica resipiscente.
In tal senso l’alternativa “diritto o barbarie” posta dall’ultima riflessione di Azzariti passa necessariamente per il ritorno ad una buona politica, anche a livello sovranazionale.
Una buona politica non può non restaurare il demanio e curare beni culturali e paesaggio.
Il conflitto bellico nato nel cuore dell’Europa non ci fa nutrire in proposito molte illusioni, ma compito dell’intellettuale è mantenere la lanterna nella notte.
Riteniamo utile pubblicare il Comunicato dell’ANM sul “perché dello sciopero” indetto per la giornata di domani lunedì 16 maggio 2022, ricordare il link della scheda adesione editabile e riproporre la lettura degli articoli:
Introduzione all’Assemblea Generale dell’ANM del 30 aprile 2022 del Presidente Giuseppe Santalucia,
Vent’anni dopo di Morena Plazzi,
I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai di Riccado Ionta,
Quale giudice? di Paola Cervo,
Le proposte di riforma partono da un’immagine distorta della magistratura di Angela Arbore.
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