Il caso Prokuratuur: il difficile dialogo tra le Corti e le conseguenze della sentenza della Corte di giustizia nell’ordinamento nazionale
di Giovanni Petroni
Sommario: 1. La sentenza Prokuratuur - 2. La disciplina italiana e la riforma attuata con d.l. 132/2021 - 3. Le prese di posizione della giurisprudenza italiana a seguito della sentenza Prokuratuur - 4. Il ruolo del giudice nazionale nell’ordinamento europeo e gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia - 5. Profili di criticità della soluzione adottata dalla giurisprudenza nazionale e prospettive future.
1. La sentenza Prokuratuur
Con sentenza del 2 marzo 2021 (in prosieguo: la «sentenza Prokuratuur»), la Corte di giustizia[1], rispondendo ad un rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte suprema estone, ha affermato che il diritto dell’Unione (in particolare, l’articolo 15 della direttiva 2002/58/UE relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, letto alla luce degli articoli 7, 8, 11 e 52 della Carta di Nizza) osta a una disciplina nazionale che:
(i) non circoscriva l’accesso da parte delle autorità pubbliche ai dati relativi alle comunicazioni telematiche o telefoniche effettuate da un utente o quelli relativi alla ubicazione delle apparecchiature da costui utilizzate alle sole ipotesi di «procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica»;
(ii) affidi, nel corso di un procedimento penale, la competenza ad autorizzare l’accesso a tali dati al pubblico ministero, organo che – per quanto garante della legalità nella fase delle indagini, dovendo esso ricercare anche gli elementi favorevoli all’indagato – non è ritenuto terzo ed imparziale in quanto è comunque parte nel procedimento.
Si tratta di un intervento che si colloca nel quadro della tendenziale espansione del diritto alla riservatezza della vita privata. Essa «quale bene in sé, è un fenomeno che ha trovato un forte elemento propulsivo nell’elaborazione estremamente avanzata, maturata in ambito eurounitario, del concetto di diritto alla privacy, come insieme di aspetti della vita delle persone che include e trascende gli aspetti tradizionali della riservatezza delle comunicazioni o del domicilio, della libera manifestazione del pensiero e, in generale, della libertà da ingerenze coattive pubbliche»[2].
In questo contesto, le decisioni della Corte di giustizia assumono un ruolo essenziale. Nelle varie tappe del percorso giurisprudenziale che ha condotto alla sentenza Prokuratuur, la Corte di Lussemburgo è, infatti, intervenuta sulla materia, contribuendo a conformare la disciplina europea, sia in relazione all’aspetto della conservazione dei dati – sotto il profilo della durata e dell’oggetto di tale conservazione – sia in relazione all’accesso ad essi da parte delle autorità pubbliche[3].
2. La disciplina italiana e la riforma attuata con d.l. 132/2021
La disciplina italiana sulla conservazione e sull’utilizzo dei dati del traffico telefonico e telematico – elementi conoscitivi riportati in quelli che nel gergo tecnico vengono chiamati “tabulati” – è contenuta nell’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
Tale norma, nella versione vigente fino al 29 settembre 2021, prevedeva che i dati potessero essere conservati per un periodo determinato[4] per finalità di accertamento e repressione dei reati e che il pubblico ministero ne potesse disporre l’acquisizione con proprio decreto motivato.
La Corte di cassazione, con orientamento costante, aveva ritenuto che tale norma fosse compatibile con l’articolo 15 della direttiva 2002/58, come interpretato dalla Corte di giustizia, poiché la deroga ivi stabilita alla riservatezza delle comunicazioni era prevista per un periodo di tempo limitato, aveva come esclusivo obiettivo l’accertamento e la repressione dei reati (la cui gravità poteva essere oggetto di apprezzamento in concreto da parte dell’autorità giudiziaria), ed era subordinata alla emissione di un provvedimento da parte del pubblico ministero, ossia di un’autorità giurisdizionale[5].
Senza soffermarsi su possibili profili di criticità di questa conclusione, va evidenziato che in tale contesto è sopraggiunta la sentenza Prokuratuur, che ha posto, in modo assai evidente, problemi di compatibilità tra il diritto unionale e l’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 nella versione all’epoca vigente, nella parte in cui esso: (i) subordinava l’acquisizione dei dati ad un provvedimento del pubblico ministero; (ii) non fissava alcun limite qualitativo, in termini di gravità, in ordine ai reati che potevano legittimare una simile intrusione nella privacy.
Pertanto, con decreto legge n. 132 del 30 settembre 2021, il Governo italiano è intervenuto su tale disciplina, in ragione della «straordinaria necessità ed urgenza di garantire la possibilità di acquisire dati relativi al traffico telefonico e telematico per fini di indagine penale nel rispetto dei principi enunciati dalla Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 2 marzo 2021, causa C-746/18, e in particolare di circoscrivere le attività di acquisizione ai procedimenti penali aventi ad oggetto forme gravi di criminalità e di garantire che dette attività siano soggette al controllo di un’autorità giurisdizionale»[6].
Modificato dal citato decreto legge, l’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 prevede oggi che l’accesso ai dati telefonici e telematici possa avvenire solamente: (i) in presenza di sufficienti indizi circa la commissione di reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni (salve alcune limitate eccezioni); (ii) a condizione che i dati risultino rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini; (iii) previa emissione di un decreto motivato del giudice che procede, su richiesta del pubblico ministero o su istanza del difensore dell’imputato, della persona sottoposta a indagini, della persona offesa e delle altre parti private[7].
È inoltre prevista la possibilità di un intervento d’urgenza del pubblico ministero, che il giudice deve convalidare entro quarantotto ore. La mancata convalida nel termine stabilito è espressamente sanzionata con l’inutilizzabilità dei dati acquisiti.
La novella legislativa, che non contiene alcuna disciplina transitoria[8], riguarda le acquisizioni di tabulati compiute a partire dal 30 settembre 2021, data di entrata in vigore del decreto legge.
Salva la possibilità di modifiche ad opera della legge di conversione – al vaglio delle Camere contestualmente alla stesura del presente articolo[9] – rimane allo stato demandata alla giurisprudenza la soluzione della questione attinente alla compatibilità tra i principi espressi dalla sentenza Prokuratuur e la precedente versione dell’articolo 132 del d.lgs. 196/2003, così come quella relativa all’utilizzabilità nel processo dei dati sulla base di tale norma acquisiti. Si tratta di problematiche che possono assumere un valore dirimente in molti procedimenti penali ora già pendenti.
3. Le prese di posizione della giurisprudenza italiana a seguito della sentenza Prokuratuur
Gli interventi giurisprudenziali che si sono occupati di tale questione possono essere distinti in due filoni: (i) da un lato, vi sono i decreti dei giudici delle indagini preliminari ai quali i pubblici ministeri, alla luce del recente arresto della Corte di giustizia, hanno avanzato una richiesta di acquisizione dei tabulati; (ii) dall’altro, vi sono i provvedimenti (ordinanze e sentenze) che si sono occupati dell’utilizzabilità processuale dei tabulati già acquisiti in conformità alla normativa ante-riforma.
In generale, può dirsi che l’orientamento fino ad ora assolutamente prevalente – ed al momento accolto anche dalla giurisprudenza di legittimità – ha “salvato” la normativa domestica e, dunque, la procedura ivi prevista e le attività di acquisizione della prova che sulla base di essa sono state compiute.
Si è affermato, infatti, che la decisione della Corte di giustizia non ha effetti applicativi immediati e diretti, a causa dell’indeterminatezza delle espressioni in essa utilizzate per legittimare l’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata dei cittadini – ossia il riferimento operato ai casi di “lotta contro le forme gravi di criminalità” o di “prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica” – la cui concreta declinazione sarebbe necessariamente demandata alla legge nazionale[10].
D’altro lato, si è esclusa l’equiparabilità tra il P.M. estone e quello italiano, atteso che quest’ultimo, per il suo status ordinamentale, è organo facente parte dell’autorità giudiziaria e come tale destinatario dei doveri di imparzialità e di rispetto della legge ed anche delle guarentigie costituzionali poste a tutela della piena autonomia della funzione[11]. La Corte di cassazione, su questo secondo punto, non si è ancora espressa.
Solamente in due provvedimenti di merito si è ritenuto che la decisione della Corte di giustizia avesse dei riflessi immediati nell’ordinamento nazionale, ravvisandosi in particolare un «sopravvenuto contrasto» tra la normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di giustizia, e l’articolo 132, comma 3, del d.lgs. 196/2003, nella sua versione precedente alla riforma, nella parte in cui attribuiva la competenza ad emettere il decreto motivato di acquisizione al pubblico ministero anziché al giudice[12].
Altrettanto isolato è stato il provvedimento dell’autorità giudiziaria che ha ritenuto di dover sollevare una nuova questione pregiudiziale, chiedendo alla Corte di giustizia di esprimersi specificamente sulla compatibilità tra la previgente versione dell’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 e la normativa europea[13]. Tuttavia, a seguito della riforma di cui si è detto, tale domanda pregiudiziale è stata ritirata, con un provvedimento in cui lo stesso organo ha evidenziato che “la normativa di nuova emanazione” vale “solo per il futuro” e che, dunque, le attività di acquisizione già svolte sono da ritenere legittime.
4. Il ruolo del giudice nazionale nell’ordinamento europeo e gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia
Prima di soffermarsi sulle perplessità che suscitano le menzionate decisioni dei giudici italiani, pare opportuno svolgere alcune riflessioni, necessariamente sintetiche, sul ruolo del giudice nazionale nell’ambito dell’ordinamento europeo e sugli effetti delle sentenze della Corte di giustizia rese in sede di rinvio pregiudiziale.
Come noto, ogni giudice nazionale è anche organo giurisdizionale dell’Unione europea, incaricato di vegliare – in virtù del principio di cooperazione previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE – sull’applicazione e sull’osservazione del diritto unionale nell’ordinamento giuridico nazionale[14].
Il giudice nazionale deve dunque: (i) fornire ove possibile una interpretazione del diritto interno conforme al diritto dell’Unione, sia esso dotato o meno di effetti diretti[15]; (ii) applicare il diritto dell’Unione dotato di effetti diretti e tutelare i diritti che questo attribuisce ai privati, disapplicando le disposizioni nazionali eventualmente contrastanti, sia anteriori sia successive alla norma europea[16]; (iii) in presenza di un contrasto, insanabile in via interpretativa, tra una norma interna ed una norma dell’Unione priva di effetti diretti, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’articolo 117 Cost. Ulteriori articolazioni del quadro ora descritto derivano dai casi in cui vengano in rilievo i c.d. “controlimiti”[17] e di c.d. “doppia pregiudizialità”[18].
In un quadro così complesso, in presenza di un dubbio sull’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla compatibilità con esso del diritto interno, risulta fondamentale l’instaurazione di un dialogo con la Corte di giustizia[19], che si estrinseca principalmente attraverso l’istituto del rinvio pregiudiziale. Esso, infatti, garantisce una cooperazione diretta, nell’ambito della quale la Corte di Lussemburgo fornisce ai giudici nazionali (ivi inclusa la Corte costituzionale)[20], in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, gli elementi d’interpretazione di tale diritto necessari per risolvere la controversia che essi sono chiamati a dirimere[21].
Le sentenze interpretative rese in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di Lussemburgo hanno normalmente effetti erga omnes ed ex tunc.
Infatti, secondo una giurisprudenza costante della Corte di giustizia[22] - avallata anche dalle superiori autorità giurisdizionali italiane[23] – l’interpretazione che essa fornisce di una norma di diritto unionale, nell’esercizio della competenza attribuitale dall’art. 267 TFUE, chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa come deve o avrebbe dovuto essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore. L'interpretazione del diritto eurounitario fornita in tale contesto ha dunque efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri.
Ciò perché l’interpretazione di una norma di diritto unionale fornita dalla Corte di giustizia «si limita a chiarire e a precisare il significato e la portata della norma stessa, così come essa avrebbe dovuto essere interpretata sin dal momento della sua entrata in vigore», con la conseguenza che la norma interpretata – purché dotata di efficacia diretta – può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e sviluppatisi prima della sentenza, purché non esauriti[24].
In via eccezionale, e in applicazione del principio generale della certezza del diritto, è la stessa Corte – e non il giudice nazionale – a poter limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata, al fine di tutelare l’affidamento riposto in rapporti giuridici costituiti in buona fede e di bilanciare ulteriori interessi potenzialmente pregiudicati dall’interpretazione da essa fornita[25]. In questi casi alle pronunzie della Corte di giustizia è espressamente attribuita efficacia ex nunc, fermo restando la salvaguardia dei diritti dei privati che avevano già promosso azioni giudiziarie in linea con l'orientamento successivo fatto proprio dal giudice di Lussemburgo.
5. Profili di criticità della soluzione adottata dalla giurisprudenza nazionale e prospettive future
Tornando alla sentenza Prokuratuur, sembra che i giudici italiani non abbiano al momento adeguatamente valutato la portata dei principi ivi espressi, che, tenuto conto degli effetti erga omnes ed ex tunc della citata sentenza, pongono con evidenza delle questioni di compatibilità tra la normativa europea ed il diritto interno ante-riforma, così come peraltro confermato proprio dall’interpolazione della normativa effettuata in via d’urgenza dal Governo.
In questa ottica, la vicenda sembra poter essere presa ad esempio delle difficoltà che connotano il dialogo tra i due livelli giurisdizionali.
In primo luogo, la genericità del riferimento alle «forme gravi di criminalità» - sebbene effettivamente, per ragioni di certezza del diritto, non risulta risolvibile attraverso il ricorso ad una valutazione della gravità del reato da effettuarsi di volta in volta da parte dell’autorità giudiziaria procedente – non parrebbe privare la sentenza della Corte di effetti immediati rispetto all’ordinamento interno.
Da tale connotazione della disposizione della direttiva europea si potrebbe al più ricavare che essa – nell’interpretazione fornitane dal giudice europeo – è priva dei caratteri di chiarezza e precisione e che non può essere ad essa riconosciuta natura self-executing.
Tale conclusione, tuttavia, lungi dall’impedire un accertamento sull’incompatibilità della direttiva con la normativa interna ante-riforma – la quale obiettivamente non fornisce alcuna limitazione legata alla gravità dei reati – avrebbe potuto giustificare la sollecitazione di un intervento della Corte costituzionale, al fine di valutare la compatibilità tra l’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 e la direttiva in questione, quale normativa interposta dall’articolo 117 Cost.
Si tratterebbe di un intervento additivo della Corte costituzionale – nell’ottica di individuare i reati dotati della “gravità” richiesta dalla normativa europea – la cui praticabilità appare tuttavia presentare delle criticità in quanto essa potrebbe incontrare dei limiti in ragione della necessità di preservare le attribuzioni del Parlamento. Del resto, a seguito della riforma legislativa, resterebbe da valutare se un simile intervento della Corte costituzionale possa avere ad oggetto l’eventuale mancanza di una disciplina transitoria diretta a regolare le fattispecie verificatesi sotto la vigenza della precedente formulazione normativa.
La questione sembrerebbe poter essere assai più agevolmente risolta dal legislatore attraverso l’opportuna introduzione di una norma transitoria, che consenta l’utilizzabilità dei dati solo in relazione a reati connotati da una certa gravità, ragionevolmente gli stessi contemplati dall’articolo 132, comma 3, del d.lgs. 196/2003 come attualmente formulato.
Più problematica appare la questione attinente alla previsione della competenza del pubblico ministero ad autorizzare l’acquisizione dei tabulati relativi ai dati di traffico telefonico e telematico. La Corte di giustizia, infatti, ha già considerato alcuni tra gli elementi più significativi caratterizzanti la magistratura inquirente italiana, che dunque potrebbe, nell’ottica dei giudici di Lussemburgo, essere accomunata al corrispondente organo estone quanto alla insussistenza del requisito della imparzialità[26], a prescindere dalle pur sussistenti differenze ordinamentali che li distinguono[27].
Considerato inoltre che il controllo giudiziario richiesto dalla Corte di giustizia, salve situazioni di urgenza debitamente giustificate, deve avere carattere preventivo[28], non sembra potersi ritenere legittima – neppure se fondata su una disciplina transitoria ad hoc – un’autorizzazione ex post del giudice, laddove l’acquisizione originariamente disposta dal P.M. non fosse connotata da alcuna ragione d’urgenza.
Va, tuttavia, rilevato che la stessa Corte di giustizia, pronunciandosi in materia di mandato di arresto europeo, ha ritenuto legittimo un intervento limitativo della libertà personale da parte della magistratura inquirente[29], sebbene la sua decisione debba poter formare oggetto di un ricorso giurisdizionale che soddisfi pienamente i requisiti inerenti a una tutela giurisdizionale effettiva[30]. Una trasposizione di un simile meccanismo nell’ambito della normativa in esame, quantomeno con riferimento ai tabulati acquisiti sotto la vigenza della precedente normativa, non appare ipotesi del tutto astrusa.
In questa ottica, pur potendosi configurare un certo margine di dubbio sull’interpretazione della normativa europea fornita nella sentenza Prokuratuur, parrebbe comunque auspicabile l’instaurazione di un dialogo con la Corte di giustizia, che possa specificare la propria giurisprudenza relativa al meccanismo di autorizzazione all’acquisizione dei dati da parte dell’“autorità giudiziaria”.
Vi è anche chi ha ipotizzato[31], nel caso in cui la Corte dovesse concludere per l’incompatibilità tra la normativa italiana ante-riforma ed il diritto europeo, una delimitazione della portata retroattiva degli effetti della pronuncia, dovendosi valutare, da un lato, l’innovatività dei principi in essa enunciati (che hanno precisato il significato di una disciplina europea particolarmente generica – quella contenuta nell’articolo 15 della direttiva 2002/58/UE – esaminandone i risvolti nell’ambito del processo penale) e, dall’altro, gli effetti pregiudizievoli che una sua applicazione retroattiva può avere in termini di giustizia e di sicurezza, oltre che di certezza dei rapporti giuridici.
[1] Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, del 2 marzo 2021, C-746/18, Prokuratuur (Condizioni di accesso ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche), che ha statuito con il beneficio delle conclusioni rese dall’avvocato generale Giovanni Pitruzzella. La sentenza ha formato oggetto di vari contributi in dottrina, tra i quali possono richiamarsi: F. Resta, Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna, in Giustizia Insieme, 2021; G. Spangher, Data retention: le questioni aperte, in Giustizia insieme, 2021; Di Stefano, La Corte di giustizia interviene sull'accesso ai dati di traffico telefonico e telematico e ai dati di ubicazione a fini di prova nel processo penale: solo un obbligo per il legislatore o una nuova regola processuale?, in Cassazione Penale, 2021; F. Rinaldini, Data retention e procedimento penale. Gli effetti della sentenza della Corte di giustizia nel caso H.K. sul regime di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: urge l’intervento del legislatore, in Giurisprudenza Penale, 2021.
[2] Così la relazione al disegno di legge di conversione del decreto legge 30 settembre 2021, n. 132, ove si evidenziano alcuni aspetti fondamentali dell’evoluzione del diritto alla privacy, ossia che «la crescita dell’attenzione verso le esigenze di tutela della vita privata è avvenuta anche in ragione dello sviluppo tecnologico degli ultimi decenni, che ha consentito l’impiego su larga scala di strumenti capaci di determinare forme di compressione di quei diritti in passato non concepibili. In questa prospettiva, la diffusione di reti e mezzi di comunicazione sempre più raffinati, anche nella capacità di raccolta, conservazione ed elaborazione dei dati, e l’ampio utilizzo di questi mezzi da parte della generalità dei cittadini hanno posto all’attenzione il fatto che attraverso essi sia possibile raccogliere informazioni, anche dettagliate, sulla vita privata delle persone che ne fanno uso: un aspetto che si è amplificato in ragione del fatto che l’accesso a quei dati e, prima ancora, la loro conservazione, proprio per l’idoneità conoscitiva che garantiscono, è diventato prezioso, in vista delle ordinarie e legittime attività di prevenzione e repressione dei reati, anche per gli Stati, i quali, quindi, hanno effettuato interventi diretti a consentire la più ampia e diffusa conservazione».
[3] Può ricordarsi anzitutto la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, dell’8 aprile 2014, C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland, che ha dichiarato invalida la direttiva 2006/24/CE concernente la conservazione di dati, per violazione del principio di proporzionalità. La direttiva, in particolare, non limitava sufficientemente l’ingerenza nella privacy, non prevedendo essa alcun criterio oggettivo che permettesse di garantire che le autorità nazionali competenti avessero accesso ai dati e potessero utilizzarli soltanto a fini di prevenzione, di accertamento o di indagini penali riguardanti reati che potessero essere considerati sufficientemente gravi da giustificare siffatta ingerenza, né le condizioni sostanziali e procedurali di un tale accesso o di una tale utilizzazione. Nell’alveo tracciato da questa pronuncia è intervenuta la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 21 dicembre 2016, C-203/15 e C-698/15, Tele2 Sverige, che ha ulteriormente delineato l’ambito di applicazione del principio di proporzionalità, sotteso alla normativa della data retention, limitando la possibilità di accedere ai dati personali degli individui ai soli reati gravi, previa autorizzazione di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente. Successivamente, con la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 2 ottobre 2018, C-207/16, Ministerio Fiscal, la Corte ha riconosciuto la possibilità della data retention anche per i reati non gravi, qualora l’ingerenza nella vita privata del singolo non sia particolarmente penetrante, ossia qualora essa abbia ad oggetto dati che mirano all’identificazione del titolare di una carta SIM attivata con un telefono cellulare rubato, come il cognome, il nome e, se del caso, l’indirizzo.
[4] Segnatamente: i dati relativi al traffico telefonico per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione; i dati relativi al traffico telematico, per dodici mesi; i dati relativi alle chiamate senza risposta, per trenta giorni. In deroga a questa disciplina, per le finalità dell'accertamento e della repressione dei più gravi reati di associazione a delinquere e di terrorismo (di cui agli artt. 51, comma 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), c.p.p.), il termine di conservazione dei suddetti dati è stabilito in settantadue mesi dall’art. 24 della legge n. 167 del 2017.
[5] Così Cass. Sez. 5, sentenza n. 33851 del 19 luglio 2018; Cass. Sez. 3, sentenza n. 48737 del 02/12/2019.
[6] Così si legge nel preambolo del decreto legge.
[7] Il decreto legge elimina poi la possibilità di richiedere l’accesso ai dati, direttamente al fornitore, da parte dei difensori in relazione alle utenze dei propri assistiti; anche in questo caso, infatti, la richiesta dovrà essere vagliata dal giudice. Sotto questo profilo, la riforma va a parziale detrimento dell’indagato, per lo meno nella parte in cui non consente un potere del difensore di acquisizione in via d’urgenza, in corrispondenza di quello attribuito al pubblico ministero.
[8] Una disciplina transitoria era invero contenuta nel testo originario del decreto-legge. Vi era, infatti, una norma intertemporale secondo cui: «i dati relativi al traffico telefonico, al traffico telematico, esclusi comunque i contenuti delle comunicazioni, e alle chiamate senza risposta, acquisiti nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere utilizzati, quando l’acquisizione è stata disposta dall’autorità giudiziaria, se ricorrono i presupposti previsti dall’articolo 132, comma 3, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, così come modificato dall’articolo 1 del presente decreto» (art. 2, comma 1). Era altresì previsto (art. 2, comma 2) che, nella prima udienza successiva alla data di entrata in vigore del decreto, il giudice provvedesse con ordinanza, sentite le parti, alla convalida del provvedimento di acquisizione dei dati. Nei procedimenti in cui non era ancora stata esercitata l’azione penale, avrebbe dovuto provvedere il giudice per le indagini preliminari all’atto di adozione del primo provvedimento successivo all’entrata in vigore del decreto. Tale disciplina intertemporale è del tutto scomparsa nella versione definitiva del decreto. Si veda in proposito F. Rinaldini, La nuova disciplina del regime di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: scenari e prospettive, in Giurisprudenza Penale, 2021.
[9] Deve infatti segnalarsi che, alla data di redazione del presente articolo, è discussa l’introduzione nell’ambito della legge di conversione di un emendamento in base al quale viene inserito un comma 1 bis all’articolo 1 del decreto legge 132/2021, recante appunto una disciplina transitoria, ai sensi della quale i dati «acquisiti nei procedimenti penali in data precedente alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere utilizzati a carico dell'imputato solo unitamente ad altri elementi di prova ed esclusivamente per l'accertamento dei reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, determinata a norma dell'articolo 4 del codice di procedura penale, e dei reati di minaccia e di molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono, quando la minaccia, la molestia o il disturbo sono gravi». Come è evidente, rispetto alla disciplina transitoria ipotizzata in origine e riportata nella precedente nota 8, la normativa si riferisce ai soli dati utilizzabili quali elementi di prova “a carico dell’imputato”, restando rimesso alla ricostruzione giurisprudenziale il regime giuridico e l’utilizzabilità dei dati favorevoli alla tesi difensiva. Non è peraltro richiesto un intervento di convalida del giudice rispetto all’attività compiuta dal pubblico ministero. È invece introdotta la necessità – invero abbastanza scontata, considerato il limitato significato informativo dei dati di cui si discute – di valutazione di essi unitamente ad altri elementi di prova.
[10] La Corte di Cassazione si è pronunciata sugli effetti della sentenza Prokuratuur una prima volta con la sentenza della Sez. 2, n. 28532 del 22 luglio 2021, nella cui motivazione si legge che «nella specie non pare che la decisione della CGUE del 2 marzo 2021 sia idonea ad escludere la sussistenza di residui profili di incertezza interpretativa e discrezionalità applicativa in capo alla normativa interna; in sostanza la richiamata pronuncia europea sembra incapace di produrre effetti applicativi immediati e diretti a causa dell’indeterminatezza delle espressioni ivi utilizzate al fine di legittimare l’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata dei cittadini: infatti, il riferimento alle «forme gravi di criminalità» ed alla funzione di «prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica», sembra necessariamente implicare un intervento legislativo volto ad individuare, sulla base di «criteri oggettivi», così come richiesto dalla stessa pronuncia della Corte europea, le categorie di reati per i quali possa ritenersi legittima l'acquisizione dei dati di traffico telefonico o telematico».
Nella successiva sentenza della Sez. 2, la n. 33116 del 07 settembre 2021, la Corte di cassazione ha ribadito che la decisione europea è del tutto generica nell’individuazione dei casi nei quali «i dati di traffico telematico e telefonico possono essere acquisiti e che dunque essa non può trovare diretta applicazione in Italia fino a quando non interverrà il legislatore italiano ed europeo».
In entrambi i casi la Corte non ha affrontato l’ulteriore tema, rappresentato dall’effettiva corrispondenza alle indicazioni europee della normativa che vede il pubblico ministero quale soggetto legittimato ad emettere il decreto di acquisizione dei dati e non il giudice.
Nella giurisprudenza di merito, si sono espressi in questo stesso senso: il decreto senza data emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Roma (pubblicato sulla rivista Sistema Penale, 2021); il decreto del G.I.P. presso il Tribunale di Tivoli in data 9 giugno 2021 (pubblicato sulla rivista Giurisprudenza Penale, 2021); l’ordinanza della Corte di Assise di Napoli del 16 giugno 2021 (pubblicata sulla rivista Giurisprudenza penale, 2021); l’ordinanza del Tribunale di Milano del 22 aprile 2021 (pubblicata sulla rivista Giurisprudenza Penale, 2021). Tutti i menzionati provvedimenti hanno escluso che la sentenza della Corte di giustizia abbia effetti immediati nell’ordinamento e che dunque possa incidere sulla procedura prevista dalla precedente versione dell’articolo 132 o sull’utilizzabilità delle prove in base a tale norma acquisite.
[11] Così le citate ordinanze della Corte di assise di Napoli del 16 giugno 2021 e del Tribunale di Milano del 22 aprile 2021.
[12] Si tratta del decreto del G.I.P. presso il Tribunale di Roma (decreto del 25 aprile 2021, pubblicato sulla rivista Sistema Penale, 2021), con il quale è stata accolta la richiesta del P.M. di acquisire i dati relativi al traffico telefonico e telematico, facendo ricorso, al fine di garantire il rispetto dei principi enunciati dalla Corte di giustizia, agli articoli 266 e 266 bis del codice di procedura penale, che contengono un catalogo di reati, espressione di “forme gravi di criminalità”, per i quali è ammesso il ricorso alle intercettazioni telefoniche. Nello stesso senso il decreto del G.I.P. presso il Tribunale di Bari del 1 maggio 2021 (pubblicato sulla rivista Il Penalista, 2021).
[13] Ordinanza del Tribunale di Rieti del 4 maggio 2021 (pubblicata sulla rivista Giurisprudenza Penale), che ha dato origine alla causa C-334/21.
[14] Si veda in proposito l’ordinanza della Corte di giustizia del 6 dicembre 1990, causa C-2/88 J.J. Zwartveld.
[15] La costante giurisprudenza della Corte di giustizia ha ritenuto che, dove una disposizione europea – anche se sfornita di immediata applicabilità, come ad esempio una direttiva – possa (a) esprimere una norma chiara, precisa e non condizionata dall’intervento del legislatore nazionale, e (b) riconosca un diritto ai singoli, essa deve essere applicata “direttamente”, senza attendere l’attuazione nazionale da parte dello Stato. Possono richiamarsi, in proposito, le seguenti, notissime, sentenze: sentenza della Corte di giustizia del 5 febbraio 1963, C-26/62, Van Gend & Loos; sentenza del 4 dicembre 1974, C-41/74, Van Duyn; sentenza del 19 novembre 1991, C-6 e 9/90, Francovich. Con questa ultima sentenza è stato stabilito il principio per cui il mancato recepimento di una direttiva entro la data ultima stabilita può determinare, a certe condizioni, una condanna dello Stato al risarcimento del cittadino leso dall’inadempiente comportamento.
[16] V. tra le altre la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, dell’8 settembre 2010, C‑409/06, Winner Wetten, punto 55. Alla stessa conclusione è giunta la giurisprudenza costituzionale a partire dalla fondamentale sentenza n. 170/1984 – nota come Granital dal nome della parte – che, come osservato da autorevole dottrina, sviluppa il suo ragionamento attraverso i seguenti punti: «α) l’ordinamento europeo e l’ordinamento italiano sono due ordinamenti giuridici autonomi e separati, ognuno dotato di un proprio sistema di fonti (è la c.d. “teoria dualistica”); β) la normativa europea “non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti con forza di legge) dello Stato”. Non esiste neppure un vero e proprio confitto tra le fonti interne e quelle europee, perché ognuna è valida ed efficace nel proprio ordinamento secondo le condizioni poste dall’ordinamento stesso; γ) con la ratifica e l’ordine di esecuzione del Trattato, il legislatore italiano ha riconosciuto la competenza delle istituzioni europee a emanare norme giuridiche in determinate materie e che queste norme si impongano direttamente nell’ordinamento italiano, non perché abbiano “forza di legge” (categoria che è tipica dell’ordinamento italiano, e che perciò non si addice alle fonti europee), ma per la “forza” che ad esse conferisce il Trattato. Quindi è il Trattato che segna la “ripartizione di competenza” tra i due ordinamenti e il regime giuridico delle fonti europee; δ) i conflitti tra norme che eventualmente sorgano vanno risolti dal giudice italiano applicando il criterio della competenza. Il giudice deve accertare se, in base al Trattato, sia competente sulla materia l’ordinamento europeo o quello italiano e deve, di conseguenza applicare la norma dell’ordinamento competente. La norma interna, se non competente, non viene né abrogata (in applicazione del criterio cronologico) né dichiarata illegittima (in applicazione del criterio gerarchico), ma viene semplicemente “non applicata”. Resta valida ed efficace, applicabile eventualmente in altri casi: ma per il caso specifico il giudice la ritiene non competente ed applica invece la norma europea» (così R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, XIX edizione, p. 447, 448).
[17] Si tratta delle clausole di salvaguardia a protezione dei valori fondamentali (i c.d. contro-limiti appunto) che definiscono l’identità costituzionale nazionale, da proteggere da ogni indebita interferenza esterna. In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che «il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordinamento costituzionale» (ordinanza della Corte Cost. n. 24 del 26 gennaio 2017 sul noto caso Taricco, con cui è stata sollevata questione pregiudiziale). In questo caso, dunque, la sola via possibile è quella di impugnare l’ordine di esecuzione del Trattato, nella parte in cui consente l’ingresso nel nostro ordinamento di quella specifica norma europea incompatibile con i principi della nostra Costituzione.
[18] La “doppia pregiudizialità” ricorre nel caso in cui si ipotizzi la violazione, da parte di una norma nazionale, di un diritto fondamentale della persona sancito contestualmente sia nella Costituzione che nella Carta di Nizza. La Corte costituzionale, con sentenza n. 269/2017, ha affermato che simili ipotesi «postulano la necessità di un intervento erga omnes» da parte della stessa Corte, «anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale».
[19] Come evidenziato da autorevole dottrina, esso può essere distinto in “dialogo culturale” e “dialogo decisorio”. Il dialogo culturale consiste nell’«aprire un continuo confronto con la giurisprudenza formatasi non solo presso le Corti internazionali, ma anche presso gli stessi giudici costituzionali di ciascun Paese, tenendone presenti gli orientamenti al fine di orientare, e semmai uniformare, la propria linea interpretativa». Nel dialogo decisorio, invece, viene sollecitato un intervento della giurisprudenza europea, mediante gli strumenti processuali a ciò destinanti, ossia, per quanto in questa sede maggiormente interessa, mediante l’istituto del rinvio pregiudiziale. In questo senso G. Lattanzi, Dialogo tra le Corte e il caso Taricco, contributo per Liber Amicorum in onore del Presidente della Corte europea dei diritti dell’Uomo Guido Raimondi, 2019.
[20] Si tratta di una possibilità ammessa dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 102/2008.
[21] V., in tal senso, sentenze della Corte di giustizia del 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito e a., C‑160/14, punto 37, nonché del 5 dicembre 2017, M.A.S. e M.B., C‑42/17, punto 23. Una dettagliata ricostruzione dei poteri e dei doveri del giudice nazionale connessi all’instaurazione di giudizi pregiudiziali è contenuta nella recente sentenza della Corte di giustizia del 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management, ove si è tra l’altro stabilito che «[L]’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.» Tale sentenza ha costituito oggetto di un articolo di F. Ferraro, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, pubblicato sulla rivista Giustizia Insieme, 2021.
[22] V. tra le altre, Corte di giustizia, sentenza del 17 febbraio 2005, causa C-453/02 e C-462/02, Finanzamt Gladbeck, punto 41.
[23] La Corte costituzionale, a partire dalle sentenze 113/85 e 389/89, ha con continuità affermato che «le statuizioni interpretative della Corte di giustizia delle comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili, operatività immediata negli ordinamenti interni». Anche la Corte di cassazione ha affermato che il «dictum della Corte di giustizia costituisce una regula iuris applicabile dal giudice nazionale in ogni stato e grado di giudizio» (così Cass., Sez. 6 - 1, sentenza n. 17994 dell’11 settembre 2015. Alle sentenze emesse dalla Corte va dunque attribuito «il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità» (da ultimo in questo senso Cass. Sez. 3, ordinanza n. 29258 del 20 ottobre 2021).
[24] V. in questo senso la sentenza della Corte di giustizia del 23 ottobre 2012, C‑581/10 e C‑629/10, Nelson e a., punto 88 e giurisprudenza citata. Si veda anche, nella giurisprudenza nazionale, Cass. 25 luglio 2012, n. 13087, la quale ha precisato che la pronuncia della Corte di giustizia non può configurarsi come espressione di un overruling e, come tale, inidonea ad operare retroattivamente.
[25] V. tra le altre sul punto Corte di giustizia, 8 aprile 1976, C-43/75, Defrenne, dove l’applicazione "retroattiva" del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e femminile avrebbe rimesso in discussione tutti i rapporti di lavoro, anche tra privati. Si vedano inoltre sul punto: Corte di giustizia, 2 febbraio 1988, C-24/86, Blaizot, dove la Corte, per ragioni di "sicurezza giuridica", ha negato effetti retroattivi ad una sentenza interpretativa, sia in quanto l'interpretazione in essa adottata era frutto di una lenta progressione nell'interpretazione del Trattato riguardo al problema esaminato (sicché il contrasto con il diritto comunitario si sarebbe evidenziato solo progressivamente), sia perché tali effetti retroattivi avrebbero sconvolto il sistema di finanziamento dell'insegnamento universitario con conseguenze imprevedibili per il funzionamento delle istituzioni universitarie; Corte di giustizia, 4 maggio 1999, C-262/96, Sürül, dove l’effetto "retroattivo" viene negato a motivo dello sconvolgimento del finanziamento dei sistemi di previdenza sociale degli Stati membri che esso avrebbe determinato.
[26] Si legge infatti nella sentenza Prokuratuur, ai punti 52-56, che la necessità di un controllo preventivo richiede «che il giudice o l’entità incaricata di effettuare il controllo medesimo disponga di tutte le attribuzioni e presenti tutte le garanzie necessarie per garantire una conciliazione dei diversi interessi e diritti in gioco. Per quanto riguarda, più in particolare, un’indagine penale, tale controllo preventivo richiede che detto giudice o detta entità sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso. (…) Dalle considerazioni che precedono risulta che il requisito di indipendenza che l’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare (…) impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l’accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna. In particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica (….) che l’autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. (…) Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l’azione penale. (..) La circostanza che il pubblico ministero sia tenuto, conformemente alle norme che disciplinano le sue competenze e il suo status, a verificare gli elementi a carico e quelli a discarico, a garantire la legittimità del procedimento istruttorio e ad agire unicamente in base alla legge ed al suo convincimento non può essere sufficiente per conferirgli lo status di terzo rispetto agli interessi in gioco (…).»
[27] Per quanto si desume dalla stessa sentenza Prokuratuur, infatti, il pubblico ministero estone, in base alla legge del 22 aprile 1998, è soggetto alla sfera di competenza del Ministero della giustizia. In generale, sulle peculiarità ordinamentali dei sistemi giudiziari dei vari Stati membri, si veda l’analisi effettuata dalla Commissione europea denominata “EU Justice Scoreboard”.
[28] Vedi sentenza Prokuratuur, punto 58.
[29] Si è affermato che la nozione di "autorità giudiziaria emittente" comprende anche le autorità di uno Stato membro – quale appunto il pubblico ministero – che, pur non rivestendo la qualifica di organi giurisdizionali, partecipano all'amministrazione della giustizia penale di tale Stato e agiscono in modo indipendente nell'esercizio delle proprie funzioni, a condizione che sia assicurato il sindacato giurisdizionale sulla decisione relativa all’emissione del mandato. In questo senso si è espressa la Corte di giustizia, Grande Camera, sentenza del 27 maggio 2019, C-509/18, PF, che ha reso una pronuncia pregiudiziale nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto l’esecuzione, in Irlanda, di un mandato di arresto europeo emesso dal procuratore generale lituano. Sullo stesso tema si vedano, nella giurisprudenza interna: Cass Sez. 6, sentenza n. 20571 del 9 luglio 2020; Cass. Sez. 6, sentenza n. 15922 del 26 maggio 2020.
[30] V. sentenza della Corte di giustizia del 12 dicembre 2019, C‑625/19, Openbaar Ministerie, nonché sentenza della Corte di giustizia del 13 gennaio 2021, C‑414/20, Spetsializirana prokuratura.
[31] Si veda la citata ordinanza del Tribunale di Rieti del 4 maggio 2021. Sul punto, cfr. anche Di Stefano, op. cit.