Con l'introduzione nel sistema penale dell'art. 415-bis c.p. e del co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, il legislatore si confronta per la prima volta con un nuovo concetto criminogeno, e quindi un nuovo tipo delittuoso: quello della "rivolta" (nelle carceri e nei centri di trattenimento per gli stranieri). La configurazione di questi reati sollecita una riflessione sulla proporzionalità dell'intervento penale, in relazione agli scopi perseguiti e ai particolari contesti di riferimento; una sollecitazione che può ben giungere al Giudice delle Leggi, chiamato a valutare, alla luce dei parametri costituzionali, il diritto penale in "rivolta".
Sommario: 1. Alla ricerca dei paradigmi originari della "rivolta" - 2. Costruire e de-costruire la "rivolta" - 3. Una "rivolta" concretamente offensiva - 4. Una "rivolta" incompatibile con i principi costituzionali. - 5. La "rivolta" condotta alle estreme conseguenze - 6. La "rivolta" degli stranieri - 7. Un diritto penale in "rivolta".
1. Alla ricerca dei paradigmi originari della "rivolta"
Con l'introduzione nel sistema penale - per mezzo del decreto c.d. "Sicurezza"[1] - dell'art. 415-bis c.p. e del co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, il legislatore si confronta per la prima volta con un nuovo concetto criminogeno, e quindi un nuovo tipo delittuoso: quello della "rivolta". L'inedita adozione di tale categoria implica un aggiornamento di paradigmi normativi e valoriali consolidati: va quindi in prima battuta registrato un cambio d'approccio del legislatore al cospetto della categoria dell'ordine pubblico e della sua prospettiva di tutela, resa evidente, in particolare, nella formulazione del reato di cui all'art. 415-bis (rubricato "Rivolta all'interno di un istituto penitenziario").
A ben leggere la condotta, essa sembra rifarsi al reato di resistenza a pubblico ufficiale, poiché la "rivolta" - terminologicamente mutuata dalle rappresentazioni mediatiche delle violenze e dei tumulti che possono registrarsi nelle carceri[2] - deve commettersi «mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza». Il legislatore intende anzi allargare l'area della punibilità rispetto a questo ipotetico delitto-madre, contemplando espressamente anche ipotesi di resistenza passiva al pubblico ufficiale - che la giurisprudenza, almeno in relazione all'art. 337, tende ad escludere[3] - sulla scorta di un dettato autentico-interpretativo molto chiaro, contenuto sempre nel corpo del primo comma: «costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e della sicurezza». Al netto di questa sostanziale divergenza casistica, su cui si tornerà, tra l'art. 337 e l'art. 415-bis v'è una identica cornice edittale massima (cinque anni); al punto da non giustificarsi la collocazione della nuova figura nel titolo V, tra i gravi delitti contro l'ordine pubblico.
L'aggancio all'ordine pubblico si svela, piuttosto, nel frammento tipico che impone il concorso necessario di «tre o più persone riunite» nella commissione degli atti di violenza o minaccia o di resistenza. È a questo punto evidente una vicinanza strutturale al finitimo reato associativo, da cui viene mutuata, quasi identicamente, la formula aggravante per coloro che, nella vicenda criminosa, assumono un ruolo di primo piano: al co. 2 è infatti prevista una circostanza aggravante ad effetto speciale per «coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta».
Con questi impliciti rimandi ad altre norme, che possono ritenersi (almeno sotto il profilo strutturale) i paradigmi originari della "rivolta", e che nel loro complesso spiegano la collocazione del reato nel titolo V, andrebbe aggiornata la tradizionale definizione di ordine pubblico, da intendersi - secondo questa nuova impostazione adottata dal legislatore - non più solo come corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, che consente alla collettività di esplicare le proprie libertà e l'esercizio dei propri diritti[4], ma anche come ferrea disciplina dentro spazi per loro stessa natura "chiusi"[5]; spazi, anzi, istituzionalmente destinati proprio al contenimento di condotte antisociali, che con un inedito ribaltamento di prospettiva possono diventare luogo di turbamento dell'ordine pubblico ("esterno"); potendosi immaginare - ma non è facile, di questi tempi, entrare nella testa del legislatore - che siano piuttosto le "notizie" che provengono dai penitenziari in cui scoppiano le "rivolte" - e quindi, più che il fatto in sé, la sua narrazione[6] - a turbare l'ordinato andamento democratico del Paese.
In definitiva, la minaccia all'ordine pubblico sarebbe da considerarsi, tra le righe di questo nuovo tipo delittuoso, in una duplice prospettiva: guardandosi ai riflessi "esterni" della "rivolta", senza però dimenticare i riflessi "interni". In una prospettiva di sistema infatti non può tacersi che il decreto "Sicurezza" abbia tra i suoi principali target l'incolumità di agenti e operatori di polizia nell'esercizio delle loro funzioni[7]: un bene giuridico sovraindividuale e trasversale a mezza via tra regolare andamento della macchina pubblica e dell'amministrazione della giustizia, e appunto l'ordine pubblico.
Questa considerazione, ove ritenuta valida, avrebbe un preciso risvolto interpretativo, dacché la "rivolta", per essere considerata ai sensi della norma penale, dovrebbe importare anche il concreto rischio per l'incolumità fisica di agenti e operatori della struttura penitenziaria. È un elemento del fatto non esplicitato nella norma[8]; nondimeno, può essere questo, a ben vedere, uno dei possibili correttivi di una fattispecie che presenta, come si dirà meglio innanzi, molteplici profili di incongruenza con i principi di garanzia.
2. Costruire e de-costruire la "rivolta"
Il concetto di "rivolta" è, dal punto di vista penalistico, del tutto inedito, sebbene venga costruito sulla scorta di categorie normative ampiamente consolidate: violenza, minaccia, resistenza, poste in essere simultaneamente da almeno tre persone riunite. La prima difficoltà interpretativa potrebbe celarsi proprio in quest'ultimo lemma, utilizzato per arricchire il fatto tipico di molte fattispecie (es. art. 609-octies) ovvero per aggravarle (es. art. 339), che indubitabilmente evoca il concorso di persone, perdipiù "rafforzato"[9]. La norma dunque richiama l'integrazione di un tipo plurisoggettivo: una fattispecie da inquadrare come reato proprio poiché le condotte sono realizzate da chi si trova all'interno di un istituto penitenziario.
Le difficoltà interpretative potrebbero sorgere proprio in relazione al particolarissimo contesto in cui la norma deve trasfondersi. Dal punto di vista empirico può dirsi che le "rivolte" carcerarie non hanno quasi mai un centro d'azione, né una premeditazione: è, come noto, attraverso il "passaparola" (anche da un braccio all'altro, da un piano all'altro dell'istituto) che i detenuti arrivano ad inscenare le più varie forme di protesta: che possono essere inscenate (quasi) simultaneamente, ma in punti distinti dell'area penitenziaria (quel che di solito accade). A dispetto infatti del nome che è stato attribuito dal legislatore, esse hanno lo scopo di segnalare un disagio collettivo, una criticità della struttura o dell'organizzazione penitenziaria, una violazione di diritti (tra i tanti che, ripetutamente, se ne registrano tra la platea dei detenuti).
Non si tratta di veri e propri "ammutinamenti", realizzati con lo scopo di evadere: non a caso, il tentativo di evasione, che era stato inizialmente inserito dal legislatore nel novero delle condotte che possono dare vita alla "rivolta"[10], è stato accortamente espunto nella versione finale del decreto "Sicurezza", forse anche tenendo conto che lo scopo della fuga fonda una oggettiva diversità nel contegno e nel proposito criminoso, rispetto a condotte finalisticamente orientate ai disordini di una "rivolta"[11]. Violenza, minaccia e resistenza, anche passiva, sono infatti condotte attive, oggettivamente apprezzabili, mentre dall'altro lato l'evasione è caratterizzata dal suo evento, anch'esso oggettivamente apprezzabile: il tentativo di evasione, che è al contrario una condotta teleologicamente caratterizzata, avrebbe invero generato non poche difficoltà di coordinamento con la norma di cui all'art. 385 e il suo tentativo.
Sicché, anche al netto del problema - tutto probatorio - dell'accertamento di un coordinamento tra i vari detenuti, di una consapevole sincronicità delle loro azioni, ci si chiede, sotto il profilo sostanziale: quei "rivoltosi" - da distinti punti, o anche in diversi momenti - possono dirsi riuniti? È chiaro che in questo caso l'istituto concorsuale dovrà essere via via raffrontato ad una realtà empirica estremamente variegata e poco conosciuta.
Tale raffronto vede alla base la distinzione tra l'evento del reato e la condotta partecipativa che, allo stesso, accede[12]: la "rivolta" necessita la simultanea convergenza delle summenzionate condotte, mentre la partecipazione ad essa, da parte del singolo, può anche essere successiva.
Il legislatore sembra quindi da un lato avere costruito la "rivolta", e dall'altro de-costruito la partecipazione ad essa, frammentandola. A considerare il modello tipico, infatti, in cui il requisito delle tre o più persone riunite si riferisce all'evento e non alla partecipazione in quanto tale, il legislatore avrebbe preso in considerazione l'ipotesi che taluno possa "partecipare" ad una rivolta già in atto (recte: accedere all'evento del reato, concorrendovi), e quindi iniziata prima, innescata evidentemente da altri: le condotte dei rivoltosi potrebbero dunque non essere sincroniche, dovendosi - o potendosi, almeno empiricamente - distinguere tra quelle che, convergendo, innescano l'evento e quelle che vi accedono, sebbene - ben lo si comprende - tale distinzione può risultare di non agevole verifica, nel disordine che fa da sfondo fattuale alla norma. Questa distinzione è tuttavia cruciale per una corretta esegesi della norma, come si dirà a breve.
In definitiva, è cruciale che l'evento "rivolta" non sia stato in alcun modo tipizzato: il suo contenuto lo si deduce, a contrario, dalla condotta di chi vi partecipa «mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza», e dal fatto che tali violenze, minacce, resistenze debbano essere commesse da tre o più persone riunite. Il legislatore sembra quindi avere scelto di configurare l'evento de-costruendolo: a partire da chi vi partecipa.
3. Una "rivolta" concretamente offensiva
Come si è detto, l'elemento esegetico da privilegiarsi deve essere quello della proiezione concretamente offensiva delle condotte, supportate da un'adeguata volontà del soggetto attivo. E a questo riguardo, e per tale ragione, non sembra configurabile il tentativo del reato di "rivolta".
È d'altronde la peculiare struttura del reato a suggerire l'inammissibilità della rilevanza per gli atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare una "rivolta" che, in quanto tale, non è tipizzata; il tentativo non potrebbe che attestarsi sugli atti di violenza, minaccia e resistenza (gli unici elementi definiti nel tipo), ma arretrare in tal modo la punibilità vorrebbe dire soffermarsi su condotte prive di qualsivoglia offensività; e lo stesso può dirsi per chi tenta di accedere ad una rivolta mediante atti di resistenza (tramite quindi violenza o minaccia), anche passiva. L'unico spiraglio applicativo per la configurazione del tentativo potrebbe, a ben vedere, essere dato dal numero dei rivoltosi: se è vero infatti che una volta perpetrati gli atti tipizzati (violenza, minaccia e resistenza) da tre o più persone riunite la "rivolta" si presume già in essere, potrebbe immaginarsi che il concorso di due sole persone nel compimento di questi atti dentro l'istituto penitenziario, idonei e finalizzati all'evento indicato, possa dare vita ad una ipotesi di tentativo. Anche in questo caso, però, occorre traguardare le condotte al criterio-guida dell'offensività[13]: e già in base ad una valutazione astratta potrebbe dirsi che se è fissato in tre il numero minimo di persone che, riunite nel proposito delittuoso de quo, può offendere incisivamente il bene giuridico tutelato, ogni ulteriore soluzione al ribasso - rispetto a quella predefinita dal legislatore - dovrebbe essere considerata irrilevante sul piano penale.
È ancora, come ben si vede, il bene giuridico a costituire imprescindibile parametro di valutazione: se è l'ordine pubblico il principale[14] valore tutelato, se è alla concezione più rigorosa di tale concetto che si deve aderire - per cui vanno selezionate come penalmente rilevanti solo quelle condotte che si risolvano in una concreta minaccia per la vita collettiva, dentro e fuori il carcere - è allora evidente che l'evento del reato può essere il risultato di condotte convergenti concretamente offensive, tali da determinare un turbamento della vita carceraria che non abbia solo valenza "interna" ma che, ridondando all'esterno, percepito all'esterno come vera e propria minaccia al regolare andamento della vita pubblica, vada ad intaccare l'immagine di uno Stato che ha, quali propri compiti istituzionali, quello di gestire - in un quadro dignitoso e attento ai diritti - la popolazione detenuta.
Anche al di fuori dei confini testuali, milita a favore di una esegesi restrittiva e rigorosa, che consideri soltanto le condotte concretamente offensive, il fatto che il legislatore abbia voluto specificare quali siano le modalità di resistenza passiva, ponendo l'accento sul «numero delle persone coinvolte e al contesto»: ciò evidenzia lo sforzo - in quanto tale apprezzabile - di tenere fuori dal recinto della punibilità condotte asfittiche e scarsamente pregnanti - tra le quali però permane il dubbio che il legislatore non abbia voluto trattenere quelle di mera resistenza passiva; infuse invece nella tipicità.
4. Una "rivolta" incompatibile con i principi costituzionali
Invero, solo escludendo dall'area della punibilità condotte di mera disobbedienza, solo considerando comportamenti attivi, violenti e coercitivi, la cui sommatoria vada ad incidere sul sotteso valore pubblico tutelato, come sopra specificato, potrebbero superarsi i profili di illegittimità costituzionale; che sono diversi.
Una più evidente questione di incompatibilità con l'assetto dei valori costituzionali in materia penale si pone, come si è detto, con il principio di offensività. Una volta ricostruito nei termini indicati - e aggiornata la relativa categoria - il bene giuridico dell'ordine pubblico tutelato dalla norma non può arrecarne una significativa lesione la condotta della mera disobbedienza ad un ordine impartito: non raggiungendosi, per tale via, quel minimo di offensività richiesto per l'incriminazione penale.
Un problema di ragionevolezza e proporzione della norma penale, in relazione all'art. 3 Cost., si pone poi rispetto alla differenza di cornice edittale, nella misura minima, che si registra tra la resistenza "passiva" ex art. 415-bis (1 anno) e la resistenza "attiva" ex art. 337 (6 mesi)[15]: la prima, pur potendo risultare una ipotesi astrattamente meno grave (la resistenza "passiva" è indubbiamente meno carica di disvalore della resistenza "attiva"), è punita più severamente con una pena edittale minima (che è quella presa in maggiore considerazione in sede di "calcolo" della pena) più alta. Per una interpretazione costituzionalmente orientata si dovrebbe postulare che tale surplus sanzionatorio è dettato dalla specificità del luogo, dalla convergenza delle azioni e sopratutto dalla pericolosità di chi realizza le condotte, compensandosi così un tale evidente squilibrio; quindi, per essere più chiari, dalla "specialità" della norma rispetto all'art. 337.
Eppure, percorrendo la via della specialità si avvalorerebbe ancor di più l'assunto che il legislatore abbia voluto individuare un nuovo, temibile, tipo d'autore, cui dedicare una norma ad hoc: con evidente violazione del principio di uguaglianza[16].
E ancora, fuoriuscendo dal perimetro dei principi di rilevanza strettamente penalistica, vanno segnalati anche profili di criticità rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero in quanto, come detto, alcune delle condotte astrattamente riconducibili alla fattispecie di resistenza passiva costituiscono l'unico strumento per i detenuti di esercitare la propria, seppur limitata, libertà di espressione[17], o comunque il proprio disagio rispetto a problematiche organizzative e di disciplina interna.
Ma la Costituzione viene toccata sopratutto in uno dei suoi punti più nevralgici, in uno dei principi più sensibili: quello della funzione rieducativa della pena, ai sensi dell'art. 27 co. 3, poiché associare la condizione di detenuto a specifiche condotte di reato, da perpetrarsi esclusivamente nelle carceri, vuol dire infrangere quel tabù sociale che - nonostante tutto - le considera luogo di espiazione: in cui si realizza il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.
Oggi è quindi sdoganata per tabulas - e con previsioni di reato di particolare gravità - l'idea che le carceri siano luoghi potenzialmente criminogeni: e per converso ogni accenno di "rivolta" deve essere non solo sanzionato come già accadeva fino a ieri, e cioè attraverso le "ordinarie" ipotesi di reato e la privazione dei benefici penitenziari (d'altronde, la legge "Gozzini" del 1986, ancora oggi perno dell'ordinamento penitenziario, mira a disincentivare le condotte antisociali in carcere attraverso il meccanismo della "buona condotta", che si traduce in una riduzione del periodo detentivo), ma represso con la minaccia di (ulteriori) sanzioni detentive, da aggiungersi a quelle che il detenuto già sta scontando.
5. La "rivolta" condotta alle estreme conseguenze
Oltre ad una pena base che va da uno a cinque anni, su cui già ci si è soffermati in relazione al delitto-madre ex art. 337, si prevede da un lato un aumento - da due a otto anni - per chi promuove, organizza e dirige la "rivolta", dall'altro aggravamenti per i fatti di lesione personale grave o gravissima, ovvero di morte, quali conseguenze non volute: aumenti particolarmente elevati che stridono con il principio di colpevolezza. E non solo perché il fatto criminoso aggravato[18] da un evento non voluto risulta, da sempre, poco compatibile con i principi di garanzia[19].
La dinamica del reato de quo è, come detto, peculiare: le "rivolte" carcerarie non hanno quasi mai un centro d'azione; tanto che si è potuto distinguere tra le condotte convergenti che generano la rivolta da quella, successiva, che può accedervi.
C'è poi da aggiungere che, sempre nel peculiare contesto empirico che si sta approfondendo, l'ipotesi che sia cagionata una lesione grave, nel caos generato dalla "rivolta", quale conseguenza non voluta, non è peregrina[20]. E questo, va detto, ha un risvolto rispetto alla (astratta) prevedibilità del fatto non voluto: sulla distinzione tra profilo astratto e concreto della prevedibilità[21].
Si tratta di una conseguenza non voluta dai detenuti rivoltosi (da tutti i detenuti rivoltosi, ovunque si trovino nella struttura penitenziaria), posto che risulti chiaro il coordinamento tra di loro; una conseguenza accidentale, che tuttavia determina un notevole aggravio di pena (da due a sei anni, da quattro a dodici per i "capi" della rivolta, sempre che risulti chiaro il ruolo apicale di costoro). Laddove la "rivolta" sia fatalmente condotta alle estreme conseguenze, se a valle si registra un problema di prova (il concorso tra i detenuti, il ruolo svolto da ciascuno: proprio come se fosse un'associazione a delinquere, più o meno improvvisata[22]), a monte pesa la questione assiologica della colpevolezza del reo.
L'art. 415-bis definisce, come detto, un reato a concorso necessario, che per questo guarda alla disciplina di cui all'art. 110 ss.; eppure, quanto previsto al co. 4 è svicolato dal dettato di cui all'art. 116, che pure presenta qualche (forse blanda) garanzia di penale responsabilità per i concorrenti: il nesso di causa e il coefficiente minimo di rimproverabilità.
Perché il reato di "rivolta" è lo stesso voluto da tutti i concorrenti rivoltosi (in tal senso, come si è detto, dovrebbe leggersi il coefficiente psichico della norma), mentre il fatto non voluto - lo afferma a chiare lettere l'art. 116, che è norma di disciplina posta a completamento di tutte le ipotesi tipizzate di concorso[23] - deve comunque essere «conseguenza della sua azione od omissione»[24].
In altri termini, con la previsione del reato "diverso" e non voluto, imputato a tutti i concorrenti dentro un contesto concorsuale così ampio (l'evento "rivolta" può risultare in concreto talmente diffuso da impedire qualsivoglia convergenza di contributi causali o agevolatori), si corre il rischio di congedarsi (persino) dal rapporto di causalità; vorrebbe dire configurare una ipotesi di responsabilità oggettiva pura, da mera condotta, a prescindere dal luogo e tempo in cui è stata perpetrata, e in alcun modo temperata (come sono state temperate, nel tempo, siffatte ipotesi presenti nel codice), se è vero che la clausola di salvaguardia contemplata all'art. 116 - «ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione» - non è stata replicata nel corpo del co. 4 dell'art. 415-bis.
Un evento (una pena) senza colpa, né causa diretta. Si stinge così anche l'ultimo elemento che garantisce il legame - pur in termini meramente obiettivi - tra la condotta e l'evento di secondo grado: non quello che integra la norma, ma quello che la aggrava, conseguenza di condotte che possono essere d'altri, e inconoscibili.
Anche su questo punto, sopratutto su questo punto, l'unica possibile interpretazione (costituzionalmente orientata) è quella che va nel senso del recupero dell'elemento eziologico in uno con quello psichico, secondo l'impostazione fornita dalla Consulta già sessant'anni fa, allorquando veniva chiamata a "leggere" l'art. 116, richiedendovi «la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica»[25]: ovverosia che l'evento-conseguenza non voluta (il reato "diverso") si rappresenti nell'agente - tenendo conto delle concrete circostanze di fatto in cui egli versa - come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto[26].
6. La "rivolta" degli stranieri
Le argomentazioni spese a sostegno dell'irragionevolezza dell'ipotesi incriminatrice di "rivolta" di cui all'art. 415-bis trovano nuova consistenza laddove l'analisi si sposti sul nuovo co. 7.1. di cui all'art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico dell'Immigrazione): si tratta dello speculare reato di "rivolta", che si rivolge agli stranieri "trattenuti" «in uno dei centri di cui al presente articolo o in una delle strutture di cui all'art. 10-ter».
Con l'introduzione di questo nuovo reato il legislatore ha inequivocabilmente mostrato di considerare i centri di trattenimento come vere e proprie carceri[27]. Difatti, anche qui è repressa con pene altissime ogni forma di dissenso: e considerata l'esatta specularità strutturale tra l'art. 415-bis e il co. 7.1 dell'art. 14 T.U. Immigrazione, può dirsi che anche nei centri di trattenimento alcune delle condotte astrattamente riconducibili alla fattispecie di resistenza "passiva" (si pensi allo sciopero della fame, o ad altre forme di protesta non violente) costituiscono l'unico strumento per i migranti di esprimere il disagio rispetto alla propria condizione - una condizione, di fatto, detentiva, definita con l'incongrua formula della "detenzione amministrativa".
È vero: un centro di trattenimento non presenta, come ovvio, delle celle o dei bracci chiusi (ovvero dei compartimenti stagni che impediscano la piena libertà di movimento all'interno della struttura stessa): ma considerata l'ampia capienza di questi centri, anche qui è ipotizzabile la stessa dinamica empirica già descritta in ambito carcerario. È possibile, anche qui, ipotizzare che si inneschi la rivolta (per mezzo della convergenza di condotte di tre o più persone riunite, rivolte a pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio - agenti di polizia, si immagina) e che, in altri punti del centro, qualcuno vi partecipi: accedendo all'evento del reato attraverso proprie condotte.
Devono essere ripresi, dunque, tutti i ragionamenti svolti sulla (problematica) imputazione dell'evento, e degli eventi-conseguenze non volute: anche qui si può registrare una "diffusività" nella rivolta tale da non consentire una chiara affermazione della responsabilità personale del reo. Anche questo reato rischia di mettere in ombra il principio di responsabilità per fatto proprio: una responsabilità personale e non d'autore.
Molto dipenderà dall'interpretazione che andrà affermandosi - nel reato di cui all'art. 415-bis, e sopratutto in questo reato, nel cui ambito spaziale (il centro di trattenimento per migranti) si ravvisa una libertà "interna" ben più ampia di quella dell'istituto penitenziario - dell'inciso per cui «coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni», e dall'elaborazione di quali indici probatori, in un tale peculiare contesto, potranno essere utilizzati in funzione di imputazione; dipenderà anche da quanto il criterio della promozione, organizzazione e direzione riuscirà ad incidere sulle contestazioni: perché il rischio è, anche qui, che nel momento in cui si accerti un collegamento tra le proteste questo possa essere inteso come una organizzazione delle stesse: con "automatica" aggravante estesa a tutti i "rivoltosi", in questo caso stranieri.
7. Un diritto penale in "rivolta"
Le condotte trasferite nel nucleo del reato di cui all'art. 415-bis sono state mutuate dal campo disciplinare dell'ordinamento penitenziario, sulla scorta di una pericolosa eterogenesi dei fini.
Invero, alquanto singolare l'impostazione adottata dal legislatore, per cui, come si afferma nei lavori preparatori del decreto, «la descrizione delle modalità della condotta tipizza azioni già previste dall'art. 41 dell'ordinamento penitenziario»[28]: si fa riferimento a quelle condotte costituenti in «atti di violenza», «tentativi di evasione», «resistenza, anche passiva, agli ordini impartiti» (così l'art. 41 ord. pen.), rispetto ai quali è giustificabile l'impiego della forza fisica e l'uso dei mezzi di coercizione da parte del personale degli istituti penitenziari. Le - generiche - condotte di cui all'art. 41 (non riferite, si badi, a persone riunite) sono volte ad assumere una mera rilevanza interna, e regolamentare, per gli operatori di polizia penitenziaria, ed un profilo disciplinare per i detenuti; mentre oggi le si valorizza (e le si amplia con l'ulteriore elemento della minaccia, che ai sensi dell'art. 41 non giustifica l'utilizzo della forza da parte degli operatori) al fine di allargare lo spettro della penalità. La norma settoriale, regolamentare e disciplinare se si confronta con una condotta concorsuale (di più persone riunite) viene quindi elevata a nucleo di un reato di evento, a dispetto dell'ampio scarto di disvalore tra l'uno e l'altro ambito e della scarsa precisione (nell'uno e l'altro ambito) delle condotte descritte[29].
Al lume di queste considerazioni, la scelta del legislatore di introdurre una identica fattispecie di "rivolta" nei centri di trattenimento, con il minimale accorgimento di tenere più bassa la soglia massima di pena (il reato è punito con la reclusione da uno a quattro anni) risulta ancora più incomprensibile, sotto il profilo strettamente penalistico.
Sembra di poter dire che qui il legislatore abbia supplito all'assenza di un parametro disciplinare direttamente attraverso la sanzione penale. Si pensi al ruolo che, in caso di disordini scoppiati in questi centri, possono svolgere le misure cautelari. Non a caso, forse, coloro che dirigono o organizzano la "rivolta" - e già si è detto quanto potrebbe estendersi questa clausola aggravante - sono puniti con la reclusione fino a cinque anni: termine minimo che rende applicabile la misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 380 c.p.p. D'altronde, un migrante trattenuto che, organizzatore di una "rivolta", venga arrestato (anche in differita e in base all'accertamento "agevolato" di cui al co. 7-bis), sembra avere un destino, dal punto di vista procedurale, "segnato": considerando le esigenze cautelari (ed in particolare il pericolo di fuga e la reiterazione del reato), l'unica misura che potrà essere comminata è quella della custodia cautelare in carcere. Si fuoriesce così dal circuito del trattenimento amministrativo per entrare in quello propriamente carcerario.
Saltata dunque la norma "intermedia", quella cioè disciplinare attenta all'aspetto correzionale, si è approdati alla norma che reca con sé le massime conseguenze sanzionatorie, una volta ancora in tema di libertà personale. In virtù di una presunta azione deterrente, si sventola la minaccia del circuito carcerario in funzione disciplinare; e davvero può dirsi, al termine della rapida - e parimenti allarmante - ricostruzione anatomica di un nuovo tipo delittuoso, che questo diritto penale "in rivolta" si rivolge contro i suoi stessi principi fondamentali.
D'altronde, vedersi imputata la morte di qualcuno, quale conseguenza non voluta dell'azione di un altro soggetto, a fronte di una condotta anche solo di minaccia, o di resistenza passiva, realizzata altrove e in un diverso frangente temporale - con tutti i problemi di cognizione che il rapporto tra le condotte dei diversi soggetti può generare - esula abbondantemente dai confini segnati dalle garanzie legate alla materia penale, e pone al giudice un problema di sproporzione della pena, reimmettendo proprio nel circuito penitenziario il virus dell'impossibile finalità rieducativa della pena[30]; ovvero spianando la strada del carcere agli stranieri trattenuti.
Rimane quindi l'argine della riflessione sulla proporzionalità dell'intervento penale, in relazione agli scopi perseguiti e al contesto di riferimento, che dovrà essere svolta dalla magistratura chiamata ad applicare questa norma, sulla scorta del parametro costituzionale dell'offensività. Fino a quando non intervenga il Giudice delle Leggi a sanare un vulnus di costituzionalità che, nei suoi vari aspetti e profili, pare affliggere il diritto penale in "rivolta".
[1] Si tratta del d.l. 11 aprile 2025, n. 58, convertito in l. 9 giugno 2025, n. 80.
[2] Ad una ricerca speditiva, anche su web, l'uso del termine "rivolta" è sui media alquanto frequente, sempre associato ai tumulti in carcere: che pure, in molti altri paesi, viene definito "ammutinamento" - così nel Prison Security Act 1992, chapter 25, section 1 (Offence of prison mutiny) del Regno Unito. Al contrario, nella fattispecie domestica la "rivolta" potrebbe consistere nel semplice fatto di non obbedire agli ordini impartiti: «non c'è nulla di più distante tra l'etimologia del termine rivolta e la tipizzazione di cui sono stati capaci i redattori del disegno di legge» (M. Pelissero, La pervicace volontà di non affrontare i nodi dell'emergenza carceraria, in Sistema penale, 18 luglio 2024).
[3] Si guardi, da ultimo, Cass., 31 marzo 2022, n. 29614: «Integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale lo strattonare o il divincolarsi posti in essere da un soggetto onde impedire il proprio arresto, ogni qualvolta quest'ultimo non si limiti a una mera opposizione passiva al compimento dell'atto del pubblico ufficiale, ma impieghi la forza per neutralizzarne l'azione e sottrarsi alla presa, nel tentativo di guadagnare la fuga».
[4] In questi termini, A. Sessa, Tutela penale dell’ordine pubblico e teleologismo dei valori costituzionali: ambito e prospettive di un riformismo razionale, in Reati contro l’ordine pubblico, a cura di Moccia, Napoli, 2007, 7 ss.; da ultimo F. Curi, Delitti contro l’ordine pubblico, in Diritto penale. Percorsi di parte speciale, a cura di Canestrari, Torino, 2023, 263 ss.; sulle diverse sfumature che il concetto può assumere, vd. anche M. Pelissero, Le nozioni di ordine pubblico, in Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, in Trattato teorico pratico di diritto penale, a cura di Pelissero-Riverditi, Torino, 2010, vol. IV, 225 ss.
[5] Lo si afferma senza mezzi termini nei lavori preparatori del provvedimento legislativo: «viene prevista la punibilità di specifiche condotte che minano il mantenimento dell'ordine pubblico all'interno delle strutture detentive» (Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, pubblicata in Sistema penale, 16, aprile 2025).
[6] «I media sono autentici fabbricatori di realtà, o meglio produttori di una realtà parallela elaborata attraverso un second code» (V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, 20).
[7] Ne è riprova il fatto che il capo III, sotto cui è riportato l'articolo 26 del d.l. "Sicurezza" relativo al reato de quo, è rubricato significativamente "Misure in materia di tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124".
[8] Nella norma, però, si indicano quali siano le modalità di resistenza passiva, ponendo l'accento sul contesto e quindi sul «numero delle persone coinvolte»; come infatti insegna la dottrina, la struttura del pericolo concreto passa per la descrizione della dinamica del fatto (F. Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, Milano, 1994, 88): dinamica che poi diviene un "problema" probatorio, avendo - anche qui - la dottrina messo in guardia da «inammissibili semplificazioni probatorie» (A. Gargani, Delitti di pericolo personale e individuale. Osservazioni in prospettiva di riforma, in Legislazione penale, 9 settembre 2020, 2).
[9] Secondo il concorde avviso di dottrina e giurisprudenza, e prendendo spunto dalle altre norme che la contengono, tale locuzione evoca situazioni e concetti parzialmente differenti da quelli propri del mero concorso eventuale ed individua un reato necessariamente plurisoggettivo proprio il cui quid pluris rispetto alla mera compartecipazione criminosa ex art. 110 c.p. è costituito dal fatto che al momento e nel luogo della sua commissione i partecipanti siano "riuniti" (Cfr. G. Amarelli, Le sezioni unite si pronunciano sulla aggravante delle "più persone riunite" prevista per il delitto di estorsione, in Dir. pen. cont., 7 giugno 2012); quanto alla peculiare dinamica concorsuale, si richiede la simultanea e consapevole presenza di tutte le persone sul luogo del reato anche se non è necessario il previo concerto, bastando un accordo subitaneo o un'implicita intesa.
[10] Ne fa cenno, ripercorrendo l'iter parlamentare, C. Pasini, Il disegno di legge sicurezza e il nuovo reato di rivolta in carcere e in strutture di accoglienza e trattenimento per i migranti, in Sistema penale, 29 maggio 2024.
[11] Violenza, minaccia e resistenza, anche passiva, sono infatti condotte attive, oggettivamente apprezzabili, mentre dall'altro lato l'evasione è caratterizzata dal suo evento, anch'esso oggettivamente apprezzabile: il tentativo di evasione, che è al contrario una condotta teleologicamente caratterizzata, avrebbe invero generato non poche difficoltà di coordinamento con la norma di cui all'art. 385 e il suo tentativo.
[12] Ci si riferisce alla teoria della accessorietà, che, come noto, riesce a spiegare dal punto di vista dogmatico i casi in cui una condotta ab origine priva di tipicità si leghi indissolubilmente a quella dell’esecutore principale, mutuandone necessariamente la qualificazione giuridica; per un approfondimento di tale teoria, v., per tutti, C. Pedrazzi, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1957, passim (ora anche in Id., Diritto penale. Scritti di parte generale, vol. I, Milano, 2003, 28 ss.).
[13] Su cui, diffusamente, V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, passim; più di recente, D. Pulitanò, (voce), Offensività del reato (principio di), in Enc. dir., Annali VIII, 2015, 665 ss.; M. Donini, Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2013, 4 ss.
[14] Indubbiamente "affiancato" da altri beni giuridici, quali ad esempio il buon andamento della Pubblica Amministrazione, che necessariamente dipende dall'incolumità fisica dei suoi pubblici ufficiali: come si è detto, l'accento su questo profilo lo si ricava in via sistematica, ma anche testualmente, come dimostrano le ipotesi aggravanti che fanno riferimento a lesioni o morte quali conseguenze non volute dai rivoltosi; ed è un profilo che preserva la necessaria rilevanza costituzionale del bene giuridico (ulteriormente) protetto, sulla scorta della nota definizione dell'illecito penale come fatto lesivo di un bene avente rango costituzionale (ci si riferisce, ovviamente, a F. Bricola, Teoria generale del reato, in Nov. dig. it., XIX, Torino, 1973, ora in Id. Scritti di diritto penale (a cura di A. Canestrari e A. Melchionda), I, Milano, 1997, 590 ss.).
[15] Va tuttavia specificato che il decreto "Sicurezza" aggiunge all'art. 337 il seguente comma: «Se la violenza o minaccia è posta in essere per opporsi a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio, la pena è aumentata fino alla metà».
[16] È vero: il sistema riguadagnerebbe coerenza interna ove l'art. 415-bis fosse costruito in termini di specialità rispetto all'art. 337: l'approfondimento dell'offesa in luoghi "sensibili" potrebbe financo giustificare l'aumento delle pene ed una struttura sanzionatoria complessiva particolarmente rigoristica. Così, però, non è. Anzitutto, il reato di "rivolta", almeno sul piano formale, non ha quali soggetti passivi pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio: in linea teorica, la violenza o la minaccia possono essere rivolti a chiunque, mentre solo la resistenza è esercitata contro un pubblico agente che esegue «degli ordini impartiti per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza»; a riprova di ciò, la norma, mentre spiega il significato di resistenza "passiva", parla di «contesto in cui operano i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio». Il locus penitenziario, poi, non può valere quale elemento specializzante, perché pone dei limiti di carattere empirico-criminologico ma non restringe l'ambito di applicazione delle condotte incidendo sulla struttura del reato: mentre il principio di specialità, come insegnato dalla Cassazione, si fonda sul confronto tra i tipi in astratto (Cfr. Cass. Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1235, con massima rinvenibile in Dir. pen. proc., 2011, 567 ss.; Cass. Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1963, con massima rinvenibile in Dir. pen. proc., 2011, 848 ss.; orientamento da ultimo ribadito in Sez. un., 29 febbraio 2024, n. 19357).
[17] Trova a questo punto ulteriore avallo la ricognizione effettuata sul bene giuridico, dal momento che l’ordine pubblico è stato storicamente ricostruito come limite implicito alla libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata (P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1975, 16 ss.; S. Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, 167 ss.; G. Zuccalà, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della libertà di pensiero, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, 1154 ss.).
[18] Sul piano specifico della qualificazione dogmatica degli istituti, si deve ricordare che v'è una tendenza giurisprudenziale che qualifica, in alcuni casi, come titoli circostanziati i reati aggravati all'evento, anche laddove l’evento non deve essere voluto (sebbene, nel caso di specie, considerando le diverse cornici edittali tale operazione ermeneutica appare poco praticabile); questo assetto esegetico, secondo la dottrina più attenta, avrebbe il pregio di poter emendare la sproporzione sanzionatoria attraverso il meccanismo del "bilanciamento": in questi termini F. Basile, Colpa in attività illecita, in Enc. Dir. - I tematici: Reato colposo (diretto da M. Donini), II, 2021, 142; per la qualificazione dei reati aggravati dall’evento come titolo autonomo v. G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale – Parte generale, Milano, 2021, 638.
[19] Perché variamente intriso di responsabilità oggettiva - rischiando di risultare molto intriso nel fatto come tipizzato nel reato de quo, posto al cospetto della realtà concreta: va ricordato che M. Gallo, Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951, 132 ss., giungeva financo ad escludere che la norma possa funzionare come imperativo, sia pure impersonale, nei casi di responsabilità oggettiva, mancando qui ogni riferimento essenziale della norma alla volontà dell'agente, anche solo potenziale, ai fini dell'imputazione del fatto.
[20] Si pensi al caso che potrebbe apparire più frequente: ad una "rivolta" che si realizza mediante "barricate" in prossimità delle celle, in punti diversi dell'istituto penitenziario, situazione che pertanto necessita delle risposta degli agenti penitenziari per il ripristino dell'ordine; si ipotizzi che nel rimuovere questi ostacoli l'agente, contrastato in questa operazione di rimozione dagli stessi detenuti, si produca una lesione personale grave (una lesione che determina una prognosi oltre i 40 giorni, ai sensi dell'art. 583).
[21] Cfr., per tutti, G. Forti, La descrizione dell'"evento prevedibile" nei delitti colposi: un problema insolubile?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 1559 ss.
[22] Non a caso L. Risicato, Il nuovo reato di rivolta carceraria, cit., 947, si chiede - prospettando un assetto certamente più attento al criterio della imputazione personale del fatto - se le aggravanti previste - l'avere commesso il fatto con uso di armi e avere cagionato una lesione personale o la morte - siano applicabili ai soggetti di cui al secondo comma (promotori, organizzatori o direttori) o a tutti coloro che abbiano partecipato alla rivolta.
[23] P. Pagliaro, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, 126; D. Pulitanò, Diritto penale, parte generale, V ed., Torino, 2013, 439; F. Palazzo, Corso di diritto penale, parte generale, V ed., Torino, 2013, 510.
[24] Prendendo l'esempio classico: il soggetto che fa da palo per una rapina, con la sua condotta, ha - comunque - causalmente determinato, o perlomeno agevolato, il fatto da cui scaturisce (e poteva prevedibilmente scaturire) l'altro, più grave (es., la morte del soggetto rapinato). Il primo frammento del fatto tipico è soggettivamente imputato all’agente per dolo, mentre il secondo frammento è imputato in base ad un criterio necessariamente diverso dal dolo (così l'art. 586: morte o lesione come conseguenza di altro delitto), ma che non può che essere la colpa: segnala ancora F. Basile, Colpa in attività illecita, cit., 135, che la giurisprudenza in questi ultimi anni ha abbandonato in questo ambito il criterio, ammorbato dalla logica del versari in re illicita, della prevedibilità in astratto e ha decisamente virato verso un’indagine della prevedibilità in concreto del reato diverso non voluto.
[25] Corte Cost., 31 maggio 1965, n. 42, in Giur. Cost., 1965, 639 ss.
[26] È stato sottolineato che la descrizione dell’evento prevedibile dovrebbe includere tutte le peculiari modalità di sviluppo del nesso causale (come tali rappresentabili dal soggetto agente): la risposta positiva a tale problema appare tutt’altro che scontata, anche in una prospettiva di valorizzazione del principio di colpevolezza: così G. Piffer, Preterintenzione e reati aggravati dall'evento. Proposta di riforma dei reati dolosi e preterintenzionali contro la vita e l'integrità fisica, in Sistema penale, 18 luglio 2022, 12.
[27] Lo afferma a chiare lettere la relazione illustrativa: «l’applicazione della nuova fattispecie di reato ai soli casi di trattenimento previsti dagli articoli 10-ter e 14 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, con esclusione, pertanto, in caso di permanenza dello straniero in strutture di accoglienza, la cui natura è, peraltro, del tutto incompatibile con l’assetto ordinamentale proprio non solo degli istituti penitenziari ma altresì dei centri di trattenimento» (Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, cit.).
[28] Relazione tecnica e illustrativa del d.l. n. 48/2025, cit.
[29] «Un conto è prevedere la rilevanza della resistenza passiva in sede disciplinare, come fa appunto l'art. 41 ord. pen., un altro è stabilire in sede penale la punibilità di condotte di generica disobbedienza agli ordini impartiti: un'operazione di dubbia compatibilità con il principio di sufficiente determinatezza»: L. Risicato, Il nuovo reato di rivolta carceraria e nei centri di trattenimento per migranti - speciale Il carcere oggi: tra emergenza sistemica e prospettive necessarie, a cura di L. Risicato e F. Palazzo, in Giur. it., 2025, 950; di «pericoloso messaggio disciplinare» parla M. Pelissero, La pervicace volontà, cit.
[30] La stessa Corte Costituzionale (sent. n. 68/2012) ha affermato che «una pena palesemente sproporzionata - e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato - vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa»; questione ben illustrata in V. Manes, Introduzione ai principi costituzionali in materia penale, Torino, 2023, 206.