È compito della Repubblica. Note sul DDL Sicurezza.
Audizione presso le Commissioni Affari costituzionale e Giustizia del Senato della Repubblica, sul disegno di legge A.S. n. 1236 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, martedì 22 ottobre 2024.
di Enrico Grosso
Desidero in primo luogo ringraziare questa Commissione per avermi chiamato ad interloquire sul disegno di legge A.S. n. 1236 in tema di sicurezza pubblica. Non posso che manifestare il mio apprezzamento per l’attenzione e per l’interesse mostrati, convinto che dal più ampio allargamento del dibattito possano emergere utili elementi di approfondimento in ordine ai punti più delicati o critici della proposta.
Mi concentrerò sul significato complessivo che mi sembra si possa trarre dall’analisi di alcuni specifici aspetti del disegno di legge in discussione, il quale contiene per la verità norme assai varie ed eterogenee. Alcune di quelle norme, peraltro, sembrano conferire una particolare “cifra simbolica” all’intero pacchetto. Mi riferisco in particolare:
all’art. 13, che estende i casi di applicazione della misura di prevenzione del divieto d'accesso alle aree urbane (DACUR, c.d. Daspo urbano);
all’art. 14, che reintroduce la repressione penale del c.d. “blocco stradale o ferroviario” attuato “mediante ostruzione fatta col proprio corpo”, nonché un’apposita aggravante se “il blocco stradale o ferroviario attuato con il proprio corpo è commesso da più persone riunite”;
all’art. 19, che introduce una serie di aggravanti al delitto di violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, tra cui quella che punisce più severamente il fatto se “commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”;
all’art. 20, che introduce la nuova fattispecie di reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni;
all’art. 26, che introduce una serie di misure repressive della disobbedienza all’interno degli istituti penitenziari, tra cui l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi se commesso dentro un carcere, o il delitto di rivolta, inteso come un complesso di atti di “resistenza” (anche passiva) all’esecuzione degli ordini impartiti, consistenti in condotte che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza, con pene più gravi per i promotori;
all’art. 27, finalizzato a reprimere ogni forma di protesta da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento ed accoglienza, ivi compresa la resistenza passiva, intesa anche in questo caso come complesso di “condotte che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”.
Ho ascoltato con molto interesse le analisi dettagliate e approfondite che altri autorevoli auditi hanno proposto, nel corso di questa e di altre sedute, in ordine al contenuto delle singole disposizioni. Su molte di quelle analisi concordo, e non vi tornerò. Proverò invece a gettare uno sguardo d’insieme sui principi ispiratori che sembrano informare il disegno di legge e ad offrirne una chiave interpretativa.
Si tratta, mi pare, di misure complessivamente ispirate dal medesimo principio ordinante: in nome di una presunta necessità di “tutela della sicurezza”, e in definitiva in nome della volontà di affermare un generale obiettivo di “mantenimento dell’ordine sociale”, si ritiene non solo concretamente possibile (in quanto non contrario ad alcun principio costituzionale), ma addirittura desiderabile, arrivare a sacrificare o comunque limitare l’esercizio di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. E dunque si valuta che valga la pena affrontare (e che sia ragionevole ipotizzare che si possa vincere) la sfida giuridica che inevitabilmente verrà lanciata, con la massima durezza e in tutte le possibili sedi giudiziarie, rispetto alla tenuta di quelle norme nel confronto con le disposizioni costituzionali che tali diritti garantiscono.
Sono norme di alto valore simbolico, che preconizzano e pretendono di introdurre nell’ordine sociale una nuova gerarchia dei valori di riferimento. Quei nuovi valori di riferimento vengono suggeriti alla società come il fondamento di un ordinamento diverso da quello attuale, idoneo a mettere in discussione stabilizzati assetti costituzionali e consolidati equilibri che un tempo si ritenevano anche culturalmente non più discutibili.
Dico per inciso – e non svilupperò questo punto – che resta poi da vedere se a questa enorme carica simbolica corrisponda anche una effettiva idoneità pratica a perseguire davvero gli obiettivi apparentemente posti alla base della formulazione di tali norme. Si tratta di un problema che a sua volta impatta direttamente sulla loro legittimità costituzionale: il diritto è strumento pratico, che deve servire a offrire risposte effettive a problemi concreti, e se gli specifici strumenti normativi di volta in volta escogitati, oltre a presentare problemi di compatibilità in sé con taluni principi costituzionali, sono anche inidonei a realizzare i fini che individuano, essi sono in ogni caso illegittimi in quanto sacrificano irragionevolmente i suddetti principi costituzionali in nome di un obiettivo che – se anche giustificasse in astratto la compressione di tali principi – non potrebbe essere raggiunto.
Si badi bene: non è in sé e per sé vietato porre limiti all’esercizio di un diritto fondamentale. Tutti i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti vanno opportunamente bilanciati con altri diritti e altri principi, a loro volta costituzionalmente protetti.
Tuttavia, proprio quando si va a incidere su diritti costituzionali, ogni limitazione deve essere valutata nella sua ragionevolezza e nella sua proporzionalità. E il primo indice di irragionevolezza e di sproporzione è proprio l’eccesso di valore “simbolico”, l’attrito che si crea tra il messaggio propagandistico che si intende lanciare a partire da una determinata lettura politica della realtà e l’impatto reale che la norma implica, ossia l’effetto pratico che essa è davvero in grado di produrre.
Lo “spirito” che sembra animare l’insieme delle norme qui in discussione è la volontà di introdurre nuovi e più vasti spazi di criminalizzazione di comportamenti che si dichiara essere “minacciosi” nei confronti della sicurezza ma che, in larga parte, costituiscono mere forme di manifestazione di dissenso. Si tratta di comportamenti usualmente tenuti nell’ambito del normale esercizio di diritti costituzionali (in particolare della libertà di riunione e della libertà di manifestazione del pensiero), e rispetto ai quali, quindi, occorre misurare con grande attenzione fino a che punto la loro repressione possa ritenersi consentita dalle norme costituzionali poste a protezione di quei diritti.
Ricordo a me stesso, e lo sapete voi stessi meglio di me, che la sovranità popolare – quella che il Parlamento può legittimamente rappresentare – è solo ed esclusivamente la sovranità che si esercita, oltre che nelle forme, anche nei limiti (sostanziali) previsti dalla Costituzione. Il Parlamento, negli ordinamenti costituzionali contemporanei, è un organo per sua natura a sovranità limitata. E ciò in quanto è il popolo stesso che il Parlamento rappresenta ad essere qualificato dalla Costituzione come un soggetto a sovranità limitata. Limitata, appunto, dalla Costituzione. Limitata inoltre, oggi, anche dal contesto delle Carte e delle norme sovranazionali cui la Costituzione, esplicitamente o implicitamente, attribuisce un valore superiore a quello della legge (ossia dell’atto tipico con cui si manifesta la volontà dell’organo rappresentativo). Su questo principio si fonda il giudizio di legittimità costituzionale delle leggi. Sul medesimo principio si fonda il potere/dovere dei giudici di dare diretta applicazione al diritto dell’Unione europea, anche disapplicando le disposizioni di legge che con esso contrastino.
Quando una legge viene dichiarata incostituzionale, o viene disapplicata per contrasto con una norma sovranazionale, ciò non avviene perché la Costituzione “ce l’ha col popolo”, ma perché il concetto stesso di “popolo” è in realtà una mera finzione semplificatrice. Dietro alla parola “popolo” si manifesta la realtà di una società pluralistica, differenziata, disuguale, conflittuale e contemporaneamente aperta, democraticamente orientata al confronto, al dibattito pubblico, alla partecipazione. La Costituzione espressamente esclude che si possa accreditare un’idea di popolo come entità omogenea dal punto di vista culturale e politico. E dunque l’integrazione sociale, nei contesti di accentuato (e crescente) pluralismo che caratterizzano le società contemporanee, non può essere un dato presupposto, al massimo un obiettivo da perseguire. Per questo la “sovranità” non risiede (più) nel “popolo”, bensì nella Costituzione stessa. L’attribuzione effettiva della sovranità, cioè, è affidata anch’essa a una finzione.
Ciò significa che il dissenso, e financo il conflitto sociale, sono ampiamente e complessivamente difesi e protetti. Perché essendo la società pluralista, la Costituzione promuove e protegge ogni attività sociale che preservi e mantenga nel tempo quella struttura pluralistica. E lascia che il conflitto sociale produca da solo i suoi equilibri, salvi i limiti esterni introdotti affinché esso non degeneri in atti di violenza, producendo disgregazione sociale. Per il resto il dissenso, in qualsiasi forma espresso, e da chiunque, è non solo lecito, ma costituzionalmente garantito.
A me pare che la maggior parte delle norme del disegno di legge qui in discussione, almeno quelle che ho individuato all’inizio, minaccino ingiustificatamente libertà civili e politiche strettamente connesse alla manifestazione del dissenso. Il quale è protetto in primo luogo in quanto forma di accesso al dibattito pubblico delle richieste di emancipazione delle minoranze sociali, dalla Costituzione non solo presupposte, ma specificatamente tutelate e difese, anche (anzi soprattutto) quando si esprimono attraverso atti di protesta e contestazione.
Su questo punto è bene essere particolarmente chiari, perché si tratta della pietra angolare dello Stato costituzionale. La divergenza politica e sociale è un valore protetto. E qualunque norma repressiva che sia funzionale a rendere più difficile l’espressione della divergenza politica e sociale è contraria alle “forme” e ai “limiti” di cui parla l’art. 1.
Insomma, la Costituzione parte dal presupposto che, a partire dalla consapevolezza dell’esistenza di diseguaglianze, sia compito della Repubblica (quindi non soltanto della “politica” nel senso più ristretto della rappresentanza politica, ma della società complessivamente intesa, attraverso tutte le sue manifestazioni e articolazioni) rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’emancipazione personale e sociale, e dunque combattere – pacificamente – affinché ciò avvenga. Le dinamiche sociali, e ogni loro manifestazione esteriore, sono in questo senso incentivate e favorite.
Invece le norme contenute nel disegno di legge qui in discussione sembrano essenzialmente dirette a reprimerle e soffocarle. A penalizzare condotte che vengono in tal modo additate come comportamenti propri di un deviante, di un avversario (se non addirittura di un “nemico”) della società, mentre costituiscono per lo più legittime forme di manifestazione del pluralismo sociale.
La Costituzione presuppone che i subalterni, i marginali, gli “ineguali” che lottano per la propria dignità e per il riconoscimento della propria autodeterminazione siano protagonisti di una società che li ricomprende, e non abusivi di un “popolo” che li espelle. E proprio il conflitto è lo strumento attraverso cui tale emancipazione può essere promossa, e auspicabilmente realizzata e riconosciuta. La Costituzione non presuppone una società statica ma una società dinamica, che rifiuta il mantenimento dello status quo, che accetta la complessità del reale, che rende vivo e vitale il pluralismo.
E questo lo fa per una ragione principale, che sembrerà forse a qualcuno paradossale ma che è la vera ragione giustificatrice dello Stato costituzionale pluralista: solo difendere un sano pluralismo conflittuale ci preserva dalla guerra civile, ossia da guai assai peggiori. Il pluralismo conflittuale preserva e alimenta la coesione sociale; la protezione securitaria di taluni valori “contro” altri la fa esplodere. Se si nega il dissenso e il conflitto e se ne reprimono le forme di manifestazione, si spingerà ogni minoranza, ogni gruppo sociale o politico che si trovi in una situazione di svantaggio sociale, a non sentirsi più legato da alcun patto sociale, a non percepire più alcuna convenienza all’integrazione. Le Costituzioni del secondo dopoguerra sono state scritte per preservare le società pluralistiche dai drammi della disgregazione e della contrapposizione violenta che avevano deflagrato in Europa spingendola sull’orlo dell’autodistruzione.
Sono molte le disposizioni contenute nel DDL n. 1236 che sembrano mettere in discussione questi capisaldi del costituzionalismo contemporaneo. Esso prevede l’introduzione di una serie di nuovi reati, nonché molte circostanze aggravanti a reati già esistenti, che vanno deliberatamente a colpire – a scopo evidentemente repressivo – l’area della manifestazione del dissenso e le sue modalità di espressione, specie nei luoghi, e tra le persone, ove più acutamente emergono disagio, diseguaglianza, povertà, e dove pertanto è più probabile che tale dissenso deflagri in pubbliche manifestazioni di protesta.
Si propone di reprimere penalmente la mera resistenza passiva, anche se pacifica e non violenta, nel corso di pubbliche manifestazioni. L’art. 14, infatti, reintroduce il reato di “blocco stradale”, che era stato in passato oggetto di depenalizzazione e di cui si prevede la ri-penalizzazione anche quando attuato “mediante ostruzione fatta col proprio corpo”. Si badi bene: Il reato di blocco stradale, introdotto nell’ordinamento penale nel 1948, si applicava solo ed esclusivamente a chi ostacolasse strade ordinarie e ferrate apponendo dei blocchi. Mai, fino ad oggi, è stata prevista una sanzione penale nei confronti dei manifestanti che si limitino ad opporre il proprio fisico al passaggio di treni o auto nel corso di una protesta. Peraltro, l’originaria fattispecie che puniva la condotta di chi abbandonasse sulle strade e sui binari oggetti atti a bloccare, era stata oggetto, fin da subito, di così aspre contestazioni per il suo carattere di per sé irragionevolmente repressivo del dissenso politico, da essere dapprima sostanzialmente depotenziata, con una lunga serie di provvedimenti di amnistia, per poi essere infine oggetto di depenalizzazione nel 1999. Tutto ciò non era affatto casuale. L’occupazione di vie pubbliche costituisce storicamente un tipico strumento utilizzato da chi manifesta dissenso, in occasione di scioperi o di cortei di protesta, specie da parte di lavoratori in lotta per la difesa del loro posto di lavoro. Essa è da tempo considerata una modalità di esercizio di diritti fondamentali, dalla libertà di riunione al diritto al lavoro (e al connesso diritto di sciopero finalizzato alla difesa della sua effettività). In tale contesto, la depenalizzazione del reato di blocco stradale del 1999 è stata univocamente interpretata come applicazione del principio del c.d. “diritto penale minimo”, che riserva le fattispecie criminose alle condotte lesive di diritti e valori primari dell’individuo. Nel 2018, del resto, il reato di blocco stradale è stato reintrodotto, ma con espressa esclusione dell’ostruzione effettuata col solo proprio corpo (per la quale è stata prevista una semplice – e già di per sé del tutto discutibile – sanzione amministrativa). Oggi, stabilendo la repressione penale della mera resistenza passiva, si pretende di colpire proprio quei comportamenti non violenti, di per sé privi di effettiva offensività nei confronti di beni primari, attraverso i quali si esprime pacificamente il conflitto sociale.
Si introduce poi una serie di aggravanti di luogo e di contesto, prevedendo che il medesimo fatto sia da considerare più grave se commesso in determinati luoghi, che sono quasi sempre quelli ove più frequentemente si consumano situazioni di disagio o di degrado: dentro un carcere, o in un centro di trattenimento per stranieri, o nelle periferie urbane, o nelle zone prospicenti le stazioni ferroviarie. Si prevede un’aggravante specifica per chi commette un fatto di resistenza “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”: ossia si pretende di colpire non soltanto l’atto in sé (la resistenza), ma anche – e più gravemente – la finalità dell’atto medesimo, qualificando come intrinsecamente più grave la presunta “ribellione” di una minoranza dissenziente alla decisione, assunta da parte di una maggioranza, di procedere alla realizzazione di un’opera pubblica. Il che non significa, ovviamente, che tale maggioranza politica non abbia il pieno diritto di imporre la sua decisione: ciò che appare fortemente discutibile è che a protezione di tale decisione si debba far luogo alla previsione di un più grave reato per chi dissente e tale dissenso manifesti pubblicamente.
Si prevede inoltre una nuova fattispecie delittuosa, consistente nelle “lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni”. Anche in questo caso, non è in discussione l’atto in sé ma la sua finalità: l’ufficiale di pubblica sicurezza nell’adempimento delle sue funzioni, nel corso di manifestazioni pubbliche ove si esercita la libertà di opinione delle minoranze politiche e sociali, è solitamente colui che sta eseguendo un’attività di contenimento di tali pubbliche manifestazioni per conto dell’autorità politica che sovrintende alla gestione dell’ordine pubblico, ossia del governo. La più severa punizione di tali condotte offre obiettivamente una più incisiva – e irragionevole – protezione del medesimo bene giuridico, per il solo fatto che quel bene giuridico sia stato leso in occasione di attività di repressione del dissenso.
Le norme sopracitate, nel loro complesso, sollevano dunque forti dubbi rispetto alla tenuta di fondamentali diritti posti dalla Costituzione ad espresso presidio della generale e indefettibile libertà di dissentire pubblicamente dalle decisioni di chi esercita il potere. A cominciare dalla libertà di riunione e di manifestazione sindacale e politica, nonché dalla libertà di manifestare pubblicamente il proprio pensiero e di incidere, in tal modo, sul libero sviluppo del dibattito pubblico.
La libertà di riunione, come è stato autorevolmente sottolineato, è il diritto a «stare fisicamente insieme con altri» (secondo la celebre definizione di Alessandro Pace) con lo specifico fine non soltanto di manifestare individualmente, ma soprattutto di condividere con altri e di comunicare all’opinione pubblica il proprio pensiero, contribuendo così a “costruire” il dibattito pubblico. Chi si riunisce, sottolinea Pace, ha pertanto il diritto di «contrapporsi, anche fisicamente, ai detentori del potere nella discussione dei problemi, nella elaborazione collettiva di proposte politiche, e soprattutto, nelle manifestazioni e nei cortei di protesta», proprio perché è in tal modo che, in una società pluralistica, si rispetta e si valorizza la diversità di opinioni, di idee, di punti di vista, tutelando il diritto delle minoranze di “pensarla diversamente” dalle maggioranze e di esercitare la propria legittima opposizione alle loro decisioni.
La libertà di riunione è dunque strettamente funzionale all’esercizio effettivo di altri fondamentali diritti di libertà e principi costituzionalmente protetti (dalla libertà di opinione, al pluralismo politico, sindacale, religioso, e così via). Per tale ragione, le specifiche “finalità” per le quali ci si riunisce non rilevano, e non devono rilevare, per la Costituzione, la quale si limita a richiedere un vincolo di mezzi. La previsione della forma “pacifica” di ogni riunione è funzionale a evitare, quale che sia il fine per il quale di volta in volta ci si riunisce, e quale che sia la forma che tale riunione di volta in volta assuma (il corteo, il picchetto di protesta, l’assemblea pubblica), che la riunione degeneri in disordine violento, ossia che sia concretamente ed effettivamente violato il c.d. “ordine pubblico materiale”.
Orbene, a me pare che le citate disposizioni del disegno di legge in discussione siano essenzialmente dirette a garantire non tanto la tutela dell’ordine pubblico materiale (ossia la mera assenza di violenza nello svolgimento di una riunione per altro verso in ogni caso del tutto lecita), bensì piuttosto quella di un più vago e minaccioso ordine pubblico ideale. Non si intende affatto preservare il diritto a manifestare liberamente, isolando i violenti dalla massa dei pacifici. Si intende invece impedire anche ai pacifici di manifestare (pacifici essendo, in tutta evidenza, gli atti di resistenza passiva), in nome della tutela dello status quo politico- sociale. E questo l’art. 17 della Costituzione non lo consente. Esso è posto a specifica tutela del diritto di dissentire, di protestare, di contestare quello status quo, di operare pubblicamente per cambiarlo.
Lo stesso discorso vale per la libertà di manifestazione del pensiero. Anch’essa è strettamente funzionale alla difesa del pluralismo, della partecipazione, dell’esercizio del metodo democratico, del dissenso. La sua protezione, pertanto, è strettamente connessa a quella della libertà di riunione, che costituisce una delle più efficaci modalità organizzative funzionali alla espressione collettiva e alla pubblica condivisione di opinioni alternative a quelle maggioritarie o dominanti. L’una e l’altra, così come la libertà sindacale, la libertà di associarsi in partiti e di concorrere in tal modo a determinare le singole scelte politiche, la libertà religiosa, e altre, testimoniano complessivamente di una esplicita ostilità della Costituzione nei confronti di qualsiasi politica di prevenzione e di repressione della mera disobbedienza.
Sono, in conclusione, preoccupato dell’introduzione di molte delle norme di questo pacchetto, perché mi paiono avere l’obiettivo “simbolico” di incentivare una generale delegittimazione del dissenso, attraverso un’interpretazione ampia e dilatata (e quindi incostituzionale) del limite della sicurezza e dell’ordine pubblico, non più inteso come ordine pubblico materiale bensì come ordine pubblico ideale. In altre parole, mi pare che emerga la volontà di attribuire un contenuto di intrinseca pericolosità, giustificandone così la repressione, a comportamenti che incidono non sulle modalità di esercizio delle libertà costituzionali, ma sul contenuto di queste ultime.
E si finisce così per far coincidere la difesa dell’ “ordine pubblico” con la difesa dell’ “ordine costituito” (nel senso degli assetti politici ed economici costituiti). Un ordine costituito fondato sui principi che chi esercita – pro tempore – la funzione di indirizzo politico ritiene indispensabili per la sopravvivenza del “suo” ordinamento. Salvo che l’ordinamento non è affatto “suo”. Esso è anche di tutti quei dissidenti che legittimamente lo combattono, e che aspirano a cambiarlo, perché proprio questo è il senso dello Stato costituzionale pluralista: la libera e permanente disponibilità del potere di determinazione dell’indirizzo politico.
Tutto ciò, come dicevo, rappresenta un pericolo potenziale per la tenuta della democrazia, intesa come democrazia pluralista. Senza contare che ogni restrizione di tali libertà, ogni “deriva penalistica” che reprima il dissenso, è destinata a non portare altro, con sé, che l’acutizzarsi e l’esasperarsi di quel medesimo dissenso: sarà così sempre più improbabile che esso possa essere incanalato nelle forme pacifiche che la Costituzione promuove e preserva.
La democrazia pluralistica presuppone partecipazione, non mera obbedienza. Ed esige di conseguenza un uso non violento del diritto. Anzi, la Costituzione è nata per questo, per depotenziare la carica di violenza insita nella (più antica) idea del diritto come mero strumento in mano a chi detiene il monopolio della forza legittima. Le libertà sono espressione del desiderio di promuovere, di epoca in epoca, nuovi assetti di potere, sempre rinnovabili e ridiscutibili. Anche in questo aspetto andrebbero tutelate: in quanto generatrici di dissenso, di conflitto, e pertanto garanzia permanente di conservazione del carattere eminentemente pluralistico della società, pronta in ogni occasione a cambiare i propri indirizzi politici entro un comune e condiviso quadro di principi costituzionali. Le norme su cui mi avete chiesto di soffermarmi, anche se lo facessero solo “simbolicamente”, mi pare minaccino gravemente la tenuta complessiva di questo meta-principio, presupposto indefettibile per la sopravvivenza stessa dello Stato costituzionale.
In tema di DDL Sicurezza si veda anche Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria e Il DDL Sicurezza e il carcere. Audizione del 22.10.2024 Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in relazione all’esame del disegno di legge n. 1236 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) di Fabio Gianfilippi.
Immagine: Peter Henry Emerson, The Old Order and the New, 1886, Ada Turnbull Hertle Fund, Chicago Art Institute.