In materia di peculato, si veda anche Nuovi confini del peculato tra tutela del buon andamento e presidio patrimoniale della pubblica amministrazione di Maria Sabina Calabretta.
L’art. 314 bis c.p.: nuovo reato o saldi di fine stagione?
di Graziella Viscomi
Sommario: 1. Il peculato, fra passato, presente e futuro. - 2. Il peculato per distrazione nella evoluzione giurisprudenziale. - 3. Il “nuovo” peculato per destinazione diversa.
1. Il peculato, fra passato, presente e futuro.
L’art. 314 c.p. definisce il delitto di peculato, prescrivendo: “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi”.
Nella formulazione precedente, la disposizione prevedeva: “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso di denaro o di altra cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione, se l’appropria ovvero la distrae a profitto proprio o di altri, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa non inferiore a lire mille”.
Con l’art. 9 del D.L. n. 92 del 04 luglio 2024, recante: “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia”, è stato disposto l’inserimento nel codice penale, dopo l’art. 314 c.p., della seguente disposizione rubricata “Indebita destinazione di denaro o cose mobili”, la quale testualmente recita: “Fuori dei casi previsti dall’art. 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o di atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e, intenzionalmente, procura a sé o ad altri, un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Prima di addentrarci nella rapida analisi del nuovo testo normativo, viene da fare una immediata riflessione a proposito dell’uso della decretazione e del conseguente concetto di urgenza.
È noto, invero, che il senso della normazione governativa, del ricorso ad un iter “accorciato” sia disegnato come una eccezione nel nostro ordinamento che deve trovare la sua ratio nel bisogno di provvedere per porre rimedio ad una situazione contingente, definita proprio da necessità ed urgenza.
Orbene, l’evidente anomalia sta, prima di tutto, nella circostanza che tale stato contingente cui porre rimedio ha, lo si deve tristemente ammettere, origini normative risolvendosi nella previsione della abrogazione del reato di cui all’art. 323 c.p. di cui al d.d.l. c.d. Nordio (AC 1718, trasmesso dal Senato il 16 febbraio 2024 e approvato definitivamente dalla Camera dei Deputati il 10 luglio scorso).
In altre parole, il Governo ad iniziativa dei Ministri della Giustizia e della Difesa, ha prima avviato l’iter di approvazione della legge di abrogazione dell’art. 323 c.p.; poi, sempre il Governo, ha realizzato (forse) che tale abrogazione avrebbe creato un vulnus di diretto interesse comunitario incidendo sulla gestione dei fondi pubblici e, per porre rimedio al danno che certamente ciò andrà a creare, ha introdotto la nuova disposizione.
2. Il peculato per distrazione nella evoluzione giurisprudenziale.
Al fine di meglio comprendere la relazione fra abuso di ufficio e “nuovo” peculato, occorre effettuare alcune riflessioni, non potendosi cogliere diversamente, di primo impatto, la portata di una disposizione inserita, invero, appena dopo il delitto di peculato e rubricata, peraltro, come “bis” di quell’articolo, quasi a volerne sottolineare la natura di species a genus.
Il motivo per il quale, invero, si è scelto di aprire il presente scritto con la formulazione delle precedenti versioni del “peculato” risiede proprio, nella circostanza, che si discute della speciale figura del peculato “per distrazione”.
Il peculato c.d. per distrazione è figura espressamente disciplinata nel codice penale sino al 1990, anno in cui è stato eliminato dalla disposizione di cui all’art. 314 c.p. il riferimento alla distrazione a profitto proprio o di altri.
Ciò non significa, tuttavia, che le condotte distrattive siano rimaste impunite. C’è stata, nel frattempo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha affrontato la questione in diverse occasioni.
Ci si pregia di richiamare quelle più significative, partendo dal richiamo a diversi ed incisivi passaggi che possono leggersi nella decisione n. 1247 del 17.7.2013-14.1.2014 della Suprema Corte nel cui contesto è stato evidenziato:
“La nozione di "appropriazione" accolta nell'art. 314 c.p. ha, infatti, un significato più ampio di quello che aveva prima della riforma del '90 e più ampio anche di quello che lo stesso termine possiede, secondo l'orientamento tradizionale, nel delitto di appropriazione indebita, dove l'appropriazione, ad esempio, non abbraccia qualsiasi forma di uso delle cose possedute. Nel delitto di peculato l'appropriazione può, invece, essere integrata anche dall'uso della cosa che avvenga con modalità e intensità tali da sottrarla alla disponibilità del legittimo proprietario o della p.a.; in tali casi, verificandosi la "impropriazione" del bene, il pubblico funzionario finisce per abusare del possesso, impedendo alla p.a. di poter utilizzare la cosa per il perseguimento dei suoi fini. (…) Commette, pertanto, peculato, il pubblico agente che, esercitando arbitrariamente i poteri di disponibilità della cosa di cui per ragioni di ufficio ha il possesso, la sottrae, anche solo temporaneamente, alla destinazione istituzionalmente assegnatale. (…) Ne deriva che nel testo attuale dell'art. 314 c.p. "appropriarsi" non vuol dire soltanto far propria la cosa, ma anche usare illecitamente in modo non momentaneo, o anche momentaneo, ma senza restituirla immediatamente dopo l'uso, la cosa e/o il denaro di cui si ha la disponibilità per ragioni di ufficio o di servizio. (…) Anche in ragione degli interessi tutelati, quindi, deve concludersi che sussiste "appropriazione" non soltanto quando il pubblico agente fa "sua" la cosa, ma anche quando lo stesso abusa dell'uso della cosa e/o del denaro di cui ha il possesso per ragioni di ufficio o di servizio, togliendo così alla pubblica amministrazione la possibilità di utilizzare la stessa per il perseguimento di pubbliche finalità (…) Ne discende che, poiché il soggetto che devia la cosa da una finalità ad un'altra si comporta, per un momento, sulla cosa stessa come se ne fosse il proprietario, molte di quelle forme di peculato che prima erano considerate peculato per distrazione sono ora divenute peculato per appropriazione. In buona sostanza, con la riforma del '90, la condotta distrattiva risulta declassata da componente tipizzata ed autonoma del delitto di peculato a semplice modalità di condotta riscontrabile in una pluralità di reati contro la pubblica amministrazione, sicché non sussiste alcuna incompatibilità normativa e neppure logica tra condotta distrattiva e reato di peculato, ben potendo, a date condizioni, la condotta in esame integrare anche il delitto previsto dalla nuova formulazione dell'art. 314 c.p. Con la soppressione del riferimento alla condotta distrattiva, il legislatore non ha, quindi, inteso togliere rilevanza a tale condotta rispetto alla configurabilità del peculato, ma ha semplicemente eliminato l'unico dato testuale che qualificava la condotta distrattiva come diversa ed alternativa rispetto a quella appropriativa, dovendosi invece il rapporto tra appropriazione e distrazione inquadrare come legame tra genus e species (Sez. 6, sentenza n. 40148 del 24-10-2002, Gennari, su DeG n. 5 del 2003). Ne deriva che la distrazione altro non è che una particolare forma di appropriazione, dal momento che chi imprime alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, non fa altro che appropriarsi della stessa. Conseguentemente il pubblico amministratore che, invece di investire per le finalità cui erano destinate le risorse finanziarie di cui ha la disponibilità, le impiega per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi, attua quell'inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, esercita una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini. Si impadronisce -e, quindi, si appropria- del denaro posseduto, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. 6, Sentenza n. 11633 del 22/01/2007, Rv. 236146, Guida; Sez. 6, Sentenza n. 23066 del 14/05/2009, Rv. 244061, Provenzano; Sez. 6, Sentenza n. 7492 del 18/10/2012, Rv. 255529, Bartolotta; Sez. 6, Sentenza n. 16381 del 21/03/2013, Rv. 254709, Abruzzese) [...]”.
Fin qui, dunque, è chiaro che nel nostro sistema ordinamentale quelle condotte del pubblico ufficiale di uso delle risorse pubbliche con sottrazione alle finalità cui erano destinate, risolvendosi in una appropriazione personale, sono sempre state considerate peculato.
A ciò deve aggiungersi che l’ermeneutica interpretativa consentiva di inglobare non solo le condotte poste in essere dal soggetto esecutore, cioè colui che per definizione, ha poteri di cassa direttamente spendibili. Ma anche e soprattutto quelle figure apicali, anche e soprattutto politiche che, con atti di alta amministrazione/indirizzo incidono sulla destinazione delle risorse pubbliche (si pensi, ad esempio, alle delibere regionali di impressione della destinazione ai fondi pubblici, ovvero alle delibere del D.G. di un’ASP o di una fondazione in house che impegnano un determinato capitolo di spesa nel bilancio).
Si parla, infatti, di disponibilità materiale o giuridica del pubblico denaro. Così la Suprema Corte: “In tema di peculato, la nozione di possesso di danaro deve intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del danaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione. Ne consegue che l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che si comporti "uti dominus" nei confronti di danaro del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio e la sua conseguente appropriazione possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi. (Fattispecie relativa a misura cautelare personale disposta nei confronti del segretario di una fondazione che aveva sottoscritto quote di un fondo di investimento utilizzando danaro dell'ente di cui aveva la disponibilità per ragioni di ufficio, peraltro in violazione di una delibera del c.d.a. che vietava espressamente l'assunzione di rischi)” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 11633 del 22/01/2007 Cc. (dep. 20/03/2007) Rv. 236146).
Dunque, condizione necessaria per la liceità della spesa è la puntuale destinazione dei fondi all’ambito delle finalità istituzionali, dunque, deve esservi coerenza, pertinenza, una causalità diretta con gli obiettivi da perseguire in virtù della primaria destinazione delle somme impressa dal soggetto pubblico erogatore. La deviazione da tale finalità, con utilizzazione in proprio favore (ovvero, anche per finalità che, pur genericamente di interesse pubblico non siano espressamente riconducibili alle attribuzioni e competenze della funzione istituzionale svolta, ma a quella di altre funzioni attribuite a soggetti pubblici distinti), determina una interversione del possesso ed appropriazione intrinsecamente illecita (in tal senso cfr. Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza, n. 23066 del 14/05/2009 Ud. (dep. 04/06/2009), Rv. 244061 ove si evidenzia che: “In questo caso, infatti, lo stravolgimento della connessione funzionale determina lo stravolgimento del sistema organizzativo-istituzionale che priva di ogni legittimazione la concreta spendita della somma di cui si ha la disponibilità, materiale o giuridica (Sez. 6, sent. 33069 del 12.5 - 5.8.2003 in proc. Tretter, Sez. 6, sent. 10908 del 1.2 - 28.3.2006 in proc. Caffaro; Sez. 6. Sent. 352 del 7.11.2000 - 18.1.2001 in proc. Cassetti), sicché la spendita del denaro avviene uti princeps e costituisce mera interversione del possesso”).
Ancora più tranchant la già citata sentenza n. 1247 del 17.7.2013-14.1.2014 nonchè Cass. Pen., Sez. 6, Sentenza n. 25258 del 04/06/2014 Ud. (dep. 13/06/2014), Rv. 260070 ove è sottolineato che: “imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene”).
La Corte di Cassazione si era anche occupata della distrazione delle pubbliche risorse ripetutamente tracciando confini molto precisi fra la fattispecie di cui all’art. 314 c.p. e quella del “quasi” abrogato art. 323 c.p.: “Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le ipotesi di distrazione, che prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 86 del 1990 rientravano nell'originaria ipotesi `omnicomprensiva' di peculato, di cui al previgente art. 314 cod. pen., come ipotesi alternative a quelle di appropriazione, integrano gli estremi di un abuso di ufficio dell'art. 323 cod. pen. anziché di un peculato per appropriazione di cui al nuovo art. 314 dello stesso codice, a seconda che l'impiego distrattivo del denaro o della altre cose mobili altrui - di cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbia il possesso o la disponibilità, anche giuridica, in ragione del suo ufficio o servizio - che presuppone sempre un abusivo esercizio delle funzioni o del servizio, avvenga a scopi privati o meno: con la conseguenza che la distrazione di quei beni da una ad altra finalità pubblica può configurare, in presenza degli altri requisiti richiesti dalla legge, un peculato laddove la distrazione finisce per rappresentare una forma di appropriazione laddove il mutamento della destinazione di quei beni venga operata per ragioni esclusivamente o prevalentemente di tipo privato (in questo senso Sez. 6, n. 10896 del 02/04/1992, Bronte ed altri, Rv. 192873)” (cfr. Cass. Pen., Sez. 6, Sentenza n. 25258 del 04/06/2014 Ud. (dep. 13/06/2014), Rv. 260070).
3. Il “nuovo” peculato per destinazione diversa.
Nel contesto normativo poc’anzi descritto, la tutela garantita dall’art. 314 c.p. era massima.
Ci si deve, pertanto, necessariamente chiedere se l’introduzione dell’art. 314 bis c.p. ponga realmente un rimedio all’abrogazione (con l’abuso di ufficio) anche della condotta di distrazione a finalità mista (pubblica e privata) disegnata dalla Giurisprudenza o se, al contrario, non rischi di inglobare tutte le condotte distrattive, prestando il fianco ad interpretazioni diverse e più restrittive
In virtù della pena con cui tale nuova condotta è punita, invero, il nuovo delitto impedisce l’uso dell’attività intercettiva, non può legittimare una misura cautelare coercitiva, è collegata al regime di prescrizione più breve, è punito in forma decisamente più lieve e senza che ne discendano pene accessorie significative.
Orbene, il dubbio nasce in relazione alla specificazione della modalità della condotta appropriativa, che, peraltro, la nuova norma descrive nei termini non più di distrazione e neppure di appropriazione.
Il precetto si riferisce, invero semplicemente alla “destina(zione) ad un uso diverso”.
Non è, inoltre, sufficiente, per l’integrazione del delitto l’impressione alla cosa (denaro od altro bene, chiarirà la disposizione in seguito), di un uso diverso da quello stabilito, risultando necessario anche che il vincolo di destinazione sia previsto o dalla fonte normativa primaria (specifiche disposizioni di legge) ovvero atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità (si riproducono, dunque, i vincoli normativi introdotti all’art. 323 c.p. dall'art. 23 comma 1 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76).
Tale precipitato, dunque, circoscrive un vincolo più stringente, già limitativo della portata dell’abuso d’ufficio, atteso che la fonte di disciplina più usata nel contesto amministrativo è quella secondaria, del regolamento, delle delibere e delle circolari. La violazione di tali fonti, tuttavia, risulta irrilevante nella verifica della legittimità (rectius, liceità) dell’operato del pubblico amministratore che, sostanzialmente, rimarrà completamente libero di muoversi impunemente (a titolo di esempio si richiama, nuovamente, per gli effetti dirompenti, l’atto aziendale di un’ASP).
Sul punto, peraltro, la Suprema Corte nel trattare la fattispecie di peculato aveva inteso evidenziare che l’azione dei pubblici funzionari deve essere guidata dal rispetto dei principi espressi dagli artt. 3, 81, 97, 100 e 103 Cost. che nel loro insieme convergono nel richiedere che ogni tipo di spesa deve avere una propria autonoma previsione normativa che non può essere la mera indicazione nella legge di bilancio, che la gestione delle spese pubbliche è sempre soggetta a controllo, anche giurisdizionale, che l’impiego delle somme deve concretizzarsi in modo conforme alla corrispondenti finalità istituzionali, come indicate dalla propria previsione normativa e che tale impiego deve in ogni caso rispettare i principi di uguaglianza, imparzialità, efficienza (che a sua volta, comprende quelli di efficacia, economicità e trasparenza (Cass. Pen. 14.5-4.6.2009, n. 23066).
In altre parole, le difficoltà all’operatività della disposizione incriminatrice create dalla più recente modifica all’abuso di ufficio risultano traslate integralmente nella scrittura dell’art. 314 bis c.p.
Ben poco, dunque, è stato recuperato all’area del penalmente rilevante nel contesto del nuovo reato che, pertanto, non pare porsi nel solco comunitario della volontà di efficace contrasto dei reati commessi dai pubblici ufficiali in danno della pubblica amministrazione.
V’è da chiedersi, invece, cosa accadrà di quelle condotte distrattive che, per le modalità di attuazione e, in particolare, per la scissura totale dall’impiego in ottica pubblica, siano da qualificarsi come appropriative tout court.
È legittimato l’interprete a credere che valga ancora l’assimilazione del peculato per distrazione a quello per appropriazione, laddove manchi una qualsivoglia finalità pubblica?
In senso contrario depone il testo letterale della norma che limita il recinto applicativo a quelle destinazioni di denaro diverse da quelle volute in una fonte normativa primaria o equiparata dal contenuto vincolante e che intenzionalmente (svanisce, dunque, anche il dolo generico che connota la figura del peculato) provochino un vantaggio per l’agente o un danno per la pubblica amministrazione.
Non vi è alcun riferimento espresso alla finalità che guida la destinazione che, dunque, sembra aver perso di rilevanza nell’ottica legislativa (dimenticanza o scelta?)
Inoltre, non va sottovalutata la rubrica della disposizione che qualifica la destinazione come “indebita” (dunque, non coerente, non lecita, anche in tal caso mettendo in dubbio che il riferimento sia circoscritto solo alle condotte prima qualificabili come abuso di ufficio per la compresenza di finalità pubblica e privata).
Di nessun aiuto appare la Relazione illustrativa che, in modo superficiale e scarno, afferma: “in seguito alla riforma attuata con la l. n, 86/19000 sono state soppresse dal peculato (art. 314 c.p.) le condotte di ‘distrazione a profitto proprio o di altri’ e, contemporaneamente si è riformato l’abuso d’ufficio. In conseguenza di ciò, la giurisprudenza ha qualificato come abuso d’ufficio le condotte non comportanti appropriazione, consistenti nel mero mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche (…). L’intervento di cui all’articolo in esame risponde allo scopo di chiarire definitivamente i termini di punibilità di tali condotte non appropriative, anche in ragione della necessità di preciso adeguamento alla normativa euro-unitaria”.
Come si vede, la Relazione presta il fianco, nuovamente a dubbi sul concetto di condotta appropriativa, quasi a non accettare più l’assimilazione in essa della condotta distrattiva nel senso graniticamente riconosciuto dalla Suprema Corte, imponendo una lettura normativa vincolata. Si riferisce invero al “mero” mutamento di destinazione.
Viene da chiedersi, dunque, che margini di interpretazione differenti lasci la clausola di sussidiarietà con cui si apre l’art. 314 bis c.p.: “Fuori dei casi previsti dall’art. 314”.
Come è da intendersi tale enunciato? Significa “fuori dai casi di appropriazione”, così lasciando intatta l’interpretazione della norma laddove assimila ad essa la distrazione ad uso esclusivamente privato? Oppure, ammette la sussistenza di condotte diverse nei quali l’appropriazione può manifestarsi considerandole meno gravi, recuperando le condotte che avrebbero costituito abuso di ufficio?
Ad avviso di chi scrive, la coerenza del sistema ed un reale abbraccio al vincolo comunitario impongono di ritenere, con una opera di interpretazione -innanzitutto- logica, che le condotte già recuperate dalla giurisprudenza nell’alveo di quelle a contenuto appropriativo siano rimaste punite dalla disciplina del peculato tradizionale.
Ed in effetti, ancor più in una ottica sistematica tale interpretazione appare l’unica idonea a garantire un senso di coerenza al sistema: eviterebbe di equiparare alle condotte in cui la distrazione presenta (anche) una finalità pubblica quelle in cui essa è totalmente assente, creando un’area di sostanziale impunità soprattutto nei confronti di coloro che “decidono” dell’uso del denaro per averne la disponibilità nel senso giuridico di cui si è detto.
Si tratta di una conclusione logica il cui fondamento si rinviene nella consolidata giurisprudenza di cui si è detto. La Suprema Corte ha chiarito che gli amministratori pubblici “agendo uti domini e imprimendo alle risorse dell'Ente una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, e così "appropriandosi" di tali beni, attuando proprio quell'inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, gli imputati hanno esercitato una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini: si sono impadroniti -e, quindi, si sono appropriati- dei capitali posseduti, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione. [...] Gli imputati hanno conseguentemente disposto delle somme uti domini, nel senso che alle stesse é stata data una destinazione discrezionale, senza vincoli o limiti, come avrebbe potuto fare il proprietario del bene. In buona sostanza, gli imputati, in spregio a precise disposizioni in materia di investimenti pubblici, hanno impegnato il denaro dell'Ente in operazioni a rischio, idonee a consumarlo, ed al fine di recare profitto ad un terzo, senza perseguire ed anzi negando ogni finalità pubblica dell'operazione. Il non avere agito secondo le indicazioni fissate (tali possono essere considerate quelle imposte dalla normativa nel caso di specie), esponendo le risorse dell'Ente ad un rischio non consentito con la mancata restituzione parziale dello stesso, va qualificato come inadempimento alla obbligazione di restituzione discendente da un impiego diverso da quello pattuito, comportamento integrante la condotta di disposizione uti dominus di denaro altrui (sez. 2, sentenza 11-4-2012, n. 24530, Piasente). Nel caso in esame, per altro, avendo gli imputati disposto dei fondi andando ben oltre le facoltà̀ di disposizione dei beni consentite loro dal titolo in virtù̀ del quale li possedevano, si é verificata una profonda scissura nella permanenza della connessione funzionale e quindi della legittimità̀ del possesso”.
Una diversa interpretazione non consegnerebbe più all’Europa un “nuovo” reato volto a colmare l’abrogazione di quello preesistente, bensì regalerebbe agli amministratori infedeli una facile scappatoia.
Sarebbe, dunque, auspicabile, che in sede di conversione, il Legislatore ripensasse la formulazione della disposizione rendendola più chiara.