Sommario: 1. Il delitto di peculato e le più recenti modifiche normative - 2. Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di peculato - 3. Il c.d. “peculato per distrazione in danno” e le condotte di “distrazione a profitto” della Pubblica Amministrazione - 4. Una declinazione speciale del peculato con riferimento alla figura del notaio: il peculato mediante ritenzione di somme depositate dal privato - 5. Conclusioni.
1. Il delitto di peculato e le più recenti modifiche normative
L’attuale formulazione dell’art. 314 c.p., frutto di recenti modifiche, sanziona rispettivamente il c.d. peculato comune ed il peculato d’uso, prevedendo limiti edittali di pena assolutamente significativi (da tre anni di reclusione nel minimo a dieci anni e sei mesi nel massimo) al primo comma, e da sei mesi a tre anni per il peculato d’uso. Altra norma, l’art. 316 c.p., specificamente sanziona il c.d. peculato mediante profitto dell’errore altrui, punito anch’esso con la pena della reclusione, da sei mesi a tre anni, aggravata ove il fatto offenda gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto siano superiori a euro 100.000.
L’ordinamento, quindi, prevede e sanziona con pene edittali diversificate, univoco segno della diversa gravità dei fatti, tre ipotesi di peculato. Sistematicamente, le fattispecie sono tutte collocate nel TITOLO II “Dei delitti contro la pubblica amministrazione” e, in particolare, nel capo I “Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, tanto che soggetto attivo può indifferentemente essere, tanto per il peculato comune che per quello d’uso, che, infine, per il peculato mediante profitto dell’errore altrui, sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio.
Le modifiche che hanno interessato l’art. 314 c.p. sono state sostanzialmente tre:
- la legge 26 aprile del 1990 n. 86, che ha inciso profondamente sul nucleo essenziale della fattispecie del peculato comune (e, per i richiami operati, anche su quella del peculato d’uso) eliminando dalla stessa sia il riferimento alla necessaria appartenenza pubblica del bene oggetto della condotta appropriativa sia il riferimento alle condotte di distrazione ed ha altresì introdotto per il delitto di peculato la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici oltre ad introdurre la diminuente della particolare tenuità (art. 323 bis c.p. applicabile anche al peculato);
- l’introduzione della confisca diretta del profitto e per equivalente del prezzo del reato ex art. 322 ter c.p. ad opera della legge del 29 settembre del 2000 n. 300, poi estesa (quale confisca sempre per equivalente) al profitto del peculato ad opera della legge del 6 novembre 2012 n. 190
- l’innalzamento dei limiti edittali di pena per il peculato comune dapprima con la legge n. 190 sopra citata e poi con la legge del 27 maggio 2015 n. 69, che ha altresì’ previsto l’obbligatoria riparazione pecuniaria ex art. 322 quaterc.p., la subordinazione della concessione della pena sospesa al pagamento della somma stabilita a titolo di riparazione, e la necessità, in caso di patteggiamento, della restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato.
In sintesi, uno “strumentario” complesso che ha rafforzato tanto gli istituti sanzionatori (limiti edittali di pena, confisca) quanto i corrispondenti strumenti di indagine e tutela preventiva (in relazione all’esperibilità di indagini tecniche ed alla adozione di sequestri ingenti). La ratio di tale crescente tutela è indubbiamente costituita dalla insidiosità delle condotte dei reati contro la pubblica amministrazione e, quanto al peculato, dal particolare sfavore con cui l’ordinamento guarda alle condotte di soggetti che rivestano una posizione di rilevo pubblicistico e della stessa profittino per commettere fatti di appropriazione di beni mobili e di denaro dei quali abbiano la disponibilità per ragioni dell’ufficio o servizio.
Proprio per l’estrema gravità dei fatti sussumibili nell’alveo della fattispecie, occorre attentamente valutare quale sia oggi il perimetro del peculato comune ed il suo rapporto sia con l’art. 323 c.p. che con la fattispecie di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. (delitto oggi sempre punibile solo a querela di parte), anche, e soprattutto, considerando quale sia il bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 314 c.p.
2. Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di peculato
La collocazione sistematica della fattispecie di peculato depone certamente per la individuazione del bene giuridico da essa tutelato nei superiori interessi, di rango costituzionale, al buon andamento ed alla imparzialità dell’amministrazione: anzi, pare ragionevole ritenere che per la connotazione specifica del delitto in esame, il bene tutelato sia precipuamente quello del buon andamento, cui va ricondotto l’interesse della pubblica amministrazione alla migliore destinazione delle risorse delle quali la stessa disponga ovvero, con specifico riferimento a beni di proprietà di soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, a che la disponibilità di un bene mobile venga impiegata ( e pertanto non distolta) al fine di soddisfare gli interessi di rilievo o interesse pubblicistico alla cui tutela quella disponibilità è funzionale. Si pensi ai patrimoni amministrati dai tutori, dai custodi, dai notai incaricati delle vendite.
Tuttavia, parimenti offesa da condotte di peculato è altresì l’imparzialità, che risulta pregiudicata da condotte che il pubblico ufficiale o l’esercente un pubblico servizio possono compiere solo in ragione della disponibilità materiale di una cosa che viene loro concessa in relazione alla posizione di rilievo pubblicistica rivestita. Si sanzionano, quindi, tutte le condotte attraverso le quali il soggetto attivo del reato assume una posizione per la quale “prevarica” le altrui ragioni, alla cui tutela è funzionale il potere sulla cosa.
Alla offesa di tali beni – interessi di rango costituzionale, si aggiunge la declinazione patrimoniale della fattispecie, del tutto affine a quella del delitto di cui all’art. 646 c.p..
Sicché, volendo individuare l’offensività del delitto di peculato, la giurisprudenza costante ne ritiene la natura plurima: in questa direzione, Cass. Sez. 6, Sentenza n. 8009 del 10/06/1993 Ud. (dep. 24/08/1993) Rv. 194920 – 01 così massimata “Il reato di peculato ha natura plurioffensiva. Esso, infatti, tutela non solo la legalità, efficienza, probità ed imparzialità dell'attività della pubblica amministrazione, ma altresì il patrimonio della stessa pubblica amministrazione o di terzi.”; eanalogamente, Cass. Sez. 6, Sentenza n. 29262 del 17/05/2018 Ud. (dep. 26/06/2018) Rv. 273445 – 01, che si sofferma sulle conseguenze dell’eventuale mancanza di un danno patrimoniale e per la quale “La natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l'eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell'agente l'altro interesse protetto dalla norma, diverso da quello patrimoniale, cioè quello del buon andamento della pubblica amministrazione. (In applicazione di tale principio di diritto, la Corte ha ritenuto infondato il motivo con cui il ricorrente, condannato per il reato di cui all'art. 314 cod. pen. per essersi appropriato, quale amministratore di sostegno, del denaro destinato all'acquisto di una cappella cimiteriale per conto dell'amministrato, aveva dedotto l'assenza di qualunque danno conseguente alla propria condotta avendo lo stesso successivamente provveduto ad effettuare il pagamento dell'importo dovuto).
Premessa la natura plurioffensiva del reato, la conseguenza che se ne fa discendere è che il delitto di peculato risulta configurabile anche quando in concreto via sia stata lesione di uno solo dei ben interessi tutelati: l’affermazione, come visto, viene ribadita dalla giurisprudenza soprattutto allorquando nel fatto manchi una effettiva lesione dell’interesse patrimoniale, probabilmente in ragione della circostanza che, come si accennava sopra, proprio tale dimensione risulta essere quella che più caratterizza la fattispecie rispetto ad altre ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione (si veda, tra le molte, Cass. SS.UU., sent. n. 19054 del 20/12/2012 - dep. 2/05/2013- Rv. 255296). Nonostante questa conclusione (solo) apparentemente svilisca la prevalente dimensione patrimoniale del peculato, pare lecito osservare che se anche non sia di immediata percezione il danno patrimoniale conseguente a fatti di peculato, ovvero lo stesso venga poi eliso da condotte riparatorie, ciononostante il reato sussiste per la valenza e rilevanza anche di un danno potenziale o indiretto per l’amministrazione (anche legato alla circostanza che il bene venga distolto dalla destinazione prevista per esso), sicché deve comunque ribadirsi la connotazione patrimoniale del reato, intrinsecamente legata alla costruzione della fattispecie.
Proprio la valorizzazione della dimensione prevalentemente patrimoniale del peculato, quale emerge dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, impone all’interprete una seria verifica della attuale punibilità delle condotte di peculato c.d. “per distrazione”.
3. Il c.d. “peculato per distrazione in danno” e le condotte di “distrazione a profitto” della Pubblica Amministrazione
Come detto, la legge n. 86 del 1990 ha eccettuato dalla descrizione delle condotte di peculato la distrazione “a profitto proprio o di altri”. Espungendo la relativa previsione dal corpo dell’art. 314 c.p., il legislatore avrebbe quindi espunto dall’ambito applicativo della fattispecie di peculato quelle ipotesi di appropriazione per distrazione già incluse nella originaria formulazione, senza peraltro necessariamente prevederne una conseguente irrilevanza penale. Può trarsi una conferma di tale assunto nella pronuncia della Corte Costituzionale in tema di peculato militare (sentenza C. Cost. 4-13/12/1991 n. 448), che già all’epoca aveva tratteggiato i percorsi interpretativi che debbono anche oggi guidare l’operatore nell’applicazione delle fattispecie penali di peculato con particolare riferimento ai fatti di peculato per distrazione.
In quella pronuncia, la Corte precisava che “…l'abolizione della figura del peculato per distrazione non ha affatto significato decriminalizzazione di tutte le condotte che nella stessa venivano ricomprese, dato che molte di esse - come emerge dai lavori preparatori della legge n. 86 del 1990 ed è stato rilevato dalla dottrina - rientrano oggi nella nuova e più ampia figura del delitto di abuso d'ufficio introdotta con l'art. 13 di detta legge, che ha sostituito l'art. 323 del codice penale. È noto, infatti, - a prescindere da più sottili precisazioni, che non interessano in questa sede - che sull'individuazione della "distrazione" penalmente rilevante coesistevano due opzioni interpretative: ritenendosi, talora, che vi rientrasse anche la illegittima destinazione della cosa per finalità bensì proprie della pubblica amministrazione ma non corrispondenti a quelle imposte dalla disciplina amministrativa; talaltra, che vi fossero ricompresi solo i casi di destinazione indebita di risorse pubbliche al di fuori dei fini istituzionali dell'ente. In questa seconda ipotesi la "distrazione", in quanto comporta un'illecita utilizzazione dei poteri di ufficio (e quindi un "abuso") e mira a procurare all'agente o a terzi un vantaggio (o un danno) qualificabile come "ingiusto", integra - secondo la più accreditata dottrina - il delitto configurato nel nuovo testo dell'art. 323 cod. pen.: sicché è solo con riguardo alla prima ipotesi, di destinazione interna alle finalità istituzionali dell'ente, che l'abolitio criminis può dirsi verificata. Sotto altro profilo, poi, i fatti di uso momentaneo della cosa appartenente alla pubblica amministrazione, seguìto dalla sua immediata restituzione, che talora venivano qualificati come "distrazione" pur se implicanti una temporanea appropriazione, non hanno perduto rilevanza penale, dato che rientrano nell'ipotesi attenuata di peculato prevista nel secondo comma del novellato art. 314 cod. pen.”
Ne deriva che il peculato per distrazione resterebbe fuori, senza limiti secondo un primo approccio, dall’ambito dell’art. 314 c.p., ma conserverebbe rilievo penale, ove ne ricorrano gli attuali stringenti presupposti previsti dalla legge, quale fatto di abuso di ufficio, sempreché, quindi, la norma violata abbia rango primario e l’atto compiuto non costituisca espressione di discrezionalità. Quanto al peculato d’uso, dice la Corte, lo stesso ammetterebbe anche la condotta distrattiva.
Tuttavia, due osservazioni sembrano ragionevolmente fondate. La prima è che la condotta del peculato d’uso non può che essere mutuata dalle condotte del peculato comune, attesa la reciprocità della definizione concettuale dei fatti di cui al comma secondo dell’art. 314 c.p. rispetto a quelli del comma primo, laddove il peculato d’uso in effetti integra sempre una momentanea distrazione della cosa dall’uso cui è destinata.
La seconda osservazione è che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha valutato come fatti di peculato anche le condotte di “distrazione” (intesa come “deviazione”) del bene mobile dalla finalità pubblicistica o di rilievo pubblicistico se connotate da particolare gravità, in ragione della destinazione di quei beni ad interessi del tutto privati dell’agente qualificato, ovvero - e qui il tema offre spunti di interesse interpretativo - allorquando la destinazione impressa al bene sia diversa da quella stabilita ex ante e trovi fondamento in una causa illecita o illegittima, o, infine, nelle ipotesi in cui si assegni al bene una destinazione non consentita da norme di legge e/o di statuto e connotata da alea (cfr. quanto all’ipotesi di investimento in fondi Cass. Sez. 6 4-13 giugno 2014, sent. n. 25258 Rv. 260070-01 la cui motivazione espressamente recita : “Va, dunque, riaffermato il principio secondo il quale nel delitto di peculato il concetto di "appropriazione" comprende anche la condotta di "distrazione", in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene: principio già enunciato con riferimento ad una fattispecie in cui questa Corte ha riqualificato come peculato la condotta di pubblici amministratori che, invece di investire le risorse di cui avevano la disponibilità per le finalità pubbliche istituzionalmente previste, le avevano impiegate per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi (così Sez. 6, n. 1247/14 del 17/07/2013, P.G., P.C., Boi e altri, Rv. 258411).”.
Nella sua composizione a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione con la sentenza Vattani (sentenza n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, Rv. 255296) ha chiaramente affermato che l'eliminazione della parola "distrazione" dal testo dell'art. 314 cod. pen., operata dalla legge n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall'agente pubblico nell'area di rilevanza penale dell'abuso d'ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato.
La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d'ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell'agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a.: in particolare, la Corte chiarisce che il discrimine tra peculato per distrazione e abuso di ufficio risiede nella circostanza che si riscontri o meno, nel fatto concreto, una totale cesura del legame funzionale tra il bene e la pubblica amministrazione conseguente alla distrazione del bene dalla sua originaria destinazione.
Sempre la citata sentenza Vattani ha, altresì, chiarito che l’eliminazione della condotta di distrazione ad opera della novella del 1990 dalla norma penale incriminatrice non solo non ha prodotto un effetto generalmente abrogativo del disvalore penale di tali condotte, ma neppure ha espunto dall’alveo del peculato tutte le condotte di distrazione, deponendo a favore di tale conclusione anche un argomento testuale: basi pensare che benché la corrispondente fattispecie comune (ovvero quella di appropriazione indebita), non abbia mai incluso nominativamente le condotte di distrazione, le stesse sono pacificamente ricondotte all’alveo della norma penale incriminatrice ex art. 646 c.p. In particolare, la costante giurisprudenza in tema di appropriazione indebita descrive tale species della condotta di appropriazione quale deviazione della cosa dalla sua destinazione o nel divergere dall’uso legittimo (cfr. sul punto, a partire dalla sentenza Cass, SS.UU n. 9863 del 1989, plurime pronunce a sezioni semplici, fra le quali, tutte della Seconda Sezione della Corte, la Sentenza n. 50672 del 24/10/2017 Rv. 271385, la Sentenza n. 56935 del 31/10/2018 Ud. Rv. 274257 e la Sentenza n. 43634 del 23/09/2021 Rv. 282351).
Tanto premesso, al fine di consentire una adeguata valutazione del fatto ed una efficiente riconduzione dello stesso alla fattispecie incriminatrice astratta, l’interprete può avvalersi della distinzione elaborata dalla Corte di legittimità tra due momenti o passaggi successivi propri del peculato: il primo, negativo (c.d. "espropriazione"), di indebita alterazione dell'originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. "impropriazione"), di strumentalizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.
Ed allora, le condotte di “distrazione” (generalmente significative solo della “diversa direzione” o “destinazione” impressa alla res) potrebbero non limitarsi ad integrare il momento di “espropriazione” se riguardate con riferimento all’originaria destinazione del bene, ma, a determinate condizioni, realizzare in concreto una disposizione della cosa uti dominus per interessi del tutto riconducibili ad una sfera meramente privata dell’agente (o di terzi a lui assimilabili o particolarmente vicini), o addirittura illeciti o aleatori, così verificandosi quella distrazione-impropriazione certamente riconducibile all’ambito sanzionatorio della fattispecie di cui all’art. 314 c.p. In sostanza, integra peculato la condotta appropriativa non solo se rivolta ad esclusivo vantaggio dell’agente ma anche se per la natura e per la causa (eventualmente illecita) della stessa, la distanza tra la destinazione consentita e quella realmente perseguita sia percepibile come estrinsecazione di un potere assoluto sulla cosa che l’agente, che ne dispone per ragioni dell’ufficio e del servizio, mai può avere e che darebbe luogo a quella impropriazione tipica del peculato.
L’esempio concreto potrebbe essere quello dell’utilizzo, da parte del funzionario preposto, di fondi pubblici destinati ad una determinata opera per opera diversa: si pensi al caso in cui la deviazione avvenga per scopi e fini del tutto privati (bonifica di un’area pubblica attigua ad altra di proprietà del funzionario) o addirittura illeciti (quale, ad esempio, quello di favorire un’impresa compiacente). In tali casi la distrazione dei relativi fondi, secondo l’orientamento inaugurato dalla sentenza Vattani, resterebbe quindi riconducibile alla fattispecie di peculato.
A ben riflettere, peraltro, in queste ipotesi, la dimensione patrimoniale tipica del peculato è apprezzabile in due direzioni: la direzione pubblica (in ipotesi non accrescitiva), e quella privata (generalmente accrescitiva, sempre estrinsecazione di un potere sulla cosa non compatibile con la sua destinazione), posto che l’impropriazione produce un effetto patrimoniale (o suscettibile di valutazione economica) anche per il soggetto attivo del reato.
Si comprende, poi, correttamente valutando la dimensione patrimoniale del peculato, come sia astrattamente possibile formulare un addebito di responsabilità nei confronti del pubblico ufficiale o dell’esercente un pubblico servizio che, ad esempio, investa in fondi speculativi provviste economiche dell’ente pubblico (posto l’elevato rischio correlato all’alea tipica di tali forme di investimento) anche nel caso in cui questi prevedesse, ad esempio, di riversare eventuali guadagni all’ente medesimo (laddove il potenziale danno patrimoniale è legato al rischio di perdite ingenti), come anche del pubblico ufficiale che dichiari un prezzo di acquisto di un immobile inferiore al reale al solo fine di diminuire il carico delle conseguenti imposte (dichiarazione intrinsecamente contraria ad una norma imperativa che impone di dichiarare l’effettivo costo sostenuto ed espone l’ente alle conseguenti sanzioni).
In altra e più recente pronuncia (Cass., Sez. 6, sentenza n. 43133 del 13/07/2017, Rv. 271379) si afferma testualmente che “…, è vero che è ravvisabile un limite alla configurabilità del delitto di peculato nelle ipotesi di distrazione, con conseguente possibile applicazione della disposizione incriminatrice dell'abuso di ufficio, quando il pubblico agente destini il denaro o la cosa mobile nella sua disponibilità a finalità diverse da quelle istituzionali, ma senza che l'uno o l’altra abbandonino radicalmente il loro rapporto con gli interessi della Pubblica Amministrazione”. Ed allora, dobbiamo concludere che il danno patrimoniale che il peculato intende sanzionare è quello legato alla circostanza che il bene venga radicalmente distolto dalla originaria destinazione al perseguimento della finalità pubblicistica predeterminata o ad essa equivalente, laddove in ipotesi di causa illecita la radicalità sarebbe apprezzabile in re ipsa, posto che il soggetto attivo del delitto (pubblico ufficiale o esercente pubblico servizio), mai potrebbe invocare, per evitare di incorrere in responsabilità penale, un interesse equivalente che avesse un fondamento illecito o comunque antigiuridico.
Viceversa, la scelta di una finalità diversa da quella predeterminata ma pur sempre di interesse pubblico che sia al contempo una scelta disinteressata (rectius non privatistica o comunque conforme o non del tutto eccentrica rispetto all’interesse dell’ente) e non connotata da profili di illiceità o di alea resterebbe o riconducibile all’ipotesi di abuso di ufficio (nei soli casi di “distrazione” a favore della Pubblica Amministrazione commesse dal soggetto attivo qualificato in violazione di norme primarie e nell’esercizio di poteri non discrezionali), oppure, in via di ulteriore approssimazione, a quella di appropriazione indebita e, infine, in altri casi, penalmente irrilevante (residuando solo profili di responsabilità contabile o disciplinare).
Riepilogando i risultati di questa riflessione, si osserva che residuerebbe quindi come ambito estraneo a quello del peculato non l’intera casistica delle ipotesi di peculato per distrazione bensì solo la categoria di appropriazione del bene per “distrazione mera” (una sorta di “sviamento mero”), ipotesi nelle quali la destinazione impressa al bene sia diversa da quella imposta ex ante dall’amministrazione attraverso atti legislativi e/o amministrativi, ma risulti comunque in concreto perseguita una finalità pubblicistica d’interesse (equivalente) per l’ente medesimo (cfr. in questo senso Cass. Sez. 6, 13.04.2023 dep. 9 giugno 2023 n. 25173 Rv. 284790 – 01 così massimata “Non integra il delitto di peculato l'utilizzo di fondi di una società "in house", interamente partecipata da un comune, che provveda al perseguimento di finalità intrinsecamente pubbliche e di competenza dell'ente medesimo, in quanto difetta in tal caso alcuna forma di appropriazione, ovvero di distrazione del denaro pubblico per fini privatistici, ancorché possano ipotizzarsi irregolarità rilevanti sotto il profilo della responsabilità contabile. (Fattispecie in cui la società si faceva carico dell'indennizzo dovuto dal comune per la revoca di una concessione, al fine di recuperare un'area da destinare a riqualificazione urbana).
Ancora più esplicita la motivazione della citata sentenza: “…La tesi non è condivisibile in punto di diritto. Invero, la giurisprudenza più recente ha avuto modo di precisare che il peculato per "distrazione" presuppone in ogni caso che il denaro sia destinato a scopi incompatibili con il perseguimento di finalità di interesse pubblico. Si è affermato, infatti, che solo l'utilizzo per finalità esclusivamente personali ed estranee a quelle istituzionali di denaro pubblico determina la "distrazione" dello stesso, mentre il peculato non è ravvisabile nei casi in cui l'interesse privato dell'agente e quello istituzionale dell'ente siano sincroni e sovrapponibili, non risultando in alcun modo contrastanti (Sez.6, n. 36496 del 30/9/2020, Vasta, Rv. 280295).”.
Conclusivamente, si osserva che il dato giurisprudenziale sopra riportato e l’interpretazione prevalente offrono spunti di certa conferma quanto alla natura plurioffensiva del delitto di peculato: indubbiamente la fattispecie incriminatrice presidia l’interesse al buon andamento ed alla imparzialità della PA, risultando comunque prevalente la dimensione patrimoniale dell’offesa. Proprio con riferimento alle condotte distrattive, si ritiene che solo la distrazione in danno della pubblica amministrazione integri un fatto di peculato, confermando che la lesione del patrimonio (dell’ente pubblico o del privato secondo la attuale previsione testuale) sia in realtà un presupposto indefettibile del rilievo delle condotte di peculato per distrazione non mera e che tale danno sia inevitabile in tutti i casi in cui la causa della distrazione fondi su ragioni illecite.
4. Una declinazione speciale del peculato con riferimento alla figura del notaio: il peculato mediante ritenzione di somme depositate dal privato
La circostanza che, in uno alla riformulazione della fattispecie di peculato come fattispecie configurabile anche nel caso in cui l’oggetto della condotta appropriativa sia di appartenenza di privati, sia stata abrogata la fattispecie di malversazione in danno di privato (art. 315 c.p.), non osta alla configurabilità del peculato per tutti i casi in cui il notaio, prescelto quale depositario fiduciario di somme di proprietà di privati ma vincolate al pagamento di imposte, se ne appropri con ciò distraendole dallo scopo per le quali sono state presso di lui depositate.
Come sopra evidenziato, la nuova formulazione della norma di cui all’art. 314 c.p. compie ampio riferimento all’altruità della cosa, senza specificare se la stessa debba essere pubblica o privata, sicché pacificamente si ritiene che l’attuale formulazione del peculato includa le condotte precedentemente sussumibili nella malversazione a danno di privati[1].
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, risulta configurabile il peculato mediante ritenzione allorché il notaio, delegato dal giudice a curare le operazioni di vendita nell'ambito di procedure di esecuzione immobiliare, non adempia alle prescrizioni di cui all'art. 591 bis, 7° co., c.p.c. e si appropri delle somme corrisposte dagli aggiudicatari delle vendite, versando i relativi importi su conti correnti personali ed investendoli in operazioni speculative di borsa (Cass., Sez. VI, 10.7-30.7.2007, sent. n. 30976, Rv. 237419-01). Parimenti è stato affermato che incorre in responsabilità per violazione dell’art. 314 c.p. il notaio che ometta il versamento di somme, affidategli da clienti, destinate al pagamento dell'imposta di registro in relazione ad atti rogati (Cass. Sez. VI, 11.3-14.5.2015, sent. n. 20132 Rv. 263547; Cass. Sez. V, 16.10-11.12.2009, sent. n. 47178, Rv. 245383).
Così descritto, il peculato per ritenzione costituisce, senza dubbio, una forma di peculato per distrazione non mera secondo l’indirizzo interpretativo sopra richiamato.
A fronte di tale orientamento consolidato in tema di deposito finalizzato al soddisfacimento di pretese erariali (ovvero in tema di deposito disposto dal giudice), ci si interroga se sia lecito imputare di peculato il notaio che si appropri di somme depositate presso di lui ma non destinate al pagamento di tributi o altri crediti dello Stato, piuttosto a lui “affidate” affinché garantisca che non vengano destinati a scopi diversi da quelli concordati tra parti contrattuali, e delle quali invece, contrariamente al dovuto, disponga anche in proprio favore o in favore di terzi, in ipotesi anche per causa illecita. Si pensi al caso del deposito presso il notaio, con le forme contrattuali più opportune, di somme vincolate al compimento di determinati affari, o di complesse transazioni commerciali, seguite poi da atti dispositivi del notaio completamente eccentrici rispetto alla volontà del depositante, ovvero avvenuti in frode al medesimo.
Vero è che ogni fatto di peculato deve comunque trovare fondamento nella rilevanza pubblicistica della destinazione della cosa, anche quando essa non sia pubblica quanto alla spettanza del diritto di proprietà (come ad esempio nel caso del tutore che si appropri di beni dell’amministrato dei quali ha la disponibilità in ragione dell’incarico svolto a tutela dell’interesse pubblico alla corretta gestione del patrimonio di persona incapace o non del tutto capace di determinarsi nella propria sfera privata).
Pertanto, non ogni deposito notarile potrebbe generare responsabilità per peculato del notaio: piuttosto tale più grave reato, procedibile ex officio a differenza della diversa ipotesi di reato comune comunque astrattamente configurabile (ovvero quello della appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 c.p.), potrebbe avere una propria area di applicazione ove il trasferimento della disponibilità della somma in capo al notaio non risulti meramente accidentale, bensì trovi la propria prevalente causa nell’affidamento da parte del privato proprio nella qualifica notarile.
Spunto in tale senso può trarsi dalla giurisprudenza della corte di legittimità in materia di malversazione in danno di privati e, in particolare, dalla sentenza Sez. 6, Sentenza n. 6087 del 06/12/1994 Ud. (dep. 25/05/1994) Rv. 199183 così massimata: “non può essere sufficiente a configurare il reato di malversazione (o di peculato) l'appropriazione di denaro privato detenuto da notaio, per mera occasionalità, ma occorre ricercare un collegamento fra funzione pubblica e possesso del denaro o della cosa, talché possa dirsi non solo che l'esercizio della funzione ha rappresentato la contingenza che favorisce l'insorgere del possesso, ma che il possesso stesso non sarebbe mai stato trasferito al notaio senza il contemporaneo affidamento fiduciario riposto dal privato nella qualifica notarile, cui contestualmente andava ad affidare la cura dei suoi interessi. (La S.C. ha rigettato il ricorso di un notaio, condannato per malversazione per essersi appropriato di parte di somma richiesta per il pagamento di imposte dovute in relazione ad atti di donazione, il quale aveva dedotto che l'appropriazione qualificata del pubblico ufficiale doveva essere punita solo ed esclusivamente negli atti tipici della sua funzione).”
Seguendo il percorso indicato dalla Corte, pare possa quindi ragionevolmente affermarsi che ove il notaio che abbia disponibilità di somme presso di lui depositate dal privato in ragione di un rapporto fiduciario fondato proprio sulla funzione pubblicistica che il medesimo riveste, le distragga dallo scopo impresso dal privato medesimo nell’esercizio della propria libertà negoziale, utilizzandole a fini eventualmente illeciti e di profitto assolutamente personale (movimentazione per favorire illegittimamente una controparte contrattuale, utilizzo della provvista per investimenti azionari o in fondi per ottenere rendimenti) possa incorrere nella sanzione prevista dalla legge penale in tema di peculato per distrazione non mera, applicandosi nel caso di specie tutti i canoni ermeneutici sopra richiamati.
5. Conclusioni
Il delitto di peculato costituisce, oggi, con l’innalzamento dei limiti edittali di pena previsti da quattro anni di reclusione, nel minimo, fino a dieci anni e sei mesi nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., un reato decisamente grave, procedibile ex officio, che ammette il sequestro e la confisca per equivalente e consente, in fase di indagini, l’utilizzo di ogni più ampio strumento di ricerca della prova.
La ratio del particolare disvalore della condotta di peculato risiede nella necessità di tutelare imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione soprattutto nella loro dimensione prettamente patrimoniale: lesive della imparzialità e del buon andamento sono, infatti, tutte quelle condotte che privano la pubblica amministrazione di una risorsa, sia essa di appartenenza pubblica o, se anche privata, comunque gestita da soggetto qualificato per consentire la tutela di interessi pubblicistici (amministrazione di patrimoni per altri). Espungere dall’ambito operativo dell’art. 314 c.p. le condotte di distrazione, attraverso le quali tipicamente la destinazione del bene sia mutata a piacimento dell’agente con danno anche solo potenziale per la Pubblica Amministrazione, significherebbe privare di effettiva tutela penale un ampio numero di comportamenti certamente meritevoli di sanzione in quella sede, anche se realizzati con condotte apparentemente meno plateali rispetto alle condotte appropriative in senso stretto, senz’altro più “subdole”, la cui tutela non può essere rimessa all’applicazione di una fattispecie certamente meno “significativa” quale quella dell’abuso di ufficio.
Confinare, poi, la responsabilità per fatti di distrazione commessi da soggetti preposti, ex lege o sulla base di una relazione negoziale correlata ad un affidamento fiduciario (riconosciuto dai privati in virtù di obblighi imposti a determinati soggetti dalla legge, come nel caso del notaio), all’ambito della residuale fattispecie di appropriazione indebita, creerebbe una disparità di trattamento non ragionevole sia rispetto alla posizione di altri soggetti qualificati (curatore fallimentare, amministratore di sostegno) sia rispetto alle condotte tenute dai notai in ipotesi di trattenimento di somme destinate al pagamento delle imposte e pacificamente ritenute come rilevanti in termini di peculato.
[1] In linea generale, circa l'assorbimento sotto l'art. 314 delle condotte fino al 1990 integranti il delitto punito dall'art. 315 c.p. cfr. C., Sez. VI, 7.3-5.10.2012, n. 39359 Rv. 254337, la cui motivazione espressamente afferma “… con la riforma del 1990, il delitto di malversazione a danno di privati è stato assorbito nel delitto di peculato. Secondo il nuovo testo di quest'ultima fattispecie, infatti, il requisito dell'altruità del denaro o della cosa mobile, oggetto di appropriazione, rende irrilevante la distinzione dell'appartenenza pubblica o privata del bene.”