Detenzione domiciliare al detenuto condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso: possibili aperture della Corte di cassazione (nota a Cass. Pen., Sez. I, 8 gennaio 2024, n. 510)
di Francesco Martin
Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla detenzione domiciliare: brevi cenni - 2.1. La detenzione domiciliare speciale - 3. La detenzione domiciliare al condannato per reati di mafia - 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Il tema inerente alla situazione carceraria italiana, intesa non solo come sovraffollamento, ma più in generale come qualità della vita dei detenuti, è ritornato all’attenzione del mondo politico e sociale complici, purtroppo, i gravi fatti inerenti all’elevato numero di suicidi avvenuti all’interno degli istituti penitenziari[1].
Ad una situazione già complessa, negli ultimi anni si è aggiunto il difficile rapporto tra tutela della collettività e assistenza e cura ai soggetti detenuti, affetti da malattie psichiche, che ha interessato tanto il legislatore quanto la giurisprudenza.
Difatti, a seguito della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari si era posto il problema di dove curare i soggetti socialmente pericolosi affetti da disturbo psichico; questione che non è stata ancora risolta definitivamente in quanto le attuali strutture non riescono a far fronte al numero di soggetti che ne abbisognano[2].
Per questo motivo, nel diritto vivente si è progressivamente affacciata la valorizzazione dell’istituto del differimentodella pena, quale ulteriore valvola di sfogo.
Prima di procedere oltre, quindi, è opportuno prendere le mosse dall’attuale stato dell’arte della giurisprudenza in materia di differimento della pena, avente perlopiù a riguardo infermità di natura fisica.
Più in particolare, di recente, la Suprema Corte[3] è tornata sul differimento dell’esecuzione della pena, nella forma della detenzione domiciliare, per motivi di salute con argomentazioni di particolare interesse.
A seguito del rigetto da parte del Tribunale di sorveglianza, la Corte rilevava che, in caso di una richiesta di differimento dell'esecuzione della pena – o di sua esecuzione nelle forme della detenzione domiciliare – per grave infermità fisica, il Tribunale è tenuto a valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell'istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad un’analisi comparativa con la pericolosità sociale del condannato.
Proprio su questo punto, peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha più volte stabilito che: «In tema di differimento facoltativo della pena detentiva, ai sensi dell’art. 147 cod. pen., comma primo, n. 2), è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando unbilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza dellacollettività»[4].
Tale decisione deve quindi fondarsi sull’equilibrato contemperamento di interessi tra le esigenze di certezza ed indefettibilità della pena e la salvaguardia del diritto alla salute e ad un’esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, che non consente il mantenimento della restrizione carceraria che finisca con il rappresentare una sofferenza aggiuntiva intollerabile da vivere in condizioni umane degradanti, dovendosi tenere conto tanto dell’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili quanto della concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nellasituazione.
Ancora, la Corte di cassazione ha stabilito che: «(...) in tema di differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai fini della valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato,ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione costituisca trattamento inumano o degradante, il giudice deve verificare, non soltanto se le con- dizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di untrattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell’età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale»[5].
Si deve, in definitiva, effettuare un bilanciamento ed una valutazione che tenga conto delle esigenze di tutela della collettività e della possibilità per il detenuto di accedere a delle strutture sanitarie ove poter ricevere le migliori cure.
2. Sulla detenzione domiciliare: brevi cenni
Pare opportuno, al fine di inquadrare meglio la questione affrontata dalla sentenza in commento, evidenziare le principali caratteristiche di tale misura.
La detenzione domiciliare ordinaria è disciplinata dall’art. 47-ter O.P., introdotto con la L. 10 ottobre 1986, n. 663, e permette al condannato di espiare la pena detentiva, o residuo della stessa, non più nell’istituto penitenziario, bensì presso la propria abitazione, in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
L’art. 47-ter O.P. individua tassativamente i soggetti a che possono richiedere, al Tribunale di sorveglianza competente per territorio, l’accesso a tale beneficio, cioè coloro che abbiano compiuto i 70 anni di età, purché non siano stati condannati per reati previsti dagli artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p., i delinquenti abituali, professionali o recidivi ai sensi dell’art. 99 c.p.-
Su quest’ultimo punto è opportuno evidenziare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 56 del 9 marzo 2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, O.P., limitatamente alle parole «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale».
La Consulta, rimuovendo la preclusione assoluta alla concessione della misura domiciliare in favore dei condannati recidivi ultrasettantenni, ha in tal modo sottoposto alla valutazione del giudice di sorveglianza la possibilità di applicare in beneficio domiciliare nei confronti di quei soggetti di età avanzata, nei cui confronti ragioni umanitarie fanno ritenere sussistente una presunzione di incompatibilità con la restrizione carceraria[6].
Inoltre la detenzione domiciliare può essere concessa ai condannati alla pena della reclusione non superiore a quattro anni qualora si tratti di donne incinta o madri di prole di età non superiore a 10 anni con esse conviventi, persone che versano in uno stato di salute particolarmente grave da necessitare di costanti contatti con i presidi sanitari del territorio, soggetti che abbiano compiuto i 60 anni di età e affetti da patologie gravi o parzialmente invalidanti, ovvero che non abbiano compiuto i ventun anni di età, per motivi di lavoro, famiglia, salute e studio.
Il comma 1-bis, dell’art. 47-ter O.P., prevede l’applicazione della misura alternativa anche nei confronti dei condannati alla pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.
Il successivo comma 1-ter, che qui riveste particolare interesse, prevede che in caso di rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 c.p., il Tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare.
Tale misura, infine, non si applica per i soggetti condannati per uno dei reati di cui all’art. 4-bis O.P.-
La natura giuridica della detenzione domiciliare ha suscitato notevole dibattito, soprattutto in dottrina.
Ad attenta analisi, infatti, si evince che il legislatore ha introdotto la misura in esame con finalità umanitarie e assistenziali e ne ha in seguito ampliato l’ambito di operatività per perseguire esigenze di politica deflattiva, senza però mai preoccuparsi di prevedere prescrizioni a contenuto rieducativo o risocializzante[7].
La dottrina maggioritaria[8] ha per lungo tempo classificato solo l’affidamento in prova al servizio sociale e la liberazione condizionale come misure alternative in senso proprio, mentre ha ritenuto la detenzione domiciliare ed il regime di semilibertà strumenti di diversificazione alternativa all’esecuzione delle sanzioni penali.
Tuttavia, nell’applicazione pratica, la detenzione domiciliare ha sempre più di contenuti di natura risocializzante mediante l’imposizione di prescrizioni, non solo a carattere negativo, ma anche positivo, finalizzate alla rieducazione del condannato.
Il Tribunale di sorveglianza, infatti, può stabilire anche disposizioni di natura risocializzante, non limitandosi ad una regolamentazione in negativo, elencando solamente i divieti; costituisce inoltre una misura intermedia, applicata in ragione dei progressi conseguiti nel corso del trattamento, prima dell’applicazione della misura più ampia dell’affidamento in prova.
La concedibilità della liberazione anticipata anche al detenuto domiciliare, inoltre, conferma ulteriormente la natura di misura alternativa, in quanto beneficio che ha come presupposto proprio la partecipazione all’opera di rieducazione.
L’indirizzo interpretativo seguito infatti dalla giurisprudenza, sia della Corte costituzionale[9] sia della Corte di cassazione[10], è costante nel riconoscere alla detenzione domiciliare una componente rieducativa, proprio in virtù del carattere impresso alla pena dall’art. 27 Cost.-
Orbene è allora possibile affermare che la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter O.P. si ponga come strumento volto a garantire, anche a quei soggetti a cui non potrebbe essere concessa la più ampia misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali, la possibilità di reinserirsi all’interno del tessuto sociale, effettuando altresì un percorso volto a comprendere il disvalore delle condotte poste in essere per le quali hanno riportato la condanna.
2.1. La detenzione domiciliare speciale
L’ordinamento penitenziario disciplina anche una particolare ipotesi de detenzione domiciliare, prevista dall’art. 47-quinquies O.P.-
L’art. 3, comma 1, L. 8 marzo 2001, n. 40 ha introdotto, tra le altre disposizioni, l’art. 47-quinquies che è stato poi successivamente innovato dalla L. 21 aprile 2011, n. 62.
La detenzione domiciliare speciale si applica nell’ipotesi in cui non ricorrono le condizioni di cui all’art. 47-terO.P., cioè quando non sia possibile disporre la detenzione domiciliare ordinaria, prevista per le madri di prole di età inferiore ai dieci anni, purché la pena detentiva da eseguire non superi la durata di quattro anni.
La norma in esame prevede dunque un’ipotesi di detenzione domiciliare speciale ed in particolare che, qualora la condannata sia una madre di prole non superiore ad anni dieci – in assenza di pericolo di commissione di ulteriori reati e dopo aver espiato un terzo della pena, ovvero almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo – la pena possa essere espiata attraverso tale misura alternativa alla detenzione[11].
La ratio della norma è quella di consentire alle madri la cura e l’assistenza ai figli, evitando che l’esecuzione della pena possa influire in maniera nocumentale e negativa sul rapporto madre-figlio, ovvero condizionare lo sviluppo psicologico e sociale del minore.
La misura è dunque finalizzata, in presenza di determinati presupposti e circostanze, sia al reinserimento sociale del condannato (finalità propria di tutte le misure alternative alla detenzione) sia a garantire ai figli l’assistenza necessaria.
Come noto sul punto è intervenuta la Corte costituzionale[12] che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1, O.P., limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis»[13].
Con una successiva pronuncia, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 47-quinquies, comma 1,O.P., nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri difigli affetti da handicap grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, L. 104/1992[14].
3. La detenzione domiciliare al condannato per reati di mafia
Come evidenziato sub.1, la Corte di cassazione si è recentemente pronunciata circa la concessione della detenzione domiciliare, nelle forme previste dall’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P., al detenuto condannato per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e affetto da diverse patologie fisiche.
Il Tribunale di sorveglianza aveva respinto l’istanza sulla base dell'alto indice di pericolosità sociale, attuale anche alla luce dell'evasione commessa nel 2018, nonché delle informazioni provenienti dai competenti organi dello Stato.
Tuttavia, l’ordinanza, secondo la tesi difensiva, si sarebbe soffermata sul profilo personologico e sui titoli di reato in espiazione, mentre non avrebbe reso alcuna valutazione sui presupposti giuridici dell'invocato differimento dell'esecuzione della pena, con motivazione apparente e con argomentazioni extra petitum, che non si ricollegano alle condizioni di salute del detenuto.
Costituisce ormai principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui il giudice chiamato a decidere sul differimento dell'esecuzione della pena o, in subordine, sull'applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute, deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest'ultimo con riguardo sia all'astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza del livello di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto, valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico.
Ai fini del differimento facoltativo dell'esecuzione della pena per infermità fisica, il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'art. 11 O.P.-
La valutazione della gravità dell'infermità si deve dunque riferire al combinato disposto dei referenti di rango costituzionale ai quali la norma si richiama, cioè l'esigenza di certezza dell'esecuzione della pena e l'eguaglianza di fronte alla legge (art. 3 Cost.), il divieto di trattamenti disumani (art. 27 Cost.), il principio di legalità della pena (art. 25 Cost.) e il diritto alla salute (art. 32 Cost.), in ordine ai quali si impone un'opera di bilanciamento affidata al giudice.
Tuttavia non ogni patologia, fisica o psichica, rileva ai fini della valutazione.
Deve infatti intendersi solo una grave infermità fisica tale da comportare un'intollerabile sofferenza aggiuntiva nello stato di detenzione.
Ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p. non è necessaria un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario.
L'infermità fisica non deve menomare in maniera anche rilevante la salute del soggetto e sia suscettibile di generico miglioramento mediante il ritorno alla libertà, ma è necessario invece che sia di tale gravità da far apparire l'espiazione della pena detentiva in contrasto con il senso di umanità cui si ispira la norma costituzionale, anche in considerazione dell'art. 3 Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che afferma che la protrazione dello stato detentivo deve evitare di costituire un fattore di probabile aggravamento delle patologie in atto, con valutazione da operarsi in concreto.
Nella motivazione del potere di rinvio di esecuzione della pena, il giudice di merito deve dare ragione delle sue scelte, bilanciando il principio costituzionale di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.) con quelli della tutela della salute (art. 32 Cost.) e del senso di umanità (art. 27 Cost.) che deve caratterizzare l'esecuzione della pena, per modo che in sede di legittimità se ne possa valutare la correttezza e la completezza.
In tale valutazione, è necessario verificare non soltanto se le condizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all'interno dell'istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell'età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale.
In conclusione, la Corte ha ritenuto che l'ordinanza impugnata dovesse essere annullata onde effettuare i necessari approfondimenti sulle condizioni di salute del condannato, eventualmente attraverso l'espletamento di una perizia, affinché il Tribunale di sorveglianza competente possa effettuare le conseguenti rivalutazioni in tema di bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti.
4. Considerazioni conclusive
Come evidenziato la porta applicativa della detenzione domiciliare si presta ad ampie e variegate ipotesi.
Se da un lato infatti tale istituto può trovare applicazione anche nei confronti dei detenuti affetti da patologia psichica, dall’altro consente a colui che è affetto da una grave ed invalidante patologia fisica di poter scontare la pena fuori dall’istituto penitenziario.
Nel caso di specie poi è di particolare interesse la questione circa i titoli di reato oggetto di espiazione che concernono alcuni reati di cui all’art. 4-bis O.P.
A ben vedere non si tratta della prima decisione in tal senso in quando, già nel 2020, il Magistrato di Sorveglianza, pronunciandosi circa l’istanza avanzata da un soggetto ristretto in regime di cui all’art. 41-bis O.P., tenuto conto del quadro clinico descritto dai sanitari, con particolare riferimento alle patologie di natura oncologica e cardiaca ed in considerazione dell’età avanzata del soggetto, aveva riscontrato la sussistenza dei presupposti per il rinvio facoltativo della esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147, co. 1, n. 2 c.p.-
Tale scelta era stata presa anche in considerazione anche dell’emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio – indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere – che esponeva a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani affetti da serie patologie pregresse.
Tuttavia, tenuto conto della gravità dei reati commessi e della caratura criminale del condannato, il Giudice aveva disposto che il suddetto rinvio avvenisse nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. al fine di salvaguardare, nel contempo, le esigenze di cura del soggetto e le esigenze di tutela della collettività[15].
La potestà punitiva dello Stato, che l'esecuzione della pena attua con la costrizione del condannato, incontra infatti un limite costituito dalla tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo (art. 32 Cost.), che neppure la generale inderogabilità dell'esecuzione della condanna può sopravanzare allorquando la pena, per le condizioni di grave infermità fisica del soggetto (art. 147, comma primo n. 2, c.p.), finisca col costituire un trattamento contrario al senso di umanità, così perdendo la tendenza e la finalità rieducativa.
La Corte, con la sentenza in commento, ha inteso rimarcare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p., non è necessaria un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario.
[1] Si veda il report inerente ai suicidi in carcere disponibile all’indirizzo http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/.
[2] B. SECCHI, La Corte EDU e le due misure emesse per sollecitare la cura. Servono davvero nuove Rems, in Sist. pen., 14.11.2022.
[3] Cass. Pen., Sez. I, 8 gennaio 2024, n. 510, in Dejure.
[4] Ex multis Cass. Pen., Sez. I, 13 novembre 2020, n. 2337, in Dejure.
[5] Cass. Pen., Sez. I, 20 ottobre 2022, n. 38917, in Dejure.
[6] F. FIORENTIN, Illegittima la preclusione in tema di detenzione domiciliare per condannati recidivi ultrasettantenni, in Il Penalista, 06.04.2021
[7] M. GASPARI, M. LEONARDI, La detenzione domiciliare, Torino, 2017
[8] M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2010; C. FIORIO, F. FIORENTIN, Manuale dell’ordinamento penitenziario, Piacenza, 2023.
[9] Cort. cost., 31 marzo 2021, n. 56.
[10] Cass. Pen., Sez. I, 4 marzo 2021, n. 24099, in Dejure.
[11] M.G. PAVARIN, Le ipotesi di detenzione domiciliare, in F. FIORENTIN (a cura di), Misure alternative alla detenzione, Torino, 2012.
[12] Cort. cost., 12 aprile 2017, n. 76.
[13] Secondo la Consulta nella disposizione in esame il legislatore ha escluso in assoluto dall’accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con il minore in tenera età le madri accomunate dall’aver subito una condanna per taluno dei delitti indicati in una disposizione (l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975) che contiene, oltretutto, un elenco di reati complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità (sentenza n. 32 del 2016). Ne deriva quindi che vengono del tutto pretermessi l’interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata, non estranea, come si è già detto, alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione. Questa sorta di esemplarità della sanzione – la madre deve inevitabilmente espiare in carcere la prima frazione di pena – non può essere giustificata da finalità di prevenzione generale o di difesa sociale (sentenza n. 313 del 1990). Infatti, le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l’assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole.
[14] Cort. cost., 18 febbraio 2020, n. 18.
[15] S. RAFFAELE, Dal 41-bis ai domiciliari: l’ordinanza “Bonura”, in DPU, 29.04.2020.
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