Sommario: 1. Premessa. - 2. «La distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi non ha più cittadinanza»: è davvero così? – 3. Lo svuotamento della nozione di univocità. – 3.1. Le teorie sull’inizio di esecuzione. – 3.2. Le soluzioni giurisprudenziali. – 3.3. L’interpretazione minoritaria. – 4. Lo svuotamento della nozione di idoneità. – 5. Spunti conclusivi.
1. Premessa.
C’è ancora spazio per un dialogo tra dottrina e giurisprudenza? È ancora proponibile un confronto fra la teoria e il c.d. diritto vivente? Ha senso proporre una nuova rimeditazione su temi che, dopo avere a lungo inquietato le coscienze dei giuristi, oggi sembrano pervenuti a soluzioni appaganti, comunque uscite dal dibattito pubblico?
Mi pongo questi interrogativi all’esito di un’analisi, svolta in preparazione di un commentario, dell’elaborazione del delitto tentato da parte della Suprema corte. In conseguenza di questo studio avverto la necessità di levare umilmente la voce per chiedere ai giudici di legittimità un deciso mutamento di rotta, sia nel metodo argomentativo che nei contenuti delle loro pronunce in tema di tentativo.
La lettura delle sentenze – questa è stata la mia netta sensazione – rivela infatti la stanca ripetizione di formule che si sono andate sovrapponendo nel tempo, nonostante la loro contraddittorietà, con un’inutile prolissità espositiva. Sul piano dei contenuti, inoltre, le consolidate definizioni dei criteri dell’univocità e dell’idoneità hanno perduto di significato, sì che la loro enunciazione obbedisce più a un rito che all’esigenza di una reale motivazione.
Con sincera umiltà provo ora a dimostrare quanto appena anticipato, nella speranza che il mio scritto possa stimolare una riflessione e avviare un costruttivo e pacato confronto. In particolare, è mia intenzione soffermarmi su tre punti nodali della disciplina del tentativo: il primo riguarda la ricorrente affermazione del superamento della distinzione tra atti preparatori ed esecutivi con la conseguente attuale punibilità anche degli atti preparatori; il secondo e il terzo riguardano l’univocità e l’idoneità degli atti.
2. «La distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi non ha più cittadinanza»: è davvero così?
«La distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi non ha più cittadinanza nell’attuale previsione codicistica»: così si legge in una recentissima sentenza[1], che a sua volta riprende tale principio da centinaia di precedenti pronunce. Si tratta però di un assunto che, sebbene mutuato dalle dichiarazioni del legislatore storico[2], risulta privo di ogni fondamento logico e giuridico.
L’idea di sopprimere la contrapposizione fra atti preparatori ed esecutivi vale quanto quella di abolire mediante legge ogni categoria logica: se gli atti esecutivi sono quelli che fondano il tentativo e si caratterizzano dunque in base alla loro punibilità, è evidente che prima di essi si porranno sempre altri atti che, in quanto non punibili, possono essere designati come preparatori.
Senza andare lontano, l’art. 115 c.p. esclude dalla sfera del tentativo punibile l’istigazione, anche se accolta, e l’accordo, per entrambi rendendo applicabile una misura di sicurezza. Può negarsi che istigazione e accordo costituiscano atti preparatori? Non solo. Come più volte affermato in dottrina, istigazione e accordo comprendono al proprio interno altri atti che possono precederli o possono immediatamente seguirli e nondimeno restare nell’ambito della non punibilità: si pensi alla raccolta di informazioni e al procacciamento di armi o strumenti necessari per la realizzazione del reato, la cui non punibilità appare “garantita” proprio dall’art. 115 c.p.
Occorre allora riconoscere che l’affermazione del ministro Guardasigilli Rocco di avere soppresso la distinzione tra atti preparatori ed esecutivi costituiva nulla più che uno slogan[3], con il quale voleva annunciarsi che il principio di esecuzione, accolto dal codice del 1889, era sostituito dai criteri dell’univocità e dell’idoneità, il cui scopo ultimo consisteva in un avanzamento della soglia di punibilità. Sul piano logico e concettuale, comunque, era chiaro che la categoria degli atti preparatori non poteva essere eliminata e appare sorprendente che, a distanza di quasi un secolo, la giurisprudenza dimostri ancora questa fideistica adesione alle dichiarazioni del legislatore.
A dimostrare definitivamente che l’assunto criticato potrebbe senza rimpianti essere abbandonato sta, sul piano argomentativo, la sua assoluta inutilità: in qualsiasi sentenza che lo riporta, la sua eliminazione in nulla altererebbe il senso del ragionamento e il risultato finale.
3. Lo svuotamento della nozione di univocità.
Trattando dell’univocità, entriamo nella sostanza del tentativo punibile e si impone una particolare cautela, perché la forma espressiva dà sostanza ai pensieri e davvero le parole diventano pietre.
Partiamo dall’ovvia considerazione che il requisito dell’univocità individua la soglia del tentativo punibile, mentre il requisito dell’idoneità adempie alla funzione di selezionare, tra gli atti univoci, quelli capaci di realizzare il fine perseguito dall’agente. Univocità e idoneità operano dunque su piani differenziati e, potrebbe aggiungersi, cronologicamente successivi: prima viene l’accertamento dell’univocità e poi quello dell’idoneità dell’atto.
Tuttavia, numerose pronunce affermano che anche gli atti preparatori sono punibili se l’azione «abbia la rilevante probabilità di conseguire l’obiettivo programmato»[4]. L’assunto appare due volte errato: una volta perché converte l’univocità in idoneità, così cancellando uno dei due requisiti caratterizzanti l’istituto, un’altra volta per la valenza ossimorica del concetto di atti preparatori univoci, laddove al contrario proprio l’univocità vale ad attribuire natura esecutiva all’atto, negando che esso possa essere qualificato come preparatorio.
Andiamo avanti. Un orientamento assolutamente dominante accoglie una nozione di univocità legata alla presenza di elementi fattuali – di luogo, di tempo, di mezzi –, in base ai quali possa affermarsi che la condotta era diretta alla commissione del reato[5]. Altre volte, ma si tratta di una riproposizione del medesimo assunto, l’univocità viene riferita alle caratteristiche della condotta, al fine di individuare le sue finalità attraverso l’apprezzamento, secondo le regole di comune esperienza, della natura e dell’essenza degli atti compiuti e del contesto in cui si inseriscono: «è necessario che gli atti, in sé stessi, per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura ed essenza, rivelino, secondo le norme di esperienza e l’id quod plerumque accidit, il fine perseguito dall’agente»[6].
Questa, ovviamente, non è la tesi sostenuta dalla dottrina che intende l’univocità come ratio essendi del tentativo: per i giudici di legittimità, infatti, la direzione univoca degli atti è desumibile da qualsiasi elemento di prova, che renda manifesta «la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira»[7].
La definizione del criterio in esame come ratio cognoscendi del tentativo è assai pericolosa, perché vale a privare l’istituto di qualsiasi contenuto intrinseco, legandone la sussistenza a fattori esterni. Addirittura, una siffatta concezione va oltre le indicazioni del legislatore storico, che nella Relazione a S.M. il Re del Ministro Guardasigilli, n. 39, osservava che l’atto «deve rivelare per sé l’intenzione dell’agente: tale intenzione non può essere desunta esclusivamente aliunde (ad esempio, dalla confessione), ma nulla vieta che sia desunta, insieme, dall’atto e da altri elementi. Fra i sintomi rivelatori ci dev’essere anche l’atto»[8].
Fin qui, dunque, emerge un palese disaccordo fra il diritto vivente e il diritto dei libri, che dimostra come la giurisprudenza sia ancora impregnata dello spirito repressivo del 1930, aderendo alla concezione più esasperatamente soggettiva del tentativo.
Sulla teoria soggettiva del tentativo si dirà qualcosa più avanti. Al momento conviene invece insistere sull’avvenuto svuotamento del concetto di univocità, attestato dal frequente rilievo che «l’unico criterio di ordine generale, che può essere di valido ausilio nel riconoscimento dell’univocità, è costituito dall’imprevedibilità della non consumazione, ovvero da quella complessiva situazione di fatto in cui tutto fa supporre che il reato sarà commesso»[9]. Come si vede, ci troviamo dinanzi a una confusa sovrapposizione di piani, in cui la direzione degli atti si converte in direzione della volontà e questa si risolve nel dolo, che a sua volta può essere dimostrato attraverso gli atti o con altro qualsiasi mezzo. In sostanza, l’essenza del delitto tentato si fonda semplicemente sulla manifestazione esterna della volontà criminosa.
Un ulteriore e connesso profilo qualificante l’esperienza giurisprudenziale va rinvenuto nell’assunto in base al quale l’univocità degli atti dimostra che «l’agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall’imminente, progettato, delitto»[10]. Invero, qui sembra annidarsi un significativo errore concettuale, che conviene dipanare subito.
3.1. Le teorie sull’inizio di esecuzione.
Quando si afferma che la figura del tentativo costituisce il banco di prova dell’alternativa tra oggettivismo e soggettivismo nel diritto penale, si dice una cosa fin troppo ovvia: in un istituto che si caratterizza alla luce di una tensione volitiva non sfociata nella produzione del risultato voluto, è troppo facile assecondare una costruzione soggettiva, appunto incentrata sulla volontà mentre, al contrario, non è agevole procedere a una costruzione in senso oggettivo, che affermi cioè il primato del fatto e della sua offensività.
A guardare l’evoluzione storica degli ultimi due secoli, per un lungo periodo ha regnato un contrasto fra le teorie oggettive e quelle soggettive: le prime vincolavano l’inizio dell’esecuzione punibile ad atti tipici della fattispecie, le seconde si limitavano a richiedere una volontà colpevole. Nell’esperienza vissuta da entrambe le concezioni, emerse presto che le teorie oggettive spingevano troppo indietro la soglia della punibilità e, al fine di evitare tale risultato, vi fu chi auspicò (verosimilmente fondandosi sulla fitta trama di aggravanti previste per il furto e la rapina) che il requisito della tipicità potesse essere riferito anche all’integrazione di elementi circostanziali; è evidente però che tale dilatazione attenuava il fondamento della stessa teoria e, comunque, nessuna convincente soluzione poteva essere rinvenuta per i delitti causali a forma libera. Sul fronte opposto, i fautori delle teorie soggettive si trovarono presto costretti a riconoscere che oggetto della sanzione penale, quantomeno per ragioni probatorie, non è la volontà criminosa ma la sua manifestazione esterna, sicché il delitto tentato va comunque legato ad atti esecutivi dell’intento criminoso; tale ammissione ebbe l’effetto di proiettare l’esecuzione non sulla fattispecie astratta ma sul piano concretamente predisposto dall’agente[11].
Nell’interpretazione oggi più accreditata a livello internazionale, il dissidio si è ricomposto attraverso la teoria materiale-oggettiva, in base alla quale il delitto tentato ha inizio con atti tipici o che questi immediatamente precedono su un piano logico e cronologico (c.d. pre-tipici), tali cioè che il loro compimento, senza soluzione di continuità, conduce all’esecuzione del fatto sulla base del concreto programma di azione.
Come si vede, si tratta di una soluzione mista, che dalla teoria formale riprende il vincolo della fattispecie sebbene ampliandolo agli atti pre-tipici e dalla teoria soggettiva desume la centralità dell’attuazione della volontà criminosa sulla base della concreta rappresentazione del soggetto agente.
3.2. Le soluzioni giurisprudenziali.
Può ritenersi che la giurisprudenza accolga la teoria materiale-oggettiva? Invero, talvolta essa è richiamata insieme ad altre che la contraddicono[12], ma la soluzione dominante è quella che ravvisa il tentativo punibile già nella fase antecedente al “via” dell’intrapresa criminosa, così privilegiando un’impostazione decisamente soggettiva.
Qui non è questione di parole, ma di scelte precise che trovano espressione nel ricorrente assunto che, come l’idoneità, anche l’univocità è «da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta», giacché «la non imminenza del colpo non costituisce l’unico parametro di riferimento, a fronte di indici univoci di un’azione diretta alla consumazione del delitto»[13]. Nella stessa direzione, d’altra parte, si muove la frequente affermazione che «la prova del requisito dell’univocità dell’atto (da considerare quale parametro probatorio) può essere raggiunta non solo sulla base dell’atto in sé considerato, ma anche aliunde, quindi anche sulla base di semplici atti preparatori, che rivelino la finalità dell’agente e addirittura l’imminente passaggio alla fase esecutiva del delitto, ma non me postulino necessariamente l’avvio»[14].
In sostanza, la giurisprudenza lega il tentativo a una possibilità di esecuzione, non certo a un’esecuzione già iniziata sulla base del piano predisposto dall’agente attraverso atti tipici o pre-tipici.
Come si giustifica allora il frequentissimo passo in base al quale «il tentativo è punibile (...) anche quando l’agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto; ovvero, in tutti quei casi in cui l’agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo, pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria»[15] ?
È come se i giudici dicessero che, ai fini della punibilità del tentativo, trovano riconoscimento tutte le teorie finora formulate. Considerando però che tali teorie, costruite in chiave di reciproca incompatibilità, tracciano differenti spazi per la configurabilità del delitto tentato, l’espresso accoglimento della concezione soggettiva esclude ogni altra soluzione. L’unica conclusione consentita è che la dominante giurisprudenza accoglie – unica in Europa – la teoria soggettiva del tentativo.
3.3. L’interpretazione minoritaria.
Talvolta, come un fiume carsico, emerge alla superficie un orientamento contrario a quello esposto, ove il concetto di atti univoci viene fatto coincidere con la loro tipicità. «Poiché – questa è la premessa del ragionamento – la prova del fine criminoso è necessaria a prescindere dal requisito dell’univocità degli atti, la concezione soggettiva, incentrata sulla ricostruzione probatoria del presunto dolo (...), con parallela svalutazione del dato obiettivo (...), finisce per legittimare una non consentita interpretatio abrogans dell’art. 56 c.p. e per sanzionare penalmente intenzioni criminose non ancora estrinsecatesi in un’iniziale, effettiva aggressione di un bene giuridico»[16].
Della correttezza di tale assunto non può dubitarsi; il suo approdo è però quanto di più estremo possa immaginarsi, ritenendosi che «la necessaria valorizzazione del principio di legalità nel delitto tentato esige che la rilevanza penale della condotta venga riconosciuta quando gli atti posti in essere rivelino oggettivamente l’intenzione dell’agente di commettere il delitto, integrando, sia pur in minima parte, il fatto tipico descritto dalla singola fattispecie incriminatrice tentata»[17]. In altri termini, «gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono (...) essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte – come inizio di esecuzione – alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o a forma vincolata. (...) La “direzione non equivoca” indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sé rivelare l’intenzione dell’agente. L’univocità, intesa come criterio di essenza, non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e per la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, l’intenzione, il fine perseguito dall’agente»[18].
L’orientamento ora esposto non convince. La decisa inversione di rotta rispetto al processo di svuotamento dell’art. 56 c.p. risolve infatti il requisito dell’univocità in quello della tipicità, trascurando per un verso che anche un atto tipico può manifestare la sua pluridirezionalità, per altro verso che la nozione di tipicità nulla dice in ordine alla prossimità spaziale e temporale dell’atto alla consumazione del reato. In tal modo, alla teoria puramente soggettiva dell’orientamento maggioritario fa riscontro una teoria esclusivamente oggettiva del tentativo, già bocciata dall’evoluzione storica del diritto penale[19].
In conformità a quanto prima osservato, la soluzione oggi più diffusa a livello internazionale consiste in una combinazione dei due profili appena evidenziati, che per il tentativo punibile richiede atti tipici o pre-tipici tali da esprimere, nella rappresentazione del reo e in conformità al suo piano criminoso, l’avvenuto inizio dell’esecuzione del reato.
4. La nozione di idoneità.
L’approssimazione concettuale, che ha reso assai fluido il requisito dell’univocità, caratterizza anche l’elaborazione del requisito dell’idoneità.
In particolare, come a proposito dell’univocità è stata prima rilevata una tendenza interpretativa che vi comprende il criterio dell’idoneità, ora può constatarsi il risultato inverso, in conseguenza dell’assunto che il requisito dell’idoneità «deve essere valutato in termini oggettivi, nel senso che gli atti considerati, esaminati nella loro oggettività e nel contesto in cui si inseriscono, devono possedere l’intrinseca attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito, rivelando la sua attuazione»[20]; ovvero, come affermano altre pronunce, i criteri dell’idoneità e dell’univocità esprimono l’esigenza «che il fatto commesso abbia raggiunto la soglia del pericolo attuale e concreto e, dunque, la sua ideazione sia stata seguita da una condotta che risulti dotata di sufficienza causale in rapporto alla lesione del bene protetto»[21].
È vero che tale esito era preconizzabile fin dall’inizio: la teoria della c.d. prognosi postuma, affermatasi fin dagli ultimi decenni dell’800, che lega l’accertamento dell’idoneità non al pericolo reale per il bene, bensì alla situazione che si rappresentava l’agente al momento dell’azione[22], si traduce in un apprezzamento del requisito in esame in negativo, nel senso che esso assume rilievo solo nel caso di assoluta impossibilità di consumazione stabilita ex ante[23]. Da qui muove l’ammissione che il criterio in esame non è «particolarmente selettivo, nella misura in cui esclude i comportamenti innocui, privi di pericolosità, ma non caratterizza i segmenti della condotta nella loro connessione dinamica e funzionale. Il giudizio di idoneità, in concreto ed ex ante, è focalizzato sulla consumazione di uno specifico delitto, qualificato da un determinato evento, sicché l’individuazione degli atti punibili va compiuta grazie al più pregnante criterio dell’univocità»[24].
In altre parole: il requisito dell’idoneità vale a escludere la punibilità del tentativo solo quando si tratti di condotte manifestamente innocue, che solo per stupidità o per crassa ignoranza l’agente ha ritenuto potessero cagionare l’evento. Se inizialmente parlavamo della funzione selettiva, svolta da tale requisito all’interno degli atti considerati univoci, occorre ammettere che si tratta di un ben modesto risultato.
5. Spunti conclusivi.
La conclusione è che la scomposizione della formula dell’art. 56 in atti univoci e idonei ha consegnato al giudice un illimitato arbitrio, poiché il requisito dell’univocità si manifesta irrimediabilmente oscuro e in grado di asservire le interpretazioni più disparate, mentre quello dell’idoneità è in grado di svolgere un ruolo assai limitato. In una siffatta prospettiva, ove pericolosamente vacilla il principio di legalità, sono necessarie regole interpretative nitide e chiaramente percepibili, anche nella loro conformità alle indicazioni offerte dalla Costituzione.
L’auspicio è che i giudici della Corte di Cassazione, abbandonando ogni richiamo alla volontà del legislatore storico, esercitino la loro funzione nomofilattica, restituendo alla disciplina del tentativo una razionalità di argomentazioni e di contenuti. Sarebbe di conforto, nell’attuale momento storico di grande confusione, pensare che giudici, docenti e avvocati possano trovare occasioni per una comune riflessione sui temi della punibilità.
[1] Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938.
[2] È sufficiente citare la Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo di un nuovo codice penale, n. 70, ove la trattazione del tentativo così esordisce: «Innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi».
[3] Slogan peraltro assai confuso: la Relazione a S.M. il Re del Ministro Guardasigilli, n. 39, affermava che «si è voluto bensì abolire la distinzione, spesso inafferrabile in pratica, tra atti preparatori e atti esecutivi (...), ma se viene compiuto uno di quegli atti che, vigente il Codice del 1889, dicevansi preparatori, e se esso non appare idoneo (capace di produrre l’evento delittuoso), ovvero se non risulta diretto in modo non equivoco a commettere un determinato delitto, l’atto medesimo non è punibile come tentativo».
[4] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; conf. Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. V, 30 marzo 2021, n. 12045.
[5] Per tutte Id., sez. V, 30 marzo 2021, n. 12045.
[6] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; Id., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. I, 3 luglio 2019, n. 29101.
[7] Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938.
[8] Ancor più restrittiva suona la definizione contenuta nella menzionata Relazione al Progetto definitivo di un nuovo codice penale, n. 70, ove si afferma che la formula utilizzata «rende chiara la necessità della obbiettiva direzione degli atti all’evento, ossia stabilisce che non sarebbe bastevole a far ricorrere il requisito della univocità la conoscenza aliunde della intenzione dell’agente, ma occorre che gli atti la rivelino per sé, per quello che sono, per il modo come sono compiuti».
[9] Cass., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. II, 17 ottobre 2018, n. 47295; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302.
[10] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888.
[11] Sia consentito, per una volta soltanto, rinviare al mio Il delitto tentato, Milano, 2012, 297 ss.
[12] Ad es. Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938; Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859.
[13] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; conf. Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. I, 3 febbraio 2020, n. 4373; Id., sez. II, 17 ottobre 2018, n. 47295; Id., sez. V, 17 luglio 2018, n. 33100.
[14] Cass., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302; analogamente Id., sez. II, 15 giugno 2010, n. 28213.
[15] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. II, 22 luglio 2021, n. 28567; Id., sez. VI, 10 luglio 2020, n. 20712; Id., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. V, 17 luglio 2018, n. 33100; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302.
[16] Cass., sez. I, 28 ottobre 2008, n. 40058; curiosamente, la medesima critica viene mossa alla teoria ora in esame da Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938.
[17] Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 15656; conf. Id., sez. I, 9 marzo 2010, n. 9411; Id., sez. I, 28 ottobre 2008, n. 40058.
[18] Cass., sez. I, 9 marzo 2010, n. 9411; Id., sez. I, 28 ottobre 2008, n. 40058; conf. Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 15656. Un remoto precedente delle sentenze in esame è in Corte cost., 22 dicembre 1980, n. 177: «“atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto” possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l’idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell’atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall’inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente».
[19] Nel senso che «la tesi da tempo remoto non riscuote più credito, sia per l’obiettiva difficoltà di individuare la condotta tipica nei reati a forma libera, sia perché riecheggia la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, che la disciplina codicistica si è proposta espressamente di superare», Cass., sez. II, 12 maggio 2010, n. 17988.
[20] Cass., sez. V, 28 ottobre 2022, n. 40888; Id., sez. II, 12 luglio 2022, n. 26859; Id., sez. II, 17 ottobre 2018, n. 47295.
[21] Cass., sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 47854.
[22] Cass., sez. V, 14 settembre 2022, n. 33938; Id., sez. V, 30 marzo 2021, n. 12045; Id., sez. I, 17 aprile 2020, n. 12407; Id., sez. I, 3 febbraio 2020, n. 4373; Id., sez. V, 19 aprile 2019, n. 17363.
[23] Per tutte Cass., sez. V, 19 aprile 2019, n. 17363; Id., sez. II, 16 maggio 2017, n. 24302.
[24] Cass., sez. V, 12 novembre 2009, n. 43255.