Il Tribunale di Milano sulla non punibilità delle condotte elusive
di Giovanni Liberati
1. Con la sentenza n. 11397 del 10 novembre 2021 (divenuta definitiva a seguito della mancata impugnazione da parte del pubblico ministero), il Tribunale di Milano, Seconda Sezione Penale, ha assolto l’imputata dal reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs. 74/2000), ritenendo non corretta la qualificazione giuridica delle condotte contestate, oltre che applicabile la disposizione di cui all’art. 10 bis della legge n. 212 del 27 luglio 2000 (Statuto dei diritti del contribuente).
La pronuncia è l’occasione per una breve riflessione sulla punibilità delle condotte elusive o abusive.
2. Alla imputata era stato contestato il reato di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000 in quanto, quale firmataria delle Dichiarazioni dei Redditi (Modello Unico P.F.) per gli anni di imposta 2012, 2013, 2014 e 2015, al fine di evadere l’IRPEF, cedendo in via esclusiva alla società di capitali interamente partecipata dal padre dell’imputata e dalla imputata medesima i diritti economici di utilizzazione della propria immagine (negozio che sarebbe stato privo delle effettive ragioni economiche rappresentate e in realtà avrebbe avuto come unica finalità la interposizione fittizia della società, costituente centro di costo, nella tassazione dei redditi personali dell’imputata, così da ostacolarne l’accertamento e indurre in errore l’amministrazione finanziaria), aveva indicato nelle relative dichiarazioni fiscali elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.
3. Il Tribunale di Milano ha assolto l’imputata da tale contestazione, con la formula “perché il fatto non sussiste”, a seguito di una ricostruzione della fattispecie sottoposta al suo esame.
Il Tribunale ha evidenziato che la ricostruzione accusatoria si fondava sulla natura ancillare della società riconducibile alla imputata, che sarebbe stata priva di apprezzabile ragione giuridica e avente la sola finalità di consentire un indebito risparmio fiscale all’imputata medesima; e ciò mediante una serie di operazioni aventi quale oggetto l’abbattimento degli introiti, la creazione di un centro di costo, la conseguente applicazione alla base imponibile di una aliquota inferiore rispetto a quella riservata alla persona fisica e il riporto a nuovo degli utili (così da posticipare la tassazione del socio al momento della effettiva corresponsione degli utili medesimi).
A fronte di una simile ricostruzione accusatoria, il Tribunale di Milano ha ritenuto corretto l’intervento – operato ai sensi dell’art. 37, comma 3, d.P.R. 600/1973 – della polizia giudiziaria, che, attribuendo globalmente i ricavi all’imputata (secondo il principio di cassa), ha individuato la maggiore imposta dalla medesima dovuta; al contempo, il Tribunale ha ritenuto non condivisibile l’assunto accusatorio avente a oggetto la natura della interposizione societaria, considerata dall’accusa fittizia e simulata (da cui la ritenuta applicabilità, in sede d’imputazione, della disposizione di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000).
In proposito il Tribunale ha ricordato che l’ipotesi di interposizione fittizia può ritenersi integrata, alla luce della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. II, 10 marzo 2015, n. 4738, nonché Cass. Civ., sez. II, 12 ottobre 2018, n. 25578), solamente in caso di partecipazione all’accordo simulatorio non solo del soggetto interponente e di quello interposto, ma anche di un terzo soggetto contraente, il quale manifesti la volontà di assumere diritti ed obblighi contrattuali direttamente nei confronti dell’interponente.
L’ipotesi di interposizione simulata (nella specie della simulazione relativa), similmente, può ritenersi integrata (Cass. civ., sez. II, 23 marzo 2017, n. 7537) solo nel caso in cui sussista un accordo non solo tra interponente e interposto, ma anche con il terzo, il quale deve consentirvi esprimendo la propria adesione. Elemento necessario, dunque, affinché possano ritenersi integrate le fattispecie della interposizione fittizia e della interposizione simulata, è la sussistenza di una intesa triangolare, la quale è stata ritenuta assente nel caso riguardante la imputata.
Le operazioni poste in essere dalla società riconducibile alla imputata, infatti, sono state ritenute effettive: nel caso in esame si potrebbe, al più, ad avviso del Tribunale, discorrere di interposizione reale.
In base a quanto affermato in sede di legittimità (Cass. civ., sez. V, 28 giugno 2018, n. 17128), la disciplina di cui all’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, antielusiva dell’interposizione, trova applicazione non solo nel caso in cui il contribuente ponga in essere un comportamento fraudolento, che si ponga in aperto contrasto con il dettato normativo, ma anche nel caso di comportamenti che si caratterizzano per un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, non distinguendo la norma neppure tra interposizione fittizia ed interposizione reale (si veda in tal senso Cass. civ., sez. V, 27 aprile 2021, n. 11055,[1]).
Per tale ragione tale disposizione è stata ritenuta applicabile al caso sottoposto all’esame del Tribunale di Milano, che ha ritenuto condivisibile l’intervento sulla imputazione dei ricavi (e correlati costi) operato ai sensi dell’art. 37, comma 3, d.P.R. 600/73.
La condotta posta in essere dall’imputata è stata, però, ritenuta priva dei tratti tipici dell’illecito contestato, e cioè quello di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000, in quanto priva del necessario carattere della falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie mediante mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l’accertamento, in difetto della insidiosa artificiosità richiesta dalla disposizione, in considerazione della accertata realtà nonché della piena evidenza dei rapporti commerciali intrattenuti dalla imputata con la società alla stessa riconducibile.
La condotta è stata quindi riqualificata ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 (dichiarazione infedele), del quale tuttavia non risultava superata la soglia di punibilità.
Pertanto, il Tribunale di Milano ha qualificato l’addebito attribuito all’imputata quale “atipico”, e tale circostanza ha condotto all’adozione della formula assolutoria “il fatto non sussiste”, piuttosto che di quella “il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
4. Peraltro, l’irrilevanza penale della condotta è stata ritenuta confermata da una sopravvenienza normativa (ad opera del d.lgs. 128/2015) rispetto a una parte delle condotte, costituita dall’art. 10-bis della l. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), il quale esclude – in particolare, al comma 13 – la punibilità di quelle operazioni – qualificate come “abuso del diritto” o “elusione fiscale” – prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.
Al riguardo il Tribunale ha ritenuto che in presenza di interposizione reale (e non fittizia) non siano ipotizzabili reazioni penali in difetto dei connotati della fraudolenza “in estensione della clausola di cui all’art. 10 bis, comma 13, l. n. 212 del 2000[2]).
5. La pronuncia in commento ripropone la questione delle condotte meramente elusive o abusive e della loro rilevanza penale.
Il Decreto Legislativo n. 128 del 5 agosto 2015, recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 agosto 2015. Dando attuazione all’articolo 5 della legge delega, e in ottemperanza alla raccomandazione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva, l'articolo 1 del decreto reca la revisione delle disposizioni antielusive al fine di disciplinare il principio generale di divieto dell'abuso del diritto, dandone una nuova definizione, unificata a quella dell'elusione, estesa a tutti i tributi, non limitata a fattispecie particolari e corredata dalla previsione di adeguate garanzie procedimentali.
La disciplina è prevista dal nuovo articolo 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212 del 2000).
In base alle nuove disposizioni, si è in presenza dell'abuso del diritto allorché una o più operazioni prive di sostanza economica, pur rispettando le norme tributarie, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.
La norma chiarisce che un'operazione è priva di sostanza economica se i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, sono inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato. Si considerano indebitamente conseguiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario.
Tali operazioni non sono opponibili al fisco: quando l'Agenzia delle entrate accerta la condotta abusiva, le operazioni elusive effettuate dal contribuente diventano inefficaci ai fini tributari e, quindi, non sono ottenibili i relativi vantaggi fiscali.
Non si considerano, invece, abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa o dell'attività professionale del contribuente.
Viene esplicitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.
6. Le condotte qualificabili come meramente abusive o elusive, non connotate da fraudolenza o simulazione, o non accompagnate da fatti teleologicamente diretti alla creazione e utilizzo di documenti falsi, non sono penalmente rilevanti, ai sensi dell’art. 10 bis, comma 1, l. n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente[3]), con la conseguenza che si tratta di condotte che, ai sensi del comma 13 della medesima disposizione, non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, ferma restando l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie (come rilevato anche dal Tribunale di Milano, che ha evidenziato la correttezza dell’accertamento tributario eseguito nei confronti della imputata).
La giurisprudenza di legittimità ha, però, chiarito che l’istituto dell'abuso del diritto[4] ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (così Sez. 3, n. 38016 del 21/04/2017[5]).
Occorre, dunque, per escludere la rilevanza penale di condotte meramente elusive o abusive, che nelle condotte contestate difettino fatti connotati da fraudolenza, simulazione o comunque teleologicamente diretti alla creazione e utilizzo di documenti falsi, e anche violazioni di specifiche norme tributarie da osservare nella redazione delle dichiarazioni (quanto alla qualificazione delle componenti attive di reddito), e anche che i fatti in contestazione non integrino le fattispecie penali contemplate dal d.lgs. n. 74 del 2000 connotate da comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa, stante la ricordata residualità dell’istituto dell’abuso del diritto.
Se, quindi, l’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente, sostituendo il previgente art. 37 bis d.P.R. 600/1973 in tema di elusione fiscale (o abuso del diritto), ricomprendendo tutte quelle fattispecie abusive atipiche (di derivazione costituzionale e unionale), ne ha determinato, alle condizioni ricordate, la non punibilità, l’art. 37, comma 3, d.P.R. 600/1973 rimane in vigore, e continua a trovare applicazione nelle ipotesi di interposizione di persona, fittizia o reale [6].
Con la nuova disciplina dell’abuso del diritto, dunque, quelle condotte elusive risultanti dal testo dell’art. 10-bis l. n. 212/2000 non sono punibili e, determinando la disposizione in questione una riduzione dell’area tipica dell’illecito, la medesima trova applicazione retroattiva – come avvenuto nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Milano - ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen.
Dunque, se da un lato – e questa è l’ipotesi che ricorre nel caso di specie -, a seguito della introduzione dell’art. 10 bis l. n. 212/2000, è escluso che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti - non essendo più configurabile il reato di dichiarazione infedele in presenza di condotte puramente elusive -, al contempo la disposizione trova applicazione soltanto residuale rispetto a quelle fattispecie penalmente rilevanti, contenute nel d.gs. 74/2000, che si riferiscono a comportamenti che presentano i caratteri della fraudolenza, della simulazione o della falsità documentale (in tal senso Cass. pen., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 40272).
7. Tali principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità, rilevano anche nelle fattispecie di infedeltà dichiarativa.
Il comma 1 bis dell’art. 4 del d.lgs. 74/2000, stabilisce che “ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali”: la disposizione determina dunque l’irrilevanza penale di dichiarazioni infedeli conseguenti a violazioni solo formali o di carattere valutativo, ossia derivanti dalla scorretta classificazione o dalla diversa valutazione di elementi reddituali, senza falsificazione o fraudolenza, escludendone l’idoneità a consentire di ritenere configurabile il delitto di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs. 74/2000,
Anche nell’applicazione di tale disposizione occorre, però, escludere comportamenti connotati da fraudolenza, giacché in tale ipotesi non si verserebbe più in un caso di scorretta classificazione o diversa valutazione di elementi reddituali, bensì in un comportamento strumentale alla evasione fiscale, a essa preordinato, tale da consentire di escludere l’applicabilità della clausola di irrilevanza penale di cui al citato comma 1 bis.
8. L’ambito di rilevanza penale delle condotte abusive o meramente abusive può dirsi, dunque, chiarito dalla giurisprudenza di legittimità e ai criteri da questa elaborati si è attenuto il Tribunale di Milano nella decisione in commento.
Può aggiungersi che le disposizioni in materia di abuso del diritto in materia tributaria vanno comunque interpretate e applicate tenendo conto dei principi affermati dalle Sezioni Unite Civili con le sentenze n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008, secondo cui:
- esiste nell'ordinamento tributario un generale principio antielusivo, la cui fonte va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria, quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano, segnatamente nell'articolo 53 della Costituzione che afferma i principi di capacità contributiva (comma 1) e di progressività dell'imposizione (comma 2); tali principi costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere; in virtù di tale principio generale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale "in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale";
- l'esistenza di questo principio non contrasta né con le successive norme antielusive sopravvenute, che appaiono "mero sintomo" dell'esistenza di una regola generale, né con la riserva di legge di cui all'articolo 23 della Costituzione, in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso non si traduce nell'imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, ma solamente nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione delle norme fiscali.
Anche a proposito della punibilità delle condotte abusive o meramente elusive occorrerà, dunque, tenere conto di tali criteri e della ricordata residualità delle disposizioni relative a tali condotte.
Come affermato nella sentenza n. 1372 del 2011[7] l'applicazione delle disposizioni in materia di abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una linea giusta di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e la libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d'impresa.
[1] secondo cui “ In tema di accertamento dei redditi, la disciplina antielusiva di cui all'art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, non distingue tra interposizione fittizia - la quale ricorre quando, in forza di accordo simulatorio intercorrente tra interponente, terzo e interposto, si finge di contrarre con una persona, ma, in realtà, si vuole che gli effetti del negozio si producano nei confronti di un'altra persona diversa da quella che appare nell'atto - e interposizione reale - nella quale non vi è un accordo simulatorio tra le persone che prendono parte all'atto, il quale è effettivamente voluto; neppure presuppone necessariamente un comportamento fraudolento del contribuente, ma postula l'uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, tale da consentire di eludere l'applicazione del regime fiscale costituente il presupposto di imposta, essendo finalizzata a stigmatizzare operazioni volte ad aggirare la normativa fiscale alla luce del più generale principio del divieto di abuso del diritto”.
[2] così a pag. 10 della sentenza del Tribunale di Milano.
[3] secondo cui “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti; tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.
[4] generalmente individuato in quelle operazioni prive di spessore economico che l'impresa mette in atto con l'obiettivo principale di ottenere risparmi di imposta attraverso l'utilizzo distorto di schemi giuridici; ognuno di questi schemi singolarmente appare perfettamente legittimo, mentre l'illegittimità deriva dal fatto che essi nel complesso sono messi in atto unicamente per ottenere vantaggi fiscali; il divieto dell'abuso del diritto rientra tra gli istituti cosiddetti antielusivi.
[5] relativa a fattispecie concernente l'indebita indicazione di plusvalenza in regime di esenzione parziale, anziché ordinariamente tassabile e quindi determinante nella formazione del reddito IRES; nel medesimo senso Sez. 3, n. 35575 del 05/04/2016, che ha ribadito che l’istituto dell'abuso di diritto non è configurabile in presenza di condotte che integrino una diretta violazione delle norme in materia doganale o tributaria, con la conseguenza che queste ultime vanno perseguite con gli strumenti che l'ordinamento mette a disposizione, mentre, riguardo ai fatti elusivi riconducibili alla categoria dell'abuso, la suddetta disciplina realizza una sostanziale abolitio criminis, ed opera, pertanto, retroattivamente senza condizioni; nonché Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015, secondo cui l'istituto dell'abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi; nel medesimo senso v. anche Sez. 3, n. 5809 del 04/12/2018.
[6] in questo senso Cass. civ., sez. V, 22 giugno 2021, n. 17743.
[7] Cass. Civ., n. 1372 del 21 gennaio 2011.