Il "nuovo" delitto di traffico di influenze: un bilancio esegetico due anni dopo l'introduzione
di Andrea Apollonio
Quando l'art. 346-bis afferma che il pubblico ufficiale deve prospetticamente agire "in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri" non vuole e non può riferirsi esclusivamente ad ipotesi di corruzione impropria di cui all'art. 318: limitare il raggio operativo della norma alle ipotesi corruttive è operazione ermeneutica che non trova un riscontro preciso nel dato di legge e contrasta gli obiettivi politico-criminali della c.d. "spazzacorrotti". Il legislatore del 2019 ha poi, in questa prospettiva, riproposto il tema dell'incriminazione delle attività di lobbying: consapevole delle strade interpretative che gli operatori avrebbero potuto imboccare.
Sommario: 1. La riforma del 2019 - 2. Il contenuto antigiuridico della norma - 3. L'oggetto della mediazione - 4. Il caso delle attività di lobbying - 5. Un primo bilancio esegetico, due anni dopo.
1. La riforma del 2019
La legge 9 gennaio 2019, n. 3 recante "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici" (legge c.d. "spazzacorrotti") con formula tranciante rimodulava i rapporti tra millantato credito e traffico di influenze illecite. A fronte dell'abrogazione dell'art. 346, che prevedeva l'ipotesi "storica" di millantato credito[1], veniva stuccato il tenore letterale dell'art. 346-bis, di modo da inglobarvi[2], almeno nelle intenzioni, la condotta dell'espunto delitto finitimo e da renderlo più aderente allo spirito della riforma del 2012[3]: adesso, la clausola di sussidiarietà non si limita a tangere gli artt. 319 e 319-ter, ma abbraccia l'intero ventaglio dei reati di corruzione; lo sfruttamento di relazioni esistenti con un p.u. o i.p.s. si tramuta nello sfruttamento o nel vanto di relazioni esistenti o asserite; il vantaggio patrimoniale viene trasfuso nell' onnicomprensiva utilità; l'atto contrario ai doveri di ufficio o l'omissione o ritardo di un atto dell'ufficio, al cui compimento la mediazione tende o dovrebbe tendere diviene un più ampio riferimento all' esercizio delle funzioni.
Nel "nuovo" delitto di traffico di influenze rimangono ferme le appendici circostanziali della condotta e sopratutto la previsione incriminatrice per chi "indebitamente dà o promette denaro o altra utilità": ciò vuol dire che, mentre prima la condotta di millantato credito intendeva il privato quale soggetto passivo e dunque vittima del reato, oggi - con il nuovo tratteggio dell'art. 346-bis - tale posizione viene ad essere punita.
Nessun accenno, invece, viene fatto al peculiare modus agendi di cui all'art. 346 co. 2: al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che non sussiste continuità normativa tra questo reato e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis, in quanto in quest'ultima fattispecie non risulta ricompresa la condotta di chi, mediante raggiri o artifici, riceve o si fa dare o promettere danaro o altra utilità, col pretesto di dovere comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare; condotta che, in altro ramo dell'ordinamento penale, integra, invece, il delitto di cui all'art. 640, co. 1[4].
Può quindi affermarsi che la riforma del 2019 ha definitivamente spurgato la figura ex art. 346-bis da ogni residuo di tutela del privato tratto in inganno, di contro assumendo una più univoca posizione rispetto al bene giuridico protetto: essendo il reato di nuovo conio espressamente sussidiario delle varie ipotesi corruttive[5], questo si palesa quale avamposto del primario interesse dell'imparzialità e dell'efficienza della P.A., che appunto rispetto ai reati corruttivi vede la sua massima lesione.
2. Il contenuto antigiuridico della norma
Come visto, il nucleo del reato punisce la condotta del dare o promettere al trafficante o ad altri denaro o altra utilità[6] quale "prezzo della propria mediazione illecita" verso un pubblico agente. Denaro o altra utilità indebita, specifica la norma. Cosicché oggi il delitto di cui all'art. 346-bis esprime un disvalore polarizzato su una doppia nota di illiceità speciale; un eccesso di tipizzazione che potrebbe far pensare ad una illiceità riguardante non solo la dazione (d'altronde già qualificata in un senso antigiuridico) ma anche l'essenza stessa della mediazione, ovverosia lo scopo dell'attività di influenza[7]. Di più: potrebbe dirsi, osservato il nuovo assetto della norma, che l'illiceità riguarda principalmente la mediazione (recte: il suo oggetto).
In altri termini, il carattere dell'illiceità, che riempie di disvalore il fatto e, in ultima analisi, integra il reato, andrebbe oggi appuntato sulla mediazione, a poco o nulla rilevando la natura della dazione: potrebbe dirsi che se non è dovuta (al netto, s'intende, dei casi di indebito civilistico) ciò discende dal fine dell'accordo, ed è su questo che andrebbe incentrata l'analisi; potrebbe dirsi che se la dazione è dovuta, ed è quindi da riferire a rapporti ex lege o ex contractu tra privato e mediatore, se il pagamento trae la propria ragion d'essere all'interno di questo rapporto, non potrà essere finalizzato al compimento di un reato, o comunque di un'attività illecita. Ciò vale per la mediazione onerosa, in cui l'utilità viene richiesta per compensare il mediatore "come prezzo della propria mediazione illecita"; vale a fortiori, per la mediazione gratuita, in cui la somma viene asseritamente destinata - fin da subito - al pubblico funzionario: infatti, in questo caso il carattere indebito della dazione (al funzionario) non può che discendere dall'illiceità del fine - almeno ai sensi dell'art. 318, che sanziona l'esercizio delle funzioni o dei poteri a fronte di qualsivoglia remunerazione - e quindi dall'avere, come obiettivo, il compimento di un reato che comporta il pagamento di un "prezzo".
La duplice sottolineatura testuale in punto di antigiuridicità[8] - "indebitamente fa dare o promettere"; "mediazione illecita" - indubbiamente crea l' effetto di un gioco ottico tra le numerosi pareti a specchio di una norma che sconta, in effetti, un'eccessiva tipizzazione: l'indebita dazione (al trafficante, per lui stesso o per remunerare il funzionario) è generalmente il riverbero di una mediazione illecita rispetto al fine (che il trafficante prospetta al privato in cambio appunto di un prezzo[9]); efficacemente, potrebbe dirsi che la mediazione è illecita in quanto illecita la condotta a cui tende: senza alcuna necessità di risalire, a monte, alla natura della dazione[10].
Tuttavia, prima di poter condividere la tesi per cui l'avverbio "indebitamente" sarebbe del tutto pleonastico, giacché "se la prestazione oggetto di pagamento è una mediazione illecita non può che essere indebito il pagamento"[11], nel prosieguo dell'indagine occorrerà verificare se la caratura indebita del pagamento (al mediatore[12]) possa in qualche misura - e in talune ipotesi - surrogare la prospettazione, nell'ambito del pactum sceleris, di fatti non costituenti reato; e rendere per questa via illecita la mediazione.
Appare a questo punto necessario scandagliare i possibili oggetti della mediazione, da enuclearsi direttamente dal corpo dell'art. 346-bis.
Una delle modifiche di maggior rilievo approntate dal legislatore del 2019 riguarda proprio la prospettazione della condotta del pubblico agente per come emerge dal patto stipulato tra privato e mediatore: il passaggio dal "compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio" al mero "esercizio delle funzioni" del funzionario: è questo l' obiettivo che oggi si pongono, o devono porsi, i paciscenti.
Ed invero, la precedente formulazione aveva dato la stura ad una serie di congetture ermeneutiche, sopratutto in materia di concorso di reati: si era ad esempio affermato che la mancanza del richiamo ad una condotta che evocasse l'art. 318, in uno con la specificazione che il denaro è dato o promesso al fine di mediare con - o remunerare il - pubblico ufficiale per un atto contrario ai doveri di ufficio, in assenza di sussidiarietà espressa avrebbe potuto determinare il concorso con la fattispecie della corruzione per l'esercizio della funzione[13]: ciò, a riprova del fatto che la figura della mediazione forgiata nel 2012 fosse strettamente agganciata a specifiche ipotesi di reato-fine, nonché sussidiaria di altrettante, specifiche ipotesi delittuose.
Dopo l' incisiva revisione testuale del 2019, può ben dirsi che la c.d. "spazzacorrotti" ha apportato un diverso contenuto tipico della fattispecie[14]. Non è quindi più necessario che la prestazione del p.u. o dell' i.p.s. (obiettivo ultimo della mediazione) si riferisca ad un atto individuato o individuabile, contrario o meno ai doveri dell'ufficio, da omettere o da compiere; la mediazione deve essere effettuata in ragione delle funzioni esercitate dal pubblico agente[15]: una dicitura che chiaramente ricomprende tutte le ipotesi dell'ampio ventaglio delle corruzioni presenti nel codice dopo il 2012; potendole persino travalicare.
L'oggetto della mediazione è dunque, adesso, quella condotta che - per riprendere il dato testuale della clausola di sussidiarietà - sostanzia i "casi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'art. 322-bis", ma va ben oltre, attesa l'ampia sfera semantica della locuzione, che chiude il nucleo del reato, "in relazione alle funzioni o ai poteri": è da considerarsi ogni altra condotta di reato che potrebbe essere perpetrata dal pubblico agente, appunto nell'esercizio delle funzioni o dei suoi poteri, con la differenza che, se tale condotta non è richiamata nella clausola di sussidiarietà, si potrà avere, come sopra si è detto, un concorso di reati. La soluzione concorsuale appare invero percorribile, in particolare, qualora il traffico di influenze sia posto in sequenza con reati sanzionati con pene analoghe o inferiori, come l'omissione d'atti d'ufficio o l'abuso d'ufficio[16]; diversamente, potrebbe apparire ragionevole la consunzione dell'art. 346-bis ove questa fattispecie fosse prodromica a reati più gravemente sanzionati, come - oltre a quelli indicati nella clausola di riserva - l'art. 353 o 353-bis: tipi penali che possono pur sempre essere integrati nell'esercizio delle funzioni del pubblico agente (cfr. art. 353, co. 2) e che, anzi, in questa ipotesi raggiungono il picco del disvalore.
Al riguardo va anche osservato che la legge del 2019 non si è prodigata di inserire l'istigazione alla corruzione nella cerchia dei reati contemplati nella clausola di sussidiarietà: ciò invero potrebbe aprire la strada all'ipotesi di un concorso tra questo reato e il traffico di influenze illecite, se non fosse che si tratta di una chiara ipotesi di sussidiarietà tacita, che il legislatore ha mancato di esprimere. E' infatti evidente che, al pari delle fattispecie consumate (e richiamate), il disvalore della condotta istigatrice (gravemente sanzionata allorché riprende la propria cornice edittale dai reati corruttivi di cui è appendice) esaurisce quello del delitto-mezzo, arrivato ad un ulteriore stadio di escrescenza delittuosa[17].
3. L'oggetto della mediazione
La mediazione, si è fin qui detto, è illecita in quanto illecita la condotta a cui tende. Tale assunto andrebbe inteso nel suo senso finalistico più ampio: quando l'art. 346-bis afferma che il p.u. o l'i.p.s. deve prospetticamente agire "in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri", consentendo per questa via la consumazione del reato, non vuole e non può riferirsi esclusivamente ad ipotesi di corruzione impropria di cui all'art. 318[18].
Limitare infatti il raggio operativo della norma ad ipotesi corruttive ex art. 318, oppure, come recita il co. 4, "se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie o per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio" (limitare insomma, a conti fatti, l'obiettivo del mediatore ad ipotesi di reato ben determinate, ovverosia gli artt. 318, 319, 319-ter, 328), è operazione ermeneutica che non trova un riscontro preciso nel dato di legge. E' vero che chi remunera per l'esercizio delle funzioni o dei poteri ricade indubbiamente, per ciò solo, nell'alveo testuale dell'art. 318, ma non bisogna dimenticare che questa fattispecie contempla, quale perno della condotta, una dazione indebita, per sé o per un terzo; invece, come si è ricordato, l'art. 346-bis prevede il caso (principale) della mediazione onerosa, in cui l'utilità viene richiesta per compensare il mediatore, "come prezzo della propria mediazione illecita", facendo rimanere in ombra il meccanismo di prezzolamento del p.u. o dell' i.p.s. Di talché, il caso in cui il mediatore abbia in animo - con intendimento condiviso con il privato che ha pagato per la mediazione - di avvicinarsi al pubblico funzionario a mani vuote può essere sussunto, in assenza di preclusioni testuali, nell'art. 346-bis.
Quindi se il mediatore è compensato (d'altro canto: se non lo fosse, se non si registrasse alcun pagamento nell'ingranaggio del rapporto privato-mediatore-agente pubblico, sarebbe da escludersi l'integrazione del reato), ma la riserva mentale del patto non contempla anche la remunerazione del funzionario pubblico, che pure dovrà agire nell'eserczio delle funzioni o dei suoi poteri (e magari può agire, "interessarsi" a titolo gratuito, d'amicizia o in base ad altro movente morale), non può dirsi integrato l'art. 318: rimarrebbero però in piedi le altre fattispecie che vedono l'agente muoversi all'interno dei propri poteri. E non a caso, verrebbe da dire, il legislatore contempla tra le circostanze aggravanti la finalità che conduce ad una fattispecie che nulla c'entra con la meccanica corruttiva, che è l'omissione d'atti d'ufficio.
Arrivati a questo punto, si può essere più precisi e dire che la mediazione per essere illecita deve avere un oggetto illecito rinvenibile in un circuito ampio ma predefinito: deve trattarsi di una condotta di reato posta in essere da un p.u. o da un i.p.s. che agisce in relazione alle sue funzioni o ai suoi poteri, e rientrare tra quei tipi penali che ledono il corretto andamento della P.A., trasfondendosi quindi in uno dei reati previsti dal Titolo II del secondo libro del codice penale. Un tale criterio selettivo discende non soltanto dall'essere la norma chiara nell'individuare i soggetti target nei "pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio o in uno dei soggetti indicati nell'art. 322-bis", che devono agire "in relazione all'esercizio delle funzioni o dei poteri", ma sopratutto dall'essere - dopo l'inclusione del millantato credito ad eccezione dell'ipotesi truffaldina di cui al secondo comma dell'art. 346 abrogato - saldamente collocata tra i delitti contro la P.A. e dall'avere, quale precipua ed espressa finalità di tutela, quella di fronteggiare fenomeni - non solo corruttivi - che minano l'imparzialità e l'efficienza dell'Amministrazione punendo talune condotte prodromiche.
In quest'ordine di idee, la clausola di sussidiarietà assume un valore non incriminatrice, individuando cioè expressis verbis i soli fatti per cui la mediazione può dirsi illecita, bensì di disciplina: selettiva soltanto rispetto ad ipotesi di concorso nel reato. Non sarebbe corretto vederci un'ulteriore intenzione del legislatore: una qualsivoglia funzione d'orientamento del tipo penale, con selezione a monte dei reati verso cui il mediatore è sospinto.
Cosicché, reati come l'omissione d'atti d'ufficio o l'abuso d'ufficio - sanzionati meno gravemente - non solo possono essere oggetto della mediazione illecita perché posti in essere dal pubblico agente in relazione all'esercizio delle funzioni ma, se configurati, potranno concorrere con l'art. 346-bis; invece quelli corruttivi, ivi compresa i'istigazione alla corruzione, se configurati, prevarranno sul traffico di influenze, per espressa previsione di legge.
Nondimeno, neppure può escludersi - perché non ostacolata da alcun dato testuale - l'ipotesi interpretativa che, l'avere il legislatore del 2019 più genericamente connesso la mediazione all'esercizio delle funzioni o dei poteri di un agente pubblico, senza individuare i fatti di reato cui si punta, lasci in piedi la fattispecie concreta in cui il mediatore e il privato si prospettano un'influenza sull'agente pubblico priva di rilevanza penale; spingendo l'interprete a ricavare aliunde l'illiceità della mediazione.
Se, per intenderci, il fatto a cui si punta, l'esercizio delle funzioni che si mira ad influenzare, rimane sprovvisto di compenso (non potendo quindi integrare l'art. 318) e non sostanzia altre fattispecie di reato contro la P.A., e sia - magari - relativo ad attività pubbliche discrezionali che non scivolano verso il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio (si pensi a chi esercita poteri decisionali a fini pubblicistici in organi istituzionali), a quel punto, in assenza di un fatto illecito a valle (seppure sempre prospettato e non praticato), l'interprete dovrà tornare a monte e, ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 346-bis, verificare se la dazione, che è pur sempre elemento costitutivo del reato, risulti o meno indebita.
4. Il caso delle attività di lobbying
Come si è appena detto, la nuova formulazione, contemplando l'ipotesi del mero esercizio delle funzioni o dei poteri, anche senza alcuna remunerazione (non essendosi la legge soffermata su questo punto)[19], arriva ad abbracciare la pattuizione di fatti, di "influenze", anche non costituenti reato.
É, un esempio tra tutti, il caso delle attività di lobbying: delle attività dei "gruppi di pressione", che fungono da collettori delle istanze dei consociati o di singoli gruppi o soggetti, presso il decisore pubblico che esercita le sue prerogative[20]; e in questo "processo per mezzo del quale i rappresentanti di gruppi d’interesse, agendo da intermediari, portano a conoscenza dei legislatori, dei decision makers, i desideri dei loro gruppi"[21], che di norma non prevede uno scambio di prestazioni utilitaristiche in senso stretto, in assenza di riferimenti legislativi chiari, alquanto nebulosi appaiono i confini di possibili fattispecie di reato.
E' un tema che la riforma c.d. "spazzacorrotti" ripropone con forza: va infatti ricordato che tanto la menzione dell’art. 318 nella clausola di riserva, quanto il riferimento all’esercizio della funzione, inizialmente compresi nel progetto della riforma del 2012, nell'ultimo passaggio parlamentare erano stati espunti al precipuo scopo di non dilatare eccessivamente il raggio d’azione dell’art. 346-bis. Si era infatti ritenuto che l’ancoraggio della mediazione illecita al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio da parte del soggetto qualificato assicurasse alla fattispecie un accettabile grado di precisione, scongiurando, al tempo stesso, il rischio di incriminare legittime attività di lobbying[22]. Il legislatore del 2019 ha dunque riproposto la tematica con cognizione di causa: consapevole delle strade interpretative che gli operatori avrebbero potuto imboccare.
Va però aggiunto che il dato di legge presenta, come già presentava nel 2012, un criterio d'orientamento utile: quello che fa leva proprio sull’utilizzo congiunto delle espressioni "indebitamente" e "illecita", contenute nella formula incriminatrice, le quali verrebbero ad assumere, almeno in talune ipotesi, un peso determinante nella tipizzazione del fatto. Si potrebbero evocare casi in cui il mediatore ottenga un pagamento indebito per il compimento di un'attività che, almeno rispetto al soggetto qualificato, risulti di per sé lecita: si pensi all’azione, appunto, di soggetti che agiscano per conto di portatori di interessi particolari, a favore dell’introduzione o, viceversa, dell' abrogazione di leggi.
In questa ipotesi, del tutto rispondente all'esercizio di attività di lobbying, l'unica strada per ritenere illecita la mediazione, sussistendo un oggetto lecito della mediazione, porta ad osservare da vicino il pagamento effettuato al mediatore: soltanto ove questo risultasse indebito, senza alcuna aderenza ad attività professionali disciplinate e da retribuirsi regolarmente, non versandosi quindi nel caso di una mediazione professionale lecita, perché riconosciuta da specifiche disposizioni di legge, per l'effetto la mediazione potrà essere qualificata illecita ed integrare, sussistendo tutti gli altri elementi costitutivi, il reato di cui all'art. 346-bis.
Ma non solo. Riesumare, nel processo logico-analitico di imputazione del fatto, e di configurazione del reato, la natura indebita della dazione a fronte dell'accertamento che il pagamento al mediatore non si riferiva ad altro che alla mediazione stessa, al di fuori di rapporti professionali o d'altra lecita natura, permetterebbe anche di superare le difficoltà dettate dalla mera proiezione del tipo di influenza, della riserva mentale sul fatto tipico target: talvolta difficile, a queste condizioni, appurare se si tratti di un fatto di reato. Difficoltà accentuata dal consentire, la struttura del delitto de quo, che la dazione sia destinata al solo mediatore, allungando un'ombra probatoria sul modo in cui l'agente qualificato verrà influenzato, rimanendo così incerta la sussistenza del reato-fine[23].
La clausola di illiceità speciale collegata al pagamento - la "dazione indebita" - assume quindi un carattere sussidiario che, in ipotesi particolari quali quelle - di grande rilevanza pratica - appena esplorate, permettono di affermare l'illiceità della mediazione anche laddove la stessa non abbia di mira fatti costituenti reato.
5. Un primo bilancio esegetico, due anni dopo
Sui punti che sono stati rapidamente esplorati, sulle problematiche che direttamente derivano dalla riforma del 2019, sembra ancora non rinvenirsi una giurisprudenza di legittimità che possa orientare l'interprete. A maggior ragione, trascorsi due anni dall'introduzione della "nuova" fattispecie di cui all'art. 346-bis, occorre fornire elementi esegetici utili; se non altro volti a dimostrare che l'art. 346-bis riesce a dire molto più di quanto possa ricavarsi da un'analisi superficiale del testo.
Questo, oggi, non è la semplice risultante del "vecchio" art. 346-bis con l'inclusione della condotta del millantato credito (ad eccezione del co. 2) e il rimessaggio della clausola di sussidiarietà - sostituita con altra più ricca, comprensiva dei reati "di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e [dei] reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis" - e dell'obiettivo della mediazione, che oggi può interessare anche la corruzione per l'esercizio della funzione; norma accompagnata da inutili superfetazioni quali potrebbero apparire le due note d'illiceità speciale. L'art. 346-bis è invece, il frutto di una più complessa operazione legislativa elaborata nell'ambito di un disegno riformista che, condivisibili o meno, ha obiettivi di politica criminale ben chiari.
È stato anzitutto evidenziato quanto ampio sia il ventaglio dei possibili oggetti della mediazione, la cui estensione supera quello dei reati direttamente o indirettamente evocati nel testo per abbracciare altre fattispecie contro la P.A., fino a lambire fatti non costituenti reato (è il caso delle attività di lobbying; è, anche, l'ipotesi in cui la riserva mentale dei paciscenti, anche solo per indeterminatezza, non conduca alla prova degli elementi costitutivi di un fatto tipico): in questi casi, la natura indebita del pagamento, nota testuale superflua solo in apparenza, assume carattere sussidiario nella struttura del reato supplendo alla mancanza di illiceità nella mediazione avendo riguardo all'obiettivo della stessa; in questi casi, la mediazione risulterà illecita se il pagamento (la dazione o la promessa) è stato indebito[24]. Non si spiegherebbe altrimenti la complessiva formulazione testuale dell'art. 346-bis.
Un tale approdo ermenutico è altresì confortato da una lettura storica e sistematica della norma. Come si è visto, la fattispecie-madre di cui all'art. 346 non faceva riferimento ad un compenso indebito, né ad una mediazione illecita. D'altra parte queste note di illiceità speciale non erano necessarie perché quella dell'agente era un'attività vantata, truffaldina; millantata, appunto, che già di per sé gettava discredito sulla P.A. Si avvertì l'esigenza di inserirle nel testo di legge quando le reali relazioni con il pubblico agente furono innalzate al rango di presupposto del reato[25], con l'art. 346-bis, assieme all'intento di bonificare quelle condotte prodromiche al contatto e al rapporto tendenzialmente delittuoso con il funzionario. Mutando le finalità di tutela mutava anche la struttura del reato e ne veniva raffinata la tipicità.
A ben vedere, quest'operazione di arricchimento testuale non avrebbe oggi alcun significato se il legislatore del 2019 avesse specificato (come in parte aveva specificato il legislatore del 2012) che sono soggette a pena solo quelle mediazioni prodromiche a fatti di corruzione espressamente individuati: in tal caso, la mediazione sarebbe di per sé illecita (perché tesa alla perpetrazione di fatti di reato) e, conseguentemente, il pagamento al mediatore (per lui stesso, per il pubblico agente o per entrambi) sarebbe in ogni caso indebito. Invece, il legislatore del 2012 prima, del 2019 poi, ha introdotto - e mantenuto - questi connotati perché, evidentemente, molto più ampio doveva essere il raggio d'azione della norma: ampiezza punitiva prima contenuta e poi sprigionata con la c.d. "spazzacorrotti".
Come si è osservato, i lavori parlamentari dell'art. 346-bis, prima formulazione, mostrano che la norma in un primo tempo mirava all'esercizio delle funzioni del pubblico funzionario, e che solo la preoccupazione di una indiscriminata punizione delle attività di mediazione rispetto a fatti non costituenti reato ha portato il Parlamento ad individuare modalità stringenti di selezione del fatto tipico. Ciò invero dimostra come la lunga evoluzione che ha condotto all'introduzione dell'art. 346-bis di nuovo conio, con la contestuale abrogazione dell'art. 346, si annodi a un disegno di politica criminale aderente alla tramutazione criminologica della figura del "faccendiere": figura che non è solo un possibile corruttore o istigatore, ma risponde anche a dinamiche diverse: ad altri obiettivi di reato o, altrimenti, a forme di pressione - in sé non necessariamente costituenti reato - nei processi deliberativi e decisionali le quali, però, possono costituire un vulnus rilevante al corretto e imparziale andamento degli stessi.
L'evoluzione socio-criminale della figura del faccendiere[26], per come emerge anche da numerose inchieste giudiziarie degli ultimi anni, ha condotto il legislatore a ritenere non più procastinabile la distinzione tra faccendiere-millantatore e vero faccendiere (figure espressioni di identico disvalore e di identica immagine di turbamento del buon andamento dell'Amministrazione)[27], ad innalzare notevolmente i massimi edittali di pena e, di conseguenza, ad ampliare per tabulas gli scopi che costui si prefigge: il Parlamento ha potuto quindi conformare in un senso più ampio il tipo di reato - consentendo che il nucleo di disvalore fosse costituito principalmente dalla mediazione illecita, ed in via sussidiaria dalla dazione indebita - consapevole anche del fatto che la norma (già) presentava una sorta di clausola di salvaguardia rispetto a ipotesi punitive indiscriminate, costituita appunto dalla doppia nota di illiceità.
Ebbene, non ampliare l'esegesi, il raggio operativo della norma fino alle latitudini toccate in quest'indagine, vorrebbe dire ignorare la portata della modifica del 2019 la quale, va ricordato, si inserisce in una più ampia riforma che va a colpire tutti i fenomeni che possono in qualche modo alterare il buon andamento e l'imparzialità della P.A.[28]. Osservate da questa prospettiva, le interpretazioni fornite appaiono ossequiose di precise scelte di politica criminale, volte a scongiurare anzitutto quegli accordi finalizzati ad altri accordi: i primi, sono pur sempre l'anticamera della corruzione del pubblico funzionario; ma anche a disincentivare ogni forma di pressione sui processi di pubblico interesse.
Vero è, anche, che questa riforma ha messo a nudo le gravi carenze normative in materia di lobbying: il legislatore del 2019, intervenuto decisamente sul piano punitivo, ha mancato di regolamentare, in parallelo, un aspetto della vita politico-amministrativa dal peso non irrilevante, tanto da essere espressamente riconosciuto e disciplinato da taluni organi rappresentativi[29].
In definitiva, nonostante gli spunti interpretativi che qui si è cercato di elaborare, a due anni dalla riforma del reato, il rischio è che sia ancora la nebulosa disciplina legislativa sul lobbying - di fatto inesistente su un piano generale - a non permettere una valutazione esatta in ordine al carattere indebito dell'utilità versata dal privato e, specularmente, a determinare notevoli incertezze rispetto all'eventuale inquadramento nel reato di traffico illecito di influenze.
[1] Era punito chi, "millantando credito presso un pubblico ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato".
[2] La Cassazione ha affermato, con riguardo a tale aspetto, che "sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito, formalmente abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., atteso che in quest'ultima fattispecie risultano attualmente ricomprese le condotte di chi, vantando un'influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria mediazione" (Cass., Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 17980, dep. 30 aprile 2019 - rv. 275730).
[3] Riforma che prendeva atto della profonda metamorfosi del fenomeno corruttivo: ove la corruzione, un tempo "pulviscolare", diviene "sistemica" (Vannucci, Alle radici della corruzione sistematica, in La corruzione a due anni dalla "Riforma Severino", a cura di Borsari, Padova, 2014, p. 34). Così recitava la norma prima del 2019: "Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni. La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale".
[4] Come di recente ha ribadito la giurisprudenza: cfr. Cass., Sez. VI, 18 settembre 2019, n. 5221, dep. 7 febbraio 2020 - rv. 278451. Non avendo quindi il legislatore riprodotto nel corpo del nuovo reato il termine "pretesto" o altro equipollente contenuto nella formalmente abrogata ipotesi del millantato credito, non integrandosi il nuovo reato mediante artifici o raggiri di alcun tipo (tanto da rendere possibile l'incriminazione del - già - soggetto passivo), si configura il peculiare fenomeno successorio dell' abrogatio sine abolitione, nel senso che - rimanendo sullo sfondo il generale delitto di truffa - la formale abrogazione dell'art. 346 non avrebbe comportato in realtà alcun fenomeno abolitivo (Gambardella, L'incorporazione del delitto di millantato credito in quello di traffico di influenze illecite ha determinato una limitata discontinuità normativa, facendo riespandere il delitto di truffa, in Cass. pen., 2020, p. 1542).
[5] Giusta la clausola di riserva che funge da incipit della norma: "fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'art. 322-bis". Vd. diffusamente De Simone, La nuova disciplina del traffico di influenze illecite, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2019, p. 531 ss.
[6] Il legislatore è infatti andato oltre la ristretta nozione di vantaggio patrimoniale prima presente nel testo, venendo in tal modo superata la discrasia - che era stata subito segnalata dalla dottrina (Brunelli, Le disposizioni penali nella legge contro la corruzione. Un primo commento, 5 dicembre 2012, in Federalismi (web), p. 19) - tra la controprestazione tipica dei reati di corruzione (in cui è ricompresa ogni altra utilità, anche umana, quale ad es. il favore sessuale) e la precedente formulazione dell'art. 346-bis. Vd. anche Grossi, Il delitto di traffico di influenze, in Reati contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia. Trattato teorico-pratico di diritto penale, a cura di Catenacci, Torino, 2016, p. 259.
[7] Ha inizialmente avanzato questa ipotesi Cingari, La riforma del delitto di traffico di influenze illecite e l’incerto destino del millantato credito, in Dir. pen. proc., 2019, 6, p. 753.
[8] Pulitanò, Illiceità espressa ed illiceità speciale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, p. 65 ss.
[9] Va infatti ricordato che il pactum sceleris tra il mediatore e il privato può essere riferito soltanto a condotte future, perché rispetto ad azioni già compiute l'intesa diverrebbe un post-factum. E' proprio in virtù di questo aspetto - la corruzione non si deve realizzare, nemmeno nella forma dell'istigazione - che la dottrina ravvisa, in ogni caso, una componente lato sensu ingannatoria della condotta: ed infatti, a fronte della prestazione utilitaristica o della sua promessa non corrisponde un effettivo impegno assunto dal mediatore, vuoi per la carenza di intenzione nel portare a compimento la promessa illecita, vuoi per la superficialità - o addirittura l'inesistenza - della relazione con il pubblico agente (Consulich, Millantato credito e traffico di influenze illecite, cit., p. 623; cfr. anche Valentini, Dentro lo scrigno del legislatore penale. Alcune disincantate osservazioni sulla recente legge anti-corruzione, in Dir. pen. cont., 2, 2013, p. 124).
[10] Da questa prospettiva si può ben comprendere quanto importante sia, ai fini della configurazione del reato de quo, appurare quale sia la prestazione oggetto del pagamento. Ove tale finalità non fosse appurata, il reato non si configurerebbe, dal momento che la precisa individuazione del fine della condotta è, al pari degli altri, elemento costitutivo del reato; e, d'altra parte, com'è stato correttamente rilevato, la mancanza di proiezione esterna priverebbe l’accordo di quel minimo coefficiente di offensività, che giustifica la rilevanza penale del fatto (Hayo, L'incerta e sfuggente tipicità del traffico di influenze illecite, in Arch. Pen., 3, 2019, p. 19).
[11] Consulich, Millantato credito e traffico di influenze illecite, cit., p. 626, secondo cui l'avverbio "indebitamente" che compare nell'incriminazione non costituisce un elemento di illiceità speciale, ma un elemento indicativo di una mera illiceità espressa. Da altra voce dottrinale era stato osservato che le espressioni verbali "indebitamente" e "mediazione illecita" "non fondano un’illiceità speciale, poiché nulla aggiungono ai connotati di illiceità che connotano il modello legale": VENEZIANI, Lobbismo e diritto penale. Il traffico di influenze illecite, in Cass. pen., 2016, p. 1301.
[12] Poiché, come detto, prospettare il pagamento del funzionario per l'esercizio delle funzioni implica dirigersi verso un fatto di reato: che si configura, in linea con la giurisprudenza sull'art. 318, per effetto del mero divieto di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum che prescinde dalla giudizio di conformità o meno ai doveri d'ufficio della condotta posta in essere in adempimento dell'accordo corruttivo (Cass., Sez. VI, 2 luglio 2018, n. 40347, dep. 11 settembre 2018 - rv. 273792).Si veda, in dottrina, PADOVANI, La messa a ‘libro paga’ del pubblico ufficiale ricade nel nuovo testo di corruzione impropria, in Guida dir., 2012, n. 48
[13] Così Andreazza-Pistorelli, Una prima lettura della l. 6 novembre 2012, n. 190, in Dir. pen. cont. (web), 20 novembre 2012, p. 14.
[14] Ovverosia un ampliamento considerevole del recinto applicativo: in questo senso non può condividersi l'opinione dottrinale per cui tale modifica sia stata volta giusto a "semplificare l'applicazione della fattispecie" (Merlo, Traffico di influenze illecite e millantato credito: successione di leggi o abrogazione parziale? in Foro It., 2020, c. 665).
[15] "L’oggetto dell’accordo non consiste più nel compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o nell’omissione o nel ritardo di un atto del suo ufficio, ma riguarda l’esercizio delle funzioni o dei poteri" (Maiello, Sulla discontinuità normativa tra la millanteria corruttiva e il traffico di influenze illecite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1504).
[16] Il co. 4 della norma richiama d'altronde, espressamente, l'omissione d'atti d'ufficio: "Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all'esercizio di attività giudiziarie, o per remunerare il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio". E' utile evidenziare che mentre l'omissione d'atti d'ufficio è reato sanzionato con pena fino a due anni, e l'abuso d'ufficio con pena fino a quattro anni, la c.d. "spazzacorrotti" è intervenuta sull'art. 346-bis anche innalzando la cornice edittale a quattro anni e sei mesi.
[17] In questo senso Valentini, Dentro lo scrigno del legislatore penale, cit., p. 119; Hayo, L'incerta e sfuggente tipicità, cit., p. 22; CONSULICH, Millantato credito e traffico di influenze illecite, cit. p. 211; contra MASSARO, Il traffico di influenze illecite, in Trasparenza nella P.A. e norme anticorruzione: dalla prevenzione alla repressione, a cura di Massaro, Roma, 2017, p. 97, che ammette la possibilità del concorso.
[18] Hayo, L'incerta e sfuggente tipicità , cit., p. 20 assume, ad es., una impostazione teleologica che va ben oltre le ipotesi di reato (tipizzate?): andrebbe infatti verificato che la finalità di influenza non sia al contempo finalità di distorsione: "È evidente che il cliente attende un risultato di favore dall’opera del mediatore; fin quando questo risultato non reca nocumento alla par condicio civium, non pare che l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione siano vulnerate" (idibem). Sarebbe dunque il concreto risultato perseguito dai paciscenti a dover guidare l'interprete verso soluzioni scriminanti o di configurazione del fatto.
[19] E' il caso, come si è visto, della mediazione onerosa, con il compenso previsto per il solo mediatore. In tal caso, come correttamente rileva Mongillo, Profili penale della rappresentanza di interessi: il traffico di influenze illecite nell'ordinamento italiano, in Dallo Stato all'Individuo, 1-2, 2016, pp. 96-97, l’utilità corrisposta dall’“acquirente” dell’influenza non è diretta, neppure in parte, a retribuire il pubblico agente, bensì costituisce il prezzo per l’intercessione del “venditore”. Cosicché, "la mediazione "perturbatrice" [sarebbe] tesa a distorcere le decisioni della pubblica autorità; non necessariamente a corrompere, come nell’altra tipologia materiale".
[20] Anche in letteratura viene posto in evidenza come l’attività di lobbying sia ormai una delle tipiche forme attraverso le quali i portatori d’interessi – e in particolare di quelli di natura economica e sociale – si rapportano con i decisori pubblici in modo da arricchirne il processo istruttorio della decisione pubblica (cfr. David, La regolazione regionale del lobbying attraverso il prisma della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, in Ist. Fed., 2018, p. 631 ss.
[21] Pasquino, Gruppi di pressione (voce), in Dizionario di politica, a cura di Bobbio, Matteucci e Pasquino, Milano, 2004, p. 468 ss.
[22] Sul punto si vedano, per tutti, SEVERINO, La nuova legge anticorruzione, cit., 7 ss.; ROMANO, Legge anticorruzione, cit., 1405. Ed infatti, proprio il riferimento al solo atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio consentiva di escludere la rilevanza penale delle attività dei "gruppi di pressione", che fungono da collettori delle istanze dei consociati o di singoli gruppi o soggetti, presso il decisore pubblico che esercita le sue prerogative (così Petrillo, Lobbying e decisione pubblica. Profili costituzionali comparati, in Dir. pen. cont., 3, 2018, p. 191). In questo senso, il legislatore del 2012 avrebbe introdotto una serie di "indicatori di tipicità" finalizzati a superare i dubbi sulla determinatezza della fattispecie (Merenda, Traffico di influenze illecite. Nuova fattispecie e nuovi interrogativi, in Dir. pen. cont., 2, 2013, p. 5; Ponteprino, La nuova "versione" del traffico di influenze illecite: luci e ombre della riforma "spazzacorrotti", in Sistema penale, 12, 2019, p. 110).
[23] Al di là del lobbying, che va ad incidere su processi decisionali "generali e astratti", si pensi all'ipotesi "individuale e particolare", tanto comune quanto biasimevole, della "parolina" in forma di raccomandazione, per una pratica, un esame, un concorso: forma di influenza che può non costituire reato, neppure a titolo di istigazione, in mancanza di remunerazione. Per l'integrazione del reato-mezzo di cui all'art. 346-bis, sarebbe allora necessario verificare se il pagamento del privato verso il trafficante affinché si occupi di influenzare in questo senso l'agente qualificato, sia una reale forma di contro-partita, e non sia dovuto, non trovando alcuna forma di legittimazione.
[24] Avvalora questa ricostruzione quanto viene indicato nella Relazione al d.d.l. "spazzacorrotti" (richiamata in Merlo, Traffico di influenze illecite e millantato credito, cit., c. 665), secondo cui "il disvalore del fatto sta nell'acquisto stesso di una mediazione "illecita", condotta di per sé meritevole di sanzione, in quanto potenzialmente suscettibile di produrre influenze distorsive della funzione pubblica".
[25] Ciò ha permesso una ricostruzione del traffico di influenze quale reato di pericolo concreto: sul punto Cucinotta, Sul concetto di influenza illecita, in Dir. pen. proc., 2018, p. 1051 ss. Ed infatti, l’insussistenza di un rapporto quantitativamente “apprezzabile” precluderebbe l’integrazione del delitto de quo, risolvendosi in un’ipotesi di reato impossibile per inidoneità dell’azione ex art. 49 c.p.: in questi termini Padovani, Metamorfosi e trasfigurazione. La disciplina nuova dei delitti di concussione e di corruzione, in Arch. Pen., 2012, 3, p. 793.
[26] Su tale figura si sofferma, anche con validi spunti criminologici, Maiello, Sulla discontinuità normativa tra la millanteria corruttiva e il traffico di influenze illecite, cit., p. 1501 ss., ove si prospetta che nella figura del faccendiere vi sia, per così dire, una sorta di abuso di qualità: "Tale elemento va considerato intrinseco al tipo di cui al 346-bis c.p.".
[27] Manes, Corruzione senza tipicità, cit., p. 1135; in questo senso si esprime anche Astorina Marino, L’unificazione di traffico di influenze e millantato credito: una crasi mal riuscita, in Sistema Penale (web), 26 maggio 2020, p. 12.
[28] Riforma che più di ogni altra appare valorizzata dalle sollecitazioni comunitarie tese a tutelare la correttezza della “concorrenza” e, rispetto all'andamento della P.A., della par condicio civium: cfr. Melchionda, La nuova dimensione tipica del delitto di "corruzione tra privati" dopo la riforma "spazzacorrotti": l'esito di una metamorfosi ancora viziata ed incompiuta, in Sistema Penale, 12, 2019, p. 58; ed anche Seminara, Indebita percezione di erogazioni, appropriazione indebita e corruzione privata, in Dir. pen. e proc., 2019, p. 503. Valutando quindi l'art. 97 Cost. anche in termini di efficienza (come già dottrina pubblicistica si era procurata di fare ben prima di tale riforma: cfr. Spasiano, L’organizzazione comunale: paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995, p. 234 ss.), è questa particolare angolatura del bene giuridico ad essere, più di altre, inciso dalla fattispecie di cui all'art. 346-bis.
[29] Il riferimento è alla "Disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera dei deputati", approvata dall’Ufficio di presidenza il 9 febbraio 2017, che regolamenta la sola attività di rappresentanza di interessi svolta nei confronti dei membri della Camera dei deputati e presso le sue sedi, esaminata in prima battuta da Carloni, Regolazione delle lobbying e politiche anticorruzione, in Riv. Trim. Dir. Pub., 2017, 2, p. 371, nonché richiamata da Ponteprino, La nuova "versione" del traffico di influenze illecite, cit., p. 111.