GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Essere o non essere "Mafia Capitale"

    Essere o non essere "Mafia Capitale"

    Essere o non essere "Mafia Capitale". Commento a Cass., sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125

    di Andrea Apollonio

    Sommario: 1. Il "mondo di mezzo" - 2. Il metodo corruttivo quale "falso" problema ermeneutico - 3. La dimensione probatoria del pericolo concreto - 4. "Mafia capitale": ovvero le due associazioni a delinquere - 5. Conclusioni (e interazioni).

    Era questo, quasi quarant'anni dopo l'apparizione dell'art. 416-bis c.p. nell'ordinamento penale, il momento di consolidare - in un senso di tassatività e prevedibilità - gli strumenti normativi antimafia: che sono sempre gli stessi, e per contro, nella sentenza che mette la parola fine alla lunga e rumorosa vicenda di "Mafia Capitale", la Corte non poteva far altro che rilevare: «La tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie [...] piccole o grandi che siano». 

     1.Il "mondo di mezzo"

    «È la teoria del mondo di mezzo ... ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo... vuol dire che ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano ... tutto si incontra ... le persone di un certo tipo si incontrano tutti là ... nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno ... questa è la cosa ... e tutto si mischia»[1]. Sono queste, negli oltre due anni d’indagine, le parole intercettate dagli inquirenti che più di altre condensano il senso e la ragione sociale di quella che, fino alla pronuncia della Corte di Cassazione in commento, era la "mafia" capitolina: una compagine di raccordo tra mondo criminale e mondo politico, tra il campo della legalità e quello della illegalità, che apre uno spazio in cui far prolificare interessi e denaro; ovverosia, dalla prospettiva inquirente, una "mafia" autoctona che preferisce il dialogo con uomini politici piuttosto che esercitare forme di violenza e intimidazione nei confronti di una collettività, e perciò significativamente distante dai moduli operativi delle compagini mafiose tradizionali.

    Le indagini prima, il giudizio dibattimentale poi, hanno delineato i tratti di una organizzazione complessa, la cui multiforme attività si articola in diversi "rami": il ramo criminale, che opera nel campo dell’usura, del recupero crediti e delle estorsioni; il ramo imprenditoriale, che opera nel settore dell’edilizia e del movimento terra attraverso imprenditori apparentemente insospettabili; il ramo della pubblica amministrazione, nel quale operano soggetti che rivestono cariche pubbliche di natura elettiva e imprenditori del settore cooperativo che gestiscono appalti e fondi delle stesse pubbliche amministrazioni. Una organizzazione multiforme, che ruoterebbe attorno ad un gruppo criminale che, mutando obiettivi e strategie, ha avuto una lunga e graduale evoluzione, dall’«eredità criminale complessa [...] sedimentatasi a strati, lentamente, entro un lungo arco temporale, il cui lascito, sempre vivo e attuale, si è perpetuato nella nuova realtà associativa scaturita dalla fusione con il gruppo del B.»[2]: originariamente dedito alle attività illecite di cui appena sopra si è detto (potendo contare sul "prestigio criminale" del suo capo C., ex esponente del terrorismo nero capitolino e già implicato in importanti vicende criminali), a seguito della fusione con la squadra dell’imprenditore B. (anch’egli pregiudicato) a capo di alcune società cooperative, il clan si trasforma e cambia pelle: vengono ridisegnate e stravolte le linee operative del sodalizio, il quale, riservati i metodi originari dell’intimidazione e della violenza per singoli episodi di estorsione, usura e recupero crediti, attività di cui peraltro si occupano pochi e marginali soggetti (la "manovalanza" del gruppo), intende stabilizzare il proprio ingresso nel circuito politico-imprenditoriale capitolino, nel contesto di un rapporto paritario, tale perché caratterizzato da un diffuso utilizzo di pratiche corruttive. 

    Emerge così, unitariamente[3], "Mafia Capitale", una compagine che era stata in un primo tempo - in sede cautelare - giudicata dalla Cassazione rispondente al delitto di associazione mafiosa in virtù di un articolato quanto innovativo principio di diritto, secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento e omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio».

    Questa "mafia", proseguiva la Corte nel 2015, all’interno di una realtà politica, economica e sociale fluida e complessa come quella della capitale, «tende a preferire il ricorso al metodo corruttivo, sia perché ritenuto necessario al consolidamento della posizione monopolistica raggiunta in determinati settori amministrativi ed economici, sia perché riduce l’incidenza dei profili di rischio nelle sue concrete forme di manifestazione».

    Una pronuncia che aveva sollevato numerose perplessità, in relazione soprattutto alla inconciliabilità ontologica tra metodologia corruttiva, di per sé caratterizzata dall'incontro tra due o più (libere) volontà, e metodologia mafiosa, di per sé caratterizzata dall'intimidazione che genera assoggettamento[4]. Perplessità che trovavano motivi di riscontro nelle divergenti sentenze di merito che, negli anni, si succedevano.

    Ed infatti, il primo giudice (il Tribunale di Roma) non attribuiva all'associazione a delinquere come sopra delineata il carattere della mafiosità, ritenendo che gli elementi probatori non fossero sufficienti a riconoscere la mafiosità c.d. "derivata", tipica delle mafie delocalizzate[5], che i collegamenti del C. con ambienti criminali e mafiosi non fossero attuali e che le (poche) forme di intimidazione accertate fossero finalizzate all'acquisizione di appalti gestiti dalle cooperative di B.: di per sé, queste non sarebbero state in grado di attribuire la natura mafiosa dell'associazione. Secondo il Tribunale capitolino, si sarebbe insomma trattato di un sistema di corruzione mediante infiltrazioni stabili nelle istituzioni.

    A seguito di impugnazione, la Corte d'Appello, richiamando in larga parte l'iter iuris seguito dalla Cassazione in sede cautelare, ha invece riconosciuto l'esistenza di una associazione mafiosa, i cui associati agivano con l'intimidazione del vincolo associativo, che operava essenzialmente nel settore amministrativo per l'acquisizione di appalti attraverso corruzioni e turbative d'asta. Secondo il giudice dell'appello, il carattere mafioso dell'associazione non presuppone un generale controllo del territorio, né una generale condizione di assoggettamento e di omertà, potendo queste caratteristiche riferirsi anche a settori di territorio e a particolari categorie di vittime (es. gli imprenditori).

     2. Il metodo corruttivo quale "falso" problema ermeneutico

    Al netto delle due pronunce di merito - di segno opposto - che si sono succedute, da più parti ci si aspettava che le motivazioni della sentenza oggi in commento si sarebbero soffermate in larga parte sull'aspetto del metodo per delinquere; e che, dunque, il sistema di potere e collusione emerso prima dagli atti di indagine (su cui si è pronunciata la Cassazione nel 2015), poi dalle risultanze dibattimentali (tornato al vaglio dei giudici di legittimità quattro anni dopo), non fosse riconducibile allo schema normativo condensato nell'art. 416-bis cp. sulla scorta delle osservazioni che i commentatori di quel - preliminare - principio di diritto avevano avanzato, chiedendosi se la netta preferenza che il sodalizio romano avrebbe accordato al sistematico ricorso a tecniche corruttive, volte a garantire ai sodali - e in particolare alle imprese da questi controllate - l'affidamento di appalti per servizi di pubblica utilità, potesse integrare i requisiti del reato: «può essere mafiosa una associazione che non ricorre, se non sporadicamente, a strumenti di intimidazione?»[6]. E ancora: possono gli accertamenti sulle sporadiche condotte intimidatorie nel settore (marginale) del recupero crediti «trasformare in una vera e propria associazione di tipo mafioso un sodalizio che per raggiungere i propri scopi utilizzava un'oliatissima e sistematica attività corruttiva di pubblici funzionari e di alterazione dello svolgimento delle gare d'appalto»[7]? Ed ove l'intimidazione fosse rivolta anche agli imprenditori concorrenti, come può misurarsi il grado di intimidazione e di assoggettamento che costoro subivano tutte le volte in cui l'associazione si mostrava interessata ad acquisire un appalto o un intero settore della vita economica capitolina?

    Le motivazioni, depositate molti mesi dopo il dispositivo, soddisfano solo in parte queste aspettative. Il tema cioè delle condotte corruttive anziché intimidatorie, di gran lunga più consistenti e frequenti di queste ultime, che rimane pur sempre un tema di struttura del reato perché si ricollega ad uno dei possibili scopi della norma, ovverosia l' "acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici" (art. 416-bis, co. 3 c.p.) è un "falso" problema: rimane sullo sfondo di un ragionamento che si incentra essenzialmente sul grado di esteriorizzazione del metodo mafioso da parte degli associati (esteriorizzazione effettiva; metodo mafioso che non può essere diverso da quello descritto in termini causali nel reato associativo), e questo perché, come afferma la Corte, «diversamente dall'associazione per delinquere semplice, l'associazione mafiosa non è strutturata sulle "intenzioni", ma su una rete di effettive derivazioni causali. Dunque, non un'associazione per delinquere, ma un'associazione che delinque».

    La Corte individua quindi senza incertezze il percorso argomentativo da seguire: il tema del metodo corruttivo esercitato da un'associazione che si riserva, se del caso e all'occorrenza, di fare leva sulla forza intimidatrice - derivante, come già detto, soprattutto dalla caratura criminale di C. - indica direzioni di senso del tutto fuorvianti: sia perché il tenore letterale della norma di riferimento non è equivocabile[8], sia perché, come si afferma in termini lapidari,  «la fama criminale è quella impersonale del gruppo; un'associazione per delinquere che tra i suoi partecipi o tra i suoi capi annoveri un soggetto di riconosciuta fama criminale non diventa, per ciò solo, un'associazione di tipo mafioso»[9].

    È dunque soprattutto la dimensione probatoria e di rigoroso accertamento dei fatti («che, soli, possono scongiurare il rischio di una "bagatellizzazione" del reato di associazione di tipo mafioso») ad interessare la Corte, che deve rifarsi ad un principio da intendersi consolidato (perché a sua volta sintesi di orientamenti giurisprudenziali da intendersi consolidati): quello indicato nel decreto del 23 luglio 2019 del presidente aggiunto della Corte di Cassazione, per cui in ogni caso in cui il giudizio verta su un'associazione mafiosa, tanto che si tratti di "mafia storica", tanto che si tratti di struttura autonoma ed originale che si proponga di adottare la medesima metodica delinquenziale, «è necessario accertare la sussistenza di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all'art. 416-bis c.p. e, dunque, l'esternazione del metodo mafioso con le sue ricadute nell'ambiente esterno in termini di assoggettamento e di omertà»[10].

    La dimensione probatoria è quindi condensata nella necessità di dimostrare l'esteriorizzazione dell'associazione tramite la verifica della sussistenza delle condizioni dell'omertà e dell'assoggettamento determinate dalla forza intimidatrice dell'associazione, della capacità intimidatoria effettiva e obiettivamente riscontrabile (recte: del metodo mafioso, dal cui rigore interpretativo la Corte sembra non voler prescindere, non individuando strade operative dell'associazione alternative, quali quelle - per intenderci - della corruzione e della turbativa d'asta), anche su scala "ridotta": perché la Cassazione è ben consapevole che il modello idealtipico di mafia è tramontato da tempo. Il modello fino a poco tempo fa unitario, granitico e perciò idealtipico di associazione mafiosa, quello a cui si è sempre pensato a partire dal 1982, momento d’apparizione dell'art. 416-bis, è solo un retaggio storico[11]: mafie straniere impiantate in Italia, mafie del Sud che esportano proprie cellule operative al Nord, mafia autoctone di nuova generazione; ma anche, mafie "silenti" e persino mafie "inattive"[12]. Tutte queste nuove forme mafiose - diverse dalle compagini storiche (Cosa nostra o altre mafie siciliane, 'Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita) che esercitano il loro dominio in quelle aree del Paese definite "a tradizionale radicamento mafioso"[13] - hanno però un comune denominatore: l'essere, inevitabilmente, di ridotte dimensioni. La Corte ricorda che, soprattutto grazie alla giurisprudenza sulle c.d. mafie straniere[14], che ha svolto un ruolo di apri-pista nel superamento del modello interpretativo mafioso tradizionale, «si è compreso che l'associazione di stampo mafioso può sussistere anche se si è in presenza di realtà strutturalmente modeste (le "mafie piccole")[15], che esercitano la propria forma di intimidazione in modo oggettivamente limitato - cioè in zone territorialmente circoscritte ed in ambiti di quote di attività - ovvero soggettivamente parziale - cioè solo su alcune categorie di soggetti». La natura mafiosa dell'associazione non deriva dalla sua dimensione, ma da una forza di intimidazione che deve maifestarsi in concreto, e non solo in via potenziale: «ciò che conta non è la dimensione del radicamento, la sua estensione, ma il "fatto" che il gruppo abbia comunque "raggiunto" una evoluzione ed una reputazione criminale, propria o per derivazione»[16]. E, potrebbe aggiungersi, non si tratta di una qualsiasi reputazione criminale, conseguita con la perpetrazione di una qualsiasi attività delittuosa, quale quella corruttiva impiegata nel campo della pubblica amministrazione (che pure, di per sé, determina la manifestazione e la proiezione esterna dell'associazione, concretamente operativa), ma di quella riserva di intimidazione accumulata con l'esercizio sistematico del metodo mafioso. 

    3. La dimensione probatoria del pericolo concreto

    Lo  si è detto: alcune delle persone che facevano capo al progetto delittuoso poi ribattezzato "Mafia Capitale" avevano comunque esercitato (marginali) forme di violenza, tanto che, come anche si ricorda in sentenza, i giudici dell'appello avevano selezionato i casi in cui vi sarebbe stato l'uso manifesto della forza di intimidazione da parte dell'associazione, soprattutto tramite C.; tra questi, anche il ritiro da una gara d'appalto da parte di un imprenditore, sottolineandosi come fosse il risultato di una forma di intimidazione, consapevole questi di aver toccato un settore che doveva rimanere appannaggio dell'associazione. A cavallo tra (marginali) violenze e (diffusa) corruzione, l'associazione capitolina, in ogni caso, agli occhi dei giudici di legittimità non presentava i problemi di valutazione su di una mafia "silente", collegata con la "casa madre", quegli stessi che avevano spinto la prima sezione della Cassazione a richiedere l'intervento delle Sezioni Unite (ed a cui il primo presidente aggiunto della Corte aveva risposto con la restituzione degli atti), dacché molte pronunce consideravano sufficiente per l'integrazione del reato la capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto di esistere, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati.

    Nel caso di "Mafia Capitale" l'associazione era fin troppo operativa sul territorio e nei palazzi capitolini. Ma richiamare il principio del concreto dispiegamento della forza intimidatrice ha permesso di risalire all'essenza della norma, adombrata dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale sulle mafie, vecchie e nuove[17], grandi e piccole, attive e silenti. 

    In altri termini, il passaggio necessario - ai fini della decisione, ma anche ai fini del riordino ermeneutico della materia - era piuttosto quello di confrontare quanto accertato nell'ambito delle indagini e dei processi su "Mafia Capitale" con le istanze teleologiche e politico-criminali su cui poggia il reato di cui all'art. 416-bis, le quali non possono prescindere dal bene giuridico protetto dalla norma: «l'esistenza dell'associazione pone in pericolo l'ordine pubblico, l'ordine economico, la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica»[18]; e se dal fine si passa al modo, allora è necessaria «l'esistenza in concreto di una capacità di sopraffazione esterna, ovvero più in generale di una capacità di intimidazione rivolta, con carattere diffuso, nei confronti di terzi in un determinato ambito territoriale di cui vuole ottenere il controllo». Questa conseguenza in termini di pericolo concreto discende direttamente dalle tecniche di incriminazione utilizzate dal legislatore del 1982, rivolte in direzione diametralmente opposta a quella utilizzata per configurare l'art. 416 cp., norma questa talmente generica da perdere conseguentemente pregnanza rispetto alle concrete forme di manifestazione della criminalità associativa[19]

    Cosicché, mentre la tradizionale associazione per delinquere ex art. 416 anticipa la tutela ad un accordo stabile di più soggetti organizzati tra loro per commettere (anche in futuro) un numero indeterminato di delitti - e ciò solo, in base ad una valutazione d'astratta prognosi legislativa, pone in pericolo il bene giuridico dell'ordine pubblico[20] -, diversamente l'associazione di tipo mafioso non è un'associazione per delinquere, bensì un'associazione che delinque, poiché esercita attraverso l'intimidazione un controllo immanente sul corpo sociale. 

    Se così, a detta della Corte non rispondono allo schema tipico della norma quelle (non poche) sentenze per cui «è sufficiente che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento e di omertà»[21]; né possono trovare accoglimento quelle tesi "intermedie" prolificate in giurisprudenza[22], che richiedono una prova solo indiretta, o recuperata aliunde, dell'efficacia della fama criminale dell'associazione. La prova delle "effettive derivazioni causali"[23], delle capacità di intimidazione dell' associazione deve essere invece diretta e rigorosa, siccome il pericolo concreto che caratterizza la norma può essere colto soltanto nella sua dimensione probatoria: nella prova cioè dei riflessi empirici dell'avvalimento del metodo mafioso.

     4. "Mafia capitale": ovvero le due associazioni a delinquere

    Individuati i principi applicabili alla vicenda in esame, che per la loro particolare consistenza teorica devono meglio di altri essere accertati sul piano processuale "caso per caso", la Corte passa in rassegna il materiale probatorio formatosi in dibattimento alla luce dei principi di diritto applicati dalla Corte d'Appello romana. Su questa sentenza piomba una censura diffusa e vigorosa, tra le cui righe si apprezzano le coordinate teoriche su cui, anzitutto, i giudici di legittimità si sono soffermati.   

    Due sono i binari su cui si muovono i rilievi critici della Suprema Corte: la motivazione fornita dalla Corte d'Appello, snodatasi secondo una metodica non corretta, per di più - si afferma - «pregiudizialmente mossa dalla convinzione della fondatezza della impostazione dell'accusa»; il principio di diritto accolto e applicato dai giudici territoriali, per cui un gruppo mafioso, per essere tale, può anche avere, senza manifestarla, una "riserva di violenza". 

    In primo luogo: l'obbligo della motivazione "rinforzata" si impone per il giudice d'appello tutte le volte in cui ritenga di ribaltare in senso peggiorativo - mercé una mutata valutazione delle prove acquisite - la decisione del giudice di primo grado, sia assolutoria, sia di condanna: «un obbligo di motivazione rafforzata si pone almeno in tutti i casi in cui nel giudizio di appello i fatti siano diversamente riqualificati a seguito di una mutazione della loro struttura conseguente ad un diverso apprezzamento delle prove». La Corte capitolina, invece, neppure avrebbe articolato il proprio ragionamento probatorio prendendo spunto dalla sentenza di segno contrario di primo grado, ma dalla sentenza della Cassazione emessa nella fase cautelare, avvalorandola ulteriormente: si tratta di una impostazione - denuncia la Corte - «gravemente» scorretta sul piano del metodo, perché è del tutto evidente che quella decisione si basava su circostanze indiziarie che andavano poi dimostrate: e che, nel processo, non sono state dimostrate. E' vero insomma che quella sentenza conteneva principi di diritto sulle mafie c.d. "delocalizzate" e di natura politico-amministrativa che potevano, in quanto tali, essere spesi nel giudizio di appello, ma quei principi promanavano pur sempre da un fatto complessivo diverso da quello poi emerso dal dibattimento, conseguendone la loro inconferenza nell'iter motivazionale d'impugnazione. 

    È stato dimostrato che C. non era affatto il terminale di relazioni criminali con altri gruppi mafiosi, di cui in qualche modo mutuava la forza d'intimidazione; né alcun ruolo questi giocava nei servizi segreti o in altre consorterie di cui poteva spendere il potere; il gruppo non disponeva di armi, anche perché era dedito soprattutto a corrompere pubblici funzionari per far ottenere alle cooperative di B. lavori e commesse; soprattutto, non emergono elementi indicativi o dimostrativi dell'esercizio del metodo mafioso: nessuna prova, quindi, in ordine alla percezione da parte di coloro che dovevano subire tale ipotetica intimidazione derivante dal vincolo associativo. 

    Inoltre, in assenza di elementi ulteriori valorizzati dal giudice d'appello, e di quel sub-strato fattuale da cui erano emersi i principi elaborati nel 2015, la Suprema Corte fa rivivere la raffigurazione inizialmente fornita dal Tribunale di Roma[24]: constatata la pressoché totale assenza di elementi di fatto che collegano le due realtà associative, esse vanno tenute distinte, ed unitariamente va mantenuta ferma la natura non mafiosa per entrambe. 

    È qui che si innesta l'ulteriore rilievo mosso dalla Cassazione, perché il tema della non unicità di associazione non esurisce quello della "mafiosità", «che, in teoria, avrebbe potuto ipotizzarsi anche facendo riferimento a ciascuna delle due associazioni»[25]. Ma la Corte d'Appello non sarebbe riuscita a specificare il tipo di mafiosità dell' unica associazione: essa non ha proposto la tesi della "mafiosità derivata", magari legata all'ipotesi che C. fosse espressione di una preesistente compagine mafiosa, e come tale percepito all'esterno; piuttosto, come detto, ha fatto leva sul concetto di "riserva di violenza" sottesa alla caratura criminale di C. (caratura criminale presunta e non invero accertata, riconosciuta dalla Corte d'Appello in ragione di elementi di fatto dalla «valenza probatoria neutra», «con una motivazione più spesso erronea che poco convincente»). Eppure, questo connotato della mafiosità non è di per sé sufficiente, se non è accompagnato dalla prova della concreta manifestazione della capacità di intimidazione del sodalizio e del conseguente assoggettamento omertoso.

    Insomma, la Corte ribadisce che la "riserva di violenza" non è un concetto autonomo e sufficiente sul piano della struttura del reato di cui all'art. 416-bis, rifacendosi peraltro ad una questione (probatoria) troppo evanescente per essere affrontata e risolta nella cornice di un dibattimento: correttamente il Tribunale capitolino ne aveva in prima battuta sancito l'insussistenza in punto di fatto e comunque l'inutilità - in punto di diritto - ai fini della qualificazione della fattispecie di associazione mafiosa, successivamente la Corte d'Appello ne aveva (erroneamente) recuperato la valenza, non procurandosi al tempo stesso di motivare adeguatamente questa scelta. 

    A tutto voler concedere, non si può non rilevare come la Cassazione abbia preso una posizione netta: non volendo per tabulas contraddire se stessa. La sentenza sopra citata del 2015 (pronunciata in ambito cautelare dalla stessa sezione sesta che oggi verga la sentenza in commento) elaborava infatti un principio di diritto che si fondava proprio sul concetto di "riserva di violenza", che veniva acquisita (con formazione di carica intimidatoria) ma che non necessariamente doveva essere sprigionata, ed è questa linea esegetica che, in fondo, ha seguito la Corte d'Appello[26]. Le sferzanti critiche mosse alla Corte territoriale appaiono per questo, a tratti, quantomeno gratuite, perché si rifanno in gran parte a tesi di diritto confusamente prolificate nella giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni, che la Corte territoriale ha - acriticamente, denunciano i giudici - ossequiato.

    La Cassazione, con questa storica sentenza, sembra aver voluto assolvere se stessa dai problemi di tipicità e prevedibilità generati dall'interpretazione nomofilattica altalenante della norma: ma se (auto)assoluzione c'è stata, la si è avuta non tanto nell'attacco frontale alla sentenza della Corte capitolina, quanto nell'accurata operazione di riordino dei tanti aspetti applicativi della fattispecie di cui all'art. 416-bis

    5. Conclusioni (e interazioni)

    Le esigenze ermeneutiche - il passaggio da una interpretazione statica ad una maggiormente dinamica degli elementi della fattispecie ex art. 416-bis - che conseguono alla esportabilità del modello mafioso a realtà criminali diverse da quelle che hanno ispirato l'introduzione del reato, non possono giungere a piegare le esigenze (altrettanto fondate) «di tassatività della fattispecie e la prevedibilità delle decisioni ad esigenze di semplificazioni probatorie». Il richiamo della Corte è rivolto soprattutto a quelle pronunce di legittimità che, ancora fino a tempi molto recenti, hanno depotenziato gli elementi di struttura della fattispecie ed il giudizio di pericolo concreto che ne deve accompagnare l'accertamento[27]: e tra queste, però, dovrebbero essere incluse le sentenze della stessa sezione, intervenute sulla stessa vicenda (ma in fase cautelare) quattro anni prima.

    Perché, a voler accogliere anche le tesi più estensive del portato normativo, si finirebbe con l'intendere il delitto di cui all'art. 416-bis come un reato a geometria variabile, «a struttura mobile, con tipicità mutevole a seconda che si tratti di un'associazione "storica", ovvero una diramazione di essa che operi in altra parte del territorio, ovvero ancora, una delle "altre associazioni" di cui al comma 8 dell'art. 416-bis cp.»[28] con la conseguenza - inaccettabile, in termini di legalità - di «una tipicità più robusta in alcuni casi e meno in altri rispetto alla stessa associazione mafiosa».    

    Il pericolo dell'elaborazione giurisprudenziale di una mafia "soltanto giuridica"[29], che trova una propria condizione di esistenza solo nelle sentenze e non in precise e verificabili proiezioni empirico-sociali, il timore che la struttura del reato di associazione mafiosa divenga, sfibrandosi, il terreno di dibattiti simili a quelli che hanno segnato per quasi vent’anni il problema dell’ammissibilità, delle forme e dell’ampiezza del c.d. "concorso esterno", che hanno causato fratture in punto di prevedibilità del giudizio penale di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze[30], pericoli e timori che le citate sentenze gemelle della Cassazione del 2015 su (quella che allora era) "Mafia Capitale" avevano sprigionato in dottrina con importanti ripercussioni anche su di una giurisprudenza - come visto - fino a ieri poco convincente nel suo complesso, sembrano essere stati definitivamente disinnescati dalla sentenza in commento che, per l'importanza della vicenda che tratta e l'impostazione rigorosa che adotta, è da intendersi come una valutazione nomofilattica di massimo livello.

    Non per caso, allora, l'arresto in parola sembra amalgamarsi perfettamente ai principi - sincronicamente[31] e parallelamente - elaborati dalle Sezioni Unite in tema di aggravante dell'agevolazione mafiosa, ricostruita come fattispecie di pericolo astratto con una condotta che può anche non esplicare alcuna efficacia.

    Come infatti ricordavano i giudici in quella sentenza, non si vuole punire l' «elaborazione intenzionale, così giungendo a punire il pericolo del pericolo», bensì una condotta che, posta in essere con modalità idonee, determina un pericolo per l'oggetto di tutela, seppure - tale pericolo - debba essere astrattamente inteso, scevro da ogni giudizio sull'effettiva agevolazione della compagine. Questo, in quanto si vuole sanzionare quell'agevolazione che produca «l'effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione».

    In quella sentenza la natura peculiare della circostanza è ripercorsa nei numerosi passaggi in cui si fa cenno ad un apporto utilitaristico diretto ad una compagine mafiosa anche astrattamente intesa dall'agente: nel senso che egli può essere mosso da «una valutazione autonoma che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo»; gli associati possono anche non sapere nulla di questo apporto, che può non arrivare mai all’associazione; può non essere mai raccolto, attesa «l'irrilevanza dell'effettivo ritorno di utilità della condotta illecita in favore della compagine»[32]. L’unico limite ad un astratto collegamento di questa natura sta nell’esistenza stessa dell’associazione mafiosa, che comunque deve esistere nel contesto territoriale di riferimento.

    La figura dell'agevolazione mafiosa contemplata nell'art. 416-bis.1 cp. impone dunque un vaglio giudiziale di diversa consistenza e caratura, quasi antitetico a quello che la Corte, nella sentenza in commento, impone al giudice ordinario nell'accertamento del reato di cui all'art. 416-bis. D'altronde - e qui ci si riaggancia alla prospettiva teleologica di cui ha fatto buon uso la Corte nella sentenza in parola - molto diversi sono gli scopi della norma aggravatrice, che, a detta delle Sezioni Unite, vuole stendere un vero e proprio "cordone di contenimento" della vasta area dei soggetti contigui che agevolano gli scopi delittuosi dell'associazione: steso dal legislatore penale del 1991 con l'introduzione di questa peculiare figura, non può limitarsi a comprendere le condotte di chi abbia un collegamento diretto con l’associazione e voglia attivamente sostenerne gli obiettivi, né può essere limitato sul terreno processuale da un giudizio di pericolo concreto, che importa valutazioni probatorie di non poco momento.

    La distanza tra la fattispecie-madre e la relativa aggravante agevolatrice - sebbene questa debba essere intesa autonomamente, perché, come noto, può ben essere sganciata dal reato-base - si misura quindi sulla parziale diversità dei valori in gioco e, conseguentemente, sulla condotta (da un lato, l'associazione deve concretamente manifestarsi ed incidere quindi nelle dinamiche sociali dei contesti di riferimento; dall'altro la condotta agevolatrice può non dispiegare alcun effetto concreto) e sull'elemento soggettivo del reato (nell'associazione non è, per quanto appena detto, sufficiente un semplice dolo di fare ricorso all'uso concreto della forza[33]; l'agevolazione si fonda proprio su di una tale intenzione, dovendosi però ulteriormente distinguere l'elemento soggettivo proprio della fattispecie - dolo intenzionale - dal dolo diretto sufficiente ad integrare il concorso nel reato aggravato)[34].

    Così, il perimetro tipico della fattispecie-madre, oggi definito con sufficiente precisione e con semantica appagante[35], è meglio osservato dalla privilegiata prospettiva offerta nello stesso momento dalle Sezioni Unite.

    Il riordino interpretativo dell'intricato reticolo che dall'art. 416-bis arriva alla finitima fattispecie circostanziale di cui all'art. 416-bis.1 appariva, per il vero, non più rinviabile: i confliggenti orientamenti giurisprudenziali rispetto alle principali figure normative a sfondo mafioso (le aggravanti, il concorso esterno, e soprattutto, più di recente, la stessa figura-madre dell'associazione mafiosa) non assicuravano al sistema e ai suoi destinatari reati sufficientemente chiari e quindi prevedibili, considerata anche la sostanziale equiparazione tra fonte legislativa e fonte giurisprudenziale, che oggi assume sempre più rilievo anche negli ordinamenti continentali. L'inevitabile richiamo è, nuovamente, alla portata dell'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, il cui contenuto essenziale è costituito dall'accessibilità e prevedibilità della norma, in un contesto non solo di intelligibilità della fonte formale, ma anche della sua applicazione giudiziale; come pure alle conseguenze della sua violazione, che in tema di concorso esterno ha determinato effetti a cascata - da Strasburgo a Roma, ricadendo sulle Corti territoriali - che, forse, solo le recenti Sezioni Unite intervenute sul punto sono riuscite a frenare.

    Un richiamo alla fonte sovranazionale che, significativamente, non compare nella sentenza in parola: essa si atteggia piuttosto ad un autodafé, che fa leva su quei principi di garanzia e legalità storicamente contenuti e sviluppatisi negli ordinamenti di civil law; che sono poi, a ben vedere, la prima forma di legittimazione del (vigoroso) potere punitivo che si esplica innanzi a fenomeni estremamente pervasivi quale quello mafioso. Era questo, quasi quarant'anni dopo l'apparizione dell'art. 416-bis cp., il momento di riaffermare tale potere tramite il consolidamento - in un senso di tassatività e prevedibilità - dei relativi strumenti normativi: che sono sempre gli stessi, e per contro, la Corte non poteva far altro che rilevare: «La tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie [...] piccole o grandi che siano». E' bene che a ribadirlo sia stata la Suprema Corte: perché lo slittamento verso una forma di diritto antimafia atipico e incalcolabile si sarebbe, prima o poi, arrestato a Strasburgo. 

    [1] Richiamate nei numerosi lavori a carattere divulgativo che su "Mafia Capitale" si sono succeduti a partire dal 2015: Abbate-Lillo, I re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale, Milano, 2015; Pignatone-Prestipino, Le mafie su Roma, la mafia di Roma, in AA.VV., Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura, a cura di Ciconte, Forgione e Sales, vol. III, Soveria Mannelli, 2015, p. 95 ss.; da ultimo, Pignatone-Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari, 2019, p. 71 ss.

    [2] Così nelle due sentenze "gemelle" pronunciate in ambito cautelare, su "Mafia Capitale": Cass., sez. VI, 10 marzo 2015 (dep. 9 giugno 2015), nn. 24535 e 24536, entrambe pubblicate in prima battuta in Dir. pen. cont. (web), 15 giugno 2015, con nota di C. Visconti, A Roma una mafia c'è. E si vede... E' in particolare della sentenza n. 24536 che si riporteranno alcuni passaggi.

    [3] Unitariamente nell'ordinanza genetica cautelare del Gip e del Riesame capitolino, nelle pronunce "cautelari" della Cassazione del 2015 appena richiamate e nella sentenza della Corte d'Appello: mentre nella sentenza di primo grado ed in quella in commento la vicenda di "Mafia Capitale" viene bipartita in due distinte - ed esigue - associazioni, come a breve si dirà.

    [4] Da un lato sta la "tangente", dall'altro la "protezione": la dicotomia, estremamente efficace dal punto di vista illustrativo, è formulata da G. M. Flick, Le regole di funzionamento delle imprese e dei mercati. L’incompatibilità con il metodo mafioso: profili penalistici, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, p. 914. Ovviamente, non si intende certo affermare che la corruzione non possa (almeno sul piano astratto) rappresentare uno dei reati-fine a cui l’organizzazione mafiosa tende: certo è, però, che se tale finalità diventa quella prevalente, e non vengono esteriorizzate le metodologie mafiose nei confronti del pubblico ufficiale nella condotta corruttiva, è ben difficile che un sodalizio senza alcun collegamento con mafie "storiche" riesca ad esprimere quella carica di disvalore – che si riflette poi sul diagramma dell’offensività – richiesta dall’art. 416-bis. Per una sintesi del problema dell'inconciliabilità tra i due metodi (nella particolare vicenda affrontata) si consenta il rinvio a A. Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "mafia capitale": tra l'emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. pen., 2016, p. 125 ss., nonché in A. Apollonio, Estorsione "ambientale" e art. 416-bis.1 c.p. al cospetto dei modelli mafiosi elaborati dalla giurisprudenza, in Cass. pen., 2018, p. 3483.

    [5] Pur negando la natura mafiosa dell'associazione criminale capitolina tratta a processo, il Tribunale considera il modello idealtipico di mafia (quello tradizionale) oramai tramontato e non esclude certo la sussistenza di altre forme mafiose: «Perché si realizzi il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. [...] non è indispensabile che l’associazione abbia origine mafiosa o sia ispirata o collegata necessariamente alla mafia: l’espressione legislativa "...di tipo mafioso..." va infatti intesa solo come riferimento ad un modello mafioso storicizzato, idoneo però a ricomprendere anche nuove organizzazioni disancorate dalla mafia tradizionale, che ne pratichino tuttavia i metodi» (Trib. di Roma, sez. X, 20 luglio 2017, n. 11730, p. 3050, in Dir. pen. cont., n. 11/2017, p. 271 ss., con nota di C. Zuffada, Per il tribunale di Roma "Mafia Capitale" non è mafia: ovvero, della controversa applicabilità dell'art. 416-bis c.p. ad associazioni criminali diverse dalle mafie "storiche").

    [6] Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 77; nello stesso senso G. Insolera, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziario, in Ind. pen., 2015, p. 235 ss.

    [7] L. Fornari, Il metodo mafioso: dall'effettività dei requisiti al "pericolo d'intimidazione" derivante da un contesto criminale?, in Dir. pen. cont. (web), 9 giugno 2016, p. 25.

    [8] L' art. 416-bis individua non solo elementi di struttura, ma anche un'ambientazione precisa: «La scelta di procedere a una così analitica definizione vincola l'interprete ad una precisa realtà descrittiva, ove l'insieme dei concetti di intimidazione, assoggettamento e omertà rinvia ad un atteggiamento di timore diffuso in seno alla collettività interessata nei confronti della specifica associazione mafiosa» (S. Seminara, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all'art. 416-bis c.p., in AA.VV., I delitti di criminalità organizzata - Quaderni del CSM, 1998, n. 99).

    [9] Tanto da doversi affermare, specularmente, che «l'associazione è mafiosa se il suo prestigio criminale del gruppo resta intatto anche nel caso in cui siano isolati e sterilizzati i personaggi dotati di fama criminale e personale».

    [10] Con propria ordinanza la prima sezione penale aveva rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto in tema di associazioni di tipo mafioso: «se sia configurabile il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. con riguardo a una articolazione periferica (cd. "locale") di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione "madre", anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento». Con provvedimento del 17 luglio 2019, il presidente aggiunto, ai sensi dell’art. 172 disp. att. c.p.p. (secondo il quale nel caso previsto dall’articolo 618 del codice, il presidente della corte di cassazione può restituire alla sezione il ricorso qualora siano stati assegnati alle sezione unite altri ricorsi sulla medesima questione o il contrasto giurisprudenziale risulti superato), ha restituito gli atti alla prima sezione - disinnescando così il conflitto esegetico - per una nuova valutazione circa la effettiva sussistenza del contrasto, rassegnando il principio appena riferito.

    [11] Ne è riprova l'imprescindibile lavoro monografico di G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, apparso tuttavia una prima volta (con il titolo Le associazioni di tipo mafioso) nel 1984, e via via aggiornato (nel 1995, nel 2008 ed infine, appunto, nel 2015). L'autore, nella Prefazione, così giustifica l'ulteriore edizione dell'opera: «Non prive di rilievo sono, infine, le nuove emergenze circa l'apparato strutturale-strumentale di certi organismi associativi "neo-mafiosi" individuati di recente» (p. V). E' indubbio, infatti, che i modelli mafiosi di nuovo conio - quelli cioè recentemente emersi nella giurisprudenza - travolgano le impostazioni teorico-applicative fin qui consolidatesi in materia. Si veda anche, intorno al libro predetto R. Basile, Riflessioni sparse su "Il delitto di associazione mafiosa. A partire dalla terza edizione del libro di Giuliano Turone. Recensione, in Dir. pen. cont. (web), 26 aprile 2016, passim.

    [12] Questi sono i paradigmi giuridici (perché, come detto, in molti casi la giurisprudenza ha esercitato un vero e proprio "potere definitorio") su cui la giurisprudenza si è concentrata negli ultimi anni, e rispetto ai quali va indicato il ricognitivo lavoro a cura di Santoro, Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, Bologna, 2015, ed in particolare il contributo di A. La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, in ivi, p. 95 ss.

    [13] Il concetto di area "a tradizionale radicamento mafioso" è di matrice istituzionale: elaborato nei lavori della Commissione parlamentare antimafia, è in particolare cristallizzato in Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari (XI legislatura), Relazione sulle risultanze dell'attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (relatore C. Smuraglia), approvata il 13 gennaio 1994, passim.

    [14] Giova sottolineare che la categoria delle mafie "straniere" è relativamente recente, e si delinea a partire dal leading case "Abo El Nga" del 1995 (Sez. VI, 13 dicembre 1995, n. 4864, in Foro it., 1996, II, c. 478 ss.), in cui la Cassazione riconosce i geni della fattispecie di associazione mafiosa anche in sodalizi criminali (di modeste dimensioni) contraddistinti da origini africane od orientali.

    [15] Tesi che poggia sul fatto che il codice penale, all'art. 416-bis, parla di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, sebbene sia impossibile rintracciare una mafia - tradizionale, almeno - così numericamente esigua. Il legislatore dell'epoca ha dunque ritenuto opportuno non discostarsi da ciò che già era presente tra le pieghe del codice, nel contiguo delitto di associazione per delinquere (v., per tutti, P. Pomanti, Principio di tassatività e metamorfosi della fattisecie: l'art. 416-bis c.p., in Arch. pen., 1, 2017, p. 15 ss.; L. Fornari, Il principio di tassatività alla prova della 'lotta' alla mafia: contiguità e metodo mafioso, in Trattato breve di diritto penale. Temi contemporanei, Per un manifesto del neoilluminismo penale, a cura di Cocco, Padova, 2016, p. 285 ss.).

    [16] D'altronde, la Corte di Cassazione - nella c.d. "sentenza Fasciani", dal nome del gruppo criminale di Ostia tratto a giudizio, quindi in un medesimo contesto territoriale estraneo alle mafie storiche - ha affermato che «il reato previsto dall'art. 416-bis è configurabile in relazione ad organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette tradizionali anche nei confronti di un sodalizio costituito da un ridotto numero di partecipanti che tuttavia impieghi il metodo mafioso per ingenerare sia pure in un ambito territoriale circoscritto condizioni di assoggettamento e omertà diffusa» (Sez. VI, 28 dicembre 2017, n. 57896, in C.E.D. n. 253987). 

    [17] La doverosa citazione è all'imprescindibile lavoro sul tema di R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Milano, 2009.

    [18] La presenza di una organizzazione mafiosa chiama in causa la stessa regolamentazione politica dello sviluppo economico, e pone l'attività del gruppo illecito in concorrenza diretta con quella dello Stato: cfr. G. De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica e politico-criminale, Milano, 1988, p. 5 ss.; Id., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 115. Si vedano anche gli spunti di Cerami-Di Lello-Gambino, Istituzioni, mafia e realtà politico-sociale, in AA.VV., Mafia e istituzioni, Gangemi, 1981, in cui si afferma: «E' necessario considerare la mafia non come fenomeno di criminalità, ma come struttura economica e di potere che opera stabilmente e in connessione con l'articolazione del sistema economico-politico italiano». Un punto di vista meno allarmistico lo si rinviene in L. Paoli, La mafia è stata sconfitta?, in Il Mulino, 3, 2001, p. 450 ss.; volendo, si guardino anche le argomentazioni contenute in A. Apollonio, Critica dell'antimafia. L'avanzare della paura, l'arretramento delle garanzie, l'imperfezione del diritto, Cosenza, 2013, p. 131 ss.

    [19] G. Caruso, Struttura e portata applicativa dell'associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, a cura di Romano, Milano, 2015, p. 49. E' anche per questo che tra le due norme non può ipotizzarsi un rapporto di specialità, neppure bilaterale, dato che «gli schemi formali non sono adeguati a comprendere il rapporto tra le due norme» (M. Ronco, L'art. 416 bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in Romano - Tinebra, Il diritto penale della criminalità organizzata, Milano, 2013, p. 60).

    [20] V. Patalano, L'associazione per delinquere, Napoli, 1971, p. 178, rileva come il bene protetto dalla fattispecie associativa (e, dunque, dalle aggravanti connesse) sia l'ordine pubblico inteso quale «esclusività dell'ordinamento giuridico-penale».

    [21] Per uno studio della giurisprudenza sul punto, che ha riguardato in non poche occasioni le mafie "straniere", cfr. S. Petralia, La criminalità organizzata di origine straniera: il fenomeno delle nuove mafie tra paradigma socio-criminologico e paradigma normativo, in Ind. pen., 2013, I, p. 106 ss.; R. Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont. (web), 10 novembre 2015; è interessante anche il lavoro di G. Amato, Mafie etniche, elaborazione e applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall'interazione tra "diritto penale giurisprudenziale" e legalità, in Dir. pen. cont., 1, 2015, segnatamente p. 273 ss.

    [22] Con riferimento a tale modello di mafia importata, che esprime dunque aliunde il proprio metodo, si legga Sez. VI, 27 marzo 2014, n. 4587 in C.E.D. Cass. n. 223387: «In linea di principio, non sarebbe neppure indispensabile la commissione effettiva di condotte di intimidazione per ritenere configurabile [il reato di cui all'art. 416-bis] anche in ambiti geografici diversi [da quelli tradizionali] a condizione però che risulti aliunde dimostrata una tale diffusione della consapevolezza della capacità criminale dell'associazione da rendere inutile l'esigenza che di quella capacità sia data prova conclamata».

    [23] Che non vuol dire necessariamente provare il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell'associazione, perché - come si procura di specificare la Corte - in mancanza della prova di specifici atti di intimidazione la forza intimidatrice può essere desunta da circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacità attuale dell'associazione di incutere timore: «la forza di intimidazione però deve essere manifestata e percepita. Il tema ha una dimensione fattuale e probatoria».

    [24] E che era stata sostanzialmente apprezzata dalla dottrina per l'impostazione rigorista adottata: si veda la nota di G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza: accordi e disaccordi sul metodo mafioso, in Giur. It., 2018, p. 955 ss.

    [25]  Dal raffronto tra le richiamate pronunce di Cassazione, Tribunale e Corte d’appello emerge, anzitutto, il grande rilievo assunto della questione dell’ unitarietà dell’associazione: trattasi di un tema la cui analisi incide in maniera determinante sulla qualificazione penalistica delle consorterie criminali (E. Mazzantini, Il delitto di associazione di tipo mafioso alla prova delle organizzazioni criminali della "zona grigia". Il caso di Mafia capitale, in Arch. pen., 2, 2019, p. 20). E' indubbio infatti che un'associazione, già numericamente esigua, se scissa avrebbe perso ulteriore carica criminale.

    [26]  «La Corte d’appello si è realmente allineata alla richiamata interpretazione offerta dalla Cassazione: non tanto rispetto al momento dell’avvalimento, sul cui versante a dire il vero la Corte ha operato un ampio e approfondito accertamento, quanto piuttosto con riferimento alla formazione della carica intimidatoria» (E. Mazzantini, Il delitto di associazione di tipo mafioso, cit., p. 22).

    [27] Una rassegna della recente giurisprudenza sull'art. 416-bis è fornita da Barone-Salemme, Manifestazioni dell'associazione mafiosa, in Cass. Pen., 2018 (supplemento n. 4), p. 159 ss., in cui sono riportate quelle pronunce contenenti affermazioni di diritto in netto contrasto con quanto oggi sancisce la Cassazione - ciò, anche a riprova della Babele interpretativa con cui i giudici si sono dovuti confrontare: in particolare rispetto alle "nuove ed autonome strutture mafiose", è stato ribadito che «la prova del carattere mafioso di una consorteria può desumersi anche dall'esistenza di una efficiente organizzazione» (p. 164), e che, di più, la stessa Corte di Cassazione (e la stessa sezione VI) nel 2015 affermava: «oramai la giurisprudenza è orientata nel senso che, per l'integrazione del delitto di associazione di tipo mafioso configurato quale reato di pericoloè sufficiente che il gruppo criminale considerato sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione» (p. 167, richiamando Cass., sez. VI, sentenza del 20.10.2015 (dep. 22.1.2016), n. 3027). 

    [28] Ancora, in relazione alla "geometra variabile" della tipicità a seconda del tipo mafioso: come si è detto alcune sentenze di legittimità hanno affermato che, in specie nel caso delle mafie operanti al Nord, il metodo mafioso può anche non estrinsecarsi all'esterno: stando in questa ipotesi, G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici e applicativi, Roma, 2016, p. 44, parla di «rarefazione dell'elemento del metodo mafioso», che viene ritenuto sussistente in re ipsa in quell'associazione che risulti essere una mera articolazione della mafia-madre (siciliana, calabrese ecc.). Diversamente, nel caso opposto delle neo-formazioni mafiose a struttura "autonoma ed originale" (c.d. "autoctone"), rispetto ad esse «è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis c.p., tra cui la maifestazione esterna del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento e omertà nell'ambiente circostante»: Sez. II, 28 marzo 2017, n. 24850, citata in G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza, cit., p. 960, il quale ritiene questa soluzione interpretativa quella «più facilmente compatibile con i principi fondamentali del sistema penale».

    [29] Si consenta nuovamente il rinvio alle tesi espresse in A. Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "mafia capitale", cit., qui in parte ripercorse.

    [30] Ci si riferisce agli effetti della sentenza della Corte Edu "Contrada c. Italia" sull'ordinamento interno, che ha suscitato questioni di legittimità costituzionali, pronunce delle Sezioni Unite e nuovi interventi della Corte Edu: sul punto vd. C. Angelillis, Sul Caso Contrada (note per l' udienza del 24 ottobre 2019 davanti alle Sezioni Unite), in Giustizia Insieme (web), 14 dicembre 2019 e, da ultimo, M. Mori, I “Fratelli minori” di Contrada e le possibili conseguenze nei rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo: note a margine di SS.UU. n. 8544, in Giustizia Insieme (web), 12 giugno 2020.

    [31] Si tratta di Cass., sezioni unite penali, sentenza n. 8545 del 19 dicembre 2019 (dep. 2 marzo 2020), in Sistema penale (web), 16 marzo 2020, con nota di S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e sulla sua estensione ai concorrenti: tra punti fermi e criticità irrisolte; per altro commento si guardi A. Apollonio, Le Sezioni Unite sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa e sul concorso esterno, in Giustizia Insieme (web), 29 aprile 2020.

    [32] Non si deve pertanto apprezzare l’impatto effettivo della condotta sulla intera struttura associativa come in dottrina affermava, ad es. N. D'Ascola, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale “senza prova”. Strutture in trasformazione del diritto e del processo penale, R. Calabria, 2008, p. 131.

    [33] Come è stato ben illustrato, il metodo, infatti, «sotto il profilo oggettivo è elemento indefettibile di cui l'associazione deve essere dotata; sotto il profilo soggettivo, è l'oggetto del dolo specifico degli associati nella prospettiva del suo concreto sfruttamento» (A. Ingroia, L'associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, p. 70).

    [34] Per un approfondimento della questione sia ancora consentito il rinvio ad A. Apollonio, Le Sezioni Unite sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa, cit. passim.

    [35] Perché, come si ricordava proprio su questa rivista al momento della pubblicazione del (solo) dispositivo, ribattezzare il "mondo di mezzo" come "Mafia capitale", in via definitiva, sarebbe equivalso a svuotare di sigificato, in via definitiva, l'art. 416-bis: senza più l'utilizzo o il richiamo del concetto di intimidazione (neppure in astratto), si sarebbe determinato lo stacco irreversibile del paradigma giuridico dal contesto socio-criminologico da cui è inizialmente derivato (A. Apollonio, "Mafia Capitale": altro che sconfitta, in Giustizia Insieme (web), 25 ottobre 2019). 


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