Sommario: 1. L’impegno, la giurisdizione e la narrazione – 2. Da “I pascoli di carta” a “L’inferno non prevarrà” - 3. Apologo del p.m. ingenuo e curioso – 4. Un racconto senza prove – 5. Se irredimibile è la speranza.
1. L’impegno, la giurisdizione e la narrazione
“Ormai è diventato quasi ridicolo parlare di impegno ma io continuo a ritenermi uno scrittore impegnato”, rispondeva Leonardo Sciascia a Danilo Dolci nel corso di un dibattito svoltosi al Circolo Culturale di Palermo il 15 aprile 1965. E dopo quasi sessant’anni, quando addirittura parlare di impegno può creare fastidio e diffidenza, per un magistrato che già è impegnato nell’esercizio della giurisdizione in un ufficio giudiziario tanto periferico quanto strategico può valere la pena affaticarsi a scrivere delle storie al fine di combattere i mali della società e riscattare la dignità dell’uomo, come voleva fare Sciascia?
Andrea Apollonio, sostituto procuratore presso il Tribunale di Patti, con il suo romanzo dal titolo “L’inferno non prevarrà” ha risposto di sì. E non è la prima volta. Perché questo non è il suo primo romanzo.
Segue infatti un’altra pregevole opera letteraria, “I pascoli di carta”, che egli dedicò alla Sicilia “che mi ha reso adulto”, introducendola con una frase tratta da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, che per un magistrato tenuto a scrivere atti giudiziari, è tutta un programma: “di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”
Sciascia diceva di essersi messo ad affilare la penna, per ristabilire il diritto e fugare l’ingiustizia e il sopruso, perché non riusciva a sentirsi sufficientemente incisivo facendo il maestro elementare.
Chissà se un magistrato che esercita i suoi compiti come deve, cioè nei limiti fissati dalla legge, si sente sufficientemente incisivo nel contrastare le ingiustizie; talvolta potrebbe persino rendersi conto di non essere in grado nemmeno di farle emergere con gli strumenti a sua disposizione. Resta il fatto che alla legge egli deve attenersi, accettando anche l’inadeguatezza dei risultati che riesce a conseguire. Sempre che ci riesca.
La giurisdizione è giurisdizione e non si può piegare né distorcere per giungere a qualcosa di più o a qualcosa di diverso da quanto è consentito dalla legge di accertare, descrivere e, se del caso, sanzionare. Ma ciò che non può essere oggetto di un provvedimento giudiziario, si può comunque narrare? Si può. E fors’anche si deve, al pari di come si deve con ciò che non si può teorizzare.
2. Da “I pascoli di carta” a “L’inferno non prevarrà”
Il protagonista de “L’inferno non prevarrà” è Salvatori, un sostituto procuratore di un Tribunale dei Nebrodi con sede in una città chiamata Pasicò, non un luogo immaginario ma un nome immaginato dall’autore del romanzo. Che appella il suo protagonista, così come si è fatto sopra, sempre con il solo suo cognome, come si faceva con i compagni di scuola o come si fa con certi colleghi con quell’effetto paradossale quanto consueto, per cui l’omissione del nome del battesimo e l’insistenza sul solo cognome sembra essere il modo più intenso per esprimere fratellanza e confidenzialità.
Salvadori era stato nei “Pascoli di carta” un giovanissimo sostituto alle prime armi, appassionato e ingenuo, alle prese con un’indagine su un eclatante duplice omicidio, che aveva condotto incontrando sviluppi imprevisti, inciampando in barriere improvvise dietro l’angolo di varchi aperti, acquisendo prove che erano trappole, ottenendo qualche aiuto che si rivelava impedimento. Ma infine commettendo un ingenuo quanto imperdonabile errore.
Chiusasi con un bruciante insuccesso investigativo, la storia di “Pascoli di carta” si riapre in questo nuovo romanzo in cui Salvatori, ammorbidito dalla nascita di un figlio e ammaccato dalle prime delusioni professionali, si ritrova ancora giovane ma con due anni di anzianità di servizio in più. Cambiano i procedimenti da trattare, cambia il suo procuratore, in qualche modo è cambiato anche lui, ma attorno al suo ufficio giudiziario le vicende che affliggono il territorio in cui opera proseguono il loro corso producendo nuovi delitti, nuova ricchezza, poco sviluppo, tanta rassegnazione e qualche segno di reazione.
Mentre si confronta con l’umanità dolente che con qualche flebile speranza o forse solo per disperazione riversa le proprie sofferenze nel processo penale, mentre prosegue l’attività ordinaria fingendo di non pensare più a quel duplice omicidio rimasto irrisolto e invece intimamente avvertendolo come una ferita non rimarginata della sua anima e di quella terra oramai divenuta sua, Salvatori non appare più quell’”animale esotico condotto in un piccolo centro da un circo internazionale di passaggio”, quale lo aveva percepito il maresciallo di Alzapietra, dove avvenne il delitto dei “Pascoli di carta”.
Si confronta con un mondo che ora conosce non perché gli si sia svelato ma perché ora egli si rende meglio conto di quante sono le cose che ancora deve capire; più accorto, ma forse nemmeno più di tanto, egli ancora fatica a canalizzare la sua passione nell’equilibrio e quando sente crescere in lui o attorno a sé la disillusione, nello stesso momento in cui ne comincia ad avvertire le suggestioni, reagisce con vigorosa insofferenza.
È la morte per cause naturali di un alto magistrato, tanto alto quanto chiacchierato, in pensione da tempo, a rimettere in moto le sopite tensioni di Salvatori verso un mondo che gli sfugge e che vuole capire.
Un sopralluogo per dovere d’ufficio, quasi una mera formalità, nella casa del Procuratore generale Ficarra nel paese di Alcara, dove viveva da solo e dove era stato trovato cadavere, riaccende nel giovane sostituto sentimenti di rivalsa e rinfocola curiosità sugli interessi border line che, lungo un crinale tracciato a partire da Bruxelles fino ai paesi spopolati dei Nebrodi, affratellano classi dirigenti, professionisti, operatori economici ed esponenti mafiosi, “lembi di un’unica rete”, scrive Apollonio; ma individuati i lembi, comunque la rete “non era visibile ad occhio nudo”.
Dove tutto è mafia e nulla è mafia, dove il tutto sta nel nulla e nel nulla, nelle campagne incolte, nei pascoli deserti, nelle comunità senza popolo, proprio lì sta tutto.
3. Apologo del p.m. ingenuo e curioso
Salvatori porta un nome che evoca il desiderio di un giovane magistrato di salvare il mondo o almeno di concorrere a salvarlo e Apollonio sembra averglielo scelto con un filo di ironia sorniona visto che di lui racconta l’impotenza dinanzi ad un mondo sottilmente complesso e solidamente potente, che gli compare senza farsi afferrare, che si rappresenta dinanzi a lui come mistificazione quando è reale e come reale quando è mistificazione e che comunque infine gli sfugge.
Questo senso di inadeguatezza egli lo confessa al suo procuratore, una donna trapiantatasi in Sicilia all’inizio della sua carriera, divenuta negli anni “più siciliana dei mafiosi siciliani, su cui aveva indagato e per cui aveva chiesto e ottenuto montagne di ergastoli”.
A lei che gli rimproverò l’ennesima ingenuità dice: “io ho scelto di fare questo lavoro perché voglio cambiare le cose secondo un senso di giustizia, appunto, e invece mi sento intrappolato, come dentro una montagna di fatti, e di leggi da applicare automaticamente”.
Appena insediatasi, nel primo incontro con lei Salvatori le aveva sentito spiegare la differenza tra il siciliano e il mafioso: “mentre un siciliano, per congenita diffidenza nei confronti dell’ambiente, del contesto, del sistema di cose in cui si colloca, prima di compiere un’azione – parlare, ad esempio – pensa alle conseguenze che essa può avere due o anche tre passaggi causali dopo, un mafioso riesce ad arrivare a cinque o sei passaggi successivi”.
Salvatori non voleva disfarsi dell’ingenuità degli inizi “perché gli era diventata scudo e protezione” e per questo cade nell’errore che il procuratore gli aveva predetto: “lascia che te lo dica: se non ci si attrezza con una buona dose di realismo si rimane alla mercé del moto inesorabile delle cose”.
È il “mare di oggettività”, di cui parla Italo Calvino, più volte citato nello svolgimento della storia, che con il flusso ininterrotto di ciò che esiste sovrasta e confonde le coscienze. E sovrasta e confonde il giovane sostituto alla ricerca dei “nessi imperscrutabili”, che gli si affacciano persino quando assume a sommarie informazioni le persone che sporgono denuncia e che sembrano raccontare fatti e riferire informazioni del tutto estranei alle vicende da investigare.
E mentre a capo della sua procura Salvatori incontra una donna che dice di essere interessata al fenomeno generale che muove le vicende particolari, il maresciallo di Alzapietra riceve ordine dal suo colonello di togliere dalle pareti la cartina geografica delle campagne della Sicilia perché “secondo lui invogliava l’immaginazione e le fantasticherie”.
Un percorso ad ostacoli per un investigatore, dove ora si elabora il contesto senza i fatti ora si raccontano i fatti senza il contesto. Lo stesso percorso che riesce invece del tutto agevole alle mafie, che “a ben vedere, sono prevedibili da circa duecento anni”, pensa tra sé e sé Salvatori, mentre rilegge un albo di Tex. Per poi aggiungere: “era un pensiero terribile, eppure rassicurante nella sua ineluttabilità”.
4. Un racconto senza prove
A casa del Procuratore Generale Ficarra Salvatori si introduce per prendere atto di una morte per cause naturali, ma, approfittando della situazione, sfoglia con attenzione alcuni documenti posti nello studio del defunto, che pure non sembrano significare nulla; intravede uscendo una testa di gesso fracassata sul pavimento e non dispone alcun ulteriore atto istruttorio.
Ma poi si reca dal maresciallo di Alzapietra con il quale aveva condotto l’indagine fallita sul duplice omicidio di due anni prima, delitto che gli era sembrato legato agli interessi della mafia dei pascoli che controlla i terreni dei Nebrodi e che li sfrutta per ottenere i finanziamenti europei. Salvatori cerca stimoli e trova disillusioni. Vi incrocia un allevatore che vuole sporgere una denuncia per un fatto difficile a credersi e al quale lo stesso maresciallo del paese non sembrava voler credere.
Un misto di ingenuità e di istinto lo porta senza alcun apparente motivo ai funerali di Ficarra, a fiutare l’ambiente, ad inquadrare i volti dei partecipanti e degli officianti.
Due giorni dopo nel suo ufficio giungono due investigatori a portargli una prova inutilizzabile, raccolta un po' per errore, forse anche per abuso, in un’indagine che non era coordinata da lui ma da altro magistrato. Una prova che dimostrava un fatto che però non poteva esistere perché era la prova non sarebbe potuta esistere.
Da qui l’intreccio delle vicende che seguono portano Salvatori a scoprire l’esistenza di una struttura semiconventuale, denominato Malò, dove un innominato ordine di suore offre ospitalità a personalità autorevoli e potenti di quel territorio in cerca di tranquillità e meditazione.
Proprio a partire da quel luogo che tratteggia un Todo modo nebroideo, la storia si snoda in un pellegrinaggio laico con il quale Apollonio rende omaggio a Leonardo Sciascia, autore del quale è devoto lettore e colto cultore, evocandone personaggi, storie e persino citazioni e soprattutto introducendosi con le chiavi narrative nell’attualità del fenomeno mafioso, insuscettibile di essere definito arcaico o moderno, perché capace di essere contemporaneo in ogni epoca.
Incontriamo richiami di A ciascuno il suo con il personaggio di un prete unico abbonato del paese all’Osservatore romano (il titolo del romanzo è tratto dall’iscrizione riportata dalla testata – portae inferis non praevalebunt – che sembra fare il paio con la sconsolata considerazione del maresciallo di Alzapietra: “A volte i Nebrodi, anche con la loro impareggiabile bellezza, mi paiono le porte dell’inferno”); e ci viene da pensare a ciò che fa somigliare Salvatori all’ingenuo prof. Laurana.
Ci troviamo una citazione di Friedrich Dürrenmatt, riportata da Sciascia in Una storia semplice, e ripensiamo all’ambasciatore Giorgio Roccella, alla denuncia che avrebbe voluto fare sul rinvenimento del quadro misterioso in casa sua e al suo successivo apparente suicidio che nessuno voleva decodificare.
Affiora il vescovo di Patti, monsignor Angelo Ficarra, protagonista di Dalle parti degli infedeli, che a Salvatori viene ricordato da Carmine Ragusano, uno dei colletti bianchi che aveva fatto processare e che era stato assolto, anch’egli ospite di Malò. E Salvatori è costretto a masticare amaro in silenzio, sentendosi dire da lui: “sa, per noi siciliani Sciascia è come il maestro che ai suoi allievi apre gli occhi sul mondo”.
Molte altre ancora sono le risonanze e le movenze narrative che rimandano allo scrittore di Racalmuto; e scovarle, mentre si dipanano gli intrighi della storia, rende la lettura ancor più appassionante per gli amanti di Sciascia.
5. Se irredimibile è la speranza
Fra errori tattici, irritualità procedurali, ingenue arditezze e disvelate inconsapevolezze, Salvatori non riesce a dominare il corso degli eventi, talvolta non riesce a comprendere pienamente i fatti, ma dinanzi ai suoi fallimenti e alle sue delusioni è davvero fino in fondo un personaggio sciasciano.
Perché nonostante tutto, pur talvolta assalito dalla tentazione di lasciare la toga, non perde mai la fiducia nel diritto e nella giustizia, non rinuncia mai ad affilare i suoi strumenti spuntati per tutelare la dignità delle persone e giunge persino ad ammettere e ad accettare i turbamenti che procura il senso di impotenza, ben noto a investigatori e magistrati, e che gli viene rinfacciato dal maresciallo di Alzapietra, quando sconfitto e amareggiato, decide di andare in pensione.
“Cosa se ne fa lei di questi turbamenti?” gli chiede l’investigatore disilluso. “Me li tengo dentro”, gli risponde Salvatori, “Li seppellisco da qualche parte, tra lo stomaco e il cuore. Sono semi che, spero, prima o poi daranno frutto”.
Sciascia, lo scrittore della Sicilia irredimibile, è in realtà quello che si svela uomo di fede e di speranza in un’intervista rilasciata a Ian Thomson nel 1985 per il London Magazine, ripubblicata da Rubbettino nel 2022: “io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono e soffrono dentro”.
Sciascia si diceva ammiratore degli uomini che sembravano non avere molte speranze e che riuscivano però ad essere il cuore della speranza, “la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori”. Come continuano ad esserlo oggi certi suoi personaggi, per quanto sconfitti. Come ci si presenta Salvatori, che anche in questo da una storia all’altra siciliano lo è sempre di più. E sempre meglio.