Il processo a Pasolini difeso dal “fascista” Alfredo De Marsico
di Andrea Apollonio
Sommario: 1. Premessa. - 2. Lo scontro totale di Pasolini con la giustizia italiana. - 3. Le ragioni dell'importanza storico - giuridica dell' affaire "I racconti di Canterbury". - 4. La vicenda processuale: analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. - 5. Il (difficile?) rapporto tra Pasolini e De Marsico: alcune interpretazioni. - 6. Spunti conclusivi di riflessione.
1. Premessa
Nel settembre del 1972 al teatro comunale di Benevento venne proiettato in anteprima "I racconti di Canterbury", film diretto e sceneggiato da Pier Paolo Pasolini. Si tratta del secondo dei tre episodi della c.d. "Trilogia della vita", una composizione filmica che presenta in sequenza "Il Decameron" (1971), "I racconti di Canterbury" (1972) e "Il fiore delle Mille e una notte" (1974); opere che rivisitano le omonime novelle medioevali, il cui tema centrale è, appunto, la vita, intesa come esperienza fisica avente come suo centro il corpo. A detta del regista, la Trilogia è infatti pervasa dalla necessità della rappresentazione dei corpi e, sopratutto, del loro simbolo culminante: il sesso. Tale necessità si inserisce "in quella lotta per la democratizzazione del "diritto a esprimersi" e per la liberazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni Cinquanta e Sessanta"[1]. Sicché, non può meravigliare che tutti e tre i film (assieme a molte altre sue produzioni artistiche) siano stati oggetto - da parte di pubblico e critica - di grandi apprezzamenti ma anche di feroci critiche e di numerose denunce per oscenità, e posti così al centro di intricate vicende giudiziarie.
Non fece eccezione la pellicola "I racconti di Canterbury", per cui, come era già accaduto per il "Decameron", venne celebrato il processo - innanzi al Tribunale di Benevento, competente per territorio - nei confronti di Pier Paolo Pasolini per il reato di cui all'art. 528 c.p., che punisce, tra l'altro, la fabbricazione di immagini oscene per farne commercio o esporle pubblicamente. Un processo che, come gli oltre trenta che alla fine si conteranno, si concluderà con l'assoluzione, ma che, per le ragioni che esporremo, assume una importanza ed una significatività tutta particolare. Questa complessa vicenda (artistica e processuale) rappresenta dunque l'oggetto delle nostre riflessioni.
2. Lo scontro totale di Pasolini con la giustizia italiana
Si sostiene generalmente che la società italiana degli anni Settanta (o comunque buona parte di essa) non fosse "pronta" ad accogliere espressioni artistiche a sfondo sessuale quali erano quelle di Pier Paolo Pasolini, e che lo scontro frontale con la giustizia e la sottoposizione dell'intellettuale ad una sorta di inquisitio generalis acclarasse, in qualche misura, l'inadeguatezza delle leggi - che ancora in quegli anni derivavano, senza sostanziali modifiche, dal ventennio fascista - allo spirito dei tempi, che Pasolini intendeva interpretare; o, comunque, attraversare, per sconvolgerli.
In effetti, a determinare lo scontro di Pasolini con il potere giudiziario si poneva sopratutto la tutela penale della morale pubblica e del pudore apprestata dall'ordinamento, che secondo l'intellettuale si fondava ancora sulla "ridicola" concezione del pudore rigidamente limitata all'amplesso tra un uomo e una donna [2].
Ne derivò una contrapposizione totale. Uno scontro agonistico, impregnato di ideologia: da una parte e dall'altra. E certo taluni magistrati approfittarono dell'illustre controparte processuale per ritagliarsi fette di protagonismo e di consenso nell'opinione pubblica. Ad esempio, nel processo (celebrato nel 1963) centrato sul film "La ricotta", in cui l'accusa era quella di vilipendio di religione, il pubblico ministero, in dichiarata competizione intellettuale con Pasolini, così formulò la sua singolare requisitoria:
"Davanti a me è Pier Paolo Pasolini. E' l'imputato, perché deve rispondere di un'accusa mossagli dal pubblico ministero. Qui sono io, al banco del pubblico ministero, ma in quale veste? [...] Ebbene, io pure sono imputato! [...] Da varie fonti senza metafore mi si accusa: l'attentatore della libertà, il liberticida, l'inquisitore! Non occorre altro per rendersi conto che in questo processo gli imputati sono due: Pier Paolo Pasolini ed io. [...] Se voi condannerete Pasolini approverete me, ma se voi lo assolverete allora, ineluttabilmente, condannerete il mio operato"[3].
L'ingaggio di questa sfida con la giustizia italiana si protrasse per quasi trent'anni e produsse, come detto, oltre trenta processi, riducendosi - in parte per volontà dello stesso Pasolini - in un circo mediatico-giudiziario[4] senza periodi di chiusura; tanto che, chi si è incaricato di ricostruire tutti i passaggi processuali, ha avuto l'impressione di ripercorrere un unico grande "Processo"; o, più kafkianamente, il Processo [5].
In realtà, procedendo ad una più approfondita analisi, si dovrebbe evidenziare come, all'interno di questo scontro, si siano comunque generate vicende sintomatiche di una lenta ma progressiva evoluzione della società italiana, alcune delle quali assumono altresì un significato profondo nell'universo giuridico. La grande avversione dell'intellettuale nei confronti di quello che lui definiva uno Stato capitalista piccolo-borghese e della sua cultura letteraria di ristrette vedute, che attaccava strumentalmente le opere di un diverso e ne faceva scempio non era certo fine a se stessa: era volta a stimolare polemiche e dibattiti (quasi) sempre costruttivi, ed a smuovere dal fondale fangoso della cultura - artistica, politica, giuridica - italiana quelle tendenze progressiste ancora involute.
Ecco dunque che, collocandoci in tale prospettiva storica, il processo beneventano rappresenta un momento d'incontro suggestivo, che segnalerebbe, per l'appunto, il lento emergere della società dalle secche del passato: quello tra Pier Paolo Pasolini e Alfredo De Marsico, uno dei penalisti italiani più autorevoli che il Novecento abbia avuto. Si tratta, probabilmente, del punto di intersezione meglio sviluppato tra la dimensione giuridica e la dimensione artistica della vicenda pasoliniana, che ci permette di fotografare nitidamente, al contempo, la vis polemica dell'artista e l'originalità liberale del giurista. La cui congiunzione ha prodotto un risultato che, in chiave storica, non è probabilmente ancora stato valutato appieno[6].
3. Le ragioni dell'importanza storico-giuridica dell'affaire "I racconti di Canterbury"
Occorre allora chiederci quali sono le ragioni per cui assegnamo tanta importanza al processo di Benevento centrato su "I racconti di Canterbury". Esse, per vero, sono molteplici.
Anzitutto, si tratta del film che valse a Pasolini l'Orso d'oro al festival di Berlino del 1972 e che fin da subito acquisì, per ciò, un certo grado di celebrità nel panorama cinematografico internazionale. Fu poi questo l'ultimo film a sfondo sessuale del quale egli poté seguire la vicenda processuale, conclusasi appena due anni prima la sua tragica scomparsa del 1975. L'inevitabile processo che seguì alla pellicola "Salò o le 120 giornate di Sodoma" (un film che non rientrava però nella Trilogia, e che verrà presentato al pubblico quando il regista era già morto da qualche settimana), infatti, che pure rappresentava il gesto supremo di sfida alla censura[7], avrà un esito scontato (anche) per l'assenza del suo principale imputato[8]. Inoltre, "I racconti di Canterbury", assieme agli altri due della Trilogia, rimangono il compimento di un percorso "estremo" che Pasolini, se anche fosse rimasto in vita, non avrebbe replicato. E' infatti nota la sua pubblica "abiura" del complesso filmico, pronunciata pochi mesi prima del suo omicidio.
Ma l'attenzione del giurista ricade fatalmente sul processo di Benevento per una più specifica ragione: in quell'occasione, infatti, Pasolini fu difeso da uno dei più illustri esponenti del pensiero giuridico del Novecento italiano: Alfredo De Marsico.
Invero, il clamore mediatico che suscitavano puntualmente i processi che lo vedevano coinvolto aveva già permesso al poeta di godere del patrocinio di alcuni giuristi accademici tanto noti quanto "illuminati": è il caso di Francesco Carnelutti, uno dei padri del diritto civile italiano, che difese Pasolini nel 1962. Ma l'intervento del giurista napoletano, personaggio molto vicino alle gerarchie fasciste, poi nominato ministro della Giustizia nel febbraio del 1943 (dunque, per pochi mesi, fino alla caduta del governo presieduto da Mussolini, il 25 luglio dello stesso anno) [9], ha una rilevanza simbolica ancora maggiore, che parla da sé: l'intellettuale comunista e provocatore difeso da uno dei giuristi di spicco del regime fascista, che aveva in qualche misura collaborato ai lavori preparatori di quello stesso codice su cui si chiedeva la condanna di Pasolini per oscenità delle sue opere.
Eppure, ripercorrendo i suoi lavori ed i suoi processi, non stupisce che il giurista campano, nonostante i trascorsi politico-ideologici, abbia accettato la difesa di Pasolini. La sua concezione del diritto penale, come rivelano i suoi scritti, fu sempre particolarmente garantista e ancorata ad alcuni principi - quali il divieto di analogia in materia penale, o la necessaria correlazione tra il reato ed il bene giuridico da proteggere [10] - il cui rispetto e la cui salvaguardia, nel pieno della dittatura, non era affatto scontato. E' anche per questa ragione che, secondo alcune fonti, Mussolini era solito descrivere De Marsico come un "liberale del fascismo"[11], mentre quest'ultimo ebbe a dire di sé: "il Partito mi considerava un fascista non conformista"[12].
Ed è certo questo, in prospettiva storiografica, l'aspetto di più grande rilevanza. L'aver voluto, proprio lui, ex membro del Gran Consiglio del fascismo, difendere Pasolini in quel processo, dimostra nitidamente come gli esponenti più importanti del pensiero giuridico del tempo potessero rivelarsi profondamente liberali (e certamente più "illuminati" di altri, che con il regime non avevano avuto nulla a che fare) pur essendo stati fascisti. O che, sovvertendo i termini di un noto articolo di Pasolini, si poteva professare senza alcuna contraddizione, almeno in campo giuridico, un certo "antifascismo dei fascisti"[13].
4. La vicenda processuale: analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna
A distanza di oltre quarant'anni, l'unico modo per ricostruire i percorsi processuali beneventani, evitando di cadere in ricostruzioni approssimate o, peggio, inesatte, è quello di ricorrere all'analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. Il fascicolo su "I racconti di Canterbury", come su molti altri processi, venne infatti formato verso la fine degli anni Settanta da Laura Betti, grande amica del poeta (morta nel 2004), che intendeva preservare la memoria della parabola pasoliniana finanche nei suoi aspetti più dolorosi: è dunque grazie a lei che oggi è possibile avvicinarsi alla verità storica di quei frangenti.
Orbene, la vicenda che ci occupa può essere suddivisa due tre tronconi: il processo principale per oscenità, svoltosi nei tre gradi di giudizio tra l'ottobre del 1972 e il dicembre 1973 e il parallelo procedimento d'esecuzione, avviato dalla difesa di Pasolini e del produttore del film Alberto Grimaldi, volto ad ottenere il dissequestro della pellicola.
Il poeta è dunque chiamato a rispondere del reato di cui all'art. 528 c.p. per aver dato, mediante il film, pubblico spettacolo di oscenità. Il processo segue senza intoppi l'iter che già era stato seguito negli altri processi che avevano riguardato i suoi film, e conduce ad una assoluzione piena. D'altronde, come si può leggere nella sentenza del tribunale, "la validità della direzione artistica, curata essenzialmente dal Pasolini, risulta dalla visione e dalla valutazione complessiva del film e dalla stessa personalità del regista, considerata la più significativa del secondo dopoguerra italiano"[14].
Non è giunta fino a noi, purtroppo, la trascrizione dell'arringa di De Marsico, tra le tante che sono poi state in seguito pubblicate, né ci sono giunti suoi appunti o riflessioni sul processo di primo o secondo grado. Secondo l'unica fonte che riporta la vicenda, egli "fornisce l'ennesima prova della sua limpida concezione dell'Avvocatura, nella quale il diritto alla libertà dell'individuo va anteposto a qualunque ragionamento di ordine politico"; mentre Pasolini, accanto, "ne resta ammirato, elogiandone il rigore semantico"[15].
Esiste però un passaggio (che merita di essere riportato per intero) tratto da una arringa fatta proprio in quegli anni, che - mutatis mutandis, e nonostante lo si estrapoli quasi forzosamente da un contesto del tutto diverso, ed in cui peraltro De Marsico difendeva non l'imputato, ma la parte civile - può forse consegnarci, con un margine di verosimiglianza accettabile, le parole che egli pronunciò innanzi alla Corte beneventana:
"Non sono qui, in quest'aula, uomini di lettere e artisti, poeti e pittori e drammaturghi che vengono a controllare se la loro stessa libertà di artisti non sia in pericolo e ad invocarne in muta ma tesa solidarietà la liberazione? Oseremo ancora retrocedere verso il medioevo, verso le tenebre di una ignoranza e di una barbarie anche più fitta di quelle medievali? E voi siete giudici o aguzzini e tiranni? Rappresentate lo Stato o un fideismo conventuale da respingere? Rappresentate la coscienza sociale e politica e morale del secolo o gli spettri assurdamente risorti dagli ipogei di una reazione che minaccia le conquiste più elementari ed essenziali del sapere e della libertà?"[16].
Arriviamo dunque all'ultimo passaggio del processo: la Corte di Cassazione, nel dicembre 1973, assolve in via definitiva gli imputati da ogni accusa [17]. Ai nostri fini è però interessante, al di là del dato di cronaca processuale, riprendere alcuni passaggi della memoria di Alfredo De Marsico e di Francesco Gianniti depositata in occasione della camera di consiglio dei giudici di Cassazione: stigmatizzando in essa la decisione di condanna della corte d'appello di Bologna intervenuta appena qualche mese prima in relazione al film "Ultimo tango a Parigi", basata su principi giuridicamente erronei, si rileva che "le sequenze presunte oscene suscitano più disgusto che erotismo, il che corrisponde alle asserite finalità del regista di demitizzare il sesso"; e, sopratutto, respingendo ogni concezione pedagogica dell'arte, si afferma - in linea con quanto già ribadito dalla Corte di Appello di Napoli nel procedimento de quo - che:
"occorre tenere ben distinto il principio etico-sociale sulla oscenità, che deve essere elaborato in relazione al sentimento medio del pudore, da quello esclusivamente filosofico di arte. Sono evidenti, per quanto riguarda quest'ultima indagine, l'impossibilità di fare ricorso a criteri empirici e la necessità per il giudice di interpretare il concetto di arte quale risulta recepito dal legislatore"[18].
È evidente - ed eloquente al contempo - come De Marsico vorrebbe che il concetto di arte "recepito" dal legislatore (fascista dell'epoca, potremmo aggiungere) venisse "interpretato" ed attualizzato dai giudici, riempiendosi di nuovi contenuti alla luce delle nuove sensibilità e delle tendenze attuali.
Il procedimento d'esecuzione volto al dissequestro della pellicola costituisce, come detto, il terzo troncone dell'affaire "Canterbury", quello che presenta più problematiche d'ordine giuridico.
Difatti, nonostante la sentenza di primo grado del 20 ottobre 1972 disponesse il dissequestro del film, lo stesso tribunale respingeva [19] la richiesta di immediata esecutorietà, sulla scorta del combinato disposto tra l'art. 240 c.p. in materia di confisca delle cose che servirono a commettere il reato e l'art. 622 c.p.p. (del previgente codice), che dispone, in via generale, la restituzione delle cose sequestrate solo dopo la sentenza irrevocabile di proscioglimento: insomma, non si poteva dare immediata esecuzione all'ordine di dissequestro poiché doveva pronunciarsi ancora il giudice d'appello.
La difesa guidata da De Marsico propone allora ricorso in Cassazione contro l'ordinanza, ricorso che viene accolto e che permette il dissequestro della pellicola. E' il 9 gennaio 1973, ed il film può finalmente tornare nelle sale cinematografiche grazie ad una nuova ordinanza del tribunale di Benevento.
Ma avverso tale incidente d'esecuzione - che la Cassazione aveva ritenuto ammissibile dal punto di vista procedurale - la Procura di Benevento ricorre nuovamente in Cassazione, la quale, con una decisione che non conosce precedenti, afferma il principio secondo cui la pellicola può essere dissequestrata solo a seguito di sentenza definitiva di assoluzione[20], annullando così l'ordinanza beneventana che disponeva il dissequestro. Il 2 aprile 1973 il film venne dunque nuovamente sequestrato (lo rimarrà fino al dicembre 1973, intercorsa la definitiva assoluzione degli imputati), scatenando una campagna di stampa contro la magistratura, oramai definita senza mezzi termini corpo fascista par excellance, braccio della censura del Governo[21].
È proprio in questa occasione, ed a fronte di queste problematiche, che emerge il profilo di fine giurista del Maestro, il quale, comprendendo la portata della questione giuridica che era stata posta dalla Procura prima, e del principio espresso dalla Cassazione poi, ingaggia una battaglia strenua con l'una e l'altra. L'Archivio Pasolini conserva la memoria (sottoscritta anche dall' avv. Giuseppe De Luca) che Alfredo De Marsico deposita presso la Cassazione in vista della decisione dell'aprile 1973 sul dissequestro del film. In essa, l'argomentazione si basa tanto su questioni di stretto diritto, tanto sui più importanti principi costituzionali: egli parte dall'art. 21 che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, passa sotto l'impalcatura dell'art. 33, a detta del quale l'arte e la scienza sono libere, per approdare infine all'art. 27 ed alla presunzione di innocenza costituzionalmente garantita. Ma non solo. Il giurista campano affronta anche il tema dell'eccessivo potere di cui gode la pubblica accusa in materia cautelare, il cui passaggio testale merita davvero di essere riproposto: "La libertà dell'arte restaurata dal giudice con la sentenza non può essere sottoposta ad una ulteriore "censura sospensiva" attuata "di fatto" mediante l'impugnazione di un organo (P.M.) che non gode costituzionalmente delle stesse garanzie di indipendenza del giudice (art. 107, ultimo comma)". Egli, dunque, così conclude: "Trattasi, evidentemente, più che di un sequestro a fini probatori, di una confisca anticipata del film, non prevista da alcuna norma di legge"[22].
Al di là della pregevole fattura della strategia difensiva, appare di tutta evidenza come De Marsico, il giurista di estrazione fascista, sia riuscito ad impostare la questione in termini non soltanto rigorosamente codicistici, ma anche - sopratutto - costituzionali; allargando così la vicenda oltre i suoi naturali confini e conferendo alla stessa un respiro "nazionale", una portata simbolica eccezionale, trasformandola in una "prova di resistenza" del principio di libertà di manifestazione del pensiero, come di altri fondamentali principi. La contemporaneità culturale e giuridica di De Marsico si schiude così agli occhi dello storico, come a quelli del giurista.
5. Il (difficile?) rapporto tra Pasolini e De Marsico: alcune interpretazioni
La società italiana che assiste al processo su "I racconti di Canterbury" sembra ancora spaccata, tra coloro che non intendevano arretrare d'un passo sul terreno del pudore e della morale pubblica e coloro che, all'opposto, sembravano pronti a cavalcare la "rivoluzione culturale" partita nel 1968. Fuori dai tribunali, dove veniva giudicata una figura così controversa qual era quella di Pier Paolo Pasolini, si svolgevano in parallelo, nell'opinione pubblica, processi ai processi, e ci si divideva puntualmente i ruoli: innocentisti da una parte, colpevolisti dall'altra.
Dunque, a concentrare la curiosità collettiva era il processo in sé, e l'atteggiamento dello stesso Pasolini davanti ai giudici e alla stampa, non certo i profili dei suoi avvocati, né tantomeno le loro strategie difensive. Le cronache dell'epoca danno, dei processi pasoliniani, pochissimo rilievo a tali personaggi.
Eppure, il rapporto tra Pasolini e De Marsico acquista d'un tratto rilevanza nell'opinione pubblica, ma tempo dopo le vicende processuali di cui si è dato conto. A processo oramai concluso infatti, il 19 gennaio 1975, dalle colonne del Corriere della Sera, Pasolini si prese "una piccola vendetta contro De Marsico"[23], per aver dichiarato, quest'ultimo, inammissibile il rapporto omosessuale in quanto inutile alla sopravvivenza della specie: "ora, egli, per essere coerente, dovrebbe, in realtà, affermare il contrario: sarebbe il rapporto eterosessuale a configurarsi come un pericolo per la specie, mentre quello omosessuale ne rappresenta una sicurezza"[24].
Si tratta di un "colpo basso", sferrato nell'ambito di un dibattito giornalistico sull'aborto. Lo stesso De Marsico, che non risponderà mai all'intellettuale per mezzo stampa, nei suoi diari annota la circostanza [25], e pochi giorni dopo riporterà sullo stesso quaderno personale, con velata ma percettibile amarezza: "Il mio nome non è fatto nelle cronache se non accompagnato dalla notazione di ciò che, da anni, si ripete stucchevolmente e che sanno anche le pietre e gli incavi in cui sono infisse: che ho più di 85 anni, che non sono ancora morto, e che mi batto con energia e lucidità e che (dimenticavo), sono stato il collaboratore di Mussolini"[26].
All'affermazione di Pasolini seguiranno poi alcune repliche, tra cui quelle di Umberto Eco e di Giorgio Bocca [27], i quali, pur mai citando il giurista campano, verranno comunque bollati da Pasolini - con l'intento evidente di inasprire il dibattito - come "compari di De Marsico"[28].
Ora, ci pare di scorgere, anche a distanza di quarant'anni, una polemica di bassa lega, puramente provocatoria (in pieno stile pasoliniano, del resto), e ci è difficile dire in che misura il suo attacco nei confronti del giurista (che Pasolini pubblicamente definiva "il mio amico De Marsico"[29]) debba essere considerato meramente strumentale; dall'altra parte, invece, così si esprimeva De Marsico nei confronti di Pasolini: "scrittore salace, ma libero e non legato ad alcun pregiudizio né compromesso. Lo preferisco come poeta; sommo come regista, quando non scivola nell'osceno, dalle cui conseguenze l'ho salvato tirandolo per i capelli"[30].
Al di là delle apparenze, sulla cui superficie si possono prefigurare frizioni ideologiche, il rapporto si è instaurato: i due personaggi avevano, del resto, un profilo ideologico meno marcato di quanto si possa immaginare[31], e i due - sulla scorta dei documenti di cui disponiamo - godevano l'uno della stima dell'altro, come abbiamo appena visto. Rimane però una fonte di curiosità difficile da soddisfare il fatto che Pier Paolo Pasolini abbia scelto proprio Alfredo De Marsico come suo difensore (e viceversa). Le interpretazioni che di questa relazione possono essere date sono tante, tantissime, e molte di esse, del resto, sono già affiorate: ad esempio, allorquando si è messo in evidenza il ruolo di Maestro del diritto di De Marsico, il suo non aver mai abbandonato, neppure in pieno regime, importanti principi di garanzia in materia penale, il suo - per utilizzare un'espressione semplicistica ma efficace - "antifascismo dei fascisti".
Ma è alle riflessioni di Mauro Mellini che intendiamo affidare l'ultimo, più importante, spunto interpretativo, giacché nessuno meglio di lui può immaginare come e perché questo rapporto si sia istruito: egli era infatti, negli anni Settanta, uno dei più noti avvocati italiani, un conoscitore profondo di quel mondo forense; ma sopratutto, è stato uno dei principali esponenti del Partito radicale, alle cui battaglie Pasolini spesso si era affiancato, negli ultimi anni della sua vita. Mellini, dunque, così legge in controluce l'incontro tra Pasolini e De Marsico:
"Alfredo De Marsico è stato uno dei più grandi avvocati italiani. Uno degli ultimi di quella “scuola napoletana” per la quale l’avvocato “principe del Foro” era una sorta di distillato dello spirito della città. Malgrado le sue vicende politiche Alfredo De Marsico era “soprattutto avvocato”. Ed ancora, nel 1972, quell’essere “grande avvocato” metteva in ombra ogni qualifica politica. [...] Nel 1972 si erano cancellati molti solchi tra gli italiani. E non se ne erano aperti del tutto altri che furono poi capaci di produrre follie e sangue. Ma, soprattutto, nel 1972 il processo penale non aveva quella connotazione politica che in seguito la “giustizia di lotta” di certi magistrati e la testimonianza politica degli stessi imputati nei processi trasformarono in eventi nei quali la sigla politica, la Sinistra e la Destra marchiarono tutti, giudici, P.M., avvocati, oltre agli imputati.
Così quel “grande avvocato” poté essere ancora il difensore dell’eretico comunista anche a prescindere dal fatto di essere stato, nei fatti se non anche nelle teorizzazioni, un “eretico fascista”. Credo che Alfredo De Marsico sentisse fortemente quell’essere “avvocato prima di tutto”. E mi piace pensare che Pier Paolo Pasolini lo abbia capito e lo abbia apprezzato, magari simulando di imporsi solo di tener conto delle “capacità tecniche” del difensore"[32].
6. Spunti conclusivi di riflessione
"Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere, ha creato una situazione altrettanto e forse più insana di quella dei tempi della povertà"[33]. L'impegno intellettuale di Pasolini era rivolto proprio contro questa falsa libertà sessuale, e le sue opere rappresentano il punto più alto di una provocazione puramente artistica, che non conoscerà eredi, né sarà mai più replicata: la sua vicenda può essere immaginata come un prisma, esemplare unico, dalle molte sfaccettature, in cui anche il diritto penale si specchia nella facciata che gli appartiene.
Per quanto ci concerne, il processo di Benevento - che è, come abbiamo visto, il proscenio dell'incontro tra Pasolini e De Marsico - rappresenta un'occasione formidabile per verificare, in un certo qual modo, a che punto fosse, nella prima metà degli anni Settanta, il processo di faticoso superamento dei retaggi culturali e giuridici in cui la società italiana era avvinta fin dalla caduta del fascismo. La sequenza beneventana permette, più in particolare, a due vicende personali che possono dirsi, ciascuna nei propri ambiti, ideali, di "illuminarsi" reciprocamente: da un lato ritroviamo Pasolini, "simbolo di tutto ciò che conservatori e fascisti in particolare odiano visceralmente"[34]; dall'altro De Marsico, il giurista più fine ma anche più "liberale" del regime (anzi, "dello Stato", come lui stesso ebbe a dire). Un rapporto all'apparenza impossibile, ma che pure si è istituito, si è alimentato e segna la congiuntura tra due mondi. E' stato Mauro Mellini, del resto, ad illustrarcelo magistralmente.
Insomma, in chiusura, potremmo anche dire che l'assunzione della difesa di Pasolini da parte di De Marsico ribadisce, sul fronte penalistico ove si collocava quest'ultimo, l'originalità liberale e l' "onestà" scientifica di un Maestro, il cui pensiero giuridico, nonostante avesse raggiunto la piena maturazione nel "ventennio", ha sempre mantenuto un atteggiamento di autonomia ed anzi, di distacco; ed una presa di distanza - per certi versi clamorosa, ma pienamente compatibile con il suo "modo" di essere stato fascista - dagli ambienti politici neofascisti dell'epoca, nei quali De Marsico non volle mai penetrare [35]; e sostanzia, sul fronte artistico di Pasolini, l'ennesima provocazione scagliata addosso ad una società ancora divisa tra clericali e atei, democristiani e comunisti, fascisti e antifascisti.
Come se, davanti all'opinione pubblica, si fosse incaricato di affermare "tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo"[36], come recita la sua più nota poesia: un atteggiamento, quello della scissione dei due piani - quello delle implicazioni ideologiche del passato e quello prettamente artistico-professionale - , che non difettò mai lungo il suo percorso intellettuale.
È, dunque, per queste ragioni che il film "I racconti di Canterbury", ed il seguente processo svoltosi a Benevento tra il 1972 e il 1973, ci fornisce lo spaccato ideale illustrativo dei rapporti - meno scontati di quanto si potesse immaginare in un primo momento - che intercorrono tra il pensiero pasoliniano e quello di De Marsico, tra il variegato mondo culturale e quello giuridico, attraversati entrambi da istanze e contributi d'ogni genere, e riesce ancora - ed il processo è di per sé impegnativo in tema di suggestioni - ad offrire un rimando quasi metafisico, certamente letterario, e probabilmente impossibile da replicare oggigiorno.
[1] P.P. Pasolini, Abiura della Trilogia della vita, in Lettere luterane, Torino, 1980, p. 71.
[2] Vd. quanto egli afferma in Cani (inedito), in Scritti corsari, 8° ed., Milano, 2011, p. 121.
[3] Citato in B. Castaldo, Imputato Pasolini: un caso di "diritto e letteratura", in Lawton - Bergonzoni (a cura di), Pier Pasolini. In living memory, Washington, 2009, p. 240 ss.
[4] Va nondimeno ricordato che l'espressione è divenuta d'uso comune soltanto con la pubblicazione del pamphlet di D.S. Larivière, Il circo mediatico-giudiziario (trad. it.), Macerata, 1994.
[5] "E' perfino banale scrivere che non ci sono tanti processi quanti sono i procedimenti giudiziari iniziati contro Pier Paolo Pasolini e che c'è, invece, un processo solo, ininterrotto per almeno vent'anni, che si gonfia e si assecchisce, si dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità: mettere in dubbio la legittimità dell'esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana": S. Rodotà, Un solo processo, in L. Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, 1977, p. 279.
[6] In letteratura, l'unico (breve) riferimento al significativo incontro tra Pier Paolo Pasolini e Alfredo De Marsico si rinviene nella nota di D. Zampelli, Pasolini, l'assoluzione di Benevento, in La voce del Foro (rivista dell'Ordine degli Avvocati di Benevento), n. 4/2006, a margine della pubblicazione della sentenza in parola.
[7] Commentando l'uscita del film con l'editore Livio Garzanti, Pasolini affermò che lo aveva voluto come "ultima sfida alla censura" e aggiunse: "se lo lasciano passare, la censura non c'è più". Così rivela lo stesso Garzanti in Post-scriptum, in L. Betti (a cura di), Pasolini, cit., p. 404.
[8] Il produttore del film, Alberto Grimaldi, che divenne a quel punto il principale imputato dei processi che verranno celebrati per oscenità, verrà infine assolto e il film dissequestrato, ma a condizione di alcuni tagli per complessivi 5 minuti.
[9] Alfredo De Marsico, oltre ad essere deputato nazionale dal 1924, fu membro della commissione parlamentare per la riforma dei codici dal 1925 al 1942 e, come detto, ministro della Giustizia dal 6 febbraio al 25 luglio 1943.
[10] Egli, inoltre, aveva assistito con preoccupazione al progressivo allineamento ideologico con il nazismo tedesco, che riteneva in contrasto con i principi della civiltà giuridica italiana: cfr., ad es., A. De Marsico, Prime linee della riforma hitleriana del diritto penale, in Riv. pen., 1934, p. 18 ss.; Id., Dogmatica e politica nella scienza del diritto penale, in Annali dir. e proc. pen., 1941, p. 484 ss.
[11] Vd. P. De Luca, Alfredo De Marsico, il penalista emulo di Demostene, in La Repubblica, 7 agosto 2010.
[12] In M. Bianchi, Come e perché cadde il fascismo. 25 luglio crollo di un regime, Milano, 1970, p. 281; nello stesso volume si riporta un fatto vieppiù significativo: De Marsico avrebbe assunto il suo incarico ministeriale presentando a Mussolini un programma di poche righe, tra cui l'affermazione: "nessun favore ai fascisti, nessuna persecuzione agli antifascisti. Sarò il Ministro dello Stato e non del Regime" (p. 281): una dichiarazione al limite dell'incredibile, assumendo come punto di riferimento l'allineamento assoluto alle direttive del fascismo che era richiesto a tutti gli uomini che ricoprivano cariche pubbliche, ed in particolare a coloro che erano parte del Governo.
[13] Il riferimento è a P.P. Pasolini, Il fascismo degli antifascisti (apparso col titolo "Apriamo un dibattito sul caso Pannella" sul Corriere della Sera del 16 luglio 1974), in Scritti corsari, cit., p. 65.
[14] Tribunale di Benevento, sentenza n. 308 del 20 ottobre 1972 (dep. 26 ottobre 1972). Ed anzi, i giudici si profondono in considerazioni elogiative de "I racconti di Canterbury": "Il film è opera valida a rinfacciarci i mali spesso ipocritamente celati; incita lo spettatore a riflettere sulla propria condizione e a sperare in un mondo individualmente e socialmente migliore. Opera d'arte, dunque, anche per il contenuto d'intuizione universale, per la fiamma ideale che risuscita, per l'elevatezza dell'aspirazione mistica cui conduce". Pertanto, "responsabilmente ed obiettivamente il Tribunale ravvisa nel film giudicato il carattere dell'opera d'arte tale da soverchiare largamente le oscenità e le scurrilità strumentalmente contenutevi; conseguenzialmente, a norma del capoverso dell'art. 529 c.p., e nel superiore interesse delle libertà dell'arte di cui all'art. 33 Cost., serenamente assolve gl'imputati perché il fatto non costituisce reato". La sentenza verrà poi confermata nei medesimi termini dalla Corte di Appello di Napoli nel luglio del 1973.
[15] D. Zampelli, Pasolini, cit.
[16] A. De Marsico, Arringhe, vol. V, Napoli, 1975, p. 325.
[17] Corte di Cassazione, sez. III penale, sent. n. 2073 del 20 dicembre 1973 (dep. 5 agosto 1974). La sentenza, peraltro, contiene passaggi interessanti, che rivelano interpretazioni giuridiche "eccentriche". Si consideri ad esempio quanto si afferma sulla valutazione dell' "opera d'arte": "è al complesso unitario dell'opera che occorre fare riferimento per stabilire, conformemente ai canoni dell'estetica crociana cui si ispira il vigente codice penale [risulta cancellato a penna: "recepita dal nostro Codice penale"] se l'opera manifesti una qualche intuizione, come oggettivazione di impressioni spirituali tradotte in espressione, giudizio cui deve essere estranea ogni suggestione che tenda a limitare la libertà dell'artista".
[18] De Marsico - Gianniti, Memoria nell'interesse di Alberto Grimaldi e Pier Paolo Pasolini, 30 novembre 1973, conservata presso l' Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna.
[19] Tribunale di Benevento, ordinanza del 7 novembre 1972, che afferma l'inammissibilità dell'incidente di esecuzione.
[20] Cassazione, sez. III penale, sentenza del 2 aprile 1973, in Foro it., vol. 96, 1973, p. 299 ss. Tale principio sarà poi superato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 82 del 27 marzo 1975, che dichiarerà costituzionalmente illegittima la tesi della Suprema Corte a proposito del sequestro del film "Nanà 70".
[21] La stampa consumò tutti i possibili titoli ad effetto: si guardi, ad esempio, quello de Il Messaggero del 3 aprile 1973: "Un film è colpevole finché non sia dimostrata la sua innocenza per tre volte di seguito". Cfr. anche l'articolo di N. Ajello, Da oggi c'è la censura, in L'Espresso, 8 aprile 1973, in cui il giornalista, penna di spicco del settimanale, afferma: "siamo fra coloro che si accaniscono a pensare - nonostante le brucianti smentite periodicamente offerte dalla cronaca - che il nostro paese sia ancora fornito di clandestine risorse capaci di fermare il suo ultimo passo verso il baratro dell'imbecillità. La più efficace di queste risorse potrebbe essere la sua propensione a non obbedire mai alle leggi, e perciò neppure, provvidenzialmente, a quelle assurde".
[22] Non inopportunamente si segnala che De Marsico, proprio in quegli anni, si batteva all'interno del mondo forense (in specie, nei Congressi nazionali dell'Avvocatura) sostenendo la tesi della necessaria "apoliticità" della magistratura e del singolo magistrato, che deve rimanere fedele all'interpretazione e all'applicazione della legge sulla scorta di scelte politiche già compiute dagli organi preordinati ad esprimere la volontà popolare, così da essere completamente obiettivo e imparziale. Egli avanzava così, in tempi "non sospetti", il tema del rapporto tra politica e magistratura, attirandosi le critiche degli ambienti di sinistra, che bollava la sua tesi dell' "apoliticità" come "aberrante" e "reazionaria". Il quadro è ben tratteggiato da L. Caponi, "Apoliticità": una tesi reazionaria, in L'Unità, 8 settembre 1973.
[23] P.P. Pasolini, Cani, cit., p. 116.
[24] P.P. Pasolini, Il coito, l'aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti (apparso sul Corriere della Sera del 19 gennaio 1975 con il titolo "Sono contro l'aborto"), in Scritti corsari, cit., p. 102.
[25] De Marsico parla dell' "articolo di Pasolini", senza null'altro specificare, il 21 gennaio 1975, come risulta nel volume che raccoglie i suoi appunti personali: A. De Marsico, "Il sole tramonta sul tavolo di questa Corte di Assise", Fasano, 1989, p. 60.
[26] A. De Marsico, "Il sole tramonta", cit., p. 62.
[27] Rispettivamente su Il Manifesto del 2 febbraio 1975 e su l'Espresso del 6 febbraio 1975.
[28] P.P. Pasolini, Cani, cit., p. 119.
[29] P.P. Pasolini, Il carcere e la fraternità dell'amore omosessuale, in Scritti corsari, cit., p. 198.
[30] A. De Marsico, "Il sole tramonta", cit.,p. 61.
[31] Con riguardo a Pasolini, si veda quanto egli afferma sul Corriere della Sera del 4 febbraio 1973: "Quanto poi ai miei attuali interessi ideologici, il loro insieme è troppo complesso e anche contraddittorio per poter essere qui definito". Su De Marsico, invece, già molto si è detto: basti ricordare, comunque, che - pur non rinnegando mai il fascismo né, però, quel voto nel Gran Consiglio che contribuì a demolirlo - tornò in Parlamento negli anni Cinquanta non nelle file dei "nostalgici" del M.S.I., partito dichiaratamente fascista: coerente con quel suo voto di sfiducia nei confronti di Mussolini, si presentò al Senato con il partito monarchico che, più che "nostalgico", era "vagheggiatore" di una Monarchia inesistente fin dai tempi della prima guerra mondiale.
[32] Così Mauro Mellini, rispondendo per iscritto alle sollecitazioni sul punto fatte dell'autore di questo articolo, in una lettera del 30 aprile 2015.
[33] P.P. Pasolini, Il coito, cit., p. 99.
[34] Ivi, p. 153.
[35] Ad ogni modo, la sensazione è che, con il passare del tempo, la figura di De Marsico si stia gradualmente nobilitando. Si prenda, ad esempio, il recente contributo elogiativo di V. Siniscalchi, La parola civile di De Marsico, in La Repubblica, 24 marzo 2006.
[36] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Le ceneri di Gramsci (5°ed.), Milano, 2009, p. 51.