Ponti versus muri, o muri e ponti. 1) Il ponte di La Pira contro la guerra del Vietnam
di Augusto D’Angelo*
Nel dicembre 1967 apparve un articolo di Giorgio La Pira dal titolo Per la pace in Medio Oriente[1]. Lo stesso articolo fu poi ripreso anche col titolo Abbattere i muri e costruire ponti in un volume apparso nel 1971 che raccoglieva diversi suoi interventi[2]. Quest’ultimo titolo è stato poi utilizzato in una voluminosa edizione delle lettere di La Pira a Paolo VI perché ben coglieva uno dei capisaldi dell’azione del sindaco «santo» che fece di Firenze, sua città d’adozione, un laboratorio di pacificazione[3]. Nata per descrivere l’esigenza di uscire dalla logica della contrapposizione in Medio Oriente dopo la guerra dei sei giorni, quella indicazione ha avuto il merito di definire una strategia di lungo periodo, che con alterni successi, ha accompagnato la vita di La Pira ma ha caratterizzato anche la politica estera italiana.
In queste poche pagine vorrei far riemergere una pagina della vicenda lapiriana che mi sembra illustri pienamente il senso di quella frase.
A metà degli anni Sessanta del secolo scorso c’era un tema che assillava le cancellerie mondiali e gran parte dell’opinione pubblica: la guerra del Vietnam. In quel Paese diviso in due lungo il 17° parallelo dagli accordi di Ginevra del 1954 si era accesa una delle pagine più roventi della guerra fredda, che si intrecciava con il processo di decolonizzazione in atto in molti paesi del sud del mondo. Parte del mondo cattolico guardò a quel conflitto con angustia e ci fu chi si incamminò alla ricerca delle vie praticabili per una pacificazione. Il papa – all’epoca Paolo VI – diede voce ad appelli di pace per la durata dell’intero conflitto. Amintore Fanfani – profondamente legato a La Pira - si attivò su quel fronte sia in qualità di Ministro degli esteri che come Presidente dell’Assemblea generale dell’ONU, al fine di individuare itinerari di distensione praticabili.
L’Italia si mosse in tre diverse occasioni per favorire un accordo per il cessate il fuoco e l’apertura di negoziati in Vietnam. La prima volta fu proprio La Pira, senza alcun mandato ufficiale, e parallelamente alla diplomazia, a prendere una iniziativa recandosi nel 1965 ad Hanoi. Raccolse l’apertura nordvietnamita ad un negoziato, ma gli statunitensi la lasciarono malamente cadere[4]. Fu poi la volta dell’operazione Marigold[5], che nel 1966 vide protagonisti l’ambasciatore Giovanni D’Orlandi, l’esponente polacco Janusz Lewandowsky e l’ambasciatore statunitense Cabot Lodge. Seguì l’operazione Killy, tra 1967 e 1968, che per la diplomazia italiana e lo stesso D'Orlandi rappresentò il momento di un formale riconoscimento da parte dei nordvietnamiti e degli statunitensi del ruolo di mediatori, anche se alla fine si trattò di un ulteriore insuccesso.
Furono tre tentativi segnati dal fallimento, ma ebbero l’immenso merito di tener vivo il tema della ricerca di un negoziato, della strategia dell’abbattere muri e costruire ponti. Al negoziato si sarebbe approdati solo nel 1968, con il Presidente americano Richard Nixon e il Segretario di Stato Henry Kissinger, e con la successiva apertura della Conferenza di Parigi.
Alcuni esponenti del mondo diplomatico, politico e religioso italiano, nonostante i venti contrari, avevano continuato a credere alla possibilità di giungere ad una soluzione pacifica del conflitto[6]. E
tra questi va ricordato sicuramente La Pira. Egli, che sin dall’inizio del conflitto chiese al papa di assumere iniziative decise[7], si rese poi protagonista in prima persona di un’azione politicamente coraggiosa.
Il 20/10/1965 La Pira decollò da Roma per raggiungere Hanoi, accompagnato dal giovane matematico Mario Primicerio che ha ricostruito recentemente in dettaglio l’azione del già sindaco di Firenze sul tema del Vietnam ed il viaggio compiuto per parlare con Ho Chi Min[8].
Di quel viaggio La Pira aveva dato comunicazione a Paolo VI con una lettera del 19/10/1965, mettendo l’iniziativa in rapporto con una sorta di mandato di cui egli si sentiva investito a seguito del discorso di papa Montini all’ONU contro la guerra:
«Sembra quasi, questo viaggio, una conseguenza del Vostro appello di disarmo e di pace; una esecuzione, in certo senso, del mandato che Voi avete affidato a tutti gli uomini per la edificazione "immediata" della pace! Se questo viaggio riesce (chissà! potrebbe anche riuscire) esso sarà davvero il primo frutto dell’albero di amore fraterno piantato da Paolo VI nella terra del Palazzo di Vetro»[9].
La Pira aveva lavorato a lungo a quella iniziativa, già dai primi momenti in cui si era avviato il conflitto, nel 1964. Quando era ancora Sindaco di Firenze aveva lanciato un appello al Segretario Generale dell’ONU e ai capi di Stato che facevano parte della Commissione internazionale di controllo per l’attuazione degli Accordi di Ginevra del 1954, perché si desse immediatamente inizio ad un negoziato tra le parti in conflitto, e ricevette una lettera di Ciu en Lai che lo invitava a favorire ulteriori interventi per la pace. Inoltre, a distanza di qualche mese, aveva organizzato un incontro internazionale di studio sulla questione del Vietnam[10]. L’iniziativa si era concluse con un appello ai governi di Canada, Francia, India, Polonia, Stati Uniti Unione Sovietica, Vietnam del Nord, Vietnam del Sud e ai rappresentanti del Fronte di liberazione del Vietnam del Sud in cui si leggeva, tra l’altro: «La nostra lettera è un segno augurale di questo spirito: è un messaggio da Firenze , indicante che il fuoco della guerra può cessare, che un incontro per la pace in Asia è realizzabile, che le basi di una pace totale nel Vietnam, nell’Asia e nel mondo possono gettarsi»[11].
Il leader del Vietnam del Nord, Ho Chi Minh, rispose a quella lettera, indicando le condizioni di Hanoi per ristabilire la pace[12].
E poi giunse il momento del viaggio verso Hanoi le cui tappe sono ricostruibili grazie al dettagliato diario di Primicerio: il 20 ottobre il volo da Roma a Varsavia con scalo a Zagabria; la lunga permanenza a Varsavia per attendere i permessi vietnamiti per continuare la missione, e la possibilità di visitare Cracovia e Auschwitz; il 31 /11 il volo a Mosca, il 5/11 quello per Omsk e Irkutsk, ed poi l’arrivo a Pechino il 6/11. L’8/11 l’arrivo ad Hanoi e l’11/11 l’incontro con Ho Chi Min al termine di diversi incontri interlocutori con i suoi collaboratori. Il 12/11 la partenza da Hanoi con scalo e Wuhan e l’arrivo a Pechino, il 13/11 il volo per Mosca ed il 14/11 il ritorno a Roma via Parigi.
Un viaggio che Primicerio ha definito «lungo e avventuroso»[13], ma che contribuì a lanciare un ponte tra due mondi in conflitto che non si parlavano. Non è questa la sede per ripercorrere i particolari del tentativo, ma è ormai possibile affermare che l’iniziativa di La Pira, che poteva contare sul sostegno di Fanfani, all’epoca Presidente dell’Assemblea dell’ONU, aveva ottenuto una disponibilità vietnamita ad aprire un canale di trattativa anche in assenza del ritiro statunitense. Era un elemento nuovo e sostanziale, che La Pira così raccontava al papa nel suo resoconto del viaggio: «[…] perché il negoziato cominci non si richiede preliminarmente (ecco la grossa e significativa novità) l'immediato ritiro delle truppe americane e straniere presenti nel territorio del Vietnam»[14].
Nella stessa lettera La Pira dava conto a Paolo VI delle posizioni del leader nordvietnamita e spiegava il valore della novità: «Ho Chi Minh ci disse: sono pronto ad andare dovunque e ad incontrarmi con chicchessia per cominciare questo negoziato! Per valutare il peso della novità emersa nei nostri colloqui di Hanoi, bisogna pensare che sino alla nostra visita ad Hanoi veniva sempre posta, come condizione per aprire il negoziato, la richiesta della partenza preliminare delle truppe americane e straniere da tutto il territorio del Vietnam ("sino a quando vi sarà un soldato americano non inizieremo alcun negoziato"): l'aver ceduto su questo punto così essenziale e di tanto peso militare e politico, costituisce, davvero una prova significativa e grande di buona volontà da parte del Vietnam (o dei Vietcong) per la edificazione effettiva della pace!».
Di questo era convinto La Pira, che pure in tanti consideravano ingenuo, troppo sognatore, un mistico lontano dalle dinamiche della realpolitik. Eppure l’uomo era completamente immerso nel suo tempo e ben lo conosceva. Le parole che nella lettera al papa dedica alle divisioni statunitensi mostrano una consapevolezza informata delle dinamiche in atto: «Le correnti politiche kennediane (Fulbright, Mansfield, B. Kennedy, Morse e tanti altri, e le università e gli studenti di America) si fanno più risolute nel chiedere la cessazione di questa guerra triste, inutile, ed anche stupida! Ma anche "i generali" hanno aumentato ed aumentano la loro pressione di terrore! Povera gente, quella del Vietnam, terribilmente sottoposta (con la scusa fasulla dell'anticomunismo) a bombardamenti crudeli ed a crudeli sofferenze senza ragione! Dove si giungerà per questa via? Al bombardamento di Hanoi? Delle dighe? Potrebbe scoppiare il mondo se si toccano queste polveriere della storia presente delle nazioni. Bisogna impedire ad ogni costo questo allargamento della guerra e questa "esplosione della terra"».
Ma da parte statunitense non ci fu la volontà politica di andare a verificare la possibilità.
Quella speranza fu “bruciata” dai settori statunitensi contrari a qualsiasi trattativa. Bastò un articolo di giornale. Il giornalista Richard Dudman, corrispondente da Washington del «Saint Louis Post Dispacth», nell’edizione del 17/12/1965 scrisse della missione di La Pira ad Hanoi; il giorno successivo i maggiori quotidiani USA, «New York Time», «Washington Post», «New York Herald» ed altri, resero noto un carteggio tra i Ministro degli Esteri Fanfani, il Presidente Johnson e il Segretario di Stato Rusk, bruciando l’iniziativa italiana[15], visto che la disponibilità negoziale di Ho Chi Minh era legata alla assoluta segretezza.
La Pira, nella sua visione, era consapevole che un muro innalzato porta ad altri muri, e che una barriera abbattuta può innescare un processo virtuoso di abbattimenti progressivi. Per questo il Vietnam mantenne per lui una importanza centrale. Nella mancata pacificazione vedeva la fonte di molti problemi che segnavano l’epoca e rispetto ai quali le leadership mondiali sembravano – a suo giudizio – guardare a modelli superati. Bisognava guardare a nuove frontiere verso le quali la pace in Vietnam era l’inevitabile primo passo.
Scriveva nell’aprile 1968 a Paolo VI: «Quali frontiere? Beatissimo Padre: chi può negare che queste frontiere nuove, inevitabili, siano quelle della pace universale (del disarmo), cominciando dalla pace del Vietnam? Il "punto sismico" è il Vietnam: esso ha prodotto in questi 3 anni (65/68) effetti paurosi:
1) ha condotto il mondo al limite del disastro nucleare (500.000 megaton sono pronti per distruggere il pianeta);
2) ha provocato la "rivolta dei giovani" e la "rivolta dei neri" in America, spezzando in due l'America;
3) ha provocato la "rivolta dei giovani" in tutti i continenti;
4) ha immesso nel mondo il veleno della violenza!
Non solo: ma esso ha provocato altri effetti paurosi:
1) ha scosso "i poveri" di tutti i continenti; gli affamati di tutti i continenti (la collera dei poveri!) (America Latina insegni!);
2) ha provocato il terremoto militare e politico del M. O. e del Mediterraneo;
3) ha scosso dalle fondamenta tutto l’edificio politico, culturale, economico, finanziario degli S.U., cioè del "pilota del mondo"! E questo edificio non può più restare così ferito: ha bisogno di trasformazioni qualitative capaci di modificarlo e di aprirlo (aprire finestre vaste) in tutte le direzioni del mondo»[16].
E tornava sul tema alla fine del 1968 in una nuova lettera a papa Montini: «La pace del Vietnam non è solo del Vietnam: essa non può non essere posta che nei termini della pace del mondo: soluzione del problema del mondo (unica, in certo senso; somma, in ogni caso: condiziona tutti gli altri problemi): quello del disarmo atomico; disarmo completo e generale: quello, cioè, della coesistenza pacifica »[17].
Di quell’esperienza rimane qualche traccia? Di getto, a guardare i dati della cronaca, verrebbe da rispondere di no.
Viviamo in una stagione in cui il conflitto è tornato ad essere considerato un modo per risolvere i contrasti di carattere internazionale. Le guerre hanno moltiplicato il loro numero. Inoltre, quanti avevano sognato dopo l’89 il crollo di tutti i muri oggi paiono increduli ed inermi di fronte ad una deriva che appare triste. Alcuni popoli, che dietro alla cortina di ferro avevano vissuto per parecchi decenni, si fanno protagonisti dell’innalzamento di nuovi muri. Chi da una barriera era reso prigioniero, e aveva sognato per decenni di abbatterla, oggi alza nuovi muri. Il fine? Evitare che uomini e donne, in cerca per sé e i propri figli di un futuro con pane, pace e libertà, possano trovarlo proprio in terre che da pochi decenni sono state liberate da penuria di beni, violenza ed oppressione.
Eppure dovrebbe essere ormai consapevolezza comune che non ci si difenderà da guerre e conseguenti migrazioni costruendo nuovi muri.
Papa Francesco sul volo di ritorno dal suo recente viaggio a Cipro e in Grecia non a caso ha affermato: «Ora è di moda fare muri o fili spinati o anche il filo con le concertinas (gli spagnoli sanno cosa significa). È usuale fare queste cose per impedire l’accesso. La prima cosa che io direi è: pensa al tempo in cui tu eri migrante e non ti lasciavano entrare. Eri tu che volevi scappare dalla tua terra e adesso sei tu a volere costruire dei muri. Questo fa bene. Perché chi costruisce muri perde il senso della storia, della propria storia. Di quando era schiavo di un altro Paese. Coloro che costruiscono dei muri hanno questa esperienza, almeno una gran parte: quella di essere stati schiavi»[18].
Il ricordo e la consapevolezza delle condizioni del proprio popolo in stagione passate dovrebbe rendere ogni Paese – tanto a livello di governo quanto nelle opinioni pubbliche - maggiormente prudente rispetto all’attitudine alla chiusura delle proprie frontiere.
In questo senso l’esempio e le indicazioni di La Pira restano preziose. Egli si dedicò ad edificare ponti tra mondi culturali, ideologici e geografici assai lontani. Non sempre ebbe un riscontro positivo alle sue iniziative, ma non rinunciò mai, convinto che fosse quella la strada maestra da percorrere, quello che chiamava «il sentiero di Isaia».
*Augusto D'Angelo insegna Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche di «Sapienza».
[1] Giorgio La Pira, Per la pace in Medio Oriente, in «Note di cultura», 1968, pp. 55-60.
[2] Id., Unità, disarmo e pace, Cultura editrice, Firenze 1971, pp. 83-89.
[3] Id., Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, a cura di Andrea Riccardi e Augusto D’Angelo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015.
[4] Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia. Scritti e discorsi, (1965-1977), a cura di Gianni Giovannoni e Giorgio Giovannoni, Cultura nuova, Firenze 19963 .
[5] Mario Sica, Marigold non fiorì. Il contributo italiano alla pace in Vietnam, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991.
[6] Giovanni D'Orlandi, Diario Vietnamita (1962-1968), 30Giorni Edizioni, Roma 2006.
[7] Nel giugno 1965 gli aveva scritto: «Qualunque iniziativa di pace voi prenderete – anche la più ardimentosa, anche la più ardimentosa, anche la più impensata, anche la più “imprudente” – essa sarà accolta con gioia dai popoli e dagli stessi americani, i quali – in ultima analisi – desiderano che una somma autorità (quale è la Vostra) li faccia uscire dal pantano in cui si sono inoltrati senza sapere come fare a uscirne». La Pira a Paolo VI, 28/6/1965.
[8] Mario primicerio, Con La Pira in Vietnam, Edizioni Polistampa, Firenze 2015.
[9] La Pira a Paolo VI, 18-19/10/1965, in Giorgio La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, cit., lettera n. 57.
[10] Il Symposium si svolse nell’aprile 1965 a Firenze, al Forte Belvedere. L'incontro fu promosso dopo una serie di contatti nel corso di un viaggio a Londra di La Pira. Vi parteciparono alcuni redattori della rivista fiorentina «Note di Cultura», Lord Fenner Brockway, William Warbey, Sidney Silverman, Hugh Jenkins del Parlamento britannico, Jules Moch ex primo ministro francese, Modest Rubinstein per l'Urss, e alcuni esponenti di organizzazioni internazionali italiane e americane. Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia: scritti e discorsi 1965-1977, Paoline Editoriale Libri, Milano 2004, p. 22.
[11] Il testo completo del documento ivi, pp. 36-37.
[12] Ho Chi Minn a La Pira 11/5/1965, ivi, pp. 237-39.
[13] Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia, cit., p. 43-44.
[14] La Pira a Paolo VI, 30/11/1965, in Giorgio La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, lettera n. 58.
[15] Per il carteggio si veda Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia, cit., pp. 50 e ssg.
[16] La Pira a Paolo VI, 27/4/1968, Giorgio La Pira, Abbattere muri, costruire ponti. Lettere a Paolo VI, cit., lettera n. 110.
[17] La Pira a Paolo VI, 17/12/1968, ivi, lettera n. 127
[18] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-12/papa-francesco-conferenza-stampa-viaggio-cipro-grecia.html