Il tempo che ci vuole
Cimentarsi in un lavoro che parli del padre, specie se pubblico e famoso, può essere rischioso. Per via di una parzialità narrativa che finisce per alterare i ruoli, dando evidenza al narratore più che al suo obiettivo e trascurando invece i risvolti più intimi, per i quali la parentela, per paradosso ma in realtà, funge da antagonista, da oggettivo diaframma di conoscenza. E ancor di più per una figlia, per la quale al mito dell’impareggiabile figura paterna si assomma il surplus d’ineguagliabilità alimentato dalla differenza di genere. Con la conseguenza di un difficile approdo ad un rapporto più vero se non per il doloroso (per entrambi) e non breve valico di un’intima demolizione della persona del padre e di tutto il suo intorno.
La Comencini tuttavia ci prova, con coraggio e con successo; e per farlo ha necessità di isolare il rapporto da implicazioni aliene – nel film, infatti, non figurano la madre e le tre sorelle – realizzandolo in un colloquio a due dall’essenza cruda e diretta, fatto di un contrappunto dinamico cadenzato nel dialogo che il percorso diacronico dei protagonisti, nelle diverse e rispettive età, stimola e suggerisce.
E tanto efficace è qui il racconto da far chiedere se forse l’apparire imperfetto agli occhi di un figlio non possa risultare pedagogicamente più utile a scongiurare pericolosi raffronti e ad esiliare angosce d’inarrivabilità.
Con felice simbologia grafica il tormentoso itinerario di crescita accanto al padre è rappresentato nel film da uno schizzo in rosso di un grosso pescecane, dalle fauci aperte e i denti in vista, che a tratti riemerge sullo schermo sfumando di volta in volta la scena; un ritorno d’immagine come incubo e ostacolo di insicurezza e di paura. Analogamente, il medesimo assillo replica la sua presenza, ancora una volta e con tocco di delicata maestria, nel rifiuto di Francesca bambina di vedere da vicino una vera balena in esposizione in un tendone di città; quella stessa balena negata che poi ricompare, a fine crescita (e a fine film), in un immaginifico transito volante – innanzi a padre e figlia, stretti per le mani e sorridenti a volteggiare insieme nel cielo.
Capovolgimento dei ruoli, si diceva, perfettamente rappresentato nell’accostamento tra l’immagine dell’iniziale cura paterna nell’avviare la figlioletta ad uno sguardo sulla vita e i suoi rischi – l’apriechiudi sulla figura di quello squalo illustrato a fauci spalancate – e quell’altra immagine, esortante e tenera, in cui questa volta è Francesca ormai adulta a spronare il padre riluttante a muoversi e a camminare spedito al suo seguito per le strade di Parigi. Adesso lei, diventata consapevole condottiera nel tempo che ci vuole, finalmente liberatasi dal travaglio di trovarsi sempre in campo – metaforicamente nel perimetro d’influenza di papà Luigi – senza alcuna capacità di uscirne.
Narrando di un grande regista, il lavoro della più giovane Comencini è anche un film nel film, sublimando nei frammenti di scene collodiane la formidabile capacità immaginifica del cinema, in grado di offrire salvifici salvacondotti esistenziali.
La magistrale interpretazione dei due attori protagonisti e in special modo di un Gifuni dalla recitazione matura, intrisa di colore espressivo e di una efficacissima anche muta gestualità, e le musiche, da Smetana a Nicola Di Bari, del tutto consone ai passaggi scenici, a loro volta coerenti col contesto sociale di riferimento, completano un prodotto d’arte cinematografica in perfetta simbiosi con la nobile tradizione familiare.