Finalement. Storia di una tromba che si innamora di un pianoforte di Claude Lelouch
Recensione di Eva di Palma
Dalle prime scene di questo lungometraggio che il maestro francese all’età di ottantasette anni regala al cinema (fuori concorso all’ottantunesima Mostra del Cinema di Venezia) si comprende che la storia che ci si accinge a seguire si muoverà su molteplici piani narrativi. Di questi ne assaporiamo subito alcuni: il protagonista (un Kad Merad all’altezza delle aspettative) si sta allontanando da una vita che scopriremo essere apparentemente completa e per farlo vivrà attraverso una serie di scene in vite d’altri, vissute o, forse, soltanto immaginate. Lino Massaro, avvocato penalista di successo, sposato con un’attrice di fama (Elsa Zylberstein), dopo aver trascorso una vita a “mettersi nei panni degli altri” per poterli difendere in tribunale, prova a spogliarsi dei propri.
Sono molti gli incontri che farà girovagando per la Francia, da Mont Saint-Michel alle spiagge dello sbarco in Normandia, dalla Borgogna a Béziers, da Le Mann ad Avignone, fingendosi un prete spretato dipendente dal sesso, uno stupratore, un regista di film porno, dietro la patina del musicista dilettante, grazie alla tromba acquistata in un suggestivo mercatino delle pulci. Una tromba che si rivelerà essere la voce più autentica tra quelle parlate nel film. Poco importa se tutto questo accade realmente o è relegato in una dimensione onirica alla quale accediamo durante il suo vagabondaggio, perché le connessioni logiche che legano gli equilibri della trama saltano fin da subito.
Il suo allontanamento, che tanto farà preoccupare la moglie e l’amico e collega di sempre (Michel Boujenah), ha un motivo preciso, una forma di degenerazione lobo-frontale diagnosticatagli a seguito di forti e ripetuti mal di testa, un disturbo tale da farlo esprimere senza filtri, altrimenti detto “la follia dei sentimenti”. Tutto, dinanzi a tale vastità multiforme e indefinita, gli appare stretto come un paio di scarpe troppo piccole, come nell’aneddoto umoristico raccontato dall’amico.
Una storia che sembra essere più che altro un palinsesto, quella in cui Lino si muove oscillando tra ragione e sentimento (tra “sense and sensibility”) e questo andamento ondivago, che rischia di disorientare lo spettatore, è proprio quello della vita. Difficile tirarne le fila (“la vita avrebbe bisogno di un avvocato”, viene detto).
Un cinema, quello di Lelouch, che si interseca nella realtà senza soluzione di continuità, così come la realtà forse non esisterebbe senza cinema, almeno nella visione del regista, confermata con quest’ultimo film.
Autoriflessivo, ma mai autoreferenziale, nessun compiacimento si concede il maestro francese, nonostante le molteplici autocitazioni sparse per la pellicola. A partire dal destino che porta nel nome Lino Massaro, omonimo di uno degli attori protagonisti de L’avventura è l’avventura, Lino Ventura, che ha recitato per Lelouch anche in Una donna e una canaglia, in scena con Françoise Fabian, che rivediamo nei frammenti rievocati e qui affascinante novantenne, madre di Lino. E Ventura è il padre del nostro Lino, criminale morto in carcere, mentre il figlio, ancora piccolo, andava a trovarlo promettendogli che sarebbe diventato avvocato per tirarlo fuori di lì.
Continui i rimandi e le sottotrame, le citazioni e i riferimenti (anche all’amato Clint Eastwood, con I ponti di Madison County, al quale strizza l’occhio l’incontro più autentico tra quelli vissuti dal protagonista, con la fattrice, François Gillard). Il bagaglio di Lelouch si fa passato degli attori e le scene con Lino Ventura si trasformano in frammenti sbiaditi della loro memoria personale. Perché il discorso è unitario, il disegno è unico, anche quando sembra sfuggirci, anche quando appare retorico (“sono sincero quando dico di aver fatto nella mia carriera un solo film”, ha sostenuto Lelouch). E questa potrebbe essere una summa della lunga carriera del regista, che, se ha sempre prediletto l’originalità agli schemi, a questo punto può permettersi di rinunciare del tutto alla didascalia e alla linearità: Finalement è un film di sole curve e intersezioni, talvolta immaginarie, senza alcuna linea retta, solo fili riannodati per poi essere slegati di lì a poco. Viene automatico accostare la scelta stilistica che Lelouch si concede con quanto lui stesso ha affermato in una recente intervista su Radio Tre parlando del rapporto con il suo film di maggior successo: per lui, Un uomo, una donna ha avuto il ruolo di genitore, l’ha messo al mondo, gli ha donato la libertà di poter essere ascoltato e fare film come voleva.
Un film – più film – nel film, forse frammentario e a tratti spaesante; ma è inevitabile, perché tutto è parte della stessa rappresentazione, di un discorso più ampio, da leggere su più piani, in un ritmo ondivago come il continuo oscillare tra leggerezza e densità, tra raziocinio e follia.
La musica sarà l’unica sintesi possibile (la guida di lettura è già nel sottotitolo di questa “fiaba musicale”), chiave per accedere alla dimensione dei sentimenti, altrimenti impenetrabile, se non “per colpa” della singolare malattia che colpisce Lino, pienamente compresa dalla figlia (un’intensa Barbara Pravi), che ci regala un brano canoro, La folie des sentiments, appunto, capace di profumare di levità i titoli di coda.
Così, il ritmo slegato e giustapposto, di sottotrame accennate, sfiorate o attraversate, assume ai nostri occhi il suono di un’improvvisazione jazz.
Un film stratificato, che rischia di lasciare interdetto lo spettatore. Interdetto come dinanzi alla visione di un’intera vita, della quale viene da chiedersi cosa rimanga, finalement.