Foreigners Everywhere, Stranieri Ovunque è il titolo della sessantesima Esposizione Internazionale di Arte in corso quest’anno a Venezia dal 20 aprile.
La sede si attaglia al titolo.
A Venezia gli stranieri sono ovunque, da sempre, dal lontano passato in cui la popolazione originaria era costituita da profughi provenienti dai centri urbani romani alla Repubblica veneziana, fulcro di scambi e commerci internazionali.
Venezia è la città che da sempre ha espresso curiosità e amore per la conoscenza[1] gli stessi sentimenti che spinsero Marco Polo – di cui proprio del 2024 si celebrano i settecento anni della scomparsa – a visitare e incontrare culture percepite come lontane e minacciose, integrandosi lui, come straniero, in quelle terre, in virtù di uno scambio umano e alla pari. Erano i tempi in cui il mercato di Rialto risuonava di lingue, etnie fogge e vitalità; e tanti paesi avevano a Venezia i Fondaghi – dei Turchi, dei Siriani, dei Tedeschi – depositi della loro manifattura e del loro ingegno. Fino ad arrivare ai tempi odierni, in cui la popolazione stanziale che conta meno di 50 mila unità, raggiunge, in certi periodi sempre più frequenti, picchi di 165 mila presenze di turisti anche in un solo giorno.
E dunque la città che per prima ideò, ben 129 anni fa, la prima Biennale, rinnova con i suoi padiglioni Nazionali, con le opere e i visitatori che vengono da tutto il mondo, questo suo destino di multiculturalismo che già mille anni fa le consentì, unica tra le città europee, di avere anche un nome arabo, Bunduqiyyah, diverso, meticcio, mescolanza di genti straniere.
A fronte delle migliaia di turisti che vivono Venezia, però, la Mostra celebra altri “stranieri”, meno privilegiati, più tormentati, ai margini, ciascuno a proprio modo, e, partendo dai criteri di identità, origine e migrazione, individua, fin dal titolo, tipologie di stranieri e di migranti che hanno arricchito la cultura del nostro tempo.
Il titolo è ripreso da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine nato a Parigi e ora con sede a Palermo. Le opere consistono in sculture al neon di diversi colori che riportano in un gran numero di lingue le parole Stranieri Ovunque, espressione a sua volta ripresa dal nome di un collettivo torinese che nei primi anni 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia.
Foreigners everywhere, secondo la presentazione del suo direttore artistico Adriano Pedrosa ha vari significati: il primo è che ovunque si vada si incontrano sempre stranieri; inoltre che, a prescindere dalla propria ubicazione sulla terra, nel profondo si è sempre stranieri anche nel proprio mondo; infine esprime la consapevolezza, cruciale per l’Europa e per il Mediterraneo, che il numero dei migranti forzati non solo è all’apice[2] ma è destinato a crescere, cosicché occorre accettare l’idea che gli stranieri sono ovunque e che dobbiamo fare i conti in maniera umana, non rassegnata ma fattiva, con le nostre paure.
Straniero, in tutte le lingue, è etimologicamente collegato al concetto di “strano” e questo è il filo conduttore dell’Esposizione: l’artista da sempre viaggia e si sposta tra città, Paesi e continenti e dunque per sua natura si ribella alle restrizioni, oggi sempre crescenti, della dislocazione o dello spostamento degli individui.
L’artista è “strano”, perturbante, molto spesso perseguitato e messo al bando soprattutto perché talora narra scomode storie di sopraffazione e negazione contro cui combatte con lo strumenti dell’arte.
Così l’artista queer che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è rifiutato perché sfugge all’idea di normalità; o l’artista outsider che si trova ai margini del mondo dell’arte, non apprezzato, non riconosciuto, spesso autodidatta e spesso costretto, in applicazione del principio nemo propheta in patria (così la bella installazione nazionale del Camerun) a tenersi lontano dal proprio mondo, a migrare per cercare spazio e ciò nonostante spesso compreso solo dopo la scomparsa.
O l’artista folk o popular molto rappresentato in questa Esposizione, a cominciare già dalla facciata d’ingresso della Biennale ai Giardini. Per la prima volta un collettivo di artisti indigeni dell’Amazzonia, il Mahku - Movimento degli artisti Huni-Kuin-, si prende la scena con un intervento monumentale sulla Facciata del Padiglione Centrale, con ben 700 mq di visioni sacre e racconti rituali. E a proseguire con le tante esposizioni dei bellissimi Arjilleristas cileni, opere artigianali costituite da manufatti tessili realizzati durante la dittatura di Pinochet (1973-1990) che con la tintura e la cucitura di immagini raccontano le lotte popolari per il cambiamento sociale e politico per il Paese.
O, infine, gli artisti indigeni, popoli primari originari di tante nazioni, spesso rifiutati e trattati come stranieri nella propria stessa loro terra di appartenenza.
Le produzioni di queste tipologie di artisti, sparse tra i Giardini e l’Arsenale, tra i Padiglioni Centrali e i Padiglioni Nazionali dell’uno e dell’altro sono il filo conduttore della Mostra e rappresentano l’idea e il complesso lavoro svolto dai curatori che hanno operato la scelta difficile di coniugare il messaggio all’opera che lo esprime. Una scelta che viene rimandata al visitatore che la farà secondo criteri propri (la bellezza dell’opera, il significato dato dall’autore o la lettura personale del messaggio fatta da chi guarda), troppo personali per essere condivisi da tutti, critici, appassionati di arte contemporanea, curiosi e visitatori casuali. Alla Biennale, ritengo più che in ogni altra esposizione, queste tipologie sono tutte rappresentate in modo forte e vivace; in particolare, oltre a critici e appassionati, tipologie d’ordinanza in ogni mostra, ci sono i curiosi – perché la Biennale è strana e desta curiosità per questa sua stranezza – e ci sono tanti visitatori casuali, attratti dalla bellezza dei luoghi dell’esposizione, dai profumi del verde dei giardini e dalle strutture monumentali del vecchio arsenale, ancora più belli perché arredati dalle luci e dai colori delle – inconsuete – opere esposte e dalle presenze umane, artisti, performers e anche semplici visitatori, altrettanto inconsueti.
Non sono un critico, sono forse un’appassionata di arte contemporanea, certamente sono una curiosa. E da tanti anni non mi faccio mai mancare una visita alla Biennale. In questa veste di curiosa propongo la mia scelta, del tutto personale, di alcune delle installazioni che più di altre mi hanno colpito, nel bene e anche nel male, in relazione ai temi trattati.
Le migrazioni. The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili (Marocco) è stato elaborato nel corso di 3 anni attraverso le rotte migratorie mediterranee del Medio Oriente e dell’Asia meridionale raccogliendo le storie dei migranti che ha incontrato nelle stazioni ferroviarie locali e in altri spazi pubblici. Le 8 installazioni video di grandi dimensioni di cui è costituita l’opera riempiono l’enorme spazio di una delle sale centrali dell’Arsenale e documentano le storie dei migranti raccontate attraverso la loro stessa mano che, con una immaginaria matita luminosa, tracciano sulle mappe il loro viaggio tra mare e terra e lo raccontano, ciascuno con la propria voce: donne, uomini, giovani e vecchi che raccontano un cammino arduo e faticoso, estenuante fino al punto che talora qualcuno decide di tornare indietro, quando la realtà da cui è fuggito lo consente; percorsi di vita e spirituali che alla fine l’artista incrocia con le costellazioni celesti, a ricordare che sono sempre state le stelle, fin dai tempi antichi, a guidare i viaggi di ogni tipo di migrante.
L’esilio. Exile Is An Hard Job è il titolo di un’opera del poeta turco Nazim Hikmet che è riprodotto a caratteri cubitali di colore rosso, come fosse uno slogan politico, sull’installazione di Nil Yalter[3] dal titolo omonimo. L’opera riproduce una grandissima tenda della comunità nomade Bektik dell’Anatolia centrale, interamente tappezzata da video e fly poster che documentano la vita e le esperienze di immigrati ed esiliati, soprattutto di donne che con i loro volti, precocemente invecchiati, dimostrano appunto che l’esilio è un duro lavoro.
La migrante russa e la migrante ucraina. Nel suo padiglione nazionale l’Austria ha proposto il lavoro dell’artista concettuale Anna Jermolaewa, nata in Unione Sovietica ed esiliata in Austria, realizzata in collaborazione con la coreografa ucraina Oksana Serheieva. Nell’opera “In Rehearsal for Swan Lake”[4] si fa riferimento ad un ricordo legato all’adolescenza trascorsa in URSS quando, in tempi di disordini politici causati da un cambio della guardia al potere, ad esempio la morte di un capo di Stato, la televisione sovietica sostituiva le trasmissioni previste nel palinsesto con il Lago dei Cigni di Čajkovskij, mandato a ciclo continuo per giorni e giorni: cosicché nella memoria culturale collettiva sovietica il famoso belletto divenne il codice per un cambio di potere. Le due artiste quindi trasformano il balletto da strumento di svago e al tempo stesso di censura in una forma di protesta e di speranza per il futuro: le ballerine raffigurate nell’opera fanno le prove del balletto per il cambio di regime in Russia[5].
Gli artisti indigeni. Molti stati (USA, Canada, Australia, Brasile tanto per citarne alcuni) hanno molto da farsi perdonare dai loro popoli indigeni. E così ecco le opere di artisti di origine Navajo, dell’Amazzonia brasiliana e peruviana, e di aborigeni australiani.
L’Australia, in particolare, con l’opera Kith and Kin[6] (dell’artista di origini aborigene Archie Moore, ha vinto il Leone d’Oro di questa edizione, premio che la giuria internazionale assegna al Padiglione Nazionale più rappresentativo della Mostra. Un’opera in cui la grandezza espositiva, di grandissimo impatto, si coniuga al messaggio di denuncia e alla ricerca immane che c’è dietro. Le pareti del Padiglione australiano sono interamente ricoperte da lavagne di grafite nera e costituiscono un vasto murale dove l’artista ha riportato, in maniera certosina, con gesso bianco, i nomi di tutte le famiglie indigene che dai suoi studi e dalle ricerche storiche condotte presso archivi e musei, costituivano i nuclei delle famiglie aborigene australiane, segnando con un tratto di gesso i legami tra di loro, a dimostrare come fossero tutte collegate a costituire un’unica comunità familiare e sociale (Kith and Kin, appunto). Man mano che la mappa temporale scorre verso il basso i legami si assottigliano e il disegno mostra caselle vuote che segnalano l’estinzione della famiglia dovuta a invasioni coloniali, massacri, malattie, esodi ma anche alle carcerazioni di stato che hanno decimato gli indigeni, buttati in prigione perché indigeni. Al centro della sala un enorme tavolo bianco dove sono poste le pile, anch’esse bianche, dei documenti trovati dall’artista e che raccontano, attraverso i reperti dei medici legali, l’orrore delle deportazioni, delle uccisioni anche di donne e bambini e delle carcerazioni di stato verso gli aborigeni. Il grande tavolo è circondato di un apparente quadrato di marmo nero che in realtà è acqua buia nera e profonda a simboleggiare l’orrore ulteriore dell’oblio.
Gli artisti populisti. Già in altre edizioni la Biennale aveva esposte molte produzioni tessili, a simboleggiare il rinnovato interesse dell’Arte per questa forma artistica considerata di serie B, realizzata da artisti populisti, spesso autodidatti e addirittura sconosciuti. In questa edizione, oltre alle Arpilleristas di ignote artiste cilene (di cui si è detto), l’artista palestinese-saudita Dana Awartaniespone un rammendo su tela tinta con erbe e spezie, di grandissimo impatto visivo, dal titolo “Come, Let Me Heal Your Wounds, Let Me Mend Your Broken Bones[7]”. Nella presentazione dell’opera che affianca l’opera stessa è scritto che si tratta di un requiem dedicato ai siti storici e culturali distrutti dal terrorismo e dalle guerre e in particolare alla devastazione di Gaza e dei siti indiscriminatamente rasi al suolo da bombardamenti e bulldozer. L’artista crea dei buchi sui metri e metri di seta che compongono l’opera e che riempiono tutto l’ambiente, dove ogni stappo segna un sito. Poi rammenda ogni squarcio utilizzando una tecnica ormai quasi scomparsa, come una promessa di cura e di medicamento, come le erbe medicamentali della tradizione popolare locale con cui il tessuto viene tinto con colori allegri e forti.
Gli artisti outsider sono quelli fuori dagli schemi, quelli che stanno al di fuori della stessa arte, uomini e donne imprigionati da una vita che per qualche ragione li rende schiavi (detenuti, persone rinchiuse in ospedali psichiatrici, comunque emarginati) che hanno trovato nell’arte la loro via di fuga. La Biennale di quest’anno espone, tra gli altri artisti outsider, l’opera di Aloise Corbaz, che ha trascorso la vita confinata in un ospedale psichiatrico svizzero, la cui arte si ritiene una presenza chiave nell’opera di Dubuffet e forse fondante nella creazione della cosiddetta Art Brut in cui la follia è alla base della creatività. “Cloisonné de théâtre”[8] costituita di grandi pannelli uniti tra di loro e dipinti con materiali improbabili quali dentifricio, filo, estratti vegetali oltre che pastelli colorati, rappresenta figure di donne, circondate da bellissimi colori, che si abbracciano e testimoniano il desiderio dell’artista di uscire dalla buia realtà che la circonda.
Gli artisti queer. Puppies Puppies un’icona dell’arte queer ha presentato alla Biennale, tra le altre opere, Woman, una scultura di bronzo a grandezza naturale realizzata a partire da una scansione in 3D del suo corpo. Un bellissimo corpo di donna con attributi maschili, posta al centro di uno spazio verde, che si impone allo sguardo del visitatore a testimoniare un tributo a coloro che normalmente sono invisibili.
Le donne. Emarginate e considerate “strane” ogni qualvolta hanno tentato di non esserlo, le donne che hanno esposto alla Biennale di quest’anno sono veramente tantissime. E tanti gli artisti uomini che hanno raccontato le donne. Gli uni e gli altri hanno raccontato storie di pregiudizi e stereotipi (così “Le fanciulle laboriose” di Giulia Andreani, bambine che cuciono, a testa bassa ad esprimere la loro rassegnazione); o di combattiva violazione degli stessi stereotipi (così “Falce, Martello e Cartuccera” di Tina Modotti, operaia, migrante e esule, espulsa dal Messico nel 1930 per la sua attività di dissidente); o, anche, di liberazione sessuale, come rappresentato dalle belle opere pittoriche esposte dall’Albania, dove i corpi nudi di donne, talora in pose imbarazzanti, narrano della necessità di uscire dallo stereotipo della sessualità femminile limitata, perché anche per le donne “l’amore è come bere un bicchier d’acqua”. (“Love As A Glass Of Water” - Iva Lulashi); o ancora di speranza del cambiamento come nell’esposizione dell’Arabia Saudita in cui una imponente installazione scultorea costituita da un’immensa rosa del deserto fatta di seta stampata reca, serigrafate, frasi fatte e opinioni mediatiche stereotipate verso le donne saudite; entrando all’interno, però, si è raggiunti dalle voci di centinaia di donne che inneggiano al cambiamento e alla necessità di scrivere un nuovo capitolo della storia femminile nel Paese. (Shifting Sands: a Battle Song[9] - Manal AlDowayan).
Iran[10] e Iraq[11], invece, ripropongono le donne madri, con opere che le rappresentano come fonti della razza umana e come specchio della cultura del popolo e come simbolo della tradizione su cui è fondata la nazione. Nulla di nuovo sotto il sole.
L’Italia. Oltre al Padiglione italiano, alla fine del lungo corridoio delle Esposizioni Nazionali ai Giardini, che è un appuntamento immancabile per tutti gli italiani, la Mostra ha dedicato un’intera sezione - dal titolo Italiani Ovunque - alla diaspora degli artisti italiani. Tra gli altri, interessante l’opera di Alfredo Volpi, figlio di immigrati italiani a Brasilia, che, impressionato dagli affreschi di Giotto, sperimenta una pittura a base di albume di uovo, mescolando elementi dell’astrattismo con le tecniche della pittura brasiliana concretista[12].
La Santa Sede È un’esperienza a sé e persino definirla un Padiglione è riduttivo. La partecipazione della santa Sede a questa Biennale, inaugurata da Papa Francesco pochi giorni fa, il 28 aprile, è lontana da tutti gli schemi espositivi consueti, sia per la sede sia per l’esperienza che offre, altrettanto lontana dal consueto. La sede è la casa di reclusione femminile dell’isola della Giudecca. Accedere non è facile, l’entrata è consentita solo in alcuni giorni e solo a 50 visitatori, suddivisi in due gruppi, previamente accreditati su un apposito sito. Il titolo, “Con i miei occhi” riprende il frammento di una poesia elisabettiana e la unisce ad un versetto del Libro di Giobbe: «Non ti amo con i miei occhi… ma i miei occhi ti hanno veduto». E fa dello sguardo lo strumento per toccare e per abbracciare con l’occhio. Il progetto si articola in una grande scultura esterna, posta sulla facciata della Cappella del carcere: due enormi piedi uniti, piedi di “povero e di emarginato”, perché, com’è scritto, “i piedi, insieme al cuore, portano il peso della vita”. Il percorso prosegue all’interno del carcere dove sono esposte sia opere di artisti professionisti sia opere realizzate dalle stesse detenute (circa 80) che, in veste di guida e di attrici, accompagnano i visitatori negli spazi espositivi che non sono altro che i luoghi in cui si svolge la vita del carcere: la caffetteria, la lavanderia, l’orto, la sala colloqui. Durante il percorso le detenute si raccontano, attraverso le opere esposte, riconquistando una visibilità e una possibilità di esprimersi che l’esperienza del carcere nega e che l’esperienza dell’arte consente. Così il titolo si svela perché la vista e la percezione consentono a due mondi estranei e paralleli, quello del carcere e quello di fuori, di incontrarsi e di dialogare.
Un’ultima curiosità Alla Biennale di Venezia resta chiuso, per protesta, il padiglione di Israele, un gesto forte di artisti e curatori, già messo in atto per la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, per chiedere il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.
Conclusione. I titoli della Biennale – e i temi trattati - sono importanti e vanno tenuti nella debita considerazione perché, secondo me, è come se, attraverso l’intitolazione della Mostra e i temi prescelti, si fiutassero accadimenti che erano già nelle cose, anche se ancora ben chiari e che poi fatalmente si verificano come onde di rinnovamento e cambiamento. Sembra quasi che titoli e temi preconizzino inarrestabili movimenti dell’umanità. Così fu con “All The World’s Futures”, che immaginò l’esistenza di mondi diversi, con maggiore attenzione a questioni quali il clima e la parità di genere, poi diventati temi di fondo della cultura mondiale. O con il “Latte dei Sogni” che, dedicando l’esposizione alle favole dei bambini e all’esoterismo, ha rivendicato la necessità per l’umanità di tornare ad essere soggetti spirituali, che lottano per realizzare i loro sogni senza farsi restringere in una realtà solo consumistica. L’esempio più straordinario di questo potere dei titoli è stato senz’altro quello della Biennale del 2019 “May You Have Interesting Times”, l’augurio di avere tempi interessanti, e cioè pieni di nuovi e fondanti interessi che ci risollevassero dal considerare la vita solo alla luce del futile e del consumo. Purtroppo, alla luce degli eventi successivi, fu letto come la traduzione di un antico proverbio cinese per il quale i tempi interessanti sono quelli duri e difficili da superare. Insomma come una sorta di maledizione come fu il Covid e il ritorno delle sciagure portate dalle guerre che sopraggiunsero. E certo sono stati e sono tutt’ora tempi duri ma anche interessanti, se è vero che hanno imposto a tutti una nuova e più profonda riflessione sulla fragilità delle nostre sicurezze e sull’incertezza che governa le nostre esistenze. E dunque, volendo dare un senso al titolo di quest’anno, potremmo dire che i temi della Biennale 2024 ci dicono che ci sono, da sempre nella storia, eventi globali rispetto ai quali barricarsi nella piccola stanza del nostro piccolo mondo dal quale escludere, con le nostre paure, chiunque immaginiamo sia “Strano” o “Straniero” non serve a nulla. Semplicemente perché non è possibile.
[1] Così Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale, nella sua presentazione della Mostra.
[2] Nel 2022 l’Alto Commissariato per i Rifugiati conta 104,4 milioni di migranti, aumentati di quasi il 30% nel 2023 e destinati ad aumentare ulteriormente.
[3] Nil Yalter è un’artista turca nata al Cairo che nel 1965 si trasferisce a Parigi. È universalmente considerata una pioniera del movimento artistico femminista globale. Pur non avendo mai ricevuto un’istruzione formale nelle arti visive, ha prodotte opere innovative nel campo della pittura, del disegno, della scultura e delle video installazioni. Alla Biennale del 2024 ha presentato, oltre ad una riedizione della sua opera Topak EV, realizzata nel 1973 e dove già affrontava il tema delle migrazioni, l’opera Exile is a Hard Job, installata nella sala di apertura del Padiglione Centrale, ai Giardini. Le è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera come riconoscimento del suo significativo contributo all’intersezione tra arti visive e migrazione.
[4] Prove del Lago dei Cigni.
[5] La Russia non è presente alla Biennale.
[6] Amici e parenti, ascendenti, discendenti e la comunità che li circonda, persone con legami.
[7] Vieni, lasciami guarire le tue ferite, lasciami riparare le tue ossa rotte.
[8] Letteralmente parete divisoria, tramezzo di un teatro. Potrebbe anche essere un richiamo alla tecnica cloisonné, tecnica della decorazione con fili, sottili nastri d’oro, argento o rame racchiusi in compartimenti (cloisons) da riempire dando l’effetto smalto.
[9] Sabbie che si smuovono: un canto di battaglia.
[10] L’Iran ha presentato l’opera, di artisti vari, dal titolo “Of One Essence Is The Human Race”: la razza umana è unitaria poiché fatta di un’unica essenza.
[11] Lorna Selim: il quadro, dal titolo “Unknown”, raffigura una madre con il figlio sulle spalle ed accanto la figlia, emblema della famiglia contadina irachena.
[12] Alfredo Volpi. L’opera esposta, “Fachada Marron” è realizzata con la tecnica delle Bandeirnhas, elemento tratto dalla tradizione popolare brasiliana, con bandierine collocate a ridosso della facciata di un edificio.
Immagine: Claire Fontaine, Stranieri ovunque, 2012.