Era tempo che attendevo il nuovo film di questo regista che tanto mi ha fatto innamorare in passato. E l’attesa (resa amara dal timore che realmente non ci sarebbero stati altri suoi film, come paventato) non è stata vana.
“Sappiamo o non sappiamo, amici miei, cos’è il silenzio?” chiede Rilke nei suoi Sonetti a Orfeo. La stessa domanda sembra porcela il regista finlandese, nella solitudine proletaria di Helsinki, che, in questo film, giunto sei anni dopo L’altro volto della speranza, appare sollevata dallo spazio e dal tempo.
È l’atmosfera adatta per i suoi protagonisti, due anime laterali, mal conciliate alla vita e estremamente tenere, sulle cui solitudini personali ci affacciamo come sbirciando dentro una Wunderkammer.
Difficile collocare le loro vicende in un’epoca precisa, tra colori pastello, abiti informi e démodé, tecnologia vetusta e sparuta, locandine di Godard e Bresson nelle vetrine del cinema rétro (la settima arte come via di fuga dal reale), arredamento d’altri tempi. Unici indizi temporali: la guerra in Ucraina (la “dannata guerra”, come la chiamerà Ansa), della quale giungono notizie attraverso un radio giornale e un calendario affisso nella laida e spoglia cucina di un pub (del 2024, però), scenario dell’ennesimo sfruttamento, dell’ennesima sconfitta.
Il silenzio in Kaurismäki spesso è più denso della parola, lo sappiamo bene. Sembra guardarci sorridente mentre ci lambicchiamo per trovare i vocaboli giusti, consapevole che il suono più adatto talvolta è quello sospeso, adagiato tra una parola e l’altra dei suoi dialoghi ironici e surreali, perfetti, definitivi.
“L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano”, è ancora Rilke a ricordare. E questa è la storia di Ansa e Holappa (il cui nome di battesimo non si conosce per la durata del film). Ansa, una giovane donna sola e sfiorita che lavora in un supermercato fino al momento in cui viene scoperta a sottrarre prodotti scaduti, uno trovato nella borsetta e altri lasciati a un senzatetto anziché destinarli al macero, come previsto dal protocollo. E Holappa, un operaio metalmeccanico, altrettanto solo, mite e col vizio del bere, che gli farà perdere il lavoro.
Entrambi sottopagati, umiliati, privi di tutela, sconfitti, ai margini di un mondo che sembra non accorgersi delle loro esistenze. Entrambi tagliati fuori dalle regole del gioco («Tu non sei un duro, Holappa», gli dice l’amico Raunio con cui condivide il container dormitorio nel cantiere in cui lavorano, «Però potrei esserlo», replica il ragazzo). Esistenze oblique: si incontrano a un karaoke, dove non sono loro a cantare; si guardano a lungo, ma non si parlano; fuori dal cinema (dove hanno appena visto il grottesco I morti non muoiono di Jim Jarmusch) affidano a un biglietto un numero di telefono, che volerà via, al vento, come le parole che non riescono a dirsi; la ricerca continua l’uno dell’altro, fino al ritrovamento, quasi tragico.
Tra neorealismo e nouvelle vague, nessuna provocazione, solo la fragilità tenace e la precarietà di due figure in bilico, dai sentimenti elementari, lenti attraverso le quali giungiamo all’essenza universale, il nucleo di questo film che la bellezza delicata ha nel nome, portando nel titolo Les Feuilles Mortes di Jacques Prévert, brano reso celebre da Yves Montand. La stessa delicatezza che sarà in grado di preservare quelle due anime fragili e incerte nella brutalità devastante del mondo in cui sono loro malgrado immerse.
Proprio lì si insinua la poetica kaurismäkiana, capace di vette esilaranti, condite da una colonna sonora pienamente all’altezza, che ci regala scene colorate da un umorismo agrodolce, impassibile e malinconico, fatto di trasparenze e di scene sublimi incastonate nella pellicola (la cena per la quale Ansa deve comprare un altro piatto - che avrà vita breve - perché ne possiede soltanto uno, l’insalata di asparagi e quello che tutti chiamano “aperitivo”, è soltanto una di queste).
Un film dallo splendore poetico, minimalista e pungente, in cui nulla è di troppo, perfetto per sottrazione.
Emblematico anche il duo delle sorelle finlandesi che canta nel pub, le Maustetytöt, in inglese, letteralmente, Spice Girls, definite dal New York Times “impossibly cool Finnish duo”, che ci regalano una scena di nichilismo imperturbabile, ma al contempo caldo, timido e spavaldo, estremamente nordico.
Ansa e Holappa sono proletari resistenti in un mondo insensibile e brutale, dove l’addetto alla vigilanza del supermercato di periferia risponde come i gerarchi nazisti al processo di Norimberga.
Un mondo brutale, ma non a tal punto da uccidere la speranza.
Mettendo insieme i rimasugli di una non sopita voglia di vivere, un passo claudicante può tramutarsi nella vigilia di una nuova solitudine, da condividere, col retrogusto di una relativa felicità.