Antonio Albanese, pur essendo tutt’ora un attore dai formidabili tempi comici, ci ha abituato da tempo a film incentrati su tematiche sociali.
Negli ultimi anni molti dei suoi lavori, pur presentandosi in punta di piedi e senza sembrare militanti, sono ricchi di spunti “politici” e contengono riflessioni mai banali, soprattutto laddove il nostro abbini il ruolo di attore a quello di regista.
Se nelle commedie e negli sketches prevalgono il registro grottesco e l’uso del paradosso, quando è regista di se stesso Albanese predilige infatti interpretare personaggi ordinari e dai sentimenti puliti, uomini ingenui che fa muovere in un mondo popolato da tipi mediocri se non cattivi, proprio come molte delle sue maschere comiche.
Non sfugge allo schema il suo ultimo film in sala, "Cento domeniche”, in cui presta volto e movenze ad un operaio specializzato cui ha dato il suo nome (Antonio), appena mandato in prepensionamento in una fabbrica di un piccolo paese; un personaggio dalla vita normale, che gode di piccole gioie ed è esposto, come tutti, ai rovesci della vita.
Rovesci anch’essi piccoli, ben attutiti da un ambiente in cui è facile e naturale fidarsi degli altri perché ci si conosce tutti da sempre, al di là dei ruoli e dell’età, e si condividono spazi limitati ed accudenti come il bar o la piazza.
E Antonio si fida: del suo datore di lavoro, che lui considera quasi un parente e non un padrone (si danno del tu, sembrano in gran confidenza e l’imprenditore, che lui chiama confidenzialmente Carlo, lo invita persino a cena nella sua magione, in un angolo del giardino della quale consente che Antonio allevi delle galline), dei suoi colleghi, con cui divide le chiacchiere del dopolavoro e i tornei di bocce, della sua donna, che pur appartenendo ad un ambiente evidentemente più altolocato del suo lo ospita nella sua lussuosa villa e con cui divide momenti di tenero amore.
Qualcosa sembra non quadrare del tutto, ma all’inizio non ci si fa quasi caso, mentre assistiamo scena dopo scena allo sgretolamento di questo piccolo (e forse mal riposto) capitale di fiducia: il datore di lavoro lo licenzia da un giorno all’altro, pur consentendogli di continuare a recarsi in fabbrica per aiutare con la sua esperienza gli operai più giovani. E Antonio si fida e continua a lavorare, convinto di essere in un mondo dove una stretta di mano vale più di un contratto.
La donna con cui ha una relazione è sposata, ma anche questo sembra un particolare quasi senza importanza. E Antonio si fida e si lascia andare ai sentimenti e all’amore al punto da chiederle se è pronta a lasciare il marito per lui, salvo fingere di avere scherzato alla incredula e stizzita reazione di lei.
Più la storia va avanti e più sembra che tutto poggi su un pavimento di mera apparenza, destinato a sgretolarsi al primo scossone: una visita ispettiva in fabbrica porta alla immediata reazione del datore che ingiunge ad Antonio di non farsi vedere più, perché altrimenti la fabbrica rischierebbe sanzioni. E tanti saluti all’esperto tornitore e alla sua insostituibile esperienza.
Poco dopo Antonio rivela alla sua amante che la figlia si è accorta della loro relazione e che vorrebbe invitarla al matrimonio: la donna, rendendosi conto improvvisamente del rischio che si sappia di loro in paese lo caccia urlando dalla macchina e tronca da un minuto all’altro ogni rapporto.
Sono solo le prime avvisaglie della tempesta vera e propria, destinata a provocare il crollo dell’intero sistema affettivo del protagonista e che scaturisce da un evento che difficilmente viene spontaneo associare con i sentimenti: la crisi finanziaria dell’istituto di credito del suo paese.
Il fatto è che anche la banca è percepita da Antonio con le lenti comode e deformanti della fiducia: gli impiegati sono persone che ha conosciuto da bambine, ed è bella la sensazione che ogni volta che ha bisogno di recarvisi gli aprono una porta di servizio per non farlo passare dai tornelli, perché sanno che egli soffre di claustrofobia.
È insomma anche quello un ambiente fatto di relazioni consolidate ed informali, a cui affidare con un sorriso i risparmi di una vita, come del resto hanno fatto tutti nella sua piccola comunità (e come, a ben pensarci, tendiamo a fare tutti un po’ ovunque).
Ed è alla sua “amica” banca che Antonio si rivolge per chiedere i soldi per organizzare il matrimonio della figlia, suo momento di massimo orgoglio e piccolo riscatto sociale.
Il nostro tornitore è convinto di avere investito il suo denaro in modo sicuro e facilmente smobilizzabile e che quindi possa avere indietro quanto ritiene suo con un sorriso, magari con un piccolo aiuto tecnico del suo interlocutore per le eventuali quisquilie burocratiche: sarà destinato ad essere deluso ancora una volta.
Il direttore di banca, con la solita finta bonomia che Antonio ha già sperimentato in tutti gli altri suoi interlocutori, gli ricorda che tempo fa ha firmato una modifica del suo investimento, rendendolo da obbligazionario ad azionario (quindi, ad alto rischio); e che in questo momento è meglio non vendere le azioni perché sostanzialmente hanno visto pressoché azzerato il valore che avevano al momento dell’acquisto… di fatto, gli comunica che i suoi risparmi non esistono più.
La reazione del tornitore è quella di sempre: rifiuta di credere che il mondo non sia quello che si è sempre rappresentato, anche se uno degli impiegati lo segue fuori dalla banca per dirgli che la banca è sull'orlo del fallimento e gli consiglia di prelevare tutti i soldi e mettersi in salvo. Rifiuta di capire – e di reagire - anche quando lo stesso impiegato, poco dopo il colloquio, si suicida per la vergogna di avere contribuito a truffare la gente; ed anche quando il barista gli fa leggere i titoli dei giornali ove si parla di crack della banca e del suo prossimo, inevitabile fallimento.
Chiede consiglio al suo ex padrone, rifiutando di accettare come vera la notizia appresa che i ricchi del paese i soldi dalla banca li hanno già prelevati - contribuendo ad aggravare il dissesto - e continua come un sonnambulo a camminare in un mondo che non corrisponde alle sue percezioni.
In un crescendo di drammaticità, Antonio prende coscienza della realtà quando ascolta il racconto di un altro operaio ridotto come lui sul lastrico dal crollo dell’istituto di credito e torna in banca deciso finalmente a chiedere spiegazioni al direttore: ma il direttore è cambiato e il nuovo, inaspettatamente, lo tratta come se fosse lui ad essere in torto: è lui che ha firmato, è lui il responsabile della sua rovina.
Antonio reagisce esclamando (come forse faremmo tutti): “ma chi di noi legge quello che firma?”.
È qui che Albanese metaforicamente ci schiaffeggia, ricordandoci che non sta mettendo in scena una maschera grottesca o esagerata ma la semplice realtà, che anche noi come il protagonista della storia preferiamo fingere di non vedere…. perchè è troppo brutto dire a se stessi che la fiducia non esiste, che si è nudi di fronte alla cattiveria altrui; che sono finiti i tempi della solidarietà, dell’unione fa la forza, dei deboli che alzano la voce per reclamare i propri diritti; che oggi chi è debole può solo subire e semmai cercare di diventare più forte di qualcun altro, per arraffare un briciolo togliendolo a chi è più in basso nella catena alimentare.
In un ultimo sussulto di ricerca di solidarietà il nostro tornitore si reca alla riunione in piazza dei clienti dell’istituto di credito, dove assiste all’ennesima pantomima: quando vede che a prendere la parola non sono gli scontenti ma un avvocato sconosciuto a tutti e poi il sindaco del paese capisce finalmente che nessuno aiuta nessuno.
E va via, deciso all’epilogo individuale che non sveliamo per non "spoilerare".
La tematica del rapporto del singolo con le banche è una delle più attuali e sconvolgenti dei nostri tempi e tocca da vicino il lavoro dei magistrati sia civilisti che penalisti.
Sempre più spesso le disuguaglianze sociali e le istanze di tutela dei diritti individuali e fondamentali prendono le forme processuali della tutela del singolo dallo strapotere degli istituti di credito.
Ne sono prova la giurisprudenza (tremolante e altalenante) sull’usura bancaria in campo penale e le controversie civilistiche su interessi moratori, clausole abusive (“Ma chi di noi legge quello che firma?”), anatocismo, commissioni di massimo scoperto.
Emmanuel Carrère ne ha fatto materia per uno dei ritratti più riusciti della sua galleria di personaggi nel magnifico libro intitolato "Vite che non sono la mia": è la storia (vera) della passione civile della cognata, giudice di prima istanza che ha dedicato la vita a propugnare nelle sue sentenze i semi di un’interpretazione dei contratti bancari volta alla tutela sociale dei più deboli (i clienti).
Nel libro l’autore descrive la pluriennale lotta della magistrata con stuoli di avvocati blasonati e con la stessa giurisprudenza della cassazione francese, sempre pronta a chiudere gli spiragli di giustizia sociale che la protagonista ed un suo collega che fa udienza pochi metri più in là tentano ingegnosamente di aprire dal Tribunale di provincia in cui si trovano ad operare.
Una storia che parla di chi, da dietro le quinte e con le armi della tecnica giuridica e dell’ingegno, prova a ristabilire il filo interrotto della fiducia tra l’individuo e la società e che costituisce l’ideale pendant del film di Albanese.
Il filo della fiducia chiama in causa dunque, per vie sorprendenti, la giurisprudenza di merito nel suo compito insostituibile di tutela dei diritti fondamentali.