[In copertina, ritratto di Michela Murgia di Giulia Iofrida]
La notte del 10 agosto, la notte delle stelle cadenti, Michela Murgia si è spenta all’età di cinquantuno anni a causa della sua malattia.
L’indomani mattina alle 6:30 ero, senza un apparente motivo, irrimediabilmente sveglia, come se qualcosa, nel mio inconscio, avesse prevalso sulla gioia del non sentire il suono della sveglia il primo giorno di vacanza del mese di agosto. Costretta dalla noia e da un senso di ignoto turbamento ad alzarmi, avevo acceso la tv sul canale del notiziario, rituale sottofondo di caffè e spremute d’arancia di prima mattina.
Il dolore profondo fu confortato da tante, tantissime belle parole che le erano state dedicate e che seguirono nei giorni successivi e alle quali oggi si aggiunge il mio modesto ricordo.
Avevo conosciuto “televisivamente” Michela Murgia diversi anni fa, quando si occupava di una rubrica dedicata a recensioni di libri e consigli di lettura nella trasmissione Quante storie, allora ancora condotta da Corrado Augias, che vedevo con mio padre le volte che pranzava a casa con me, quasi a spezzare la monotonia di noiose giornate di studio.
Quando l’ho “ritrovata” due anni fa mentre presentava il suo ultimo libro, non ho potuto non riconoscerla dal marcato accento sardo, oltre che dall’ossimoro della forza dei contenuti che esprimeva e la pacatezza della forma con cui li rivestiva. Il libro in questione si intitolava Stai zitta - titolo tristemente tratto da un episodio accadutole in diretta radiofonica - e sentirgliene parlare aveva acceso una spia, qualcosa che dentro di me era ancora latente ma che ricongiungeva tante scene che - da giovane donna che si stava affacciando al mondo del lavoro - notavo sempre più, seppur con un senso critico ancora acerbo.
Come per qualunque cosa che desti il mio interesse, ho avvertito la necessità di saperne di più. Così ho iniziato a documentarmi su di lei e a “seguirla” nel modo un po’ desueto e bibliotecario in cui una persona che rifugge i social oggi può seguire un personaggio pubblico.
La mia attenzione si soffermò, in realtà, già a metà del primo rigo della sua biografia. Mi colpì il fatto che era nata a Cabras, un paese semideserto della provincia di Oristano in cui appena l’estate prima avevo fatto tappa per visitare le splendide spiagge della penisola del Sinis. Lì i miei occhi erano stati accecati dai giochi di riflessi che i raggi del sole creavano sul mare trasparente e via via turchese, che con le sue onde abbracciava immense distese di chicchi di quarzo. Sì, non granelli di sabbia, ma piccoli, minuscoli sassolini di quarzo. Alcuni bianchi, altri bianchissimi, altri ancora ambrati. Meraviglie della natura da fare invidia alle più blasonate località turistiche dell’isola sarda, ma poco commercializzate perché rese decisamente poco accattivanti dalla quasi totale assenza di servizi e di una benché minima offerta ricreativa e raggiungibili macerando chilometri e chilometri di un paesaggio arido, brullo, simile alla tundra.
Il legame intenso e mai interrotto con quella terra - magica e brutale allo stesso tempo - e il suo portato culturale ha da sempre marchiato a fondo gli scritti e le riflessioni di Michela Murgia, costituendone un tratto identitario molto forte, e quell’angolo remoto della Sardegna ha continuato ad essere una fucina continua di ispirazione ed un topos costante.
La seconda cosa che mi colpì fu il suo percorso, formativo e poi lavorativo: il corso di studi in teologia per assecondare il gusto per il pensiero astratto ed ancor prima per sottrarsi al destino da contabile nella piccola attività di famiglia che era stato progettato per lei e in cui avrebbe potuto spendere il suo diploma di istituto tecnico. E poi i tantissimi lavori che aveva variato per difendere quella scelta di autonomia e per affermare la propria indipendenza, che avevano suscitato in me ammirazione ma che mi avevano anche rincuorato, portandomi a pensare che forse esistono davvero inevitabili trafile che accomunano le vite delle anime erranti, anche le più tenaci.
Cameriera, insegnante di religione, portiera notturna, telefonista di call-center sono alcuni dei mestieri che Michela Murgia ha fatto prima di esordire come scrittrice. Da quelle esperienze lavorative, tuttavia, aveva sempre saputo trarre - come si direbbe in linguaggio microeconomico - la massima utilità possibile, convertendo ogni aspetto negativo in occasione di opportunità. E così, dal lavoro di venditrice di telemarketing è nato il blog Il mondo deve sapere, in cui denunciava con taglio satirico lo sfruttamento economico e la manipolazione psicologica a cui era sottoposta quella forma di precariato. Blog diventato nel 2006 il suo primo libro e che ha ispirato il film del 2008 di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti.
Da allora, la carriera di Michela Murgia è stata una parabola in continua ascesa, che risulta quasi impossibile sintetizzare. Il successo iniziale è certamente legato a doppio nodo al talento nella scrittura. Piena, vera ma immaginifica, delicata e potente, di quelle che ti prendono per mano e ti portano a spiare le vite altrui e a visitare luoghi con la mente, come le penne dei grandi scrittori sanno fare.
Nei suoi romanzi e nei suoi lavori successivi di diverso genere letterario ha affrontato gli argomenti più vari, ma in cui è sempre presente, e via via sempre più forte, l’eco della sua coscienza sociale.
Nel 2009 ha pubblicato Accabadora, che le è valso il premio Campiello, in cui, attingendo alle sue origini e alla cultura popolare sarda, ha intrecciato il tema dell’eutanasia con la realtà dei filli de anima, espressione con cui, nella Sardegna degli anni Cinquanta, si chiamavano quei figli che non erano nati all’interno della propria famiglia, ma che venivano accolti ed amati come tali. Una pratica spontanea di accudimento, una forma di “accoglienza perpetua”, che non pretendeva di recidere i rapporti con la famiglia di appartenenza del bambino, né di sostituirsi ad essa. Dinamiche affettive che richiamano fortemente l’attualità e che ci fanno interrogare sul fondamento dei legami familiari, nelle quali io ho sempre visto una grande verità. Da una parte, pensando al modo che ho avuto fin da piccola di costruire rapporti che fungessero da famiglie parallele, porti sicuri in cui ripararmi, che colmassero vuoti, che sanassero ferite. Dall’altra, pensando a quell’innata esigenza di amare che, per una strana legge del contrappasso, spesso diventa ancora più forte quando di amore si sente di averne ricevuto poco o comunque non abbastanza.
Nel 2011 ha pubblicato Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, saggio in cui spiega come coniugare l’identità cattolica con quella femminista.
Della sua formazione teologica e della sua fede cattolica, d’altronde, non ne ha mai fatto un limite. Anzi, spesso partendo o facendo ricorso proprio a passi e luoghi delle Sacre Scritture, ne ha fatto humus fecondo di idee, traendo premesse logiche dalle quali giungere a sviluppi inediti.
La politica è sempre stata una costante, perché, come lei credeva e come ha ripetuto efficacemente l’amica Chiara Valerio ricordandola nel giorno dei suoi funerali, “tutto è politica”. E, sebbene la politica abbia pervaso tutto il suo pensiero, ad essa ha apertamente “dedicato” nel 2018 il provocatorio pamphlet Istruzioni per diventare fascisti.
Da sempre convinta del potere della narrazione, in Noi siamo tempesta - pubblicato nel 2019 - ha raccontato, con un significato politico e pedagogico ben preciso, storie di successi ed imprese “collettive”, esempi concreti dell’“unione fa la forza”, di sinergie e comunioni di menti e braccia, che ha opposto alla invalsa retorica dell’eroe individuale, con la quale tutti siamo cresciuti e che abbiamo inconsciamente introiettato. E che è negativa tanto per il singolo - l’eroe - perché destinato ad essere schiacciato dal potere, quanto per tutti gli altri - la collettività - in quanto inevitabilmente deresponsabilizzati.
L’etichetta di scrittrice, tuttavia, non l’ha mai definita pienamente. Estremamente poliedrica, Michela Murgia non si è infatti limitata alla parola scritta dei suoi libri ma, spaziando dalle forme di comunicazione più canoniche - come tv, radio e giornali - a quelle più fluide - come podcast, social media, canali Youtube – ha saputo essere una comunicatrice a trecentosessanta gradi. Senza inoltre mai rinunciare alla fisicità delle piazze, dei festival culturali, delle università e delle scuole, dove era costantemente invitata a parlare, e in cui sapeva alternare, all’occorrenza e con dovizia, un registro alto e sufficientemente posato con il linguaggio informale della chiacchiera da bar.
E poi il femminismo e il ruolo di attivista a tutela dei diritti delle donne e delle minoranze - l’altra grande anima di Michela Murgia - che ha affiancato alla produzione letteraria e alla sua attività, spesso alimentandola. Tante le questioni per cui si è spesa in prima persona, spesso facendo scelte decise - come il contro-festival di sole donne organizzato a Verona nel settembre del 2020 in risposta al panel, composto esclusivamente da uomini, del Festival della Bellezza, tenuto pochi giorni prima nella medesima città - o scelte ritenute controverse - come l’“ingresso” nella carta stampata dello schwa, il suono vocalico che consente di rendere neutre le desinenze nella lingua italiana, in favore di un linguaggio più inclusivo - rivendicando la libertà espressiva del suo ruolo di scrittrice, da tener distinto da quello dei linguisti.
E ancora, si è battuta per l’uso del lessico di genere, quale necessità e al tempo stesso educazione ad un linguaggio che rispecchi la realtà e non la deformi; per il divario retributivo di genere, che ancora persiste e che contribuisce ad acuire dislivelli nei ruoli familiari prima ancora che nella società; per una reale garanzia del diritto all’aborto, spesso reso di difficile attuazione per l’elevata percentuale di obiettori di coscienza.
Ha raccontato, all’interno del ciclo Morgana, assieme alla scrittrice e amica Chiara Tagliaferri, storie di donne controcorrente, che hanno fatto scelte scomode e impopolari, ma che hanno così contribuito a ridefinire e ampliare il concetto di “femminile”, spesso limitante perché fallace nella sua parzialità; e storie di donne economicamente potenti, perché la vera emancipazione passa necessariamente attraverso l’indipendenza economica.
Fra le sue convinzioni, l’animava l’idea che il femminismo potesse generare un modello di potere realmente alternativo rispetto a quello esistente, capace di dar corpo ad una classe dirigente nuova, dove la cura e l’ascolto reciproco prendessero il posto di becere logiche di prevaricazione e in cui dar finalmente atto che “contro il potere che si struttura sempre avverso qualcosa, è possibile mettere in campo un qualcosa che invece è essere potenti insieme”.
A queste ed altre parole di Michela Murgia devo non solo di avermi avvicinato al femminismo, ma di avermi aiutato innanzitutto a riconoscere e a destrutturare il maschilismo che era in me e di cui ignoravo l’esistenza, e di questo le sarò per sempre grata. Perché, come lei a buon ragione diceva, “tutti - seppur incolpevolmente - siamo maschilisti, donne comprese, perché nasciamo e viviamo in una società patriarcale”. Ed è proprio questa radice culturale che rende il maschilismo subdolo, ed è per questo che di maschilismo siamo ancora tutti impregnati e chiamati a farci i conti, sia che esso si celi in episodi di corrente quotidianità, sia che esso si manifesti nella violenza più vile.
Ecco perché penso che voci come quelle di Michela Murgia, che piacciano o meno, siano importanti. Perché sono capaci di rompere gli schemi, di alimentare il dubbio, di aprire fessure che poi diventano varchi e da cui nascono labirinti. Ecco perché già manca e mancherà a persone come me, che la apprezzavano, e a persone per cui, pur non apprezzandola, sapeva essere fiamma che accende la miccia.
Quando attraverso l’intervista di Aldo Cazzullo, pubblicata a maggio sulle colonne de Il corriere della sera, ha rivelato pubblicamente la sua malattia, a lasciare di stucco non è stato solo l’atteggiamento stoico di fronte a quella sentenza di morte certa, ma la positività e la gratitudine per quanto aveva vissuto e quanto aveva ancora da vivere.
Rifiutando quel registro bellico che non l’è mai appartenuto, nel suo ultimo romanzo, Tre ciotole, solo in parte autobiografico, ha raccontato il processo di accettazione di quella “nuova formazione di cellule” all’interno del proprio corpo come una parte, ennesima, della propria complessità. Certo, un errore nel sistema, un bug, ma pur sempre una parte del proprio sistema, una parte di sé.
Pur non potendolo sapere, Michela Murgia è già la storia, scritta nell’aria, di una delle donne coraggiose che ci avrebbe raccontato. Una donna che non si è mai risparmiata, che si è rivelata forte nella propria e per la propria umana fragilità. Che è stata sovversiva fino al punto giusto, dirompente nel suo pensiero, senza filtri, libera sempre. Anche quando, poco prima di morire, ha aperto al mondo la realtà della sua famiglia, lontana anni luce da quella che semplicisticamente definiamo “tradizionale”. Fino all’ultimo, nelle occasioni pubbliche a cui ha partecipato, non ha mai fatto mancare il sorriso e la sua incessante ironia.
Il testimone che ci ha lasciato è certamente impegnativo ma è un testimone che, come lei avrebbe voluto, va afferrato - seppur ognuno nella propria individualità - a più mani. L’invito che ci ha fatto, attraverso il modo in cui ha affrontato la morte, è un richiamo assordante alla vita. Per cui, non aspettiamo di stare sull’orlo del precipizio per provare il brivido sulla pelle, non aspettiamo che arrivi una notizia nefasta a scuoterci per vivere senza riserve. Semplicemente viviamo nel senso pieno di ciò che significa vivere e anche di ciò che comporta. Con impegno, con passione, con dedizione, con consapevolezza, per noi e per gli altri. Per non morire vivendo, per non morire da ignavi.