Repetita iuvant: il “Rilancio dell’Italia 2020-2022” e le questioni di genere
Di Valentina Cardinali[1]
Sommario: 1. Cosa significa “genere” e perché parlare di “genere” è così controverso - 2. La parità di genere come driver del cambiamento - 2.1. Il contrasto agli stereotipi di genere - 2.2. Il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro - 2.3. La presenza delle donne nei luoghi decisionali - 2.4. I differenziali retributivi di genere - 2.5. La conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità - 2.6. Il sostegno per le donne vittime di violenza - 3. Riflessioni conclusive.
1. Cosa significa “genere” e perché parlare di “genere” è così controverso
Premetto che ci sono pochi termini che inducono fraintendimenti, interpretazioni ideologiche e contrapposizioni dialettiche, anche accese, quanto il termine “genere”. Una parola utilizzata troppo spesso come un’etichetta e non come una chiave di lettura, con la complicità di una comunicazione frettolosa, ambiziosa e, a volte, inutilmente audace. Ma cosa si intende esattamente per genere? Innanzitutto “genere” non è sinonimo di “femminile”. Quando si parla di “genere” si fa riferimento alla dimensione sociale e culturale dell’essere maschio o femmina, ai modelli di riferimento, ai ruoli sociali, a come la società stessa pensa e di conseguenza valuta e tratta la sua popolazione di uomini e donne. E di contro, anche cosa la società stessa “si aspetta” dalla sua popolazione di uomini e donne. Non c’è nulla di trasgressivo o rivoluzionario in ciò, ma semplicemente l’affermazione, che raccomanda l’UE dal 2002, che quando si mettono in atto un set di politiche bisogna considerare che si rivolgono a uomini e donne, che sono diversi per fattori biologici, ma anche per il contesto socioculturale complessivo in cui vivono e proprio per questo possono essere oggetto di problematiche specifiche e portatori di istanze diverse. Se essere uomo o donna in Francia è diverso che in Iran, vuol dire che il modello di vita, di cultura, le aspettative sociali che ne derivano sono diverse. Al pari di quanto possa esser diversa la condizione di donna lavoratrice o padre single in una piccola comunità montana o in una grande metropoli. Parlare di genere, quindi, significa far attenzione a tutto questo. A come le persone, essendo uomini e donne, sono inseriti in un contesto che può favorire la maggiore uguaglianza possibile sul piano formale e sostanziale, oppure può trasformare le differenze di “genere” in elementi di discriminazione. Se i tassi di occupazione di uomini e donne sono distanti è un problema di genere; se dopo la maternità 1 donna su 6 lascia il lavoro è un problema di genere; se i redditi da lavoro di uomini e donne a parità di mansione sono diversi è un problema di genere e si potrebbe continuare oltre. Non si tratta di questioni “personali” o ideologiche che riguardano una parte della cultura femminista. Si tratta di un problema del Paese, che convive con disuguaglianze strutturali (contrarie allo spirito della Costituzione e al concetto di sviluppo economico) e le perpetua, ma che è abituato a condirle con quel tanto di politically correct che non nuoce a nessuno e che allo stesso tempo non aiuta nessuno. Eppure, tranne i seguaci della cd. Teoria gender[2], nessuno si schiera apertamente contro le dichiarazioni di riduzione dei divari di genere nella società, ma nella pratica, le politiche che dovrebbero esservi dedicate sono quelle in cui i tagli di bilancio arrivano per primi e nei dibattiti parlamentari e mediatici, la questione è percepita come “importante” ma “di parte”, perché lo svantaggio delle donne non è tema del paese ma delle donne, al massimo delle famiglie, mentre le cassa integrazioni di operai maschi portatori di reddito in famiglia sono un tema del Paese. Ecco, su questo bisogna fare attenzione. Che l’ottica di genere non crei contrapposizioni all’interno dello stesso spazio sociale tra chi dovrebbe condividerlo. Il tema della parità di genere non può e non deve diventare uno strumento di competizione e di “lotta tra poveri”. Le disuguaglianze ingiustificate, a partire da quelle tra uomini e donne, non possono essere tollerate. Ma anche questa affermazione, che appare quasi banale, non è scontata. Si può essere in un contesto che assume come valore positivo l’inesistenza di rapporti gerarchici e di potere fondati sul sesso (di carattere economico, sociale, culturale), oppure in un contesto in cui il fattore sesso è ritenuto un giustificativo alla persistenza di differenze tra due categorie di persone. Pensiamo solamente al percorso faticoso che sta scontando la proposta di riforma del congedo di paternità, che affronta una disparità nel campo della gestione della genitorialità a danno degli uomini, ma è oggetto di fortissime resistenze da parte di tradizionalisti (dichiarati o inconsapevoli), convinti della necessaria primazia della figura maschile in campo economico e della “naturale” e quindi primaria posizione della donna come madre ed angelo del focolare (da cui ne discende che il suo lavoro di cura familiare, non retribuito dal mercato, la rende dipendente dal produttore maschio di reddito familiare, cd. modello male breadwinner). Resistenze che provengono anche da parte di una certa cultura organizzativa che trae linfa da quel modello culturale appena citato, ma che si alimenta anche di una struttura contrattuale e simbolica che, pur a scapito delle competenze, premia il tempo in presenza, la dedizione al lavoro come fedeltà esclusiva e valuta diversamente l’aspetto extralavorativo: se familiare, come “sfera privata” ossia una potenziale interferenza sulla produttività; se invece non legato ad obblighi familiari, come occasione di lobbying - prevalentemente maschile. Un esempio per tutti, tratto dal repertorio di casi denunciati alle Consigliere di parità, è dato dalle diffidenze che riscuote un uomo che richiede un giorno di congedo parentale, che non trova l’uomo che richiede un giorno di permesso per gare sportive, esami e motivi personali. In questo modo, senza prevederlo, la cultura manageriale contribuisce a rafforzare la divisione del lavoro tra uomini e donne e un modello di struttura sociale dicotomico e anacronistico rispetto alla sfida dei tempi.
2. La parità di genere come driver del cambiamento
Fatta questa lunga premessa, necessaria per capire cosa significhi, ancora oggi, parlare di questioni di genere in termini di proposta politica, veniamo al documento Iniziative per il rilancio "Italia 2020-2022" (c.d. Piano Colao) redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale coordinato da Vittorio Colao[3]. Il documento ha come slogan l’obiettivo di "Un'Italia più forte, resiliente ed equa" si fonda su 3 “assi di rafforzamento”: Digitalizzazione e innovazione di processi, prodotti e servizi, pubblici e privati, e di organizzazione della vita collettiva; Rivoluzione verde, Sostenibilità ambientale e benessere economico; Parità di genere e inclusione[4]. Le proposte si articolano in 6 macrosettori[5], (vedi fig.1) in ciascuno dei quali si dettagliano misure specifiche. Per ogni gruppo di proposte si evidenzia la matrice pubblica, privata o mista che ne deve fornire il finanziamento o l’attuazione e l’indicazione in termini di priorità (da attuare subito, finalizzare o strutturare). Il documento è stato consegnato al Governo come insieme di indicazioni a carattere consultivo non vincolante. Pertanto, mi soffermerò non sulla valenza generale del Piano o nel dettaglio delle singole misure, che saranno superate dagli eventi e dal favore che incontreranno a livello istituzionale, ma su quello che per i temi di genere, significa questo documento.
Indipendentemente dalla valutazione complessiva del Piano, stante quanto delineato in premessa, il fatto che la “parità di genere” sia inserita in uno dei tre driver prioritari per il rilancio del paese è sicuramente un punto importante a forte valenza simbolica - e di questo sicuramente va dato atto al lavoro della componente femminile della task force, inserita in corsa dopo una forte protesta della società civile contro la composizione maschile del comitato. Non che gli estensori dei documenti politici e gli esperti di tecnica legislativa non siano avvezzi a inserire il tema della parità di genere tra le premesse, tra i vari “visto” introduttivi, per assicurare dignità e coerenza con un poltically correct di stampo europeo. Ma in questo caso, si è introdotto un elemento più importante dell’omaggio dovuto: un vincolo espresso, che svela e nomina quello che solitamente non si esplicita in termini di causa ed effetto. E così, afferma che la ripresa non potrà essere tale se tutte le politiche che si mettono in atto e che si rivolgono al paese intero, composto di maschi e femmine, non garantiranno condizioni di eguaglianza formale e sostanziale, trattando le criticità specifiche dei rapporti di genere e affrontando i temi del riequilibrio di una disparità a tutti i livelli della partecipazione economica e sociale. Per questo trova spazio nel complesso del Piano l’attenzione specifica alla componente femminile, perché su tutti i piani menzionati essa rappresenta il termine debole del rapporto di genere. Sembra un’affermazione quasi banale per quanto coerente con l’art 3 della nostra Costituzione, eppure proprio questa affermazione di “principio” ha dato vita ad una serie di polemiche, luoghi comuni e facili ironie, che gli altri due temi prioritari (sostenibilità ambientale e digitalizzazione) non hanno affatto sollevato. E che dimostra ancora come sia arduo il percorso che porterà il nostro Paese ad essere una società inclusiva ed equa, che rispetti le diversità e rimuova tutti gli ostacoli che comportano differenze non giustificabili, ossia discriminazioni.

Nel dettaglio Per quanto riguarda la parità di genere, il Comitato propone azioni in quattro diversi ambiti:
a) il contrasto agli stereotipi di genere tramite azioni diversificate sul piano culturale, che agiscano fin dalle scuole primarie, riguardanti la pubblicità, i libri di testo, e l’educazione finanziaria.
b) il sostegno e lo sviluppo della partecipazione delle donne al lavoro, promuovendo la trasparenza sui livelli di impiego e retributivi tipici di uomini e donne, adottando quote di genere che garantiscano la partecipazione a organi apicali e consultivi e integrando la valutazione di impatto di genere (c.d. VIG) nei processi decisionali.
c) la conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità, lanciando un piano nazionale per lo sviluppo dei nidi pubblici e privati, incentivando gli strumenti di welfare aziendale e lo sviluppo di professionalità dedicate al work-life balance, operando la riforma dei congedi parentali e di paternità, e quella delle detrazioni fiscali per i figli e i bonus verso un assegno unico.
d) il sostegno per le donne vittime di violenza, quale ad esempio l’istituzione del reddito di libertà, l’accompagnamento all’inserimento nel mondo del lavoro e il rafforzamento dei centri anti-violenza, delle case rifugio.
Esaminiamo sinteticamente i 4 ambiti, nella consapevolezza, che - qui non abbiamo spazio di trattarla - all’interno di tutti gli altri ambiti del Piano è possibile ravvisare alcuni elementi utili a orientare le azioni in termini di riduzione dei differenziali tra uomini e donne (es: il tema dello smartworking, istruzione, formazione, competenze, imprenditoria ecc..)
2.1. Il contrasto agli stereotipi di genere
Il lavoro sugli stereotipi di genere è il primo tassello auspicabile e necessario. La costruzione del genere, dei ruoli e delle aspettative sociali, parte sin dalla prima infanzia e si veicola per tutto il corso della vita. Ma, sempre per stare agli esempi concreti, sino a che nei libri di testo e nelle pubblicità saranno rappresentate le donne come mamme o casalinghe e i padri come coloro che arrivano con la ventiquattrore quando la cena è pronta o leggono il giornale a tavola mentre la moglie cucina, sarà difficile ipotizzare una crescita delle nuove generazioni pienamente consapevole del senso della parità di genere e della condivisione dei ruoli in famiglia. Fino a che la bambola resterà un gioco da “femminucce” e il camion da “maschietti”, il bambino non potrà mai sperimentare quell’esercizio dei ruoli di cura e accudimento che poi gli sarà richiesto da padre. E non percepirà come normale farlo, mentre le bambine sono da sempre autorizzate a simulare nel gioco il loro futuro di madri, anche se poi non lo saranno[6]. La reiterazione dei messaggi porta alla costruzione di etichette che diventano prima stereotipi, poi pregiudizi. E il percorso è breve. Arriva sino al mondo del lavoro in cui la maternità viene considerata come un fatto personale di intralcio all’organizzazione del lavoro e quindi si preferisce assumere o promuovere un uomo perché, in quanto uomo, non si assenterà dal lavoro o non comprometterà la fedeltà al lavoro con altre distrazioni. Se poi, per caso, quell’uomo decidesse di assumere un ruolo genitoriale paritario, rischierebbe anche mediaticamente la derisione, trasformandosi da padre in “mammo”. E potremmo continuare oltre, a partire dall’uso del linguaggio in cui il maschile diventa anche neutro e ricomprende e sostituisce il femminile in tutti quei casi in cui, invece, l’italiano lo consentirebbe. Per poi arrivare all’aspetto più doloroso dello squilibrio di genere: la violenza maschile sulle donne, molto più facile in un contesto in cui la donna è percepita da sempre come anello debole di un rapporto non paritario, anche economicamente. Lo squilibrio diventa rappresentazione di una relazione di potere ed il potere viene esercitato nei modi in cui l’uomo sa e l’uomo può.
2.2. Il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro
Secondo aspetto, il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro, questione non solo di equità di genere ma anche di sviluppo economico, stante il livello di occupazione femminile che non raggiunge il 48%, con il record negativo al Sud di una sola donna su tre al lavoro. Più della metà dei talenti del nostro paese sono lasciati in panchina determinando una fetta di PIL che potrebbe essere attivata e che invece giace inerme. Da almeno venti anni questa sfida è persa, e di certo gli strumenti già sperimentati (incentivi economici, contributivi, piani di welfare ecc.) non sono stati adeguati. La sfida o la convenienza per le imprese non è stata evidentemente all’altezza della portata del cambiamento richiesto. Il Piano cerca di forzare la mano sostenendo la crescita dell’occupazione femminile soprattutto nelle funzioni di cura e assistenza di cui il paese ha bisogno, ma dimenticando alcune controindicazioni: con questa proposta si rafforza la segregazione professionale femminile, si ripropone il modello di donna care giver (a casa e al lavoro) e lo stereotipo della cura come ambito esclusivamente femminile, ma ancor più si dimentica che il settore di cura e assistenza è caratterizzato da bassi livelli retributivi e stagnazione professionale. Quindi se la direttrice primaria dell’incremento dell’occupazione femminile è associata a questa ipotesi, senza correttivi, significa automaticamente produrre più occupazione a basso reddito e contribuire all’aumento dei differenziali retributivi di genere. La chance di creazione di nuova occupazione non dovrebbe essere “a qualunque costo”, ossia non può essere accettabile scindere la quantità dalla qualità nella creazione di occupazione, altrimenti se bastasse solo la quantità potremmo essere comodamente un popolo di voucheristi o stagionali.
2.3. La presenza delle donne nei luoghi decisionali
Circa la presenza delle donne nei luoghi decisionali, accessibili non per merito ma per cooptazione, il tema dello scarso appeal del lobbying femminile è noto e radicato. C’è voluto un obbligo di norma con associata sanzione per aumentare la presenza femminile nei Cda, ma anche in questo caso non senza battaglie e polemiche sia da parte degli uomini fuori quota, sia da parte di un certo femminismo che rivendica senza compromessi la propria autonomia al di fuori di ogni meccanismo di quota. Personalmente faccio parte della schiera delle pro quota pentite, perché passata la stagione giovanile di fiducia nel merito e nelle competenze, a fronte delle insormontabili rigidità del sistema Italia, ad ampio spettro, mi sono convinta che a volte uno scossone serve, anche per via impopolare. D’altronde le quote, come ogni meccanismo di azione positiva, nella loro eccezionalità sono state pensate dal legislatore proprio per conseguire attraverso un’operazione di shock la finalità socialmente rilevante che per vie ordinarie non si è potuta raggiungere. Ovviamente si confida nella adeguata capacità di selezione delle donne in quota, pena ottenere l’effetto opposto a quanto progettato.
2.4. I differenziali retributivi di genere
E’ solo accennato nel Piano, perché oramai appartiene alla moda e alla retorica, ma è talmente complesso da un punto di vista tecnico da non far accettare la sfida di entrare nel merito, il tema dei differenziali retributivi di genere. Probabilmente su questo aspetto ci voleva più coraggio perché la questione è la spia definitiva di come le politiche e le culture organizzative delle imprese determinano i loro effetti di genere, ossia le ricadute su uomini e donne. Il tema è complesso e non è questa la sede per sviscerarlo, basti solo accennare che, al di là della parità retributiva sancita per norma, il differenziale si misura nella variabilità e discrezionalità della valutazione della produttività delle risorse umane. E di qui torna forte il tema di genere, ossia come sono percepite e remunerate le caratteristiche di uomini e donne che lavorano. E un tema come questo necessita non di strumenti di sotf law come linee guida e codici di condotta, ma di un presidio istituzionale di garanzia e di un ruolo concordato della contrattazione collettiva.
2.5. La conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità
Ultima considerazione sul tema della conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità. Premesso che sulla scelta del termine “conciliazione dei tempi di vita” sussiste un ampio dibattito, concordo con una sua riformulazione più aderente agli obiettivi delle politiche. I tempi di vita comprendono anche il lavoro, quindi il lavoro non ne è escluso. Inoltre proprio per la finalità importante di riduzione degli stereotipi e del mutamento culturale in ottica di genere, accanto a “conciliazione” va espresso il termine di “condivisione”, perché specifica come la funzione di riequilibrio tra lavoro ed esigenze di cura ampiamente intese debba essere svolta. A conciliare semplicemente, in modo equilibristico possono – e lo fanno da sempre – anche solo le donne. La condivisione invece implica che questa operazione di scelte valoriali e organizzative debba avvenire in condizione di parità nella coppia e nella famiglia. Proprio perché uomini e donne hanno uguali diritti e devono avere uguagli opportunità.
Il Piano affronta il tema delle compatibilità tra lavoro per il mercato e lavoro di cura, nei suoi diversi aspetti: aumento delle strutture dedicate alla fascia di figli 0-3 e misure di carattere promozionale e fiscale sulle famiglie già in dibattito nel cd. Family act. Prevede inoltre la creazione di un’apposita figura professionale del “Work life balancer” che in assenza di uno specifico dettaglio rischia di sovrapporsi alle funzioni già presidiate a livello istituzionale dai CUG, Comitati pari opportunità e Consigliere di parità territoriali, oltreché dagli organismi sindacali per quanto riguarda gli specifici luoghi di lavoro. Si tratterebbe, a mio avviso, di un’ennesima etichetta, un brand che ammanta un tema che ha già troppi proclami e poca operatività. Sono comunque, queste, tutte misure “da finalizzare” attraverso l’intervento pubblico. L’unica considerata come attuabile da subito con interventi privati è il sostegno al welfare aziendale, come era prevedibile stante il background dei componenti il Comitato. Anche questo, un tema importante da non poter liquidare in due righe. Da tenere presente solo un rischio di cui non si intravede argine: non affidare al welfare aziendale, proprio di contesti attrezzati per dimensione e budget, una funzione di sostegno al welfare che deve essere universale. Qui il tema di genere è forte. Così come la conciliazione non è “un problema delle donne”, così la sua “risoluzione” non è competenza esclusiva dell’azienda. Il welfare aziendale non può e non deve sostituire la funzione inclusiva del welfare universale e la politica non può prendersi la responsabilità di tagliare la spesa sociale facendo affidamento sulla capacità di sviluppo del welfare aziendale che per sua natura è privatistico e integrativo. Ultima notazione a questo proposito. Attenzione agli effetti di genere del welfare aziendale. Perché laddove il servizio offerto venga a sostituire parte del salario di produttività e laddove questi servizi vengano usufruiti principalmente da donne, avremmo sì la risoluzione di un problema di conciliazione, ma ancora una volta a carico delle donne e a detrimento del salario femminile. Quindi l’utilizzo del welfare aziendale ha profonde connotazioni di genere e può rischiare di aumentare il differenziale salariale tra uomini e donne.
2.6. Il sostegno per le donne vittime di violenza
Mi soffermo su questo ultimo punto non per commentare le misure, che purtroppo non sono mai adeguate e mai sufficienti, né per la fase di recupero né tanto meno per la fase di prevenzione su cui il nostro paese giace vergognoso e silente.
Questo tema ha una dimensione e una portata talmente grande che connotarlo come “parità di genere” appare quasi offensivo. La violenza di genere attiene alla dimensione dei diritti umani e ai presupposti di una società civile. Quindi stona parecchio vederlo come ultimo punto dopo un set di misure fiscali. E probabilmente questa scelta è una di quelle che fa gioco ai detrattori delle questioni di genere, intese come “roba da donne”. Essere oggetto di violenza non è questione di donne. Non essere più picchiate, abusate e violentate fisicamente e moralmente non è una questione di parità tra uomini e donne. Non lo sarebbe nemmeno se agli uomini maltrattanti fosse restituito il pari trattamento che hanno inferto. Quindi su questo punto la mia opposizione al guardare questo tema come parità di genere è totale ed etica, da donna e da cittadina di uno Stato demcratico.
3. Riflessioni conclusive
In conclusione, il Piano aveva come obiettivo fornire un set di indicazioni al Governo per orientare la ripresa nei prossimi due anni. Stante il suo mandato consultivo non vincolante la strada scelta è stata quella di non presentare una riflessione strategica e una progettazione esecutiva orientata alla fattibilità, ma un ventaglio di opzioni più o meno percorribili per tempi, risorse e vision politiche. In questo senso, il Piano, più che un documento di indirizzo politico, appare più simile un ampio brainstorming che ha accolto, evidentemente, input provenienti dall’ampia fascia di stakeholdier consultati dai componenti il Comitato, con la conseguenza di riflettere la matrice culturale ed aziendale anche propria del suo coordinamento. Era inevitabile che fosse così e non è opinabile, in quanto è il risultato di una scelta a monte – non a caso Mariangela Mazzuccato, economista e teorica de “Lo Stato Innovatore” non lo ha avallato. Ma non è nel merito del complesso lavoro del Comitato che si innesta questa riflessione, quanto invece sulla valutazione del ruolo che può esercitare per la definizione in chiave politica dei temi di genere. Assolutamente negativo il trattare il tema della violenza maschile sulle donne nella cornice della parità di genere e inclusione. Positivo, invece, il mettere sul tavolo la questione di genere come un aspetto da cui la ripresa del Paese non può prescindere, tanto da declinarlo in obiettivo e misure specifiche e inviarlo al Governo come piattaforma di lavoro. Tuttavia, al di là di quello che il Piano dice, è importante anche quello che non dice, ossia il messaggio che questa impostazione necessariamente implica e che va inviato al policy making. Ossia quello che si deve fare e quello che di conseguenza… NON si deve fare. La parità di genere non essendo “una questione di parte”, un “problema delle donne” ha un elemento di trasversalità che contamina il modo di progettare e attuare tutte le politiche, perché i target di beneficiari sono comunque composti da uomini e donne. E quindi ne consegue che nella fase di ripresa tutte le azioni da mettere in campo, non solo quelle orientate formalmente alla parità, NON devono contribuire – anche in modo non voluto ed inconsapevole - al rafforzamento dei fattori che attualmente determinano la disparità di genere nella vita politica economica e sociale. E questo è probabilmente l’aspetto più difficile rispetto alla declaratoria di buone intenzioni, perché significa assumere il problema del riequilibrio come “proprio” e dotarsi della visione con cui analizzare la situazione. La previsione tra le misure proposte non solo di statistiche di genere ma di un’attività di Valutazione ex ante dell’Impatto di genere (VIG) può essere un ottimo strumento di partenza per rendere stabile e istituzionale questo approccio. Quanto ai contenuti, ho anticipato già la sintesi: Repetita iuvant. Significa che non c’è nulla di straordinario o particolarmente innovativo nelle misure proposte. Nessuno shock del sistema per la ripresa. Le direzioni indicate non sono esaustive, ma sono adeguate, in linea con le indicazioni fornite da tempo dalla ricerca, dagli operatori e dagli stakeholder che operano su questi temi. Manca forse un po’ di coraggio su alcuni aspetti e un po’ di consapevolezza degli effetti anche non voluti degli slogan proposti. Ma l’insistenza constante sui temi che ancora non sono adeguatamente presidiati dalla politica attraverso misure incisive e soprattutto stabili nel tempo, serve e va apprezzata. Perciò Repetita iuvant e speriamo che questa sia la volta buona.
[1] Esperta di mercato del lavoro e politiche di genere. Ricercatrice INAPP e Consigliera regionale di parità del Lazio. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo gli Istituti di appartenenza.
[2] La cd. Teoria gender di derivazione anglosassone, sorta a fine XX secolo e sostenuta da ambienti tradizionalisti cattolici, afferma che gli studi di genere sottendano un progetto predefinito mirante alla distruzione della famiglia e di un supposto «ordine naturale» su cui fondare la società. Lo studio di genere viene imputato di propagandare l'inesistenza di qualsivoglia differenza tra i sessi biologici, da ciò discendendo la variabilità del proprio sesso a piacimento, nelle diverse fasce della vita degli individui (scuola, educazione, lavoro ecc.). Tra i molti commenti al Piano Colao, la sola presenza del termine “genere” ha fatto levare gli scudi di una parte dell’opinione pubblica, molto attiva anche sui social, che ha denunciato da l’aspetto di “deviazione” delle proposte, riferibili alla cd. teoria gender che, nonostante le smentite fondate ed argomentate, per diversi anni ha sollevato dibattiti ideologici circa la presunta deviazione delle menti apportata da un’educazione ed una comunicazione orientata ai ruoli sessuali e al concetto di parità legata ai ruoli.
[3] Il Comitato di esperti in materia economica e sociale istituito con DPCM del 10 aprile 2020 è composto da Enrica Amaturo, Donatella Bianchi, Marina Calloni, Elisabetta Camussi, Roberto Cingolani, Vittorio Colao, Riccardo Cristadoro, Giuseppe Falco, Franco Focareta, Enrico Giovannini, Giovanni Gorno Tempini, Giampiero Griffo, Maurizia Iachino, Filomena Maggino, Enrico Moretti, Riccardo Ranalli, Marino Regini, Linda Laura Sabbadini, Raffaella Sadun, Stefano Simontacchi, Fabrizio Starace.
[4] Si legge a pag. 6 del documento “per consentire alle donne, ai giovani, alle persone con disabilità, a chi appartiene a classi sociali e territori più svantaggiati e a tutte le minoranze di contribuire appieno allo sviluppo della vita economica e sociale, nel rispetto del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. La parità di genere – Obiettivo 5 dell'Agenda 2030 – è fondamentale per la crescita e deve diventare, per la prima volta, una priorità del Paese, anche grazie a valutazioni ex-ante delle diverse politiche economiche e sociali. Altrettanto cruciale è una drastica riduzione delle disuguaglianze economiche, territoriali e generazionali, che sono cresciute negli ultimi anni e che costituiscono un grave problema, oltre che di equità, anche di freno allo sviluppo economico e sociale del Paese”.
[5] 1. Le Imprese e il Lavoro, riconosciuti come motore della ripresa, da sostenere e facilitare per generare profonde innovazioni dei sistemi produttivi; 2. Le Infrastrutture e l’Ambiente, che devono diventare il volano del rilancio, grazie alla rapida attivazione di investimenti rilevanti per accelerare la velocità e la qualità della ripresa economica; 3. Il Turismo, l’Arte e la Cultura, che devono essere elevati a brand iconico dell’Italia, attraverso cui rafforzare sistematicamente l’immagine del Paese sia verso chi risiede in Italia, sia verso i cittadini di altri paesi;4. La Pubblica Amministrazione, che deve trasformarsi in alleata di cittadini e imprese, per facilitare la creazione di lavoro e l’innovazione e migliorare la qualità di vita di tutte le persone; 5. L’Istruzione, la Ricerca e le Competenze, fattori chiave per lo sviluppo; 6. Gli Individui e le Famiglie, da porre al centro di una società equa e inclusiva, perché siano attori del cambiamento e partecipi dei processi di innovazione sociale
[6] Su questo tema una breve fiaba per bambini (e adulti) è illuminante: La bambola di Alberto di Clothilde Delacroix, Charlotte Zolotow (trad.it Isabella Maria) EDT - Giralangolo, 2014