GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Cass. S.U. 25 marzo 2021 n. 8500 e fattispecie reddituali a efficacia pluriennale. Sulla rilevanza del valore della stabilità dei rapporti e del consolidamento delle fattispecie impositive in materia tributaria

    Cass. S.U., 25 marzo 2021, n. 8500 e fattispecie reddituali a efficacia pluriennale. Sulla rilevanza del valore della stabilità dei rapporti e del consolidamento delle fattispecie impositive in materia tributaria

    di Laura Castaldi

    Sommario: 1. Premessa - 2.  La posizione assunta dalle SS.UU. - 3. Premesse metodologiche - 4. Alcuni contributi al dibattito - 5. Le connesse problematiche alla valenza attribuita al principio di autonomia dei periodi impositivi - 5.1. Disquisizioni intorno all’“inerzia” e alla “non contestazione” con riferimento ad annualità pregresse definitive: a latere fisci  - 5.2. (Segue) a latere contribuente -  5.3. Sulla dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale  -  5.4. Un caso di prospective overruling procedurale? - 6. Considerazioni conclusive - 6.2. (Segue).    

    1. Premessa

    Ormai da tempo si registravano divergenze di vedute tra gli addetti ai lavori in ordine all’individuazione dei limiti temporali – in chiave necessariamente preclusivo-decadenziale – alla contestabilità nell’an da parte degli Uffici finanziari di quelle che, da ultimo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione - Cass. S.U. 25 marzo 2021 n. 8500 - hanno ritenuto identificare con l’espressione “fattispecie reddituali a efficacia pluriennale” ovvero – anche se giuridicamente non è affatto la stessa cosa – “elementi reddituali ad efficacia pluriennale” : volendo con ciò indicare omnicomprensivamente (ma, come vedremo poi, impropriamente) quei fatti ed eventi al verificarsi dei quali il legislatore tributario  ricollega effetti – fiscalmente rilevanti e conformanti il modo di essere sostanziale della fattispecie impositiva – destinati però a spiegarsi temporalmente in una pluralità (talvolta indefinita e indeterminabile ex ante)[1] di periodi d’imposta successivi a quello in cui il fatto ha integrato gli estremi di sua rilevanza fiscale. 

    In un panorama dagli incerti contorni, il recente profilarsi nella giurisprudenza di legittimità di un orientamento interpretativo che, a nostro parere, scandiva rigorosamente la scansione temporale dei contenuti accertativi degli Uffici in stretta osservanza dei termini decadenziali posti dal legislatore a presidio della loro elevazione, ha suscitato inaspettate reazioni ansiogene. Indotte forse da timori su possibili inefficienze o inadeguatezze della macchina amministrativa nel garantire un’efficace azione di contrasto all’evasione fiscale: e così, alla fine, è scattato l’altolà.

    Talché – pur in assenza di un reale contrasto giurisprudenziale - all’indomani delle sent. 9993/2018 e 2899/19, con ben quattro ordinanze interlocutorie[2] le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi su di una questione di massima della “particolare importanza”: consistente, appunto e come già detto, nello stabilire se la contestabilità nell’an di un componente redditualmente rilevante ad efficacia pluriennale venga meno per gli Uffici finanziari con il maturarsi del termine decadenziale di rettificabilità in accertamento della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui siffatto componente reddituale pluriennale ha visto integrarsi la sua fattispecie costitutiva, ovvero se tale profilo di sua contestabilità in accertamento si conservi con riferimento a tutti,indiscriminatamente, i successivi periodi impositivi in cui esso è destinato, talvolta per volontà del contribuente talaltra per disposizione di legge, a spiegare i suoi effetti in chiave conformativa della fattispecie impositiva.  

    2.  La posizione assunta dalle SS.UU.  

    La pronuncia che ne è scaturita – si tratta come è noto della sent. 25 marzo 2021 n. 8500 – ha visto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sposare quest’ultima opzione interpretativa: con un percorso argomentativo che, al di là dell’incedere un po’ farraginoso del ragionamento, si riassume a guardar bene in un paio di decisivi passaggi che possono qui agevolmente sintetizzarsi.

    La dichiarazione dei redditi è un atto, recettizio, dichiarativo di scienza: come tale, esso è deputato a riportare ed esporre – in chiave doverosamente partecipativa rispetto agli Uffici finanziari– fatti che assumono rilevanza giuridica in ragione degli effetti (fiscalmente rilevanti) che vi ricollega il legislatore ai fini della determinazione/rilevazione, con cadenza annuale, del reddito imponibile riferibile ad un determinato contribuente.

    Alcuni fatti sono, per legge o per volontà del contribuente, destinati a rilevare giuridicamente, in chiave di loro incidenza quanto alla determinazione del risultato reddituale imponibile del contribuente, con riferimento ad una pluralità di periodi d’imposta[3]; con ciò trovando (o dovendo trovare) reiterata esposizione in tutte le corrispondenti dichiarazioni dei redditi interessate da tale loro, temporalmente pluriennale, rilevanza giuridica.

    Poiché l’attività ricognitiva in accertamento degli Uffici finanziari ha ad oggetto la verifica di correttezza, fedeltà e compiutezza del risultato reddituale complessivo e unitario annualmente riferibile al contribuente, così come emergente dall’articolato e composito iter di sua rilevazione da costui operato (o che avrebbe dovuto essere operato) in sede dichiarativa, ogni fatto che è destinato a incidere su tale risultato è suscettibile di essere sottoposto a verifica e ad eventuale sindacato da parte degli organi accertatori fino allo spirare del corrispondente termine decadenziale di accertamento, senza limiti contenutistici di sorta: con la conseguenza che rispetto a “fatti” aventi valenza reddituale pluriennale, nessun effetto preclusivo quanto alla loro contestabilità in accertamento potrebbe farsi discendere per effetto della loro eventuale mancata contestazione – e intervenuta incontestabilità per compiuto maturarsi dei relativi termini decadenziali di accertamento – da parte degli Uffici finanziari con riguardo alla dichiarazione dei redditi relativa al periodo impositivo nel quale si è verificata quella che la Corte chiama (tradendo un certo imbarazzo concettuale) la loro “genesi causale sostanziale”, e che noi riterremmo invece più corretto chiamare la loro fattispecie costitutiva sostanziale.  

    3. Premesse metodologiche  

    Ci permettiamo, rispettosamente, di dissentire dalla posizione espressa dalla Suprema Corte.

    E la ragione del nostro dissenso si riassume e si sintetizza in una constatazione magistralmente espressa, per l’appunto, proprio dalla Suprema Corte laddove questa – con un ricorso all’utilizzo grammaticale del modo condizionale che si disvela davvero ricco di significato quando calato nel contesto  - rileva come “nella soluzione prospettata, l’amministrazione finanziaria potrebbe contestare il fatto generatore ed il presupposto costitutivo dell’elemento pluriennale anche a molti anni di distanza dal suo insorgere”.

    Non si poteva dire meglio per evidenziare il risultato ultimo cui conduce il pronunciamento in rassegna e l’incidenza vanificatoria che esso è destinata a spiegare sul senso e sulla funzione da ascrivere alla natura decadenziale dei termini temporali di accertamento nella logica di sistema che impronta la nostra materia, e sul loro impatto rispetto ad un settore – quello delle imposte sui redditi – dove la disciplina sostanziale e – necessariamente di riflesso – quella procedurale e processuale sono impegnate a coniugare il continuum di venuta ad esistenza dell’indice di espressività di capacità contributiva con la necessità di una sua frazionata rilevazione, a sua volta funzionale alla periodicità di suo assoggettamento a prelievo.

    Del resto, come la pensiamo in argomento abbiamo già avuto modo di dirlo altrove, in tempi non sospetti e con dovizia di elementi a corredo[4].

    Anche per rispetto dell’economia di una nota quale vuol essere la presente, non ci soffermeremo, dunque, in questa sede a disquisire sui diversi passaggi argomentativi che la Suprema Corte dispiega a sostegno della posizione interpretativa adottata: posto che ciò, fra l’altro, comporterebbe il dover scomodare e mettere in ballo una serie di questioni e problematiche assai complesse che finirebbero per essere trattate necessariamente in superficie e, dunque, senza costrutto alcuno. Quando, per contro, la presa di posizione della Suprema Corte, anche se non certo inaspettata quanto al suo contenuto, ha subito sollevato reazioni di segno vario e diverso: talché già si profila un certo fenomeno inflazionistico di commenti che non è nostra intenzione ulteriormente implementare.  

    4. Alcuni contributi al dibattito  

    Ci sia però consentito avanzare qualche breve spunto di riflessione, a titolo di mero contributo, al vivace confronto dottrinale e giurisprudenziale già in corso.

    In primo luogo, riteniamo che la delicatezza e il polimorfismo della questione in discussione[5] avrebbe dovuto consigliare una maggiore cautela nell’affrontarla nei termini assolutamente generali e oggettivamente indiscriminati prescelti invece dalla Suprema Corte, pur nella dichiarata consapevolezza della sua complessità[6].

    La decisione ci sembra sia stata un po’ precipitosa e, tutto sommato, non una buona idea.

    Problemi complessi spesso richiedono soluzioni complesse e opportuni distinguo. L’operata scelta per la generalità e univocità di risposta ha finito invece – a nostro parere – per ripercuotersi e andare a discapito della linearità (ma soprattutto della coerenza intrinseca anche solo lessicale) del pensiero dei Supremi Giudici: che infatti prende le mosse da un orizzonte amplissimo – dove sono richiamate a descrivere il quadro di riferimento, senza distinzioni di sorta, perdite e ammortamenti, sopravvenienze attive, detrazioni e crediti d’imposta - prosegue altalenando pericolosamente tra “fattispecie reddituali pluriennali”, “componenti economici e patrimoniali con rilevanza pluriennale”, elementi con “genesi causale sostanziale” in un determinato periodo d’imposta ma “efficacia poliennale”, per infine approdare a circoscrivere l’attenzione e calibrare il discorso – giusta, probabilmente, l’oggetto del contendere rimesso alla cognizione della Suprema Corte – sulle sole categorie reddituali a rilevazione analitico-contabile dove la disciplina di rilevazione della redditività imponibile, per il reddito d’impresa anche in ragione del principio di derivazione, vede una continuità di rilevanza fiscale di molti componenti positivi e/o negativi di reddito in proiezione ultrannuale.

    In questo panorama assai composito, il punto di criticità a nostro parere sta nel ridurre il tutto ad una questione di “fatti” o meglio ad una questione di “narrazione di fatti” concorrenti al risultato reddituale imponibile[7] : rispettivamente da parte del contribuente nella dichiarazione e, in termini necessariamente simmetrici, da parte dell’Ufficio nell’atto di accertamento in rettifica (non a caso, quest’ultimo, denominato tale dal legislatore).

    Abbiamo l’impressione che la questione non stia esattamente in questi termini. Né in senso assoluto né in senso relativo.

    Che né la dichiarazione né l’accertamento siano, o siano solo, una semplice narrazione reciprocamente partecipativa di meri fatti lo dimostra proprio la latitudine del giudicato tributario: che copre con il crisma della definitività l’accertamento/cognizione che il giudice compie non solo della posizione di debito/credito rispettivamente del contribuente e dell’Amministrazione finanziaria, ma anche del modo di essere della fattispecie impositiva, nei suoi elementi costitutivi da cui si estrinseca il rapporto obbligatorio d’imposta intercorrente tra le parti in causa, coltivando la propria attività cognitiva entro il recinto non solo fattuale, ma anche valutativo, che gli viene riportato dalle parti, e nella dichiarazione e nell’atto di accertamento che tale dichiarazione rettifica, nei limiti di ciò che costituisce il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio sotto il profilo oggettivo e motivazionale.

    Il contribuente non si limita ad esporre fatti, ma ne offre una declinazione/rappresentazione fiscalmente rilevante proprio attraverso il veicolo della dichiarazione (anche, se del caso, per il tramite di propri comportamenti concludenti a carattere omissivo): lo spirare dei termini decadenziali di rettifica in accertamento della dichiarazione (e, corrispondentemente per il contribuente, di sua emendabilità ex art. 2, co. 8, lg. 322/1998) comporta la cristallizzazione della rappresentazione della fattispecie impositiva che ne scaturisce e che ne è contenuta con quel valore di immutabilità anche pro futuro che è cifra proprio di quell’esigenza di stabilità dei rapporti tributari e presidio alla coerente rilevazione del loro sviluppo temporale che la sentenza della Suprema Corte mette ora pericolosamente in crisi, e sui cui risvolti ci soffermeremo più oltre. 

    Ma il discorso vale, a maggior ragione, in senso relativo: è sufficiente concentrare l’attenzione sulle cd. “fattispecie ad efficacia pluriennali” che la Corte elenca a titolo esemplificativo nella sentenza per convincersene. Posto che vi si trovano annoverate le perdite pregresse e i crediti d’imposta riportati a nuovo la cui contestabilità, nei termini riconosciuti come ammessi dalla sentenza, non può che comportare necessariamente la rimessa in discussione dell’intero modo di essere dell’imponibile, ovvero addirittura del risultato finale liquidatorio d’imposta, con prospettica riferibilità a periodi impositivi ormai definitivi.

    Senza contare che non tutto ciò che la Corte elenca come ricompreso nella sfera d’interesse della sua pronuncia è destinato in realtà a spiegare rilievo in chiave pluriennale sul versante della determinazione del risultato reddituale: com’è invece sicuramente per ammortamenti, sopravvenienze attive, rateizzi di plusvalenze, accantonamenti. Così non è per le detrazioni che incidono ex post sulla liquidazione dell’imposta netta, come pure, e a maggior ragione, per i crediti d’imposta riportati a nuovo che rilevano ai fini della determinazione dell’imposta da versare e fermo restando che anche sul versante dei componenti con rilevanza reddituale pluriennale si potrebbero/dovrebbero operare opportuni  distinguo considerando che presentano tale caratteristica anche taluni oneri deducibili (com’è nel caso di cui all’art. 10, lett. e-bis, del T.U.I.R.) che però solo impropriamente possono dirsi concorrere alla determinazione del risultato reddituale complessivo del contribuente.

    Ci sembra che una simile multiforme varietà di situazioni meriterebbe un’adeguata considerazione prima di essere pacificamente ricondotta ad un’unica disciplina: per giunta sotto un aspetto di così rilevante importanza qual è quello dell’accertamento.  

    5. Le connesse problematiche alla valenza attribuita al principio di autonomia dei periodi impositivi  

    Ci sono poi alcuni, chiamiamoli così, profili di dettaglio (o meglio, di contorno) che rimangono sullo sfondo nell’economia della sentenza ma che – sulla scorta della declinazione interpretativa offerta in ordine al principio di autonomia dei periodi d’imposta, quando sviluppata coerentemente – non paiono di facile risoluzione e aprono prospettive d’indagine tanto complesse quanto inaspettate.  

    5.1. Disquisizioni intorno all’“inerzia” e alla “non contestazione” con riferimento ad annualità pregresse definitive: a latere fisci  

    In primo luogo c’è da chiedersi se, ed eventualmente quale, significato debba attribuirsi pro futuro all’eventuale omessa contestazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di un cd. “componente reddituale pluriennale” nel contesto e all’esito di un’attività di controllo e verifica che abbia interessato una annualità rispetto alla quale essa (non contestazione) abbia assunto i crismi della definitività: e ciò nella duplice prospettiva che l’attività istruttoria sia sfociata, alternativamente, in una chiusura delle operazioni senza elevazioni di sorta (e il relativo termine decadenziale di accertamento sia medio tempore maturato) ovvero abbia condotto, sì, alla notificazione di un avviso di accertamento, ma riportante rilievi e contestazioni altri e diversi rispetto al suddetto componente reddituale pluriennale (irrilevante risultando poi a questo riguardo il fatto che l’atto di accertamento sia o meno stato oggetto di ricorso da parte del contribuente).

    In questo caso, infatti, la tesi della Suprema Corte  – secondo la quale all’(intervenuta definitività per maturazione dei termini di espletamento dell’) inerzia dell’amministrazione all’accertamento – stante la mera eventualità di quest’ultimo – non potrebbe mai attribuirsi alcun significato concludente, men che mai ingenerante un legittimo affidamento nel contribuente quanto alla corrispondente correttezza della propria condotta fiscale nel trattamento di un componente reddituale pluriennale valevole anche pro futuro – si rivelerebbe assai poco pertinente e forse addirittura impropriamente invocata: posto che, nell’ipotesi prospettata,  l’inerzia si atteggerebbe a relativa (riguardando il singolo componente reddituale pluriennale) ma non assoluta, inserendosi piuttosto in un’attività di verifica e accertamento positivamente espletata dall’Ufficio: e anzi, solo impropriamente in un contesto siffatto potrebbe parlarsi di inerzia[8], dovendosi invece più opportunamente parlare di mancata contestazione e, dunque, di positiva condivisione, ad opera degli organi accertatori, delle valutazioni fiscali operate dal contribuente in sede dichiarativa quanto al regime applicabile al componente reddituale pluriennale.

    Ci lascia davvero perplessi, in un simile orizzonte, sostenere che il principio di autonomia dei periodi d’imposta osti al riconoscimento di un qualsivoglia effetto preclusivo a future contestazioni da parte dell’Ufficio finanziario circa il trattamento fiscale riservato al componente reddituale pluriennale dal contribuente nelle successive dichiarazioni d’imposta.  

    5.2. (Segue) a latere contribuente  

    In ogni caso, la posizione assunta dalla Suprema Corte – con conseguenze ancor più complesse a seconda di come risolviamo la questione appena sopra tratteggiata – non può non ribaltarsi e investire specularmente anche la parte contribuente: la quale dunque, simmetricamente, si ritiene alcuna preclusione di sorta dovrebbe incontrare nell’adempimento dei propri obblighi dichiarativi pro futuro, non solo dall’intervenuta definitività (per maturato termine di loro rettificabilità) di precedenti dichiarazioni quanto all’an, quomodo e quantum di rilevanza fiscale assegnato ad un determinato componente reddituale pluriennale dalle stesse emergenti,[9] ma addirittura dalla mancata impugnazione in toto o in parte qua di un avviso di accertamento dell’Ufficio finanziario che tali profili, nei loro diversi profili di espressione, fosse venuto precedentemente a contestare.

    Ed invero, posto che il principio di autonomia dei periodi d’imposta – a maggior ragione nella logica seguita dalle Sezioni Unite – spiega rilievo sul piano sostanziale, esso non ha coloriture di parte e, dunque, la sua lettura dovrebbe necessariamente declinarsi a doppio senso e valere tanto per l’amministrazione finanziaria in sede di verifica in accertamento quanto per il contribuente in sede dichiarativa. Insomma, se la definitività non è preclusiva non lo può che essere a doppio senso. Con buona pace della coerenza e continuità di rilevazione della materia imponibile e/o di conformazione della fattispecie impositiva – pur nella periodizzazione della sua rilevazione ai fini della sua, del pari periodica, soggezione al prelievo – che impronta tutta la disciplina sostanziale in materia di imposte sui redditi.

    Con l’ulteriore complicazione – ma di questo facciamo solo rapido cenno perché l’argomento, nella sua complessità, richiederebbe ben altri spazi di approfondimento – che un simile scenario potrebbe risultare suscettibile di comportare conseguenze di non poco conto, laddove il cd. componente reddituale pluriennale sia destinato a rilevare fiscalmente non solo direttamente (e dunque in sé e per sé quale elemento concorrente in positivo o negativo alla determinazione del risultato reddituale imponibile di una pluralità di periodi impositivi), ma altresì ad incidere indirettamente nella determinazione di altre componenti reddituali non pluriennali: com’è segnatamente nel caso degli ammortamenti, per quanto attiene poi alla determinazione delle plusvalenze/minusvalenze dei beni cui essi afferiscono nel contesto del reddito d’impresa o di lavoro autonomo.

    La prospettiva d’indagine richiede un po’ di sforzo di immaginazione per essere adeguatamente sviluppata ed esplorata, forse non conduce da nessuna parte ma la nostra sensazione è che qualche opportuna verifica in argomento andrebbe fatta, se non altro per capire se la rigorosa logica delle simmetrie fiscali (oggettive e/o soggettive) che impronta in generale tutto il sistema di imposizione sui redditi, ed in particolare la disciplina di rilevazione analitica del reddito d’impresa e di lavoro autonomo, regge comunque in questo diverso scenario e conserva la sua intrinseca coerenza.

    La fantasia poi potrebbe portarci lontano e, allargando l’angolo di visuale, farci chiedere se la lettura dell’art. 7 del T.U.I.R. in punto di “autonomia ed annualità dei periodi d’imposta” – ritenuti dalla Suprema Corte i “fattori interpretativi chiave per la risoluzione del problema” – sia destinata a spiegare qualche significativo impatto sul versante della disciplina degli interpelli e, in particolare, quanto al requisito della preventività della loro proposizione rispetto alla posizione in essere della fattispecie concreta, relativamente alla quale si predica l’obiettiva incertezza applicativa di una determinata disposizione normativa. Condizione, quella della preventività, la cui richiesta ricorrenza tanto limita l’accessibilità a siffatto strumento e l’utilità del medesimo nel consolidare il rapporto di cooperazione tra Amministrazione finanziaria e contribuenti di cui è istituzionalmente auspicato veicolo di attuazione[10].

    Non è detto che la pronuncia in rassegna sia destinata ad aprire interessanti prospettive di non lieve momento sotto questo profilo.   

    5.3. Sulla dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale   

    Ma senza divagare troppo e tornando strettamente in medias res, particolarmente stringenti ci sembrano invece i problemi che, neppure troppo sullo sfondo, emergono dalla sentenza per quanto attiene alla dilatazione dei termini temporali relativi agli obblighi di conservazione della documentazione dimostrativa dell’elemento pluriennale: che, se abbiamo compreso bene il ragionamento della Corte, dovrebbero andare di pari passo, adeguandosi e calibrandosi consequenzialmente – quanto al loro dies a quo e relativo loro dies ad quem – con riferimento ai termini decadenziali di accertamento della dichiarazione relativa all’ultimo periodo impositivo di rilevanza fiscale dell’elemento reddituale pluriennale: permanendo inalterata, lungo tutto il corrispondente arco temporale dichiarativo, e a prescindere da medio tempore intervenute definitività di singole annualità per sopravvenuta maturazione dei termini decadenziali di rettifica delle relative dichiarazioni, la verificabilità in accertamento ed eventuale contestabilità, ad opera dell’Ufficio finanziario, dei suoi fatti generatori e dei suoi presupposti costitutivi, a prescindere dal periodo d’imposta cui sarebbe riconducibile la loro insorgenza.  

    5.4. Un caso di prospective overruling procedurale?  

    Ora, a noi sembra che qui il problema non sia solo – in via di principio – di pratica applicabilità sul piano operativo, oltreché di resistenza in chiave giustificativa secondo i canoni della proporzionalità e della ragionevolezza, di un simile costrutto.

    E che già, sotto questo profilo, molto si potrebbe dire: quando solo si consideri che – stante la varietà e vastità delle fattispecie annoverate dalla Corte (e annoverabili) nell’orbita delle cd. componenti reddituali pluriennali, come tali soggette ai principi enunciati nel suo pronunciamento – l’obbligo di conservazione documentale nei termini declinati dalla Corte può investire sia imprese che lavoratori autonomi, ma anche semplici contribuenti non tenuti alla contabilità[11], può concernere singoli specifici componenti reddituali, ma anche componenti pluriennali che generano e traggono loro fondamento costitutivo nella stessa complessiva fattispecie impositiva relativa ad un determinato periodo impositivo[12], può abbracciare archi temporali ragionevolmente contenuti, ma anche potenzialmente illimitati o straordinariamente ampi[13]. Il tutto, in evidente attrito rispetto alle evocate semplificazioni e all’alleggerimento dagli incombenti formali che sembra andare per la maggiore in questo frangente storico.

    C’è, in verità, qualcosa di più.

    Non soltanto le espressioni lessicali utilizzate[14], ma proprio la manifesta difficoltà della scansione argomentativa spesa a supporto in parte qua del ragionamento, sembrano tradire la consapevolezza della Corte circa l’intrinseca novità (potremmo chiamarla, forse più correttamente, ragionevole imprevedibilità) che la propria posizione interpretativa in merito ai termini decadenziali di contestabilità in accertamento dei cd. componenti reddituali pluriennali è destinata a spiegare, come ricaduta procedurale[15], sulla parallela prospettica dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale a carico dei contribuenti. La fatica di far quadrare il cerchio è evidente: come emerge laddove si richiama (a onor del vero con grande onestà intellettuale) il proprio precedente in termini, che però purtroppo suona di tenore esattamente opposto a quanto si pretenderebbe sostenere[16], tentando di dargli un senso coerente con gli assunti predicati; come pure laddove si cerca malamente di sminuire la portata dell’art. 8, co. 5, dello Statuto dei diritti del contribuente per un verso scomodando (fra l’altro discutibilmente) la gerarchia delle fonti, per l’altro sottolineando la connotazione di disposizione di principio da attribuire alla disposizione per contrabbandarne la non applicabilità ai casi di specie, descritti come “ipotesi del tutto caratteristiche”: quando solo poche pagine prima la Corte si è dilungata a constatare la frequenza sempre maggiore che il fenomeno del “differimento pluriennale” registra nel sistema impositivo reddituale per ciò che strumento di equo contemperamento dell’esigenza di preservare il gettito erariale e, al contempo, di ricorrere alla leva tributaria in chiave incentivante per l’attuazione di politiche di modernizzazione e rilancio anche economico (come nel settore edile), ovvero per il perseguimento di obiettivi virtuosi (la tutela dell’ambiente, la salvaguardia del territorio ecc.).

    Con un problema di non poco conto che nel frattempo si pone: che sta nell’ esigenza di tutelare, sotto questo versante, il legittimo affidamento medio tempore riposto dai contribuenti nel quadro normativo vigente e nella lettura giurisprudenziale fino ad oggi offertane: esigenza di tutela cui non sembra soddisfacentemente rispondere il richiamo della Corte – quasi alla stregua di una valvola di chiusura – al dovere di ammettere, in sede contenziosa, il contribuente a fornire in altro modo la prova posta a suo carico, in tutti quei casi nei quali vi siano in concreto elementi per ritenere che egli si sia legittimamente privato oltre il termine decennale della documentazione fiscale. Se non altro perché il problema qui è a monte rispetto al diritto di difesa e della prova in giudizio: e riguarda, appunto e prima ancora, la fase endoprocedimentale istruttoria dell’accertamento. Il cui compiuto e soddisfacente svolgimento – secondo un principio di parità delle parti che è il riflesso della buona fede reciproca – - è spesso la miglior profilassi al proliferare del contenzioso: come dimostra di ritenere il legislatore tributario per effetto del combinato disposto dell’art. 5-ter del D.L.vo n. 218/1997 e dell’art. 12 della lg. n. 212/2000.

    Insomma, la pronuncia in rassegna profila un problema di possibile lesione del diritto di difesa per tutti quei contribuenti che alla sua stregua si troveranno in difetto rispetto all’adempimento degli obblighi di conservazione documentale così come da essa conformati, per aver riposto affidamento nel disposto dell’art. 2220 c.c. e nell’art. 8, co. 5, della lg. 212/2000, anche alla luce dell’interpretazione datane dalla stessa Corte con la pregressa sent. 9834/2016: problema che però la Corte non affronta né tanto meno risolve e che pare anche di difficile e complessa risoluzione.

    Per quanto ci riguarda, dunque, sono molti i punti d’ombra che la sentenza in commento lascia aperti e che potrebbero forse – lo auspichiamo – condurre a qualche ulteriore approfondimento e opportuna puntualizzazione da parte della Suprema Corte: come del resto è già successo con riferimento ad altre questioni, anch’esse particolarmente complesse e di massimo rilievo.[17]  

    6. Considerazioni conclusive

    Ma il punto più interessante per noi è un altro: ed esorbita dalla stretta presa di posizione in ordine alla condivisibilità o meno, dal punto di vista squisitamente giuridico, della soluzione interpretativa adottata dalla Suprema Corte. Su cui abbiamo appena manifestato brevemente alcune nostre riserve. Esso riguardando piuttosto le ripercussioni a più vasto raggio che la sentenza in rassegna, con i suoi assunti di principio, è destinata a spiegare:

    - e sul versante dell’agire amministrativo, in particolare quanto all’efficienza e al suo buon andamento costituzionalmente pretesi;

    - e sulle scelte e sulle condotte del contribuente: sia come tale, che nel suo essere, a monte, homo oeconomicus in tale veste del pari tutelato dalla Costituzione nel valore della sua libertà appunto di iniziativa economica;

    - e, più in generale, sul buon funzionamento del sistema.

    Partiamo da quest’ultimo profilo.

    Apparentemente, la posizione della Suprema Corte sembrerebbe rappresentare un ottimo punto di approdo nella ricerca di un difficile e precario equilibrio tra due opposte esigenze:

    - per un verso quella, diciamo, di tutela del cd. “interesse fiscale”  a che sia garantita la massima ampiezza di controllo/verifica/contestabililità e rettificabilità di tutto ciò che, a vario titolo, emerge dalla singola, specifica, dichiarazione d’imposta del contribuente come concorrente alla determinazione del risultato imponibile e/o alla liquidazione del tributo da versare con riferimento al relativo periodo d’imposta: in un’ottica di salvaguardia del gettito tributario e di efficace contrasto all’evasione, e quasi come contrappeso alla mera eventualità dell’accertamento e all’asimmetria conoscitiva che in tal sede caratterizza la posizione dell’Amministrazione finanziaria rispetto al contribuente quanto alle vicende fiscalmente rilevanti che lo riguardano;[18]

    - per l’altro verso, quella del contribuente (ma che la Corte correttamente ascrive a interesse generale ed espressione di civiltà giuridica) a che si pervenga, entro un termine ragionevole, alla stabilizzazione del rapporto giuridico tributario che gli fa carico: così da non trovarsi sine diein balìa” di quelle che la Suprema Corte chiama iniziative recuperatorie – ma che noi riterremmo più corretto indicare come iniziative contestatorie (e solo conseguentemente recuperatorie) – del Fisco.

    È vero sì, infatti,  che l’Amministrazione può sempre mettere in discussione i fatti presupposti e gli elementi costitutivi del componente reddituale pluriennale con riferimento a qualunque delle dichiarazioni nelle quali esso componente rileva fiscalmente, a prescindere dalla mancata rettifica (in parte qua?) della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui essi (fatti presupposti ed elementi costitutivi) sono venuti ad esistenza o di altre successive, ma – ecco la chiave di volta – ciò nessuna incidenza spiegherà sull’eventuale intervenuta definitività, per medio tempore compiuta maturazione dei rispettivi termini decadenziali di accertamento, delle precedenti dichiarazioni in cui tale elemento abbia comunque spiegato rilievo nella conformazione della fattispecie impositiva.

    Talché – ecco la chiosa della Suprema Corte – niente può eccepirsi quanto al risultato: per ogni singolo periodo impositivo i termini di rettificabilità della relativa dichiarazione e, correlativamente, di accertamento della relativa obbligazione d’imposta rimangono sempre e costantemente quelli di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973.

    A noi sembra però che, così argomentando, la Suprema Corte non colga che proprio qui sta il punto di criticità sistematica della soluzione interpretativa sposata: il pegno da pagare per non riconoscere l’allungamento dei termini di accertamento in danno dei contribuenti e, nello stesso tempo, per non prefigurare preclusioni accertative in danno degli Uffici finanziari, sta nel riconoscere come strutturalmente possibile la disomogeneità e non coerente continuità di rilevazione del modo di essere della fattispecie reddituale imponibile in quel suo divenire temporale che trova espressione proprio (anche se non solo) nei cd. elementi reddituali pluriennali.

    In evidente contrasto con quella che è la conformazione del rapporto alla stregua della sua disciplina sostanziale.  

    Quanto ciò sia sostenibile a livello sistematico e costituzionale abbisognerebbe di essere adeguatamente approfondito: considerato che la disciplina procedurale (così come quella processuale) è servente rispetto quella sostanziale e non viceversa.

    Si tratta di un campo di riflessione molto complesso, già emerso ed emergente sotto altri e diversi profili nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale[19], che richiede probabilmente un intervento organico a più vasto raggio rispetto al quale non può adeguatamente supplire solo l’elucubrazione giurisprudenziale della Suprema Corte.  

    6.2. (Segue)  

    Per quanto attiene poi agli altri due precedenti aspetti, ci permettiamo solo alcune brevi divagazioni senza alcuna pretesa di approfondimento.  

    Quanto al primo profilo, abbiamo l’impressione che varie siano le questioni su cui meriterebbe riflettere.

    Già di per sé, oggi, i termini di accertamento ai fini delle imposte sui redditi sono, nella loro oggettività, estremamente dilatati. Anche volendoci limitare all’attività di accertamento in rettifica, lo spirare del relativo termine decadenziale è attualmente fissato al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione: termine, già considerevolmente ampio, che immancabilmente si sospende, si proroga e ulteriormente si estende per ragioni le più diverse e anche sempre più variegate e numerose (calamità naturali, emergenze pandemiche, manovre condonistiche, interventi di emendatio dell’originaria dichiarazione ad opera dello stesso contribuente, necessità di assicurare il compiuto espletamento di forme varie di contradditorio endoprocedimentale senza che gli uffici patiscano medio tempore il maturarsi di decadenze a proprio danno, e via discorrendo).

    A questa già significativa estensione temporale dei termini di accertamento, la posizione interpretativa della Suprema Corte – comunque la si pensi – finisce per certificare anche una altrettanto significativa dilatazione, anche in proiezione temporale, di ciò che ha da formare oggetto di controllo e verifica (ai fini di una eventuale futura contestabilità) a carico degli Uffici. Insomma, ad una (confermata) maggiore latitudine di potere di contestabilità si accompagnerà però  una altrettanto simmetrica maggiore latitudine[20] dei compiti di controllo e dei riconnessi oneri istruttori di cui è investita l’amministrazione finanziaria: tanto più gravosi e di difficile espletamento quanto più concernenti, prospetticamente, vicende remote nel tempo, come tali suscettibili di patire approcci ricostruttivi distorti in ragione di fenomeni di decontestualizzazione normativa ma anche, mi si passi il termine, “ambientale[21]: a loro volta potenziali fattori moltiplicatori di res litigiosa.

    Il quadro che ne scaturisce potrebbe porre non pereghini interrogativi non solo sul grado di adeguatezza di risposta dell’apparato burocratico-amministrativo in termini di efficienza, ma anche sulle garanzie di incisività dell’azione accertativa[22]: oltre a profilare pericolosi (e non certo auspicabili) fenomeni di ulteriore parcellizzazione e inflazionamento del contenzioso tributario le cui – notoriamente rallentate – tempistiche di espletamento potrebbero, peraltro, andare ad ulteriore detrimento, incidendo negativamente, per quanto qui interessa, sulla già potenzialmente grave decontestualizzazione cronologica tra attività di accertamento e oggetto accertato.

    Quanto al secondo profilo, ci sembra che i problemi siano gli stessi di cui sopra, seppur visti dalla diversa angolazione del contribuente: rispetto al quale essi però assumono una diversa coloritura che potremmo sintetizzare e riassumere nella percezione di una immanente e permanente instabilità (per potenzialmente illimitata contestabilità) del modo di essere del proprio rapporto impositivo reddituale nel suo costante divenire nel tempo: il tutto a discapito di quel valore di certezza che, nel nostro settore al pari di quello penale, si traduce essenzialmente in termini di ragionevole prevedibilità (anche, e talvolta soprattutto, in chiave prospettica) per il contribuente delle conseguenze fiscali delle proprie condotte. Aspettativa che, per costui, non attiene soltanto all’esigenza di essere salvaguardato da possibili oscurità, polivalenza e ambiguità oltre che mutevolezza nel tempo dei dati normativi ma anche dai margini di possibile (e di per sé imperscrutabile nella fondatezza) contestabilità ex post della correttezza fiscale dei propri comportamenti, stanti le significative conseguenze destabilizzanti che ne conseguono[23]: come l’istituzione e la disciplina degli interpelli e dei rulings dimostrano.

    Tant’è non è da escludere si registri – come effetto di rimbalzo nell’immediato futuro del pronunciamento in rassegna - un accorciamento, laddove possibile per il contribuente, dei limiti temporali di spendita dei componenti reddituali pluriennali per conseguire il prima possibile il consolidamento della relativa fattispecie. Che non significa affatto mirare conseguire definitivamente il frutto dell’evasione bensì più banalmente archiviare il rischio o l’evenienza della contestazione: fattore di incertezza non solo psicologico ma prima ancora economico e strategico, soprattutto sul piano imprenditoriale.[24]

    Il tema è vastissimo e, stanti le sue implicazioni, non può neppure essere accennato in queste brevi note. Viene però da pensare se la sentenza della Suprema Corte non possa essere una buona occasione per soffermarvici adeguatamente l’attenzione.

           

    [1] Come riconosce la stessa Corte facendo riferimento al regime di spendibilità delle perdite pregresse.

    [2] Si tratta, nell’ordine, dell’ord. 10701/2020, dell’ord. 15525/2020, dell’ord. 16752/2020 e, infine, dell’ord. 20842/2020.

    [3] La Corte parla di “componenti reddituali a rilevanza pluriennale” definendoli come “elementi economici e patrimoniali che, per quanto emersi e consolidatisi nella loro genesi causale sostanziale in una determinata annualità d’imposta sono tuttavia dalla legge fiscale ammessi a produrre effetti sulla formazione della base imponibile di annualità successive eventualmente anche molto lontane da quella di origine”.

    [4] Mi permetto di rinviare alla mia nota a commento di Cass. 9993/2018 (CASTALDI, Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib. 2019, 194 ss.). 

    [5]Consistente nello stabilire la latitudine, non solo contenutistico/sostanziale ma anche argomentativo/motivazionale, dell’attività di accertamento degli Uffici finanziari in relazione ai termini decadenziali di suo espletamento.

    [6] Secondo quanto è dato leggere nella sentenza in commento, infatti, “non sembra che la complessità ed eterogeneità delle fattispecie siano tali da impedire o sconsigliare una soluzione unitaria al problema giuridico posto dall’ordinanza di remissione” per ciò che – questa la considerazione della Suprema Corte (sulla condivisibilità della quale nutriamo forti riserve) – la materia dell’accertamento e dei termini di suo esperimento “più di ogni altra richiede regole operative il più possibile stabili e uniformi”.

    [7] Che poi la Corte sente comunque il bisogno di declinare in termini di “elementi”, di “dati” o “informazioni” e, più oltre – con l’occhiale specificamente concentrato sul reddito d’impresa – come “voci” e dopo ancora come “componenti” con una polisemia che disvela la consapevolezza da parte dei Giudici della difficoltà di ricondurre ad unicum la tematica da trattare.

    [8] Che è termine di coloritura volutamente anodina.

    [9] E così alla valutazione di un bene relativo all’impresa come fiscalmente non ammortizzabile (ovvero ammortizzabile solo parzialmente nel quantum) operata dal contribuente nella dichiarazione relativa all’esercizio di suo inserimento nel ciclo produttivo e nei successivi, potrebbe seguire, nonostante il sopravvenuto crisma di definitività per maturazione dei termini decadenziali di accertamento/rettifica di siffatta dichiarazione e di altre successive, una diversa valutazione del contribuente medesimo quanto al trattamento fiscale da riservare a siffatto bene negli esercizi successivi di sua incidenza pluriennale. 

    [10] Concordiamo pertanto con le riflessioni da ultimo svolte in proposito da FARRI, Le incertezze nel diritto tributario, in Dir. prat. trib. 2021, 720 ss. 

    [11] Com’è nel caso – fra l’altro richiamato proprio dalla Suprema Corte – in cui si discuta dello scomputo in chiave di detrazione decennale pro quota in rate costanti dei costi per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici, per la ripulitura e ritinteggiatura delle facciate degli edifici ecc..

    [12] Com’è laddove si discuta di spendita di perdite pregresse, ovvero addirittura di crediti d’imposta del pari riportati a nuovo da esercizi e dichiarazioni pregresse.

    [13] È quanto accade per alcune tipologie di beni – fabbricati destinati all’industria, in genere, ma anche infrastrutture destinate ai servizi pubblici essenziali come porti, aeroporti, autostrade, opere idrauliche fisse ecc. – dalla vita utile particolarmente durevole che, in base ai coefficienti di ammortamento di cui al D.M. 31 dicembre 1988, hanno periodi di ammortamento che abbracciano anche qualche decina di anni.

    [14] Non vogliamo scendere nell’esegesi spicciola della sentenza, però ci sembra significativo che la Corte, dopo aver richiamato il proprio precedente (Cass. 9834/16) – meglio descritto alla nt. 18 – ricorra a formule quasi dubitative nel prendere posizione, distaccandosene, rispetto ad esso: in buona sostanza sostenendo come, alla luce del proprio costrutto interpretativo, “non pare inesigibile” che il contribuente sia onerato della diligente conservazione delle scritture “fino allo spirare del termine di rettifica (anche ultradecennale) dell’ultima dichiarazione accertabile”.  

    [15] La Corte parla di “correlazione servente” che intercorre tra il regime di conservazione documentale e la disciplina dell’accertamento e della sua tempistica.

    [16] Il richiamo è a Cass. 9834/2016, nella quale la Suprema Corte, pronunciandosi con riferimento ad un caso di ammortamenti ultradecennali, ha limitato l’ultrattività dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili oltre il termine decennale di cui all’art. 2220 c.c. al solo caso in cui l’accertamento – iniziato prima del decimo anno – non sia ancora stato definito a tale scadenza: osservando come, altrimenti, “l’obbligo di conservazione si protrarrebbe per una durata che dipende esclusivamente dalla volontà dell’Ufficio, rispetto al quale il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die”.

    [17] È chiaro il richiamo, nel testo, all’evoluzione giurisprudenziale registratasi in tema di efficacia esterna del giudicato tributario all’indomani del pronunciamento della SS.UU. della Cassazione con sent. 13916/2006: per una cui meditata analisi facciamo richiamo, ex multis, a FRANSONI-RUSSO, I limiti oggettivi del giudicato nel processo tributario, in Rass. trib. 2012, 858 ss. Vd. anche, più di recente, seppur con un’impostazioneche ci trova su posizioni distanti, CORRARO, L’efficacia ultra litem del giudicato tributario tra vecchi modelli e nuove teorizzazioni: il lungo cammino della Corte di Cassazione nel segno di una costante incertezza sistematica, in Dir. prat. trib. 2020, 2547 ss..  

    [18] Come traspare, neppure troppo nascostamente, nell’argomentare della Corte laddove questa – seppur ad altro fine – ricorda che il sistema impositivo, “soprattutto in campo reddituale, trova il proprio fulcro non nell’accertamento (evento che resta pur sempre secondario nella dinamica complessiva delle entrate tributarie) ma nella fisiologia della dichiarazione quale vero e proprio atto di responsabilità autoimpositiva e autoliquidativa”.   

    [19] Ci limitiamo a solo alcune recentissime note di significativo rilievo in argomento. Con sent. 11 maggio 2021 n. 12372, la Suprema Corte di Cassazione ha disposto che in caso di perfezionamento dell’accertamento con adesione in relazione ad un anno, a situazione immutata, non è legittima la condotta dell'Agenzia delle Entrate che, per gli anni successivi, aumenti la pretesa rispetto ai pregressi accertamenti poi definiti in adesione. In una tale evenienza, gli accertamenti sono parzialmente nulli e la pretesa va ricondotta nell'entità derivante dall'accordo di adesione perfezionatosi per gli anni pregressi. Con sent. 30 marzo 2021 n. 8740, la Suprema Corte ha stabilito che l’efficacia vincolante della risposta dell’Amministrazione finanziaria ad un interpello, limitata alla questione oggetto di quest’ultimo e al contribuente istante, pur non trovando applicazione, in via generale, in relazione a casi analoghi relativi a soggetti diversi dall’interpellante, può estendersi anche a soggetti diversi che, in relazione all’atteggiarsi e alla struttura della fattispecie impositiva, “nonché all’allocazione dei relativi obblighi”, sono indissolubilmente legati alla questione investita dall’interpello.

    [20] Peraltro, declinata in chiave di doverosità: pena la negligenza suscettibile di conseguenze sanzionatorie anche in punto di responsabilità contabile a carico dei verificatori.

    [21] Non possiamo infatti dimenticare che tutte le disposizioni di legge (anche quelle tributarie) nel loro risvolto applicativo risentono del contesto storico, politico, economico, sociale e giurisprudenziale in cui sono calate: tanto maggiore è lo iato temporale che intercorre tra ciò che è oggetto della verifica e la verifica stessa, tanto maggiore sarà il pericolo di un disallineamento di approcci valutativi dovuti, appunto, a “decontestualizzazioni”.

    [22] Volendo essere più chiari: non siamo sicuri che consentire (ma altresì imporre) agli Uffici finanziari di controllare sempre tutto non finisca per andare a discapito della qualità, tempestività ed efficacia dell’azione amministrativa di accertamento. Non ci dimentichiamo che interrogativi molto simili a quelli di cui al testo condussero alcuni decenni fa ad attenuare la rigorosità del principio di unicità e globalità dell’accertamento, portando all’introduzione dell’accertamento parziale. La situazione, se vogliamo, è perfettamente speculare, ma proprio per questo ci sembra meritevole di attenzione per l’insegnamento che può offrire.

    Aggiungiamo anche che molte delle scelte di conformazione della disciplina sostanziale dei tributi sono frutto di una pragmatica scelta compromissoria tra l’esigenza di rispetto del principio di effettività nella rilevazione della manifestazione di attitudine alla contribuzione da assoggettare a prelievo e, da un lato, l’esigenza di snellezza, semplicità e non economicamente gravosa applicabilità della disciplina da parte del contribuente, dall’altro, fattibile, efficace ed efficiente controllabilità ex post da parte degli Uffici finanziari. Insomma, il meglio talvolta è nemico del bene.  

    [23] Si pensi – tanto per enumerarne solo alcune - agli aggravi sanzionatori, ai possibili risvolti penali, alle misure confiscatorie, ai recuperi in pendenza di causa, ai costi e all’alea del contenzioso.

    [24] Ne è indiretta conferma la stretta connessione che intercorre tra gli indici di affidabilità fiscale e la valenza premiale che, in tale contesto, essi spiegano in chiave riduttiva dei termini di accertamento.


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