GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione.

    Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione

    di Raffaele Frasca

    SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e le sue ricadute. - 2.1. L’esposizione dei fatti. - 2.2. L’esposizione dei motivi. - 3. L’epifania formale della c.d. autosufficienza. - 4. La soppressione della Sesta Sezione Civile. - 5. Il criterio di delega di cui alla lettera e). - 6.  Il c.d. procedimento accelerato di definizione dei ricorsi. - 7. Il proposto restyling dell’art. 377, dell’art. 378, dell’art. 379 e dell’art. 391-bis c.p.c. - 8. La novità del c.d. rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. 

    1. Premessa.

    L’intento con cui mi ero accinto a questo scritto era quello di commentare un testo che era apparso come possibile “emendamento governativo” alla legge delega di riforma del processo civile (d.d.l. n. 1662/S/XVIII) nella parte in cui conteneva un art. 6-bis riguardante la Corte di Cassazione.

    Senonché, il 24 maggio scorso, la Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso, ha presentato al Ministro della Giustizia, un testo recante “Proposte normative e note illustrative”, nel quale l’art. 6-bis ha un contenuto recante previsioni di criteri di delega ulteriori rispetto a quelli che figuravano nel testo precedente su cui avevo iniziato a svolgere le mie considerazioni (e, in un caso, a proposito del c.d. procedimento camerale accelerato, un testo che non reca una previsione che appariva invece nel testo originariamente comparso) ed inoltre vede trasferita in un diverso articolo, l’art. 6-quater, una parte del contenuto. Tale testo è comparso ed è divenuto disponibile, per quanto mi consta, la mattina del 27 maggio. Il testo reca anche la proposta di un articolato recante modifiche al codice di procedure civile quali le si sono immaginate in attuazione dei criteri di delega.

    La novità del giorno 27 mi ha costretto ad una riconversione di quanto avevo in corso d’opera.

    Il documento della Commissione, peraltro, per la Corte di Cassazione reca anche contenuti che concernono la costituzione di uffici per il giudice presso la Corte e la Procura Generale, un art. 6-ter che concerne modifiche all’ordinamento giudiziario quanto ai magistrati del Massimario e un art. 6-quinquies che propone un restyling dell’art. 37 che fotografi lo stato della giurisprudenza delle Sezioni Unite sulla norma quanto al potere di rilevazione di parte e del giudice.

    Di tali contenuti non mi occuperò se non indirettamente ed in modo limitato. Mi concentrerò sugli artt. 6-bis e 6-quater e nell’esporre le mie considerazioni procederò seguendo l’ordine dei criteri di delega e, quindi, esaminando, quando necessario, come si prevedrebbe di attuarli nell’articolato che accompagna la relazione.

    Le considerazioni che verrò svolgendo risulteranno indirettamente farsi carico delle opinioni recentemente espresse qualche giorno fa dai Professori Bruno Capponi e Andrea Panzarola proprio su questa rivista.

     

    2. Il principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e le sue ricadute.

    Nell’art. 6-bis si indica nella lettera a) come primo principio e criterio direttivo quello della introduzione del “principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte” e se ne offrono due specificazioni con i nn. 1 e 2.

    Nel n. 1 si prevede che “le parti redigano il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato>>.

    L’attuazione del principio viene poi programmata proponendo l’inserimento di  un art. 133-ter nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, con il seguente tenore: “ Al fine del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza di cui all’articolo 366 c.p.c., le parti redigono il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato”

    Dunque, si prevede una sorta di “potere regolamentare” del Primo Presidente, con onere di consultazione preventiva dei soggetti indicati. I contenuti di tale attività riecheggeranno verosimilmente quelli del Protocollo del 17 dicembre 2015 tuttora vigente, concluso fra il Primo Presidente e il Consiglio Nazionale Forense. La previsione dell’art. 133-ter ha, peraltro, una struttura singolare, in quanto l’esercizio del potere si dice finalizzato ad assicurare “il fine del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza di cui all’art. 366 c.p.c.” ed il termine di riferimento soggettivo del “rispetto” sono le parti: dunque, la lettura della futura norma parrebbe evidenziare l’imposizione di un obbligo alle parti in ordine alla redazione del ricorso che si dice finalizzato al rispetto di qualcosa che emerge dalla norma codicistica dell’art. 366.

    Per apprezzare il significato della proposta innovativa è necessario considerare che al criterio di delega di cui al citato n. 1 segue quello di cui al n. 2, secondo il quale, sempre ai fini dell’introduzione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte, si dispone che l’attuazione della delega preveda che “il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione>>.

    La proposta di norma di delegazione, dunque, prevede che si debba intervenire sul requisito dell’esposizione e su quello dei motivi.

    Puntualmente, l’articolato immagina allora un intervento sui numeri 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.

    Ne deriva che, conforme alla funzione della norma dell’art. 366, le proposte innovazioni incideranno sui c.d. requisiti di contenuto-forma del ricorso per cassazione, che l’art. 366 appunto disciplina.

     

    2.1. L’esposizione dei fatti. 

    La proposta riguardante il n. 3 di tale norma si risolve in una riscrittura del suo n. 3 con la sostituzione alla prescrizione della “esposizione sommaria” di quella della “chiara ed essenziale esposizione”, che riprende il criterio di delega. L’introduzione dei requisiti di chiarezza ed essenzialità al posto della “esposizione sommaria” a mio avviso non rappresenta una novità sostanziale, perché sia la chiarezza sia l’essenzialità sono caratteri che la giurisprudenza della Corte di Cassazione rinviene connaturali all’adempimento del requisito della sommaria esposizione. L’esigenza di chiarezza, una volta correlato il requisito dell’esposizione sommaria ai fatti di causa trova attualmente la sua necessaria epifania nella necessità, atteso il riferimento ai fatti al plurale e considerato che i fatti della causa possono essere sia processuali che sostanziali, che si evidenzino sebbene in modo sommario sia i fatti dedotti a fondamento della domanda e quelli prospettati con le difese, sia i fatti inerenti allo svolgimento processuale di primo grado, sia il tenore della decisione di primo grado, sia le ragioni dell’appello (supponendo l’appellabilità e non la ricorribilità direttamente in Cassazione) e le difese contrapposte, sia i fatti inerenti lo svolgimento processuale del giudizio di appello, sia in fine le ragioni della decisione di appello. E’ questo che si coglie nella consolidata giurisprudenza della Corte.

    Semmai, è da rilevare che in essa si rinviene un orientamento che esige che una simile esposizione debba concretarsi in una parte apposita del ricorso ed altro orientamento che è disposto ad evincerla anche dall’illustrazione dei motivi, ancorché nel modello attuale dell’art. 366 c.p.c. l’esposizione sommaria sia individuata – a pena di inammissibilità – come una parte distinta dai motivi. Questa seconda opzione non è certo conforme, al di là di tale dato testuale, all’esigenza di chiarezza: un ricorso che esordisce con l’illustrazione dei motivi non soddisfa il modello della chiarezza perché induce alla loro lettura senza una previa conoscenza del fatto sostanziale e processuale e nella res sperata che di esso il o i motivi contengano la rivelazione. Rivelazione che, si badi, al di là di quanto può apparire funzionale alla stessa illustrazione del motivo, dovrebbe essere di contenuti tali da consentire di ritenere che il motivo stesso sia spendibile in sede di legittimità. L’esistenza di tali incognite nella conoscenza dell’esposizione del fatto nell’attuale vigenza del n. 3 dell’art. 366 non mi sembra che consenta di dire che un ricorso che manchi di una parte dedicata all’esposizione del fatto rispetti il requisito della chiarezza. Che poi, in mancanza dell’espressa previsione della chiarezza nel testo attuale, utilizzando il concetto normativo della idoneità al raggiungimento dello scopo - previsto per la disciplina delle nullità, ma, a mio avviso applicabile alle cause di inammissibilità purché non si debba cercare aliunde rispetto all’atto - si possa avallare l’orientamento più liberale reputando che la previsione di requisiti distinti nell’art. 366 non vi sia d’ostacolo, è idea forse condivisibile (specie in presenza di un ricorso con un solo motivo o con pochi motivi).

    Ma, mi domanda, lo sarebbe nell’eventuale vigenza del testo di cui all’articolato?

    Mi parrebbe di no, giacché l’espresso riferimento della chiarezza dell’esposizione dei fatti nel n. 3 dell’art. 366 c.p.c. potrebbe rafforzare la tesi che il ricorso debba avere una parte “dedicata” all’esposizione del fatto e che, in mancanza, non si debba fare ricorso alla lettura dei motivi o, comunque, considerarla sufficiente a fornirla. E’ palese che un ricorso mancante formalmente di una parte dedicata all’esposizione del fatto non possa definirsi “chiaro” e la ricerca nei motivi del fatto sostanziale e processuale, se avvenisse, avverrebbe proprio per la constatazione della mancanza di chiarezza dell’attuazione del modello normativo di ricorso ed in contraddizione questa volta patente con la lettera della legge.

    Mi preme, allora, rilevare che una implicazione del nuovo testo potrà essere proprio l’esclusione della possibilità di praticare l’orientamento liberale di cui ho detto.

    Tanto più in presenza di una innovazione come l’art. 133-ter se l’attività regolamentare ivi prevista prevedrà, come sarà certo ed a somiglianza del mentovato Protocollo, che il ricorso rechi una parte dedicata all’esposizione dei fatti della causa.

    Pur in presenza di una innovazione, come ho detto, non sostanziale, il suo carattere formale sarebbe denso comunque di conseguenze applicative. 

    Corre l’obbligo di rilevare che la prescrizione del requisito di chiarezza, peraltro, la si prevede congiuntamente a quella della “essenzialità”.

    Ebbene, la proposta di inserimento dell’aggettivo “essenziale” non sarebbe neppure essa innocua: essa darà nuova ed ulteriore giustificazione al consolidato filone di giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite, che nella vigenza dell’attuale n. 3 dell’art. 366 censura l’esposizione di fatti per così dire “eccedentaria”, cioè – secondo consolidati precedenti che si occupano delle varie specie di eccedenza - assemblata, riproduttiva – nei vari modi resi possibili dalla tecnica redazionale - degli atti del giudizio di merito: è palese che simili forme contraddirebbero manifestamente l’essenzialità e ben dovrebbero essere sanzionate come lo sono e nella vigenza del nuovo testo immaginato, lo sarebbero in forza di un disposto esplicito.

    Un’ultima notazione.

    Ancorché l’art. 133-ter prima evocato alluda all’esigenza di sinteticità e non a quella di essenzialità, tale norma e, dunque, le previsioni del decreto del Primo Presidente, sia quanto alla struttura del ricorso (e, dunque, all’indicazione di una parte del ricorso dedicata all’esposizione dei fatti), sia quanto alla fissazione di limiti quantitativi (salve le eccezioni giustificate dalla particolarità della vicenda, che il decreto non dovrebbe mancare di prevedere), saranno da considerare imperative e rifluenti quindi sull’ammissibilità del ricorso quanto al requisito dell’art. 366 n. 3 ( e ciò a differenza di quelle del Protocollo del 2015, che hanno valore di “consiglio”).

        

    2.2. L’esposizione dei motivi.

    In secondo luogo, il criterio di delega prevede, nel ricordato n. 2, che sempre a pena di inammissibilità il ricorso debba contenere “la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione>> ed a questo si correla un intervento sul n. 4 dell’art. 366, nel quale si sostituisce all’articolo “i” con cui esso inizia, l’inciso “la chiara e sintetica esposizione dei”, che così risulta premessa alla parola “motivi”. Nel contempo, si sopprime l’inciso finale “secondo quanto previsto dall’articolo 366-bis”, lasciato nella norma del legislatore della l. n. n. 69 del 2009, allorquando il suo articolo 47, comma 1, lett. d) abrogò l’art. 366-bis. Mancata soppressione che, per i più fini esegeti e cultori del diritto delle fonti, avrebbe potuto anche implicare la conservazione della previsione dell’art. 366-bis anziché come norma come disposizione integratrice proprio del n. 4, nel senso di indicare la tecnica di redazione dei motivi. E ciò, per quanto attiene al vizio di cui an. 5 dell’art. 360 con riferimento alla “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa”, a seguito della novella del n. 5 operata dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni nella l. n. 134 del 2012. Invero, quando il legislatore abroga una norma ed essa è richiamata da altra norma, occorre verificare se la soppressione diretta della norma abrogata non l’abbia lasciata vigente come disposizione individuatrice del contenuto dell’altra che la richiamava, in assenza di abrogazione del richiamo.

    L’introduzione del requisito della “chiarezza” sarebbe da salutare con positività perché nuovamente segnerebbe una innovazione formale diretta a corroborare quanto è già dato rinvenire nella giurisprudenza della Corte, nella quale sovente si vede evocato come requisito di ammissibilità del motivo proprio la “chiarezza”.

    Su che cosa potrà significare la chiarezza rilevo che, quando si tratti di vizio in iure relativo a motivo sostanziale o processuale, occorrerà evidenziare in modo appunto “chiaro”, cioè idoneo ad esprimere i termini e le ragioni della doglianza, la sussistenza del vizio e, per la violazione di norme processuali, riguardo alle quali la Corte di Cassazione giudica del fatto processuale inerente all’applicazione della norma del procedimento, le coordinate di esso.

    L’esigenza di sinteticità a questo punto servirà a rendere in via indiretta precettive le indicazioni somministrate dal provvedimento ai sensi dell’art. 133-bis: la loro inosservanza potrà anche qui far dire il motivo inammissibile, là dove senza giustificato motivo, che, evidentemente nel provvedimento presidenziale si lascerà come eccezione (sperabilmente da adeguatamente spiegarsi), siano violati i limiti quantitativi là fissati.

    Non toccati dall’innovazione proposta saranno i tradizionali principi di specificità del motivo di ricorso per cassazione e di necessaria correlazione del motivo alla motivazione, siccome espressi da consolidata giurisprudenza: sia consento rinviare a Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017, che in motivazione ribadisce i principi di diritto consolidati enunciati da Cass. n. 4741 del 2005 e da Cass. n. 359 del 2005 (che esprimono una delle declinazioni formali in cui i detti principi trovano consolidata epifania nella giurisprudenza della corte).   

     3. L’epifania formale della c.d. autosufficienza.

    Il criterio di delega di cui alla lettera c) dispone che si debba “specificare in che cosa consiste il principio di autosufficienza del ricorso, prevedendo che il ricorso debba contenere la specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, del passo dell’atto processuale, del documento e del contratto o accordo collettivo sul quale lo stesso si fonda, nonché del momento in cui essi sono stati depositati o si sono formati nel processo, e stabilendo che il rispetto di tale onere e di quanto previsto dal numero 4 dell’articolo 369 del codice di procedura civile soddisfa tale principio>>.

    La previsione viene integralmente riproposta nell’articolato come nuovo testo dell’art. 366 n. 6 c.p.c., il quale la ripete a partire dalle parole “la specifica indicazione”.

    La proposta fotografa certamente uno dei contenuti che la giurisprudenza della Corte assegna al c.d. principio di autosufficienza, che nella norma del n. 6 dell’art. 366 nel testo attuale ha trovato il precipitato normativo espresso dell’esegesi della tecnica di deduzione del motivo di ricorso per cassazione, la cui elaborazione era iniziata sul finire dello scorso secolo a partire da una sentenza estesa dall’indimenticabile Stefano Evangelista.

    La “fotografia” è da apprezzare, ma è riuscita – sia detto senza tentennamenti -incompleta, il che dovrebbe indurre a ripensare l’articolato e prima ancora il criterio di delega. E’ certamente positiva la specificazione che per ogni motivo si deve indicare in modo specifico il “passo” degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi fondanti: essa rappresenta l’avallo, sotto il profilo del c.d. onere di riproduzione del contenuto di ciò che fonda il motivo, di quanto afferma la costante giurisprudenza della Corte, essendo stata abbandonata da tempo l’idea che invece occorra (a pena di inammissibilità) la riproduzione totale nel motivo dell’atto, del documento, etc., che in passato, anche prima della introduzione del n. 6 dell’art. 366, talvolta in modo errato era stata sostenuta.

    Il testo proposto non lo dice, ma, per il tramite dell’esigenza di “specifica indicazione” resterebbe giustamente ferma la possibilità che essa venga adempiuta sia tramite riproduzione diretta del passo, sia tramite riproduzione indiretta di esso con precisazione della parte corrispondente nell’atto, nel documento e nel contratto o accordo collettivo. Il modo di realizzare la specificità dell’indicazione del passo resterà conchiuso in queste due alternative.

    Parimenti trasferisce nella norma ciò che la giurisprudenza della Corte esige attualmente come contenuto dell’art. 366 n. 6 l’indicazione del momento in cui l’atto, il documento, etc. è stato depositato o si è formato nel processo, intendendo per tale quello di merito.

    Entrambe le specificazioni originano dai principi affermati da Cass. (ord.) n. 22303 del 2008 e ribaditi da Cass., Sez. Un., n. 28547 del 2008 e, poi dalla giurisprudenza successiva anche a Sezioni Unite.

    L’intento della proposta di delega e l’articolato che ne rappresenterebbe il precipitato non possono che essere approvati come utile precisazione nel testo normativo di ciò che già ora vi si scorge.

    Dove, invece, sia l’indicazione del criterio di delega, sia la sua trasposizione nel testo del n. 6 non mi paiono meritevoli di approvazione è quanto al resto.

    Sia l’una che l’altro fanno infatti confusione e, peraltro, incorrono in un’omissione.

    Vengo a quest’ultima.

    Il testo novellato non specifica che l’onere di indicazione specifica deve comprendere anche l’indicazione del se e dove l’atto processuale (che, si badi, se non è nella disposizione della parte, è producibile, in quanto fondante il motivo, anche in copia), il documento o il contratto o accordo collettivo sia stato prodotto e, dunque, sia esaminabile nel giudizio di legittimità.

    Nell’attuale vigenza dell’art. 366 n. 6 sempre l’appena evocata giurisprudenza aveva sottolineato che requisito dell’onere di indicazione è anche la c.d. localizzazione nel giudizio di legittimità. Cass., Sez. Un., n. 22726 del 2011 aveva sottolineato che la parte interessata, cioè il ricorrente o il controricorrente, possono fare riferimento alla presenza dell’atto processuale, del documento o dell’atto o accordo collettivo, nel fascicolo d’ufficio o in quello della controparte (salvo in tal caso scontare, alludo al ricorrente, la mancata costituzione della controparte intimata e l’eventuale assenza nel fascicolo d’ufficio del fascicolo di detta controparte), ma ciò al fine di esentarsi dall’onere, diverso da quello dell’art. 366 n. 6, di produzione di essi, prescritto dal n. 4 dell’art. 369 c.p.c. Era ed è ferma, dunque, l’esigenza di enunciare comunque la localizzazione, tanto in caso di produzione diretta, quanto per il caso di riferimento alla presenza aliunde.

    Invece, sia il criterio di delega sia la norma “dimenticano” l’onere di localizzazione nel giudizio di legittimità come requisito contenutistico del ricorso e, cosa ancora più criticabile, “fanno confusione”. Infatti, là dove il programmato secondo inciso del n. 6 dovrebbe dire che “Il rispetto della previsione del numero 6) del primo comma e del numero 4) dell’articolo 369 soddisfa il requisito dell’autosufficienza>> evidenzia: a) per un verso appunto una confusione - tanto più indebita dato che si lascia immutato l’art. 369 n. 4 c.p.c. - fra l’onere correlato all’indicazione specifica, che è requisito di contenuto-forma del ricorso, prescritto a pena di inammissibilità, e l’onere di produzione degli atti di cui al n. 6 dell’art. 366, che invece è prescritto a pena di improcedibilità; b) e, per altro verso, esenterebbe il ricorrente (o il controricorrente) dall’onere di localizzazione nel giudizio di legittimità come requisito inerente all’indicazione specifica.

    Ne conseguirebbe che sarebbe onere della Corte controllare se la parte abbia prodotto l’atto, il documento o l’accordo o contratto collettivo e, soprattutto, di procedere a tale ricerca “alla cieca”, con evidente rischio di errori e perdita di tempo e ciò almeno per tutti gli atti e documenti che non siano atti processuali presenti necessariamente in originale nel fascicolo d’ufficio. Ricordo, poi, che attualmente, peraltro, pur essendo vigente il terzo comma dell’art. 369 che prescrive l’onere a carico della parte della richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio, i fascicoli, pur in presenza di richiesta, vengono trasmessi, essendo vigente una disposizione dell’allora Primo Presidente Aggiunto Vincenzo Carbone, solo in taluni limitatissimi casi (la disposizione venne adottata per impedire l’afflusso dei fascicoli di merito, in ragione sia di esigenze di rischi per la stabilità del Palazzo, sia di mancanza di spazi di allocazione). Il recente parziale decollo del digitale in Cassazione non contempla, del resto, la possibilità di accesso da parte della Corte al digitale dei giudizi di merito o una sorta di possibile collegamento.

    La divisata nuova norma è, dunque, doppiamente criticabile: sottrae un contenuto all’onere di indicazione specifica, confonde due diversi requisiti. Inoltre, è gravemente inopportuna ai fini della rapida gestione del processo, segnatamente della sollecita attività di spoglio, e crea rischi di errori.

    Non solo. Essa, sottolineando che il rispetto del n. 4 dell’art. 369 partecipa al soddisfacimento dell’autosufficienza, scilicet dell’onere di indicazione specifica, parrebbe precludere l’applicazione dei ricordati principi, indicati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 22726 del 2011. La produzione sarebbe sempre necessaria.

    E’ opportuno, dunque, a mio sommesso avviso, che il criterio di delega sia rivisto.

     

    4. La soppressione della Sesta Sezione Civile.

    Passo all’esame del criterio di delega di cui alla lettera c), secondo il quale si deve provvedere ad “unificare i riti camerali, attualmente disciplinati dagli articoli 380-bis (Procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso) e 380-bis.1 del codice di procedura civile (Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice), prevedendo: 1) la soppressione, anche nell’Ordinamento giudiziario, della sezione di cui all’articolo 376 del codice di procedura civile e la concentrazione della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici; 2) l’abrogazione del procedimento disciplinato dall’articolo 380-bis del codice di procedura civile e il mantenimento di quello disciplinato dall’articolo 380-bis.1 del codice di procedura civile>>. Il criterio, che, dopo la generica previsione dell’unificazione dei procedimenti in camera di consiglio, oggi distinti fra quello di cui all’art. 380-bis e quello di cui all’art. 380-bis.1. c.p.c., si sviluppa in concreto con la proposta della soppressione della Sesta Sezione Civile, cioè dell’apposita sezione di cui all’art. 376 c.p.c., ed il trasferimento “della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici”.

    L’espressione sottende che ciò che faceva la Sesta Sezione dovrebbe farlo ogni sezione e lo dovrebbe fare con il procedimento camerale di cui all’art. 380-bis.1. e – limitatamente al regolamento di competenza (per il regolamento di giurisdizione sono competenti le Sezioni Unite) – con il procedimento camerale di cui all’art. 380-ter c.p.c.

    Com’è noto la competenza della Sesta Sezione secondo il rito dell’art. 380-bis concerne le ipotesi di cui ai nn. 1 e 5 dell’art. 375 c.p.c., cioè l’inammissibilità del ricorso e la sua manifesta fondatezza od infondatezza. Ad esse la delega chiede di aggiungere quella della improcedibilità, che, peraltro, si riteneva compresa implicitamente nel n. 1 data la sua parentela con l’inammissibilità.

    Singolarmente si tace sull’attività preliminare della Sesta, quella di spoglio, finalizzata ad intercettare i ricorsi meritevoli di inammissibilità o manifesta infondatezza/fondatezza. Ma è chiaro che anch’essa viene trasferita alla sezione semplice, per cui in sede di intervento sull’art. 376 c.p.c. occorrerà riferire l’assegnazione dei ricorsi alla sezione competente tabellarmente.

    Che dire della proposta di soppressione?

    La particolare composizione della Sesta è nota. Si tratta di una sezione che è composta da sottosezioni figlie della sezione semplice madre, ma pur sempre di una sezione unitaria, cui è preposto un presidente titolare con competenze sue proprie a livello tabellare.

    Il carattere unitario della Sezione, per la verità, è stato sempre relativizzato dalla circostanza che il presidente titolare di solito ha assunto la funzione di coordinatore della sottosezione di provenienza, e anche quando non l’ha fatto si è astenuto e si astiene dal presiedere collegi presso tutte le sottosezioni. Ciò che, invece, a mio avviso, avrebbe garantito la formazione in seno alle Sottosezioni di giurisprudenze e prassi applicative coincidenti sui requisiti di ammissibilità del ricorso, alla cui valutazione la Sesta è preposta, nonché anche la formazione di orientamenti uniformi circa il grado di apprezzamento della manifesta fondatezza o infondatezza.

    Poco praticata è stata la stanza di compensazione delle c.d. Sezioni Unite di Sesta, pur tabellarmente introdotte: esse si sono riunte pochissime volte.

    La prassi della Sesta è stata, dunque, quella di una sezione unitaria operante come tale in modo del tutto relativo.

    Nella sostanza ogni sottosezione, salvo quella occasionalmente coordinata dal presidente titolare (che in dipendenza del suo status non aveva quel vincolo), ha operato ed opera in stretto coordinamento con la sezione madre.

    Il problema che, com’è noto, si è verificato, è stato che la Sesta non intercettava e non intercetta tutti i ricorsi che sarebbero di sua competenza.

    In tanto, l’attività di spoglio svolta dal singolo consigliere risulta automaticamente finalizzata ad acquisire una “provvista” da utilizzare per la formulazione della proposta da decidersi in camera di consiglio ed è palese che una simile legittima finalità, una volta correlata con il limite della quota di “ingaggio” per numero di ricorsi da trattare in adunanza ai sensi dell’art. 380-bis, non poteva come non può che indurre a rimettere alla Sezione Madre anche ricorsi che sarebbero decidibili dalla Sesta. Non solo: la previsione della proposta sconsiglia di trattare in Sesta ricorsi che, pur presentando le caratteristiche del n. 1 o del n. 5 dell’art. 375 richiederebbero per il numero dei motivi una proposta molto articolata. Il fattore tempo e quello quantitativo sul numero di ricorsi da trattare lo giustificano. Inoltre, il numero di consiglieri di provenienza di ogni sezione madre, tanto nei casi di coassegnazione quanto nei casi di assegnazione in esclusiva, anch’esso ha giuocato nello stesso senso.

    Ciò nonostante, i livelli produttivi della Sesta sono quelli che hanno assicurato – almeno prima del riversarsi sulla Corte di ricorsi in materia di protezione internazionale sulle decisioni in unico grado – che il monte ricorsi pendenti non crescesse di anno in anno. Esigenza che non può certo essere vista come disvalore adducendo che meglio sarebbe dedicarsi alla decisione dei soli ricorsi fondati e, quindi, intercettarli e trattarli prioritariamente.

    Vien fatto allora di domandarsi se la paventata soppressione della Sesta sia cosa buona e giusta.

    Non mi pare, come pure è stato detto, che la soppressione sia stata suggerita dal Primo Presidente: la lettura della Relazione Illustrativa suggeriva – si veda alle pagg. 150-151 - solo l’unificazione dei riti camerali.  

    Dico senza esitazioni che la soppressione non mi sembra una buona idea per una serie di ragioni.

    La prima è quella stessa che, come ho detto, ha rappresentato un limite alla funzionalità della Sesta. Alludo al carattere di sostanziale separatezza fra le sottosezioni, che impediva o rendeva difficile la nomofilachia soprattutto sulle cause di inammissibilità e, in misura minore, sugli standard di apprezzamento della manifesta fondatezza/infondatezza.

    Sotto il primo aspetto, il trasferimento alle sezioni semplici della competenza ai sensi dei nn. 1 e 2 dell’art. 375 confermerà la separatezza sui criteri di valutazione della inammissibilità, con il perpetuarsi di orientamenti contrastanti e non omogenei.

    Inoltre, ravviso un’ulteriore difficoltà di rapido funzionamento delle sezioni nella gestione del camerale loro trasferito. Mentre l’esistenza di una cancelleria unitaria della Sesta assicurava che dalla cancelleria centrale i ricorsi affluissero ad essa e fossero gestiti, sebbene in funzione dello smistamento alla sottosezione, da un unico ufficio, nello scenario utilizzato dalla legge delega occorrerà che presso ogni sezione sia istituito un ufficio di cancelleria preposto alla ricezione dei ricorsi dalla cancelleria centrale, con conseguente necessità di una ridistribuzione del personale già in servizio alla Sesta presso le sezioni semplici. L’afflusso diretto alla cancelleria di ogni sezione ed in ipotesi ad un ufficio a ciò preposto creerà un problema di allocazione dei fascicoli, che esigerà la ricerca di nuovi spazi a disposizione di ogni sezione. Ciò, a meno di immaginare che per ogni sezione l’ufficio addetto a ricevere i ricorsi dalla cancelleria centrale resti allocato dove attualmente è allocata la cancelleria della Sesta, che è il piano terra del Palazzaccio. Ma, in tal caso, occorrerà cercare dislocazioni diverse per ogni ufficio sezionale, con tutto ciò che ne segue.

    Qualora si scegliesse la seconda soluzione continuerà a presentarsi il problema del trasferimento dei fascicoli da non trattarsi in camerale per la trattazione non camerale, cioè in udienza pubblica, presso la sezione, anche qui con problemi organizzativi.

    Sul versante magistratuale, occorrerà creare presso ogni sezione un ufficio composto da magistrati addetti o da tutti i magistrati addetti alla sezione che in primo luogo ed in via immediata debba individuare i ricorsi da trattarsi con il procedimento camerale. Ed anche in tal caso si porrà un problema di allocazione dei magistrati per l’attività di spoglio a ciò finalizzata in una sede presso la sezione, a mano di immaginare che la sede sia quella che oggi hanno le sottosezioni della Sesta.

    Quelli indicati sono problemi che non possono essere sottovalutati.

    Si potrebbe pensare che tali problemi, una volta considerato che la metà o poco più dei ricorsi ricevuti ogni anno sono ormai di spettanza della Sezione Tributaria, ad una radicale riorganizzazione, che veda tale sezione allocata a piano terra, dove ora c’è la Sesta. Ciò consentirebbe di ridistribuire alle altre sezioni semplici dell’edificio gli spazi attualmente occupati dalla Tributaria al quarto piano.

    Quelli accennati possono sembrare falsi problemi solo a chi non conosce la struttura organizzativa della Corte e non mi sembrano da sottovalutare.

    Non va sottaciuto che, inoltre, l’ipotesi dell’ascesa dalla cancelleria centrale dei fascicoli al quarto piano presso ogni sezione dovrà fare i conti con le esigenze di staticità del palazzo.

    Solo il pieno decollo del processo digitale in Cassazione potrebbe ridimensionare le ultime problematiche che ho indicato.

    Un effetto oggettivo di ridimensionamento delle stesse potrebbe verificarsi solo se la legge delegata dovesse disporre che la nuova normativa concerna i ricorsi introdotti dopo la sua entrata in vigore e la Sesta Sezione fosse lasciata operare per i ricorsi introdotti prima.

    Concludo allora dicendo che forse sarebbe miglior partito conservare la Sesta Sezione rinforzandola e prevedere che anch’essa adotti il rito dell’art. 380-bis.1.   eliminando la proposta ed escludendo da esso la comunicazione della fissazione al P.G. E semmai conservare quel rito anche per i ricorsi rimessi, in sede di spoglio, alla sezione madre.

     

    5. Il criterio di delega di cui alla lettera e).

    Una qualche sorpresa desta la previsione di delega di cui alla lettera e) e ciò per la prima parte, cioè là dove prevede la possibilità che il provvedimento emesso a seguito del procedimento camerale ormai concentrato sull’art. 380-bis.1 e sulla ben più limitata ipotesi di cui all’art. 380-ter c.p.c. possa essere depositato immediatamente in cancelleria. Parlo di sorpresa perché tale possibilità esiste già attualmente, nulla vietando al relatore di depositare l’ordinanza anche immediatamente dopo la chiusura della camera di consiglio, naturalmente se l’abbia redatta come progetto di decisione ed essa sia stata approvata dal Collegio. E nulla vieta al presidente, che deve sottoscrivere egli solo l’ordinanza, di sottoscriverla hic et hinde. Il problema è che attualmente bisogna attendere che la cancelleria registri il deposito della minuta da parte del relatore e la trasferisca al presidente, il che difficilmente può avvenire con immediatezza. La previsione mi pare perciò poco comprensibile ed inutile. Né le cose muterebbero con l’avvento del processo digitale, che non eliminerà la trafila descritta, trasferendola appunto sul digitale.

    Invece, la seconda previsione di delega, quella che in via alternativa ed in realtà obbligatoria se non si sceglie il deposito immediato prevede che il Collegio assegni per il deposito e la pubblicazione un termine di sessanta giorni per la redazione e la pubblicazione, appare semplicemente sconcertante quanto all’uso accoppiato del termine “redazione”, che è atto interno al relatore come tale, e del termine “pubblicazione”, che concerne un’attività della cancelleria, anziché di quello “deposito della minuta”. Non è dato comprendere non solo il senso dell’assegnazione di uno stesso termine per due adempimenti diversi ed ascrivibili il primo al relatore ed il secondo alla cancelleria. La confusione del testo del criterio di delega, si badi, si apprezzerebbe anche se si ragionasse in un’ottica di (futuro) processo digitale.

    Per fortuna l’articolato mette le cose a posto almeno quanto al secondo profilo appena considerato. Infatti, nell’art. 380-bis.1. (e la stessa previsione è inserita nell’art. 380-ter) si prevede la seguente aggiunta: “L’ordinanza, succintamente motivata, è depositata entro sessanta giorni dall’adunanza; il collegio può disporre tuttavia il deposito immediato >>. Come si vede è il collegio, in via di eccezione, che può disporre il deposito immediato, ma appunto solo il deposito. Semmai, la previsione normale del deposito entro sessanta giorni implicherebbe il riconoscimento a livello normativo di un termine che avrebbe rilievo disciplinare.  

     

    6.  Il c.d. procedimento accelerato di definizione dei ricorsi.

    Il criterio di delega di cui alla lettera e) introduce, o meglio programma, una rilevante novità, che definisce “procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale”. Il fatto che si preveda tale procedimento “per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati”, assegna a tale nuovo procedimento un àmbito interno al solo procedimento camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c. e lascia fuori il procedimento di cui all’art. 380-ter c.p.c. Le ipotesi considerate sono quelle del n. 1 e del n. 5 dell’art. 375 c.p.c. e, del resto, la lettura del criterio di delega prevede un procedimento incompatibile con quello di cui all’art. 380-ter, che suppone la previa richiesta delle conclusioni al Pubblico Ministero.

    L’articolato propone l’attuazione del criterio di delega con la sostituzione dell’art. 380-bis che viene rubricato “Procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati”. Nel primo comma della norma si prevede – dopo un poco comprensibile inciso eccettuativo (“se non è stata ancora fissata la data della decisione in camera di consiglio”: esso potrebbe alludere ad una fissazione che sia oggetto di ripensamento, ma l’ipotesi non è verosimile, giacché la scelta della procedura accelerata evidentemente sarà praticata all’esito dello spoglio del ricorso) - che nei casi indicati “il giudice della Corte” “formuli una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta fondatezza o infondatezza ravvisata”.

    La previsione riecheggia il modus operandi dell’attuale Sesta Sezione nelle dette ipotesi. Sorprende, come già nella proposta di delega, che la formulazione della proposta sia misteriosamente riferita al “giudice della Corte”. Verosimilmente, si è voluto alludere al relatore che attualmente viene designato secondo il meccanismo dell’art. 377 c.p.c., ma comunque sarebbe meglio che il legislatore delegato adempia alla delega in questo modo, cioè inserendo nella norma il riferimento al relatore.

    Dopo di che si prevede che la proposta, da depositarsi in cancelleria, sia comunicata agli avvocati delle parti: anche qui l’attuazione della legge delega dovrebbe rimediare a due omissioni che, a mio avviso, si colgono nell’articolato.

    Quella sul chi deve disporre la comunicazione e, prima ancora, quella sul chi deve disporre che si provveda alla comunicazione, così determinando l’inizio del procedimento acceleratorio.

    Quanto alla prima, anche se lo stesso uso del termine comunicazione lo sottende, sarebbe meglio indicare che alla comunicazione debba provvedere la cancelleria e magari disporre che la stessa, decorso il termine dal perfezionamento della comunicazione, ne dia avviso, salvo stabilire a chi.

    Quanto alla seconda omissione, che, invece, è più problematica, il rimediarvi dovrebbe opportunamente consistere in una delle due seguenti alternative: la delega dovrebbe adempiervi o prevedendo che la comunicazione sia disposta direttamente dal relatore che ha formulato la proposta o che sia ordinata dal presidente della sezione. Questa seconda alternativa mi parrebbe più ragionevole, perché implicherebbe che la pregnanza della proposta sia vagliata anche dal presidente, il che garantirebbe criteri di valutazione uniformi delle condizioni di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza.

    Mi rendo conto, tuttavia, che questa seconda soluzione potrebbe restare “sulla carta” quanto a questa ponderazione da parte del presidente. La ragione sta nella tirannia dei numeri che la potrebbe rendere difficile. Comunque, la logica della spettanza al presidente della sezione mi sembra più corretta, tenuto conto che gli atti di impulso alla trattazione del “Giudice Corte di Cassazione” e tale risulta in via eventuale la comunicazione della proposta sono affidati al primo presidente o al presidente della sezione.    

    Non è previsto che la proposta sia comunicata al Pubblico Ministero, che in tal modo la ignorerà.

    A seguito della comunicazione della proposta, ecco la rilevante novità, si prevede poi – nel terzo comma dell’art. 380-bis - che “che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato” e quindi - nel quarto comma – che “il giudice pronuncia decreto di estinzione e liquida le spese”, al quale – secondo il comma successivo – spetta l’efficacia di titolo esecutivo quanto alla pronuncia sulle spese. L’ultimo comma dispone, poi, che in tal caso, cioè “nel caso di definizione del giudizio [di cassazione] ai sensi del presente articolo”, il ricorrente, pur essendo soccombente, beneficia dell’esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.

    La fattispecie di estinzione nuova così immaginata non viene qualificata come estinzione per rinuncia al giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 390 c.p.c. Nella sostanza, dal punto di vista del ricorrente, lo è, sebbene sub specie di rinuncia tacita (o, se si preferisce, desunta da un’omissione concludente). Tuttavia, a differenza che per la rinuncia di cui all’art. 390 c.p.c. l’effetto di tale tacita rinuncia può essere escluso dalla richiesta di fissazione della camera di consiglio da parte del resistente, che così assume, a differenza di quanto avviene nell’istituto dell’art. 390 c.p.c., un ruolo condizionante e di possibile interlocuzione. Ulteriore distacco dalla disciplina dell’art. 390 si ha per quanto attiene alle spese, dato che qui si prevede che esse debbano essere liquidate e lo si prevede ragionevolmente, giacché bisogna disincentivare la parte resistente dal chiedere la trattazione.

    La dichiarazione di estinzione del giudizio di cassazione determinerà, come di consueto accade per la rinuncia di cui all’art. 390 c.p.c., il passaggio in cosa giudicata della decisione impugnata, con applicazione del principio di cui all’art. 338 c.p.c. La situazione giuridica oggetto del giudizio risulterà regolata dall’assetto risultante da detta sentenza.

    L’articolato non dice, come non lo dice la delega, chi sia il “giudice” che pronuncia il decreto. L’evidente omologia con la disciplina dell’art. 391 c.p.c. suggerirebbe l’idea che si tratti del presidente, ma si potrebbe pensare che si tratti del relatore, cioè del “Giudice della Corte”. Sarà opportuno chiarirlo.

    Quid iuris nel caso di erronea declaratoria di estinzione, ad esempio perché l’opposizione era stata proposta o non era stata proposta per mancanza o vizi della comunicazione della proposta? L’ipotetica attuazione della proposta di delega credo che dovrà disciplinare questa fattispecie.

    Il caso di una richiesta tardiva non mi pare possa essere regolato allo stesso modo: la legge allude alla mancanza della richiesta nel termine di venti giorni e non anche alla richiesta oltre tale termine. Dovrebbe allora farsi luogo alla fissazione dell’adunanza camerale.

    La nuova futuristica previsione non mi sembra, tuttavia, del tutto convincente.

    A mio avviso la Commissione avrebbe dovuto proporre un’innovazione più radicale, cioè quella dell’adozione di una  vera e propria ipotetica ordinanza provvisoria motivata succintamente ed enunciante la soluzione di inammissibilità, di improcedibilità, di infondatezza del ricorso, con la previsione della comunicazione alle parti costituite e l’assegnazione di un termine per la proposizione di un’opposizione motivata ad istanza della parte interessata, da decidersi dal collegio in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1, in mancanza della quale semmai dovrebbe scattare il meccanismo di dichiarazione dell’estinzione.

    Una innovazione in qualche modo simile chi scrive l’aveva prospettata in occasione di un breve intervento svolto nel brevissimo spazio che fu concesso ai partecipanti dopo le relazioni nell’assemblea della Corte di Cassazione tenutasi nel giugno del 2015, allorché si discuteva delle proposte di riforma poi sfociate nel d.lg. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni nella l. n. 197 del 2016.

    Spiego le ragioni del mio dissenso dalla proposta in cantiere e del sostegno della diversa proposta indicata.

    A me pare che l’invio ai difensori di una proposta recante la sintetica indicazione della o delle cause di inammissibilità o della causa di improcedibilità o della causa o delle cause di manifesta infondatezza, difficilmente sortirà l’effetto di “convincere” quel difensore a non chiedere comunque la trattazione in adunanza camerale.

    La ragione è ovvia: una enunciazione sintetica come quella che in concreto, in ossequio al Protocollo del 2016, viene fatta nell’attuale versione della proposta di cui all’art. 380-bis c.p.c. risulta avere un’efficacia di convincimento quantomeno dubbia. In tanto, se un difensore ha proposto il ricorso ed è veramente incorso in una causa di inammissibilità, improcedibilità o ha proposto un ricorso manifestamente infondato, è palese che si tratterà di un difensore poco avveduto, che ha fatto male il suo mestiere di cassazionista. Ed allora non è sperabile che una soltanto sintetica indicazione del perché ha sbagliato lo dissuada dal richiedere la trattazione in camera di consiglio. Quello che accadrà, di fronte alla sinteticità dell’indicazione della causa di definizione del ricorso, sarà verosimilmente che quel difensore che nel proporre il ricorso ha sbagliato non abbia la capacità di comprendere ed apprezzare l’efficacia persuasiva, pur esistente, della sintetica proposta. Il solo rischio di non sfuggire all’onere del c.d. doppio contributo mi sembrerebbe un deterrente di poco valore sempre per il difensore che versi nell’indicata condizione. Al di fuori del caso che ho ipotizzato, quello del cassazionista “maldestro”, comunque a me pare che l’efficacia persuasiva di una proposta sintetica meramente indicativa possa avere sempre un valore persuasivo del tutto relativo almeno nei casi di inammissibilità del ricorso per problemi di c.d. contenuto-forma e per quelli di manifesta infondatezza e ciò anche quando fosse accompagnata dall’indicazione di precedenti, in una logica simile a quella raccomandata dal ricordato Protocollo.

    Va considerato che qui si tratta di apprezzare una proposta che in mancanza di richiesta di trattazione determina l’estinzione del giudizio di cassazione, mentre l’attuale proposta in sede di art. 380-bis è destinata ad essere discussa nell’adunanza camerale, in vista della quale può essere presentata memoria.  

    Vi sarebbe poi da fare i conti con il problema della relazione che il difensore dovrà fare al cliente sulla proposta ed è palese, per un verso che spiegare al cliente una “proposta” prospettando che è meglio non insistere chiedendo la trattazione sarà opera difficile per il difensore, dato che egli non potrà presentare la proposta come una decisione della Corte.

    E’ per queste ragioni che credo sarebbe molto più opportuno adottare la soluzione della pronuncia da parte del relatore non già di una proposta, bensì di una vera e propria ordinanza ipotetica e condizionale motivata, sebbene succintamente, come imporrebbe l’ordinario procedimento ai sensi dell’art. 380-bis.1, dichiarativa della causa di inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza. Essa sarebbe contestabile, all’esito della comunicazione, non già con una mera richiesta di trattazione, bensì con un’opposizione motivata, che esprima in primo luogo il dissenso dall’ordinanza ipotetica e che sia da decidere dal Collegio in sede camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1.

    Questa soluzione potrebbe essere accompagnata da una serie di previsioni accessorie: la prima è che l’ordinanza motivata redatta dal relatore designato dovrebbe recare il visto del presidente di sezione eventualmente preposto in sede sezionale alla gestione del procedimento accelerato. Ciò garantirebbe per un verso uniformità di valutazioni nella redazione dei provvedimenti e, per altro verso, garantirebbe una maggiore ponderazione della decisione.

    La seconda previsione auspicabile, al fine di evitare opposizioni meramente dilatorie e comunque di assicurarle ponderate, dovrebbe essere il riconoscimento, in sede di trattazione camerale collegiale, qualora il ricorso venga dichiarato inammissibile o improcedibile o rigettato con la mera condivisione della motivazione enunciata dall’ordinanza opposta, del dovere del collegio di condannare ai sensi dell’art. 96, comma terzo, c.p.c.

    La proposta che qui enuncio dovrebbe in particolare essere corredata dalle seguenti previsioni: a) l’ordinanza condizionale non dovrebbe recare la statuizione sulle spese; b) l’opposizione dovrebbe farsi entro un termine che, anche per lasciare spazio alla ponderazione della parte, dovrebbe essere di quaranta giorni; c) la legittimazione a proporla dovrebbe spettare solo alla parte soccombente per effetto della causa di inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso; d) nel caso di ordinanza decisoria ipotetica di più ricorsi riuniti o di ricorso principale ed incidentale, la legittimazione sarebbe riferibile a ciascuna delle parti soccombenti sui vari ricorsi e la sua proposizione porrebbe tuttavia nel nulla l’ordinanza anche per il resto, occorrendo che la decisione sui ricorsi sia unitaria; e) l’opposizione dovrebbe comunque determinare sempre una decisione del Collegio che assorba l’ordinanza ipotetica e condizionale, in pratica risolvendosi nella determinazione della sua automatica caducazione e della necessità di una decisione collegiale; f) l’opposizione dovrebbe essere motivata, cioè enunciare una critica alla motivazione contenuta nell’ordinanza condizionale e la mancanza di tale critica dovrebbe comportare una decisione collegiale che, dandone atto, decida il ricorso anche soltanto rinviando ad essa e pronunciando nello stesso senso sul ricorso con obbligatoria condanna, oltre che alle spese, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c.; g) analoga soluzione dovrebbe darsi per il caso di opposizione che risulti proposta oltre il termine previsto; h) se l’opposizione venga ritenuta ammissibile, ma infondata soltanto per l’infondatezza della critica pur rivolta all’ordinanza condizionale, parimenti l’ordinanza collegiale dovrebbe recare la nuova decisione conforme del ricorso e contenere non solo la statuizione sulle spese, ma pure la condanna di cui al terzo comma dell’art. 96; i) nel caso di fondatezza dell’opposizione l’ordinanza collegiale dovrebbe procedere alla decisione del ricorso; l) nel caso in cui l’ordinanza recasse una ipotetica decisione provvisoria sul ricorso principale e su quello o su quelli incidentali, la proposizione dell’opposizione quanto alla proposta di decisione su uno dei ricorsi, automaticamente renderebbe necessaria la decisione collegiale su tutti i ricorsi, non potendosi immaginare che vi siano fonti di decisione distinte; m) nel caso di mancanza dell’opposizione nel termine si dovrebbe prevedere che l’ordinanza condizionale comunque si risolva e si dovrebbe adottare la soluzione della pronuncia del decreto di estinzione immaginata dall’articolato di cui si è riferito, con ciò che ne segue.

    Sempre se si condividesse l’idea che il procedimento acceleratorio debba imperniarsi su un provvedimento motivato equivalente ad un’ordinanza decisoria, nella parziale condivisione della logica della Commissione, si potrebbe scegliere – ma mi parrebbe meno opportuno - anche la strada per cui la parte soccombente potrebbe fare anche un’opposizione immotivata o, se si vuole, chiedere la trattazione in adunanza camerale, con automatica caducazione dell’ordinanza. Ferme le conseguenze in termini di art. 96, terzo comma, c.p.c. nel caso della condivisione da parte del Collegio della motivazione dell’ordinanza e nel caso di richiesta tardiva. Nel caso di mancanza della richiesta si potrebbe prevedere sempre il decreto di cui ho detto sub m).

     

    7. Il proposto restyling dell’art. 377, dell’art. 378, dell’art. 379 e dell’art. 391-bis c.p.c.

    Nell’articolato – sulla base del criterio di delega di cui alla lettera g) – si prevedendo alcuni interventi sugli artt. 377, 378 e 379 c.p.c.

    L’art. 377 c.p.c. conserva la sua rubrica e, a parte l’incongruenza già sopra segnalata della permanenza del richiamo al presidente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c., innova nel senso che anche al Pubblico Ministero debba darsi comunicazione dalla cancelleria della fissazione dell’udienza o dell’adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1: il riferimento all’adunanza va così inteso in quanto l’articolato lascia invece immutato l’art. 380-ter c.p.c.

    Sempre l’art. 377 c.p.c. dispone eleva anche per udienze pubbliche a quaranta giorni il termine entro il quale deve farsi la detta comunicazione alle parti e al Pubblico Ministero.

    L’art. 378 c.p.c. prevede in un primo comma che anche il P.G. possa presentare memorie in funzione dell’udienza pubblica dieci giorni prima di essa ed in un secondo comma lascia immutato il termine di cinque giorni per le parti e sancisce il principio, mutuato dalla giurisprudenza della Corte, che le memorie servono solo “per illustrare i motivi già esposti negli atti introduttivi e per replicare alle ragioni delle altre parti e alle memorie del pubblico ministero.”.

    L’art. 379 c.p.c., in fine, viene rimodulato prevedendo nel primo comma che nell’udienza pubblica il relatore debba riferire “sinteticamente” e, con opportuna innovazione, che, “ove occorra, il presidente o anche il relatore indicano le questioni rilevanti per la decisione”, nonché, correlativamente, nel secondo comma, che i difensori delle parti svolgano lde difese “anche con particolare riferimento a specifici aspetti evidenziati dal presidente o dal relatore”. Si propone, poi, opportunamente l’aggiunta di un quarto comma, che dovrebbe disporre in tal senso: “Il presidente dirige la discussione fissando, se lo ritiene necessario, limiti temporali per il suo svolgimento”. In fine nell’art. 391-bis l’adunanza camerale diventa, al posto di quella di cu al sopprimendo art. 380-bis, quella ai sensi dell’art. 380-bis.1.

    8. La novità del c.d. rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione.

    Il criterio di delega di cui all’art. 6-quater prevede una sostanziale innovazione, che nell’articolato viene realizzata con l’introduzione nel Codice di procedura Civile del nuovo art. 362-bis, rubricato “Rinvio pregiudiziale”.

    Il primo comma della nuova norma suonerebbe in questi termini: “Fuori dei casi in cui procede in base agli articoli 394 e 400, il giudice di merito può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte per la risoluzione di una questione di diritto necessaria per la definizione anche parziale della controversia, quando ricorrono le condizioni di cui al secondo comma” Si immagina, dunque, che il giudice di merito – al di fuori del caso in cui operi come giudice di rinvio e della revocazione – possa interrogare la Corte di Cassazione in ordine alla risoluzione di una questione di diritto rilevante per la definizione, anche solo in parte, della controversia. Può trattarsi sia del giudice di pace, sia del tribunale come giudice di primo grado o di appello, sia della corte di appello.

    Il secondo comma indica le condizioni per l’esercizio del potere in questi termini: “Il rinvio può essere disposto dal giudice quando: 1) la questione di diritto sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte; 2) si tratti di una questione esclusivamente di diritto e di particolare rilevanza; 3) presenti particolari difficoltà interpretative; 4) si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.

    La proposta di innovazione mi sembra da valutare assolutamente con favore ed anzi la vedo come l’unica opzione possibile per preservare la funzione assegnata alla Corte di Cassazione dall’art. 67 dell’Ordinamento Giudiziario e nel contempo giustificare la conservazione della norma dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione, che è – a mio modo di vedere – l’architrave dell’assetto costituzionale della Magistratura Ordinaria e per tale ragione, se è vero che è responsabile dell’assedio inusitato di ricorsi cui è da tempo sottoposta la Corte di Cassazione, difenderei dai ricorrenti auspici di modifica costituzionale nel senso di restringere la ricorribilità.

    Il meccanismo immaginato dalla proposta sarebbe particolarmente idoneo a consentire un intervento nomofilattico della Corte di Cassazione soprattutto a proposito dell’esegesi di nuove norme, riguardo ala quale oggi bisogna aspettare molti anni prima che arrivi davanti alla Corte. Semmai, il limite della proposta è che non sarebbe applicabile alla giurisdizione in materia tributaria, atteso che i giudici di merito tributari sono estranei alla giurisdizione ordinaria e considerato che la norma, quando parla del giudice di merito, essendo inserenda nel Codice di Procedura Civile è norma interna alla giurisdizione civile ordinaria. Auspicherei, tra l’altro per il fatto che il succedersi di norme nuove è vorticoso nella materia tributaria, che si immagini in sede di attuazione della delega un’estensione.

    Le ipotesi nelle quali è previsto il rinvio mi sembrano ben calibrate e semmai, proprio raccordandomi a quella della norma nuova, si potrebbe prevedere a proposito di essa un espresso riferimento.

    Naturalmente, il potere resta affidato alla oculatezza del giudice di merito e per le norme nuove alla circostanza che la questione interpretativa si sia manifestata almeno in una prima fase di vigenza e applicazione della nuova norma, con risultati incerti.  

    In ordine al procedimento di rimessione, la norma prevede che: “Il giudice, se ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale, assegna alle parti un termine non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione di diritto. Con l’ordinanza che formula la questione dispone altresì la sospensione del processo fino alla decisione della Corte”

    Il procedimento successivo dinanzi alla Corte è regolato in questi termini: “Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, con proprio decreto la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al secondo comma. Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alla sezione semplice o, in caso di questione di particolare importanza, alle sezioni unite, per l’enunciazione del principio di diritto. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza”

    La norma non lo dice, ma le parti del giudizio di merito naturalmente dovrebbero potersi costituire e discutere nella pubblica udienza.   

    Si prevede, poi, che: “il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio. Il provvedimento conserva il suo effetto vincolante anche nel processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda”

    Il carattere vincolante, come dimostra il secondo inciso, se il rinvio sarà disposto dal giudice di primo grado, opererà anche per il giudice di appello e, ovviamente, anche se il giudizio tornasse di nuovo in Cassazione.

    Quid iuris se, successivamente alla risposta della Corte, quest’ultima muti il suo avviso sulla questione interpretativa e il procedimento in cui era stata data disposta al quesito sia ancora non definito? E’ opportuno che la norma delegata si occupi del problema.

                    

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