GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Le Sezioni Unite (Cass.S.U. 10242/2021) affrontano una singolare ipotesi di sentenza non definitiva di Mauro Mocci

    Le Sezioni Unite (Cass.S.U. 10242/2021) affrontano una singolare ipotesi di sentenza non definitiva

    di Mauro Mocci 

    Sommario: 1. Una doverosa premessa in tema di collegialità - 2. La vicenda - 3. L’inquadramento normativo - 4. La decisione e le motivazioni - 5. Le conclusioni.  

    1. Una doverosa premessa in tema di collegialità

    Scorrendo l’epigrafe della sentenza n. 10242/2021 delle Sezioni Unite, salta subito agli occhi un particolare, normalmente assente nella generalità delle decisioni collegiali: la persona del relatore è diversa da quella dell’estensore.

    È dunque solo ipotizzabile che – a prescindere dal caso di un impedimento alla stesura da parte del consigliere cui era stata affidata la relazione – la decisione sia stata presa a maggioranza, con il voto difforme del relatore. D’altronde, come è noto, la camera di consiglio è segreta (camera caritatis): la violazione di tale obbligo determina conseguenze disciplinari, giacché la segretezza delle deliberazioni dei giudici collegiali copre l'intero contenuto della discussione delle varie questioni affrontate dal collegio al fine di pervenire alla decisione e non è contraddetta dalle disposizioni sulla possibilità dei componenti dissenzienti del collegio di far risultare il loro dissenso in un verbale inserito in un plico sigillato[1].

    Il confronto delle differenti sensibilità all’interno della camera di consiglio, se vale ad esaltare il principio di collegialità, deve però trovare una sintesi e deve apparire all’esterno come il risultato di una volontà unica (ossia la riduzione ad unità delle distinte opinioni dei partecipanti)[2]. Per tale motivo, l'art. 118 ultimo comma disp. att. c.p.c. regola la scelta dell'estensore, che è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione. L'estensore deve poi consegnare la minuta della sentenza da lui redatta al presidente che, datane lettura - quando lo ritiene opportuno - al collegio, la sottoscrive insieme con l'estensore e la consegna al cancelliere, il quale scrive il testo originale o ne affida la scritturazione al dattilografo. Il giudice che ha steso la motivazione aggiunge la qualifica di estensore alla sua sottoscrizione (art. 119 disp. att.).

    Nelle predette ipotesi si potrebbe determinare oggettivamente un allungamento del processo, perché l'estensore in minoranza impiega più tempo a costruire una decisione che non condivide, proprio quando tutto l'attuale sistema è volto a comprimere i periodi temporali di stesura delle sentenze (le statistiche inviate periodicamente dagli uffici giudiziari sono ripartire secondo le varie scadenze, trenta giorni, sessanta giorni, centoventi giorni, oltre).

    Nei casi di persistenza del contrasto in seno alla camera di consiglio, appare perciò opportuno il trasferimento immediato dell'onere della motivazione su altro componente del collegio.  

    2. La vicenda

    Il giudizio trae origine dalla domanda di risoluzione di una donazione modale (art. 793 c.c.)[3] formulata nei confronti del Comune di La Spezia. Quest’ultimo, donatario di un’area di circa 1.000 mq,, era però vincolato alla realizzazione di una costruzione da destinare agli scopi istitutivi dell’OMNI. Una volta soppresso quest’ultimo ente, il Comune aveva concesso a terzi il diritto di superficie nel sottosuolo dell’area, per la realizzazione di un parcheggio. Da ciò la reazione degli eredi del donante, che intendevano avvalersi della facoltà – contenuta nell’atto – di revocare la donazione, anche dopo la sua formale accettazione.

    Il Tribunale adito dichiarò dapprima risolta la donazione, condannando il Comune al rilascio dell’immobile ed al rimborso delle spese di lite e rimettendo il processo in istruttoria per la quantificazione del danno. Successivamente, in esito all’istruttoria del caso, quantificò la somma dovuta a titolo di ristoro del danno da occupazione dell’area, nonché al pagamento delle spese di lite per le competenze maturate nel prosieguo.

    Il Comune soccombente, che aveva formulato riserva di gravame avverso la sentenza del 2007, impugnò entrambe le pronunzie avanti la Corte d’Appello di Genova, la quale dichiarò inammissibile per tardività l’appello avverso la prima sentenza, rigettò l’impugnazione principale nei confronti della seconda sentenza ed, in accoglimento dell’appello incidentale, rideterminò la somma dovuta agli eredi del donante.

    Con particolare riguardo alla declaratoria d’inammissibilità, la Corte territoriale affermò che la sentenza gravata, nel dichiarare l’intervenuta risoluzione della donazione, aveva altresì provveduto a liquidare le spese di lite rispetto al decisum, mentre la successiva pronunzia, statuendo sulle spese processuali, aveva liquidato solo quelle inerenti alle attività svolte appunto nella seconda fase. Da ciò il giudice di appello traeva la convinzione che fosse intervenuto, quanto agli effetti, un implicito provvedimento di separazione, il che avrebbe implicato, con la natura definitiva della decisione, anche la tardività dell’appello ed il passaggio in giudicato delle statuizioni ivi contenute.

    A fronte del ricorso per cassazione da parte del Comune di La Spezia, con ordinanza interlocutoria del 9 marzo 2020 n. 6624, la Seconda Sezione Civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, sollecitando la trattazione del ricorso da parte delle Sezioni Unite, sui principi riguardanti l’individuazione o no di una sentenza non definitiva, con la conseguente ricaduta sui tempi di proposizione del gravame e l’ammissibilità della riserva di appello[4].  

    3. L’inquadramento normativo

    Recita l’art. 340 c.p.c. “Contro le sentenze previste dall'articolo 278  e dal n. 4 del secondo comma dell'articolo 279, l'appello può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Quando sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, l'appello deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio o con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio. La riserva non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello”. I richiami contenuti nella predetta norma riguardano la condanna generica (art. 278) o quella sentenza che, pur risolvendo alcune questioni, non definisce l’intero giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa (art. 279 comma 2° n. 4).

    In altri termini, la separazione delle cause, che può avvenire anche in sede di decisione, determina la pronunzia di una sentenza su una sola parte del processo.

    Originariamente, il codice di rito indicava tali sentenze con la denominazione di parziali. Con la novella del 1950, è stato mutato sia il nome (che è divenuto sentenze non definitive), sia il regime delle medesime, rendendole impugnabili anche separatamente dalla sentenza definitiva. Il nome originario si è peraltro conservato nella pratica[5].

    In realtà, la giurisprudenza mantiene ancora una distinzione fra i due concetti. Le decisioni pronunziate su domande autonome introdotte con la stessa causa o su capi autonomi della domanda o che, in ogni caso, definiscono completamente singole posizioni costituiscono sentenze definitive ma parziali (ad esempio, si accerta la simulazione di un atto di alienazione fatto dal de cujus e si rimette la causa in istruttoria per la divisione ereditaria), mentre le decisioni pronunziate su questioni preliminari alla decisione finale e non contenenti alcuna statuizione sulle spese o in ordine alla separazione dei giudizi, costituiscono sentenze non definitive[6]. La distinzione va cioè operata sulla base di elementi formali, ma è importante giacché solo contro le sentenze non definitive è ammessa la riserva di appello ai sensi dell'art. 340 c.p.c.

    Con particolare riguardo al giudizio di legittimità, dopo la riforma del 2006 le sentenze che decidano questioni insorte nel giudizio senza definirlo, anche parzialmente, non possono più essere impugnate con ricorso autonomo e immediato: il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può ora essere proposto, senza necessità di riserva, unitamente all’impugnazione avverso la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio (art. 360, 3° comma, c.p.c.). Restano invece immediatamente ricorribili, secondo l’art. 361 c.p.c., le sentenze di condanna generica previste dall’art. 278 c.p.c. e quelle che decidono solo su una o alcune delle domande, senza delibare l’intero giudizio: in tali ipotesi il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso ed, in ogni caso, non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza parziale. Concludendo sul punto, le sentenze parziali sono immediatamente impugnabili sia in appello sia in cassazione, mentre per le sentenze non definitive può farsi riserva di appello, ma occorre attendere la pronunzia definitiva per l’impugnazione di legittimità.

    Rientra nel genus della sentenza parziale anche la condanna generica prevista dall’art. 278 c.p.c., allorquando il giudice – sollecitato da un’istanza di parte – “può limitarsi a pronunziare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione”. E’ il caso in cui si statuisca sulla sussistenza dell’an, lasciando l’accertamento del quantum alla prosecuzione del giudizio. Di solito, la condanna generica accerta solo la potenziale idoneità lesiva del fatto (contrattuale o extracontrattuale), da cui la parte vorrebbe far derivare il diritto al risarcimento: pertanto, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica non produce effetti vincolanti, per il giudice del quantum, né sull’esistenza del credito, né sulla proponibilità della domanda[7]. Peraltro, nulla impedisce che il giudice possa accertare con la condanna generica anche l'effettivo avveramento del danno, lasciando impregiudicate le sole questioni relative alla liquidazione[8]. In tal caso, la prosecuzione del giudizio si risolve in un problema di quantificazione del risarcimento.

    In buona sostanza, il carattere non definitivo di una sentenza presuppone, per un verso, il superamento delle questioni pregiudiziali o preliminari e, per altro verso, una pronunzia non sulla totalità delle domande di merito, ma solo su alcune di esse. Tuttavia, è sul piano formale che va posta la differenza con la sentenza definitiva, che deve contenere un provvedimento di separazione e la liquidazione delle spese di lite.7

    4. La decisione e le motivazioni

    Con la sentenza n. 10242, depositata il 19 aprile 2021, le Sezioni Unite hanno fissato il seguente principio di diritto: “Ai fini dell'individuazione della natura definitiva o non definitiva di una sentenza che abbia deciso su una delle domande cumulativamente proposte tra le stesse parti, deve aversi riguardo agli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. Tuttavia, qualora il giudice, con la pronuncia intervenuta su una delle domande cumulativamente proposte, abbia liquidato le spese e disposto per il prosieguo del giudizio in relazione alle altre domande, al contempo qualificando come non definitiva la sentenza emessa, in ragione dell'ambiguità derivante dall'irriducibile contrasto tra indici di carattere formale che siffatta qualificazione determina e al fine di non comprimere il pieno esercizio del diritto di impugnazione, deve ritenersi ammissibile l'appello in concreto proposto mediante riserva".

    Il contenuto decisorio della sentenza muove dalla discussione delle argomentazioni portate dal ricorrente, secondo il quale i criteri formali individuati dalla giurisprudenza (come l’adozione di un provvedimento di separazione, la liquidazione delle spese di lite, la decisione solo su alcune domande) sarebbero stati recessivi a fronte di una qualificazione espressa da parte del giudice a quo, che, nella specie, aveva appunto dichiarato “non definitiva” la prima pronunzia.

    In proposito, una consolidata giurisprudenza di legittimità ha affermato che, proprio in tema d'impugnazioni, nell'ipotesi di cumulo oggettivo di cause per connessione propria (artt. 34, 36 cod. proc. civ.) o per effetto di riunione dei processi ai sensi degli artt. 40 e 274 cod. proc. civ., il giudice può scegliere tra una pronuncia non definitiva su una singola domanda e una sentenza definitiva parziale. Quest'ultima opzione deve essere resa manifesta da un esplicito provvedimento di separazione o dalla statuizione sulle spese in ordine alla controversia decisa. Invece, nell'ipotesi di cumulo litisconsortile (artt. 103, 105, 106 e 107 cod. proc. civ.), la sentenza che definisca integralmente la controversia in ordine ad uno dei litisconsorti od intervenienti o chiamati in causa deve sempre ritenersi definitiva e contenere una pronuncia sulle spese e un provvedimento di separazione dei restanti giudizi. Nell'ipotesi, infine, di cumulo solo oggettivo di cause tra le stesse parti, che non presentino alcun nesso di dipendenza, subordinazione o pregiudizialità e, conseguentemente, possano dar luogo ad una pronuncia parziale definitiva, è operante la disciplina della scelta tra l'impugnazione immediata e la riserva d'impugnazione differita.[9]

    Inquadrato, dunque, il problema (derivato) del regime d’impugnazione nel problema (presupposto) della natura definitiva o no della sentenza che decida solo su alcune fra le domande proposte, le Sezioni Unite hanno ritenuto di restare ancorate all’orientamento espresso dal medesimo consesso dapprima con la sentenza 1° marzo 1990 n. 1577[10] e poi con le due pronunzie dell’8 ottobre 1999, nn. 711 e 712[11].  Secondo le suddette decisioni, la sentenza, che decida una o più di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, ha natura non definitiva, e come tale può essere oggetto di riserva d'impugnazione differita (artt. 340 e 361 cod. proc. civ.), qualora non disponga la separazione, ai sensi dell'art. 279 secondo comma n. 5 cod. proc. civ., e non provveda sulle spese relative alla domanda od alle domande decise, rinviando all'ulteriore corso del giudizio, atteso che, anche al fine indicato, la definitività della sentenza esige un espresso provvedimento di separazione, ovvero la pronuncia sulle spese, che chiude la causa cui si riferisce e quindi necessariamente implica la separazione medesima.  In particolare, con la coppia di sentenze del 1999, la Suprema Corte cercava di risolvere – una volta per tutte, visto che il precedente pronunciamento non era stato seguito in modo uniforme dalle sezioni semplici - il contrasto circa la definitività della decisione, in allora esistente fra i fautori di un approccio “sostanzialista”, volto ad esaltare la pronunzia del giudice come tale rispetto alla singola domanda, ed una visione “formalista”, ancorata ad indici esteriori sintomatici della definitività, sancendo la preferenza per la seconda soluzione[12].      

    Quest’ultimo orientamento, che trova la sua ragion d’essere nella certezza del riferimento a parametri oggettivi, è stato altresì riproposto da S. U. 28 aprile 2011 n. 9441[13] e ribadito dalla decisione in commento.

    Alla considerazione degli indici formali intrinseci alla decisione impugnata – rifuggendo così da criteri succedanei - è pertanto collegata la costruzione della fattispecie portata all’attenzione delle Sezioni Unite, la quale peraltro contiene una particolarità, messa in luce dal ricorrente: il Tribunale aveva espressamente qualificato la prima sentenza come non definitiva, ancorché avesse contestualmente liquidato le spese di lite maturate fino a quel momento.

    In altri termini, a fronte di un provvedimento che disponeva la separazione del giudizio e la liquidazione delle spese, l’estensore qualificava quello stesso provvedimento come sentenza non definitiva. L’evidente incongruenza della pronunzia – di cui correttamente le Sezioni Unite rimarcano il “contrasto con le connotazioni di certezza che il provvedimento decisorio dovrebbe rivestire al fine di garantire il pieno esercizio del potere di impugnazione, poiché determina la difficoltà di attribuire prevalenza all’uno o all’altro degli indicatori rinvenibili” – ha posto il giudice di legittimità di fronte alla necessità di trovare una via d’uscita, che però evitasse di ricorrere all’utilizzo di elementi di tipo sostanzialistico.

    In tal senso, le Sezioni Unite hanno fatto richiamo a principi di carattere generale dell’ordinamento, ossia all’affidamento ed all’apparenza, escludendo tuttavia, in carenza di elementi di carattere oggettivo desumibili dalle modalità di svolgimento del processo, l’utilità di un’indagine metodologica circa la consapevolezza del giudice in ordine alla qualificazione della sentenza emessa (cioè se definitiva o no), proprio per evitare di dare ingresso a criteri distintivi di tipo sostanzialistico.

    Ma, oltre i predetti principi, è stata richiamata – e questo pare essere il passaggio dirimente della sentenza n. 10242/2021 – l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in tema di diritto all’impugnazione, quale fondamentale espressione del diritto di azione, ai sensi dell’art. 24 della Costituzione[14]. In particolare, il riferimento ha riguardato la sentenza della Consulta n. 75 del 9 aprile 2019[15], la quale, nell’ambito di una questione concernente la notifica eseguita con modalità telematiche, ha ribadito la necessità di consentire la massima espansione del diritto fondamentale di azione e di difesa in giudizio. Da ciò la Suprema Corte ha tratto “una ragione giustificatrice di sistema che, nella concreta situazione oggetto di esame, impedisce il diniego alla parte dell’accesso all’impugnazione”.  

    5. Le conclusioni

    La sentenza n. 10242 del 19 aprile 2021 appare in linea con la precedente, consolidata giurisprudenza (almeno a partire dal 1999, come si è visto) in tema di valutazione della natura definitiva o no di una sentenza, secondo i noti canoni formali. Probabilmente, la questione non sarebbe neppure stata rimessa alle Sezioni Unite, se la fattispecie non avesse presentato una dissonanza inconciliabile tra quegli stessi indici sintomatici della definitività (la liquidazione delle spese, da un lato, la dichiarazione di non definitività, dall’altro). E la scelta seguita a garanzia dell’effettività della tutela offerta dal processo – privilegiando la soluzione volta a consentire il potere d’impugnazione, altrimenti irrimediabilmente compromesso – si segnala, al di là del caso concreto, per la correttezza e la condivisibilità del criterio adottato. In altri termini, tutte le volte che il giudice si trovi in presenza di un contrasto tra elementi di segno opposto, che determinino una irrisolvibile ambiguità, dovrà fare ricorso ai principi generali dell’ordinamento e ragionare secondo gli stessi.


    [1] Così Cass. Sez. Un. 5 febbraio 1999 n. 23, in Giust. Civ. 1999, 6, 1, 1629, con riguardo ad un processo penale, come richiamata da M. CICALA, Rassegna sulla responsabilità disciplinare e civile dei magistrati, in Riv. Dir. Priv. 1999, 3, 521.

    [2] Il problema si è posto con ancor maggiore forza a seguito della pandemia. Mi permetto di rinviare, in proposito, a M. MOCCI, Il principio di collegialità alla prova del Covid-1, in Il diritto vivente numero monografico 2020, pag. 158

    [3] Sul modus apposto ad una donazione, cfr.  Sez. Un. N. 5702 dell’11 aprile 2012, in Corr. Giur. 2012, 11, 1358 con nota di M. MARTINO, E’ mera quaestio voluntatis decidere se la donazione sia cum onere ovvero sottoposta a condizione risolutiva?. In dottrina, A. RESTUCCIA, Donazione modale e rapporto obbligatorio, in Riv. Notariato, 2011, 5, 1, 1149; U. LA PORTA, Alcune questioni in materia di donazione modale e stipulazione a favore di terzo, in Riv. Dir. Civ. 2007, 1, 2, 15.

    [4] Ne parla ampiamente R. LOMBARDI, Sentenze definitive e non definitive: si preannuncia un ulteriore intervento delle sezioni unite, in Judicium, 2020, 8 ottobre

    [5] E. Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, rist. 1957, p. 262; S. SATTA, Dir. Proc. civ. 7°, 302. Sul tema è utile approfondire anche mediante le letture di C. CEA, Sentenze definitive e non definitive: una “querelle” interminabile, in Foro it., 1993,2,480; M. BOVE, Sentenze non definitive e riserva d’impugnazione, in Riv. trim. proc. civ., 1998, 2, 2, 415; E. FABIANI, Sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive, in Foro it. 1997, 7-8, 1, 2147.

    [6] Cfr. Cass. 18 giugno 2019 n.16289; Cass. 16 giugno 2008, n. 16216;.

    [7] Cfr. Cass. 24 aprile 2014, n. 9290. In dottrina Tomei, La sommarietà delle condanne parziali, in Riv. dir. proc., 1996, p. 350 ss.

    [8] Cass. 19 giugno 2015, n. 12724 e Cass. 11 febbraio 2009, n. 3357.

    [9] Cass. 25 marzo 2011 n. 6993

    [10] In Foro it. 1990, 3, 1, 836

    [11] Entrambe in Foro it. 2000, 1, 1, 123 con nota di A. FORTINI ed in Giust. civ. 2000, 1, 1, 63, con nota di GP. CALIFANO, Le sezioni unite civili ripropongono l’indirizzo formale in tema di sentenze non definitive su una fra più domande cumulate nel medesimo processo

    [12] In dottrina, per la tesi sostanzialista cfr. V. DENTI, Ancora sull’efficacia della decisione di questioni preliminari di merito, Riv. Dir. Proc. 1970, 560; S. SATTA, Commentario, 1966, II, 1, 320; V. ANDRIOLI, Commentario, 1960, II, 246; per la tesi formalista, V. CARBONE, Definitività e non definitività della sentenza, in Corriere giur. 1990, 705; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XXV ed., 2016, II, 325; L. MONTESANO, Cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. Civ. 1985, I, 3132

    [13] Successivamente anche da Cass. 19 dicembre 2013 n. 28467

    [14] L.P. COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del <>> in Nuova giur. comm, 2001, II, 1

    [15] In Foro it, 2019, 11, 1, 3452, con nota di G.G. POLI, “I’m gonna wait” tillmidnight hour: la Consulta dichiara tempestive le notifiche telematiche effettuate dalle ore 21 alle ore 24.







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