GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Oltre il linguaggio giuridico, per un rinnovamento culturale della motivazione delle sentenze di Matilde Brancaccio

    Oltre il linguaggio giuridico, per un rinnovamento culturale della motivazione delle sentenze

    di Matilde Brancaccio

    La Relazione illustrativa del Primo Presidente della Corte di Cassazione sul programma di gestione per l’anno 2021 non cessa di destare interesse, oramai da mesi.

    Merito della prospettiva di ampio respiro che la caratterizza in generale e, soprattutto, dell’attenzione dedicata sul piano organizzativo e degli obiettivi ad un tema tanto consueto nei dibattiti giuridici quanto ancora lontano dall’essere realmente compreso nelle sue enormi, pratiche implicazioni: la questione della motivazione dei provvedimenti del giudice e del loro linguaggio.

    La riflessione che si propone muove dalle radici di quanto già la Rivista ha saputo dire in proposito, negli articoli dedicati al tema, per cercare di guardare il volto reale della questione, con la maggior quota di realismo possibile, e provare a trovare soluzioni organizzative utili a raggiungere l’obiettivo di un “rinnovamento culturale” delle forme di espressione dei provvedimenti giurisdizionali, sia nella loro struttura che nei contenuti, là dove essi, come avverte, altresì, la Relazione del Primo Presidente, tuttora conservano stereotipi di ogni tipo.

    Sommario: 1. La questione del linguaggio delle sentenze e le prospettive in campo - 2. I precedenti storici più recenti del dibattito sulla tecnica di motivazione dei provvedimenti giudiziari - 3. Per una motivazione “rinnovata”: l’importanza, anche simbolica, della Relazione al Programma di gestione per l’anno 2021 della Corte di cassazione - 4. Leggerezza, rapidità, esattezza e valore del precedente - 5. Gli interventi possibili - 6. “Stereotipi e vecchi merletti”.

    1. La questione del linguaggio delle sentenze e le prospettive in campo

    Il linguaggio dei provvedimenti giudiziari costituisce da sempre argomento di riflessione e terreno di contese.

    Due approcci diversi, declinati ovviamente con mille rivoli differenti ed innumerevoli sfaccettature, sono chiaramente leggibili quando si affronta la lettura di provvedimenti giudiziari, soprattutto sentenze, principalmente quelle emesse dalle Corti superiori: i cultori di una lingua che si compiace di essere ipertecnica, per “iniziati” e “addetti ai lavori”, si fronteggiano con i sostenitori della necessità di adottare, invece, un linguaggio accessibile, fruibile da tutti, diretto, immediato, capace di rappresentare quel “popolo” in nome del quale si emettono le sentenze.

    Dal punto di vista formale, sembra evidente che, nell’epoca in cui viviamo, costellata dall’esigenza di chiarezza, efficienza, rapidità definitoria dei provvedimenti “di giustizia”, non possa che propendersi verso il secondo dei due atteggiamenti, che potremmo definire, più “democratico”.

    Fortunatamente, sembrano tramontati i tempi nei quali il dottor Azzeccagarbugli diceva “a saper maneggiare bene le grida, nessuno è innocente e nessuno è colpevole”. Secondo Manzoni, il linguaggio giuridico, a causa anche all’intermediazione degli avvocati, vista come fattore di confusione in adesione ad un pregiudizio atavico di derivazione medievale di cui sono stati bersaglio a lungo i difensori, era ambivalente; poteva essere usato per provare una tesi e la sua opposta versione; nelle leggi così come nelle sentenze.

    Oggi, invece, traendo ispirazione da Italo Calvino, dovremmo con forza sostenere, anche nella “lingua giuridica” e delle sentenze, che per ottenere un risultato ottimale dalla scrittura “abbiamo a disposizione tutti i linguaggi: quelli elaborati dalla letteratura, gli stili in cui si sono espressi civiltà e individui nei vari secoli e paesi, e anche i linguaggi elaborati dalle discipline più varie, finalizzati a raggiungere le più varie forme di conoscenza: e noi vogliamo estrarne il linguaggio adatto a dire ciò che vogliamo dire, il linguaggio che è ciò che vogliamo dire”.

    Le Lezioni americane da cui è tratto il brano riportato[1] possono rappresentare – con un pizzico di ardire prospettico – un modello non soltanto per letterati e poeti, ma anche per chiunque voglia adoperare il giusto linguaggio in qualsiasi campo, a maggior ragione in quello giurisdizionale, dove è innegabile una certa commistione tra tecnicismo e narrativa pura, “racconto”.

    Leggerezza, Rapidità, Esattezza: sono le prime tre “lezioni” di Calvino per la letteratura del “prossimo Millennio”; il millennio che oggi stiamo vivendo; le lezioni più importanti, secondo l’ordine di priorità decrescente che egli aveva pensato, e quelle che potrebbero costituire un canovaccio essenziale per il lavoro del giudice.

    Tre doti della scrittura giuridica utili a renderla comprensibile a tutti, capace di individuare i problemi con nettezza e precisione, senza divagazioni non necessarie, finalmente “libera” da schemi precostituiti o da aspirazioni di vanità intellettuale del giudice o dell’avvocato e, per questo, adatta a rispondere in maniera ottimale ed in tempi adeguati alla domanda che proviene dalle istanze del “fare giustizia”.

    La questione del linguaggio giuridico comprende, dunque, anzitutto, un problema di approccio comune degli attori del processo: si migliora la lingua tecnica di provvedimenti, ricorsi, impugnazioni ed atti di parte solo “insieme”; soltanto se magistrati ed avvocati si sentiranno investiti da un comune obiettivo di crescita culturale, diretto finalmente a “svecchiare” le parole di giustizia ed a renderle capaci di rispondere ai nostri tempi complessi e proiettati verso il futuro.

    Il problema linguistico, poi, impone una visione (quantomeno) bifocale: rimodellare la lingua giuridica è operazione necessaria non soltanto, ed ovviamente anzitutto, per migliorare la qualità della produzione giudiziaria, ma anche per accorciare i tempi del processo e dei provvedimenti giudiziari (decisione e deposito); per concentrare le forze migliori sulle questioni che richiedono soluzioni più complesse e, dunque, tempi e scritture maggiormente dilatati, contemporaneamente fornendo, in maniera quanto più possibile diffusa, una risposta, pur sempre adeguata, ma di maggior efficienza perché “semplificata”, per le questioni ordinarie, quelle seriali o analoghe ad orientamenti consolidati o, semplicemente, quelle meno complicate.  

    2. I precedenti storici più recenti del dibattito sulla tecnica di motivazione dei provvedimenti giudiziari

    Il dibattito sui temi dello stile e del linguaggio delle sentenze occupa da tempo l’interesse delle strutture di formazione della magistratura e non solo[2], con particolare attenzione dedicata all’analisi delle tecniche redazionali dei provvedimenti giudiziari.

    L’impressione che si trae, da anni di riflessioni sulla materia, è che la scrittura dei provvedimenti giudiziari, così come ogni altra forma di espressione umana, è condizionata dal background del giudice, dal punto di vista della società cui appartiene, del momento storico in cui agisce, delle differenti opzioni culturali alle quali si richiama come singolo o nella dimensione collettiva in cui opera.

    La Magna Carta dei giudici europei del 17 novembre 2010 (par. 16) e la Raccomandazione 12/2010 del 17 novembre 2010 del Comitato dei Ministri della Comunità Europea indicano la tensione verso l’obiettivo di redigere la motivazione dei provvedimenti in un linguaggio semplice, chiaro e comprensibile.

    Anche il Consiglio Superiore della Magistratura ha dimostrato costantemente attenzione al tema e, recentemente, con le delibere del CSM del 5 luglio 2017 e del 20 giugno 2018, ha operato una ricognizione e disegnato alcune linee di indirizzo sulle modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti.

    In funzione di dare indicazioni sulle motivazioni seriali o di semplice stesura sono stati emanati i decreti del Primo Presidente della Corte di cassazione n. 84 e n. 136 del 2016[3], che hanno istituzionalizzato i casi e le modalità di redazione della cosiddetta “motivazione semplificata” o sintetica dei provvedimenti ed hanno inaugurato la stagione degli interventi organizzativi e di indirizzo “espliciti”, volti a legittimare metodologie di redazione motivazionali di breve struttura, caratterizzate da pochi e rapidi richiami giurisprudenziali e da ricostruzioni in fatto ed in diritto estremamente sintetiche, in presenza di questioni giuridiche di facile risoluzione.

    Si è agito, di recente, anche sul fronte del comune impegno di semplificazione delle attività giurisdizionali di magistrati ed avvocati, avviando i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione, il CSM e il CNF, aventi ad oggetto proprio regole di redazione degli atti, finalizzate ad adottare sistematicamente criteri di chiarezza, sinteticità e comprensibilità[4].

    Infine, il Rapporto del 21 aprile 2016 sull’azione degli Stati membri del Consiglio d’Europa rispetto alla Raccomandazione n. 12 del Comitato dei Ministri REC (2010), in tema di indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici, afferma che le sentenze devono essere scritte in un linguaggio chiaro (“clear language”), agevolmente comprensibile dal pubblico, e invita gli Stati a intraprendere azioni adeguate in tal senso (analogamente si dispone avuto riguardo all’attività del pubblico ministero, nel parere n. 11 del 2016 dal Consiglio consultivo dei procuratori europei, istituito dal Consiglio d’Europa, in tema di qualità ed efficienza del lavoro dei procuratori).  

    3. Per una motivazione “rinnovata”: l’importanza, anche simbolica, della Relazione al Programma di gestione per l’anno 2021 della Corte di cassazione

    Traendo spunto, in particolare, dalla delibera del CSM del 20 giugno 2018, è stato elaborato, con indicazioni dal forte impatto simbolico e programmatico, prima ancora che pratico, il paragrafo 11 della Relazione al Programma di gestione ex art. 37 dei procedimenti civili e penali ex art. 37 D.L. 6.7.2011 n. 98, convertito in L. 15.7.2011, n. 111 dedicato alla motivazione delle sentenze.

    Sulle radici costituzionali rappresentate dal comma sesto dell’art. 111 della Carta fondamentale del nostro ordinamento, che prevede l’obbligo generalizzato di motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali, il documento programmatico fonda i compiti della Corte di cassazione: assicurare la certezza del diritto oggettivo e la parità di trattamento dei cittadini attraverso l’autorevolezza e la persuasività del discorso giustificativo delle sue decisioni, in maniera tale da perseguire anche il valore dell’uniformità della giurisprudenza (si intende, per questioni identiche ed in un identico momento storico-normativo).

    Particolarmente rilevante è il richiamo della Relazione ad attuare il giusto processo attraverso anche un giudizio ben comprensibile, posto che il controllo sull’esercizio della giurisdizione si realizza, al di fuori della logica endo-processuale, attraverso la comprensione delle decisioni giurisdizionali da parte del cittadino, nel cui nome la giustizia viene amministrata.

    L’eco di quell’approccio “democratico” invocato all’inizio si rivela chiarissimo in questo passaggio.

    La chiarezza espositiva come metodo maieutico per ottenere standard elevati di qualità della risposta giudiziaria, obiettivo che – come si sottolinea condivisibilmente nella Relazione – deve essere perseguito allo stesso modo e con la stessa priorità di quello della celerità cui pure è volto il “giusto processo”.

    Per la chiarezza, essenziale è la capacità di sintesi, strumento indispensabile in una Corte oberata in modo anomalo da ricorsi, con tetti di sopravvenienze annue che sfiorano e più spesso superano, da tempo e tenendo in disparte la diminuzione dovute al periodo pandemico che ha investito l’anno 2020, le 50.000 impugnazioni, nel settore penale, e si attestano mediamente sopra i 30.000 ricorsi in quello civile, con punte fino a 37.000 circa nel periodo 1.7.2018-30.6.2019[5].

    I consiglieri della Corte di cassazione sono caricati da un numero sicuramente eccessivo di ricorsi pro-capite annui, assolutamente incompatibile con un proficuo e consapevole contributo alla creazione del “precedente” giurisprudenziale, cui puntano il processo civile e penale per garantire uniformità, prevedibilità e trasparenza degli orientamenti giurisdizionali, in attuazione dei principi costituzionali.

    E, sia consentita l’osservazione, è solo attraverso il sacrificio personale e l’elevato spirito di servizio di ciascuno che la Corte di legittimità in questi anni ha continuato a costituire un punto di riferimento per la giurisprudenza nazionale e non solo.

    Peraltro, la notevole distanza di sopravvenienze tra il settore penale e quello civile, al netto delle diversità connaturate ai ricorsi di ciascun ambito, dovrebbe imporre moduli organizzativi idonei a consentire ai consiglieri del settore decisamente più gravato da sopravvenienze (quello penale) di svolgere al meglio la loro funzione, non puntando solo alla maggior brevità delle motivazioni, per ottenere più tempo utile a definire un numero di processi evidentemente sproporzionato rispetto alla forza lavoro, ma, soprattutto, a ritrovare la possibilità di decidere con attenzione e nei giusti tempi le questioni sempre più complesse che giungono a giudizio, le conseguenze delle quali incidono con frequenza costante e numericamente importante sulla libertà personale individuale. 

    In tale contesto, il richiamo contenuto nel documento programmatico per il 2021 ad una nuova modalità di scrittura, alla necessità di sintesi, strumentale alla chiarezza e funzionale alla “progressione logica del ragionamento”, acquista nuovo significato, sia per il “luogo organizzativo” ove è collocato, sia perché accompagnato da un vero e proprio monito ad evitare “inutili ripetizioni”, per generare, invece, un dialogo costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice, in vista di una motivazione che, proprio perché precisa, scevra da orpelli linguistici, risulta più “solida”.

    Il tema è affascinante e stimola una riflessione che abbraccia anzitutto opzioni culturali e sovverte schemi di pensiero consolidati.

    La sentenza “migliore” non è quella più ampia, più ricca di argomenti di contorno al nucleo motivazionale centrale, di citazioni giurisprudenziali ovvero di echi dottrinali, ma è la sentenza che penetra nelle maglie del processo come una lama, trafigge il punto nodale che è sottoposto al giudizio e incide sugli interessi delle parti in modo preciso, senza equivoci e campi oscuri.

    La prospettiva più ampia che deriva dall’adozione di tale nuovo atteggiamento, non solo tecnico, ma prima ancora culturale, da parte del giudice, nella scrittura dei suoi provvedimenti, è stata individuata dal documento organizzativo della Corte di cassazione in un passaggio che sembra particolarmente significativo in un’ottica generale, contenuto nel par. 11.2, là dove si sottolinea che “la comprensione dei provvedimenti giudiziari da parte del cittadino rende… possibile il controllo dell’opinione pubblica sulla decisione, favorisce la conoscenza delle modalità di funzionamento del sistema con positive ricadute sulla qualità e quantità della domanda, contribuisce a rafforzare la legittimazione tecnico-professionale dei magistrati”.

    E più che mai oggi sembra necessario non solo rafforzare ma recuperare, da parte della magistratura, un rapporto di fiducia con la società ed i cittadini che consenta la crescita democratica del Paese e contribuisca alla miglior tutela dei diritti.

    Del resto, è solo “attraverso la motivazione che i soggetti investiti del potere giurisdizionale rendono conto del proprio operato alla fonte dalla quale deriva la loro investitura”.[6]   

    4. Leggerezza, rapidità, esattezza e valore del precedente

    La chiarezza e la sintesi evocate dal Programma di gestione della Cassazione per il 2021 sembrano trarre vitalità e contenuti dai caratteri di leggerezza, rapidità, esattezza già prima richiamati come obiettivi finali della scrittura e del linguaggio, anche giudiziari.

    Chiarezza, precisione e sintesi costituiscono anche e soprattutto il terreno motivazionale fertile per amplificare il valore del “precedente giurisprudenziale” derivato dall’interpretazione in funzione nomofilattica che è compito della Cassazione.

    In un’epoca quale è quella che viviamo, in cui la costante crescita del peso dell’interpretazione nella ricostruzione della fattispecie penale e del formante giuridico come vero e proprio elemento di costruzione della disciplina giuridica degli istituti[7], ha portato ad una nuova consapevolezza anche del legislatore (si pensi all’introduzione del nuovo comma 1-bis dell’art. 618 del codice di procedura penale, con la novella attuata con legge n. 103 del 2017 ed all’introduzione del valore di “precedente tendenzialmente vincolante” delle affermazioni di principio provenienti dalle Sezioni Unite), il documento programmatico per il 2021 della Corte di cassazione costituisce un punto di emersione e, al tempo stesso, una base di partenza per le istanze di uniformità e stabilità che accompagnano parallelamente le moderne potenzialità del cd. diritto giurisprudenziale[8]: per migliorare “l’autorevolezza” del richiamo del precedente e la sedimentazione di un “diritto vivente”, che, senza cedere a conformismi, garantisca quella quota necessaria di certezza del diritto[9], corrispondente alla ragionevole prevedibilità[10] dell’orientamento interpretativo, declinata dalla giurisprudenza della Corte EDU, funzionale anche all’attuazione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge.[11]

    E nella ricerca di un equilibrio necessario alla vita del “precedente”, tra spinte innovatrici e coerenza con il dettato legislativo, non può sottovalutarsi il ruolo sempre più rilevante che stanno assumendo i continui flussi interpretativi provenienti dalle Corti europee, e massimamente dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo; flussi che, negli ultimi anni, hanno la dimensione di “corrente costante, pronta a trascinare con sé il diritto interno ed i suoi paradigmi consolidati, fino a toccare lo stesso principio di legalità formale che da sempre ispira il nostro diritto penale”.[12]

    La complicata alchimia tra diritto giurisprudenziale di matrice europea e diritto vivente interno deve essere sostenuta da forme espressive che restituiscano un’interpretazione chiara, precisa, che delimiti il “campo di gioco”, senza allargarne inutilmente i confini, creando incertezze.    

    Per quanto riguarda l’ambito penale, rilevanti considerazioni sul ruolo della Cassazione e delle Sezioni Unite di creazione di un “precedente autorevole”, sono state svolte in una sentenza della Quinta Sezione Penale della Cassazione (la sentenza Sez. 5, n. 1757 del 17/12/2020, dep. 2021, Lombardo, Rv. 280326) che, decidendo della critica mossa dalla Procura Generale della Cassazione alla pronuncia delle Sezioni Unite Cavallo del 2019 in materia di intercettazioni[13], aderendo all’impostazione delle Sezioni Unite, ha ricordato come, in uno Stato di diritto il valore della prevedibilità della giurisprudenza è “condizione essenziale della fiducia dei consociati nel sistema giudiziario”, sottolineando con forza il potere del massimo collegio di legittimità di enunciare il principio di diritto ex art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen. e la possibilità di definirne gli esatti confini, secondo un'ottica di razionalizzazione sistematica in funzione nomofilattica, sensibile alle possibili connessioni ed implicazioni anche in relazione a profili non specificamente devoluti, così che la regola enucleata possa essere esauriente e fungere da guida per orientare in maniera certa e, quindi, prevedibile, le future decisioni.[14]

    Andando poi a ricercare specificamente un modello di sentenza completa, complessa e sintetica al tempo stesso, nel ricco catalogo delle pronunce delle Sezioni Unite, ritroviamo esempi paradigmatici di come, pur dovendo risolvere una questione interpretativa controversa, ed essendo, pertanto, sicuramente connotate le decisioni da un intrinseco ed ineludibile grado di complessità, le Sezioni Unite riescano spesso ad esprimere al meglio le aspirazioni di un linguaggio motivazionale scevro da inutili orpelli, preciso ed elegante, moderno ed efficace.  

    Ma non vi è dubbio che “costa fatica lo stile laconico, dove ogni parola designi qualcosa e le frasi sfilino a maglie strette”.[15]  

    Di recente è stata evidenziata, tuttavia, una certa difficoltà diffusa della Suprema Corte ad esprimere orientamenti uniformi e stabili, ricollegandola sia all’eccessivo numero dei ricorsi, sia, con un auspicabile realismo autocritico, anche a “ragioni culturali che indeboliscono la metodologia delle decisioni di merito”[16] e, di conseguenza, incidono anche su quelle del giudice di legittimità; si sono, poi, condivisibilmente stigmatizzati quei modi di espressione del linguaggio giuridico che portano alla stesura di  sentenze “travestite” di forme dottrinarie o zeppe di divagazioni storico-giudiziarie, sovrabbondanti rispetto alla funzione della pronuncia di giustizia, tanto da tradirne la funzione ed essere dannose per la chiarezza della decisione.

    Una simile critica non si estende, ovviamente, al lavoro intellettuale che deve precedere la redazione della sentenza, che ben può e deve essere pieno di stimoli di studio, di proficui dubbi e di ampi approfondimenti, per approdare ad una decisione quanto più possibile corretta, perché “giustificata” dalla cornice normativa ed interpretativa di riferimento, attentamente e sapientemente conosciuta.

    Ma il messaggio finale che arriva dalla sentenza deve essere chiaro, diretto, intellegibile, magari complesso, se la soluzione della questione o il processo lo richiedono, giammai inutilmente complicato.

    Vanno evitate, in altre parole, le narrazioni superflue o sovrabbondanti, o con analisi giuridiche astratte, dal taglio solo speculativo, non strettamente funzionale alla risoluzione della questione sottoposta al giudice.  

    5. Gli interventi possibili

    Gli obiettivi che la Relazione programmatica del Primo Presidente pone sul fronte del rinnovamento della tecnica motivazionale delle sentenze, ispirata a sintesi e chiarezza, non sono, dunque, inediti; tuttavia, si rivelano comunque ambiziosi poiché estesi al campo della struttura argomentativa in generale.

    La potenzialità del richiamo, poi, sta proprio nel fatto di essere stato inserito in un documento progettuale, programmatico ed organizzativo.  

    Si tratta di obiettivi che sono frutto di un percorso maturato negli anni dalla Corte di cassazione unitariamente e che presuppongono un cambio di mentalità nella magistratura, un rinnovamento culturale che, tuttavia, non può partire dalle sole spinte individuali, ma deve coinvolgere le strutture organizzative degli uffici e gli organi del governo autonomo, primo tra tutti il CSM.

    Si è detto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha già preso atto dell’esigenza di fornire nuove indicazioni, soprattutto con la delibera del 20 giugno 2018, tenuto conto che la capacità di sintesi – ragionando in termini di valutazione di professionalità e secondo la circolare consiliare che regola la materia - è uno degli indicatori che compongono il parametro della “capacità” in generale. Sia nella circolare regolatrice, che nelle delibere attuative si afferma, infatti, quanto alla tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari, che, ferma restando l’assoluta libertà di decisione e di contenuto, il modello di giudice “contemporaneo” deve essere improntato all’assenza di ogni autoreferenzialità.

    Ecco che, anche in un contesto fondamentale quale è quello della verifica di professionalità dei magistrati, tornano i nuovi orizzonti ai quali deve guardare la motivazione “rinnovata”: la tecnica redazionale delle sentenze andrà apprezzata tenendo conto degli indicatori della “chiarezza, completezza espositiva e capacità di sintesi nella redazione dei provvedimenti giudiziari, in relazione ai presupposti di fatto e di diritto”, nonché della sua congruità rispetto ai problemi processuali o investigativi affrontati. Come è stato sottolineato, la sentenza trattato, dal contenuto per molta parte eccessivo e svincolato rispetto alle questioni che devono essere risolte non è una buona sentenza ai fini della valutazione di professionalità e non lo è neppure per il conseguimento delle funzioni di legittimità alle quali storicamente è legata[17].  

    Ovviamente, la complessità delle questioni da risolvere, tenuto conto anche della tipologia dei processi e della qualità/quantità dei motivi di ricorso che compongono ciascuna impugnazione, può impedire in molti casi la “brevità”, carattere che non corrisponde necessariamente alla sinteticità né è essenziale alla chiarezza, ma che deve essere senza dubbio la cifra tipizzante di quelle motivazioni di provvedimenti estremamente seriali ovvero delle sentenze della Settima Sezione Penale, deputata alla declaratoria delle inammissibilità di immediata percezione, alle condizioni normative dettate dall’art. 610 c.p.p.

    La “concisione”, d’altra parte, come è stato acutamente sottolineato[18], “non deve essere intesa in senso quantitativo” ma “in un’accezione diversa, quale dovere etico-professionale di evitare apparati motivazionali che si disperdano in dotte argomentazioni di diritto, verso le quali talora il giudice indugia assecondando una tradizione tipica di un atteggiamento culturale di stampo pseudo-accademico, in passato incentivato da un sistema legale di cooptazione dei giudici ai gradi più elevati della magistratura, fondato sulla valutazione dei titoli.

    I magistrati, pertanto, possono già da tempo contare, per indirizzare il loro lavoro al meglio, su indicazioni di normativa secondaria (presenti sin dalla prima circolare emanata successivamente alla riforma ordinamentale attuata con la legge n. 111 del 2007), che, partendo dal momento fondamentale della verifica, aprono chiaramente gli spazi ad una nuova modernità motivazionale.

    Spunti significativi, per farsi guidare culturalmente e professionalmente in questa nuova direzione, provengono anche, in special modo per i giudici di legittimità, dalla struttura dell’organizzazione tabellare della Corte di cassazione prevista per il triennio 2020 – 2022, se solo si richiama, tra gli indicatori della specifica attitudine richiesta per entrare a far parte delle Sezioni Unite, la capacità di individuare e risolvere, con chiarezza, pertinenza e sinteticità, le questioni giuridiche rilevanti ai fini della decisione e di inquadrare i singoli istituti nel sistema.[19]

    Una linea di azione concreta, poi, sembra manifestarsi recentemente da parte della dirigenza della Suprema Corte: riunioni tematiche sono state indette dal Presidente Aggiunto con delega al settore penale, per le prime settimane di luglio 2021, con tutti i magistrati di ciascuna Sezione Penale, aventi come primo punto all’ordine del giorno, la questione della motivazione dei provvedimenti giudiziari, per come sinora intesa, e le iniziative assunte in collaborazione con la formazione decentrata della Suprema Corte sul tema, anche tramite la predisposizione di un questionario apposito. Una rinnovata attenzione è stata anticipata, nelle riunioni organizzative alle quali si è fatto cenno, anche per quei provvedimenti per i quali è possibile motivare in forma “semplificata”, con la possibilità di predisporre “format” di modelli virtuosi di motivazioni brevi per la Settima Sezione Penale.

    Organizzazione, formazione, confronto delle idee tra magistrati e dirigenza della Corte - ovviamente con i Presidenti di Sezione, che fungono da indispensabile “cerniera culturale” con i consiglieri, coinvolti nel percorso virtuoso - possono provare ad innescare un nuovo modo di “pensare la sentenza” e, naturalmente, di motivarla.

    Si vuole segnalare, tuttavia, l’ulteriore prospettiva, anch’essa per nulla inedita e, anzi, molte volte al centro delle azioni del CSM e della Prima Presidenza, della quale si è già anticipata l’importanza fondamentale: la necessità di coinvolgere gli avvocati nel percorso di emersione di un nuovo linguaggio giuridico e di una rinnovata tecnica redazionale degli atti giudiziari tutti, non soltanto le decisioni dei giudici ma anche le impugnazioni e, ovviamente, per quel che qui interessa, massimamente i ricorsi.

    Anche su tale argomento la Relazione al programma di gestione 2021 ha il pregio di aver sottolineato, molto esplicitamente ed in un documento organizzativo, una base per il futuro, possibile agire: il richiamo alla necessità che l’Avvocatura partecipi pienamente a questo rinnovamento culturale è forte e l’obiettivo del coinvolgimento virtuoso deve essere perseguito mediante l’apertura al dibattito franco tra tutti gli attori del processo di legittimità, soprattutto in un sistema, quale quello italiano, in cui l’accesso alla Suprema Corte non è riservato, come in altri Paesi europei, ad una quota di avvocati altamente specializzati.  

    In una logica di complessiva tenuta del “sistema giustizia integrato”, è indispensabile ricordare all’Avvocatura i suoi doveri di contribuire alla crescita dei livelli di tutela dei diritti attraverso la riduzione dei tempi della giurisdizione, certamente negativamente incisi da atti di impugnazione composti con scarsa chiarezza e sinteticità, spesso inusitatamente ed inutilmente lunghi, con grave danno proprio della parte difesa (la trattazione prolissa indebolisce l’efficacia dell’atto, sottolinea il par. 11.2. della Relazione del Primo Presidente).

    Ben vengano, dunque, Protocolli d’intesa con Procura Generale e Avvocatura[20] per regolamentare la tecnica redazionale degli atti di impugnazione e dei ricorsi, in un’ottica non certo di controllo occhiuto ma di contributo paritario alla ricerca di nuove prospettive in vista della condivisa razionalizzazione e semplificazione delle procedure, per recuperare la centralità della dimensione del tempo - fondamentale nella vita di ciascuna persona e delle istituzioni -  e poter ritagliare nuovi spazi per fornire adeguata risposta a nuovi diritti e a nuove domande di giustizia espresse da un corpo sociale in rapida trasformazione, a ricostruire con rigore e coerenza metodologica il complesso sistema delle fonti e dei principi espressi anche a livello sovranazionale, così da restituire nuova vitalità e autorevolezza al diritto vivente (così, ancora la “Relazione”).

    E sarebbe auspicabile anche un intervento legislativo, che potrebbe tradursi nell’adozione di una norma, per il giudizio di legittimità, simile a quella contenuta nell’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo, con la quale si è cristallizzato il principio secondo cui “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Non ci si illude sulla portata precettiva di una simile previsione di ordine generale, ma, forse con un pizzico di ottimismo, sarebbe possibile immaginarla come il primo tassello, condiviso ed esplicito, di un moderno impegno di tutti gli attori del processo a perseguire l’obiettivo di un nuovo linguaggio giuridico che porti alla redazione di ricorsi snelli ed efficaci, calibrati sul sindacato consentito alla Cassazione, ed alla redazione di sentenze chiare e precise, capaci di fornire alle parti coinvolte le ragioni della decisione in modo immediatamente leggibile.  

    6. “Stereotipi e vecchi merletti”

    Non si può non toccare, alla fine di questa analisi, quello che è stato anche il suo punto di partenza, solo accennato; il punto che è stato definito come il più significativo ed innovativo della Relazione al Programma di gestione 2021[21]: il monito ad evitare l’uso di “stereotipi”, principalmente di quelli di genere, ancora presenti nel linguaggio dei provvedimenti giudiziari e la necessità di un loro superamento. Un tema, come si dirà, tutto culturale, in cui evoluzione e miglioramenti sono legati soprattutto ad un cambio di passo nel campo della formazione.

    Vale la pena ripercorrere i passaggi principali della Relazione al Programma di gestione 2021 della Cassazione, contenuti nel par. 11.4., sottolineandone l’aspetto di novità, poiché effettivamente si tratta di un tema che viene affrontato per la prima volta, in maniera così esplicita, in un documento organizzativo della Suprema Corte.

    Di indubbia importanza la premessa secondo cui lingua e pensiero formano un’endiadi i cui due termini di composizione si condizionano vicendevolmente: il linguaggio comunica e rappresenta una “visione del mondo”, ma, al tempo stesso, “ce la impone”.

    Il linguaggio, nel documento organizzativo, è concepito come un simbolo dei valori di riferimento individuali e collettivi di una società in un determinato periodo storico, che li rispecchia e contemporaneamente concorre a determinarli. Per questo, diventa “non più procrastinabile l’approfondimento sulla costruzione del ragionamento giuridico, sulle categorie da esso utilizzate,… sulla loro “permeabilità” ai cambiamenti e alle nuove sensibilità maturate nella società con specifico riferimento al tema del pregiudizio di genere e di ogni forma di discriminazione”.

    Parole chiare, che indicano la volontà di percorrere immediatamente una prospettiva di crescita su questo fronte per la magistratura tutta, prima ancora che per la Corte di cassazione, già attenta da anni al tema della scrittura “politicamente corretta” nell’uso di un linguaggio “di genere”.

    Parole che segnano il passo anche rispetto alle recenti censure ricevute dall’Italia sul punto.

    Il Rapporto GREVIO del 13 gennaio 2020, stilato il 15 novembre 2019, costituisce un documento di analisi completa sul tema dei reati “di genere” in Italia e, se da un lato prende atto di progressi compiuti dal nostro Paese nella promozione dei diritti delle donne, contiene una parte dedicata ad esprimere la preoccupazione per una riemergente tendenza a reinterpretare ed incentrare le politiche di uguaglianza di genere in ter­mini di politiche riguardanti la famiglia e la maternità[22], individuando il persistere in Italia di stereotipi di genere negativi – frutto certamente, possiamo dire, di retaggi vecchi e inattuali, tuttavia ancora sedimentati nel tessuto sociale - e segnalando criticità interpretative riferite proprio al processo e ad i suoi attori[23].

    Una particolare attenzione il Rapporto dedica alla necessità, dunque, di sensibilizzare ed educare la società, attraverso anzitutto la formazione specifica delle figure professionali operative sul tema della violenza di genere e contro le donne – anzitutto forze di polizia e magistratura – ed inoltre interventi programmatici dedicati, in ogni ambito, finalizzati a promuovere un cambiamento degli schemi di comportamento sociali e culturali sessisti, basati sull’idea dell’inferiorità delle donne.

    Si è già avuto modo di sottolineare[24], per questo, come ciò che si chiede è un cambiamento anzitutto culturale nell’approccio alla vio­lenza di genere e, si aggiunge, la piena libertà da pregiudizi; un cambiamento che deve essere il presupposto per evitare anche (nuove) cadute in punto di lessico giudiziario.

    Recente l’eco di un inciampo, accompagnato da molto clamore mediatico, della giustizia penale sul tema.

    Ci si riferisce alla sentenza della Corte EDU J.L. c. Italia del 27 maggio 2021, decisione con la quale la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a seguito dell’emissione, da parte della Corte d’Appello di Firenze, di una sentenza di assoluzione di taluni imputati da un’accusa di stupro di gruppo[25].

    Il cuore della critica dei giudici europei (che invece non rilevano violazioni nella conduzione del processo) si rivolge proprio al tenore della motivazione della sentenza d’appello, ai passaggi dedicati a particolari intimi e personalissimi della vita della persona che aveva denunciato, valutati come superflui, privi di effettivo rilievo rispetto allo scopo di sostenere la decisione e finanche specchio di un “pregiudizio” negativo su specifici atteggiamenti sessuali della donna.[26]  

    Secondo la Corte EDU la credibilità della vittima era stata già “smontata” sulla base di numerose altre condizioni oggettive agli atti, sicchè i tratti argomentativi stigmatizzati erano inutili e costituiscono una violazione dell’art. 8 CEDU, un’ingiustificata interferenza nella sua sfera privata, una inaccettabile “vittimizzazione secondaria”, attraverso l’utilizzo di un linguaggio “culpabilisants et moralisateurs propres à décourager la confiance des victimes dans la justice.

    Richiamando il Rapporto GREVIO, valutando positivamente anche il quadro normativo italiano sulla questione, i giudici di Strasburgo sembrano puntare il dito proprio sulla mancata evoluzione culturale della società italiana, leggibile anche attraverso la riproduzione di stereotipi nelle decisioni giudiziarie.

    Ebbene, al netto delle enfatizzazioni critiche alla sentenza d’appello fiorentina nei commenti che si sono moltiplicati sulla pronuncia della Corte EDU, non vi è dubbio che la vicenda appare paradigmatica dell’urgente necessità di rivedere le modalità di redazione delle motivazioni giudiziarie, nel senso di  ricercare quella sintesi e chiarezza, capisaldi della sentenza “contemporanea” con la conseguente eliminazione dei passaggi superflui, inutili, che nulla aggiungono ad una valutazione già pienamente spiegata ovvero alla ratio decidendi. Probabilmente, applicando il famoso criterio di derivazione architettonica less is more, la motivazione dei giudici fiorentini avrebbe potuto evitare alcuni più criticati passaggi.  

    Vi è da dire, sul tema specifico focalizzato dalla sentenza J.L. c. Italia, che la Cassazione ha spesso ammonito circa il fatto che i costumi sessuali della vittima di reati sessuali sono ininfluenti sulla sua credibilità e non possono costituire argomento di prova per l'esistenza, reale o putativa, del suo consenso (Cass. Sez. 3, n. 46464 del 9/6/2017, F, Rv. 271124).

    Nondimeno, deve essere ricordato (e in tal senso si muove la giurisprudenza richiamata) che lo stesso legislatore ha previsto, all’art. 472, comma 3-bis, c.p.p., l’inammissibilità di domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se esse non sono necessarie alla ricostruzione del fatto, a contrario ammettendole qualora siano indispensabile all’accertamento giudiziale sulla responsabilità dell’imputato.

    Il problema, pertanto, è ancora una volta quello di ricercare un delicato equilibrio tra le esigenze contrapposte di vittima e accusato, e naturalmente si propone soprattutto in relazione alle modalità di redazione delle sentenze di merito, nelle quali “vive” concretamente l’indubbia esigenza, propria del processo penale, di verificare credibilità ed attendibilità della vittima che sia anche persona offesa, ancor più se costituita parte civile[27], determinando la possibilità di riferimenti alle sue condizioni soggettive ed a particolari di fatto emersi nell’istruttoria dibattimentale.  

    Rimane, tuttavia, la questione presupposta, e fondamentale, della necessità di sradicare stereotipi e pregiudizi dal linguaggio dei provvedimenti giudiziari, siano quelli di genere[28] o quelli legati alla provenienza sociale o, peggio ancora, all’appartenenza a gruppi di origine colpiti tuttora da clichè negativi di derivazione “etnica” (Rom, Sinti, “migranti” in genere), spesso frutto di semplici disattenzioni lessicali o solo di poca sensibilità alle “parole,[29] ma che propongono, invece, un’immagine culturale della magistratura non all’altezza di promuovere sempre al meglio quei valori di eguaglianza contenuti nella Costituzione.

    Il problema del lessico contenente stereotipi è così ampio che un’esemplificazione delle molteplici sfaccettature, alle quali si potrebbero riferire altrettanti esempi negativi o positivi, non ne esaurirebbe neppure le diverse categorie concettuali.

    Lo stresso legame tra stereotipo e pregiudizio (che del primo costituisce il momento valutativo), poi, si colora di significati differenti secondo l’ambito applicativo.  

    Il richiamo del documento programmatico del Primo Presidente, dunque, deve essere letto, prima ancora che come una preoccupazione organizzativa per la “qualità” del prodotto giurisdizionale, come un appello ai valori profondi che devono guidare il giudice e tutti i giuristi nella scelta del loro linguaggio, mai “neutro” perché destinato ad incidere pur sempre, con diversità di accenti, più o meno rilevanti e drammatici, sulla vita individuale di coloro i quali sono coinvolti nel processo.

           

    [1] Dal capitolo Cominciare e finire, che avrebbe dovuto rappresentare la lezione introduttiva del ciclo che Calvino scrisse quasi del tutto, ma non riuscì mai a compiere all’Università di Harvard, per l’improvvisa morte.  

    [2] Per un saggio ricognitivo anche di molte esemplificazioni interessanti, M.V. Dell’Anna, In nome del popolo italiano. Linguaggio giuridico e lingua della sentenza in Italia, Cesati, 2017 ed anche N. Triggiani, “In nome del popolo italiano? Spunti di riflessione sul linguaggio della sentenza penale, in Diritto Penale Contemporaneo, Rivista online, 4 novembre 2016: l’Autore compie anche un utile percorso storico sull’abitudine all’eccesso verbale dei giuristi (citando Cordero) e offre una ricca biografia di approfondimento sulle numerose implicazioni della questione relativa al linguaggio delle sentenze.  

    [3] I decreti sono stati emanati dal Presidente Canzio.  

    [4] Le Sezioni Unite civili e penali della Corte di cassazione (con le sentenze Sez. U Civili n. 642/2015 e n. 964/2017, nonchè Sez. U Penali, n. 40516/2016, par. 9) hanno sancito che i doveri di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti costituiscono principi generali del diritto processuale.  

    [5] I dati sono tratti dall’analisi statistica riportata nel programma di gestione del Primo Presidente per l’anno 2021, riferita al periodo dal 2016 al 2020.  

    [6] Così A. Caputo, Giudizio penale di legittimità e vizio di motivazione, Giuffrè, 2021. Sulla funzione extraprocessuale ed endoprocessuale della motivazione della sentenza penale cfr., tra gli altri, E. Amodio, Motivazione della sentenza penale, in Enc. Dir. Vo. XXVII, Giuffrè, 1977. In generale, per il dibattito sui contenuti della sentenza, in particolare di quella penale cui si rivolge principalmente la presente riflessione, cfr. G. Della Monica, Contributo allo studio della motivazione, Padova, 2002; M. Menna, La motivazione del giudizio penale, Napoli, 2000¸ M. Vogliotti, La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chiavario ed E. Marzaduri, Atti del procedimento penale. Forma e struttura, coordinato da E. Marzaduri, Torino, 1996.     

    [7] Per un approfondimento recente, sia consentito il richiamo a M. Brancaccio-V. Manes-L.Pistorelli, Il giudice Interprete o legislatore? Matilde Brancaccio intervista Vittorio Manes e Luca Pistorelli, in questa Rivista, 13 gennaio 2021, nonché in Cassazione Penale n. 4/2021, p.1153 e ss.; nonchè a: A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017; M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, 2018; F. Palazzo, Legalità fra law in the books e law in action, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017.  

    [8] Per un’analisi della valenza della nuova norma, si rimanda, per tutti, a G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018; nonché a G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione, in Dir. Pen. Cont., 4 febbraio 2019.

    Quanto all’ambito di operatività della nuova disposizione prevista dall’art. 618, comma 1 bis, c.p.p., le Sezioni Unite hanno immediatamente chiarito come essa introduca, al fine di rafforzare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, un'ipotesi di rimessione obbligatoria alle sezioni unite, che trova applicazione anche con riferimento alle decisioni intervenute precedentemente all'entrata in vigore della nuova disposizione: così Sez. U, n. 36072 del 19/4/2018, Botticelli, Rv. 273549.  

    [9] La “certezza del diritto” dei nostri tempi, naturalmente, non è quella fideisticamente presupposta dalle dottrine giuridiche del Settecento o dell’Ottocento, bensì un’aspirazione a governare la complessità della molteplicità delle fonti “creatrici” del diritto vivente.  

    [10] Sul concetto di “prevedibilità” e le sue criticità, anche nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si richiama la motivazione della sentenza delle Sezioni Unite Penali, Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054, un esempio di chiarezza argomentativa che fa luce su una questione senza dubbio con plurimi spunti di complessità.  

    [11] In questa direzione sembrano muoversi anche i commenti della classe forense alla nuova cultura del precedente dalla vincolatività soft, creato con l’introduzione dell’art. 618-bis c.p.; così C. Intrieri, Il principio di legalità, l’efficienza dell’amministrazione e il diritto di difesa: l’avvocato e la gestione della giustizia, in questa Rivista, 2 luglio 2021.  

    [12] Così, ancora, M. Brancaccio-V. Manes-L.Pistorelli, op. cit  

    [13] Si tratta della sentenza delle Sezioni Unite Penali Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395.  

    [14] La sentenza - commentata, in Diritto Penale e Processo, fasc. 5/2021, da A. Innocenti ed in Sistema Penale, 27.1.2021, da D. Albanese - è utile anche a comprendere come la sintesi possa costituire un volano alla chiarezza delle affermazioni, anche quando le questioni sono particolarmente complesse.  

    [15]  Così, F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Milano, 2012, p. 1015, il quale osserva ancora criticamente come le “massime” della Cassazione generino un enorme circuito letterario, “comodo” al “discorso ornato e relativa bella figura” e possibilità di comporre senza limiti sempre nuove motivazioni.  

    [16] La lucida analisi si ritrova in A. Costanzo, Deontologia ermeneutica e cenni sull’associazionismo giudiziario, in questa Rivista, 19 aprile 2021.  

    [17] In tal senso, P. Serrao d’Aquino, Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte seconda, in questa Rivista, 23.9.2020.  

    [18] F. RIGO, La sentenza, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. 4, tomo 2, Giudizio. Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, a cura di G. SPANGHER, Torino, 2009, p. 695; l’Autore sottolinea come l’estensione della motivazione della sentenza dipenda caso per caso dalla complessità della fattispecie processuale, dall’ampiezza dell’istruzione dibattimentale, dalla quantità degli elementi di prova dedotti dalle parti e delle questioni, in fatto e in diritto, che il giudice è chiamato a risolvere.  

    [19] In tal senso si esprime il par. 22.5 nell’ambito del punto dedicato ai Criteri per l’assegnazione alle Sezioni Unite Civili e Penali. Del resto, la precedente previsione tabellare, valida per il triennio 2017-2019, prescriveva, nell’analogo par. 19, che l’attitudine a comporre le Sezioni Unite dovesse ricavarsi anche dalla qualità delle motivazioni redatte, con particolare riferimento alla chiarezza, alla concisione ed alla forza degli argomenti.  

    [20] Lo scetticismo che accompagna spesso la reale utilità dei Protocolli è legato, soprattutto, alla loro valenza prevalentemente di moral suasion, si tratta di indicazioni di soft law che necessitano, per il loro successo, di una condivisione profonda da parte delle componenti che sottoscrivono il Protocollo e che funzionano solo se si mette in moto un meccanismo virtuoso di reciproca crescita culturale.  

    [21] In tal senso si orienta M. Dell’Utri, nel suo lavoro, ricco di riferimenti biografici per approfondire il tema specifico degli stereotipi e dei pregiudizi “di genere”, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, pubblicato su questa Rivista il 16 giugno 2021. Dello stesso Autore, vedi anche Lessico di genere, intervista a S. Governatori, M.R. Marella, E. Resta, C. Robustelli, J. Visconti, in questa Rivista 20 gennaio 2020.

    In generale, deve concordarsi sulla considerazione che rappresentano tuttora scritti tra i più rilevanti, per i contenuti del concetto di “stereotype” socio-psicologico, introdotto da Lippmann nel 1922, la sua opera W. Lippmann, Public Opinion, New York, 1922, e, per gli stereotipi giuridici, la pubblicazione di Rebecca Cook e Simone Cusack, Gender Stereotyping: Transnational Legal Perspectives (Philadelphia, 2010), in cui si conia la seguente nozione di gender stereotypes: tutte le costruzioni sociali e culturali che distinguono uomini e donne sulla base di criteri fisici, biologici, sessuali e delle loro funzioni sociali.  

    [22] Un accenno va fatto, in proposito, al disegno di legge Pillon (DDL 735/2018), aspramente criticato sia a livello politico che in dottrina, nonché al tema della Sindrome da Alienazione Parentale, meglio nota come PAS, la cui applicazione nelle cause civili di separazione e divorzio, in tema di affidamento dei minori, è stata più volte stigmatizzata dalla Cassazione – da ultimo nella sentenza Cass. civ. n. 1321 del 17 maggio 2021, con commento di A. Enrichens, Sindrome di alienazione parentale, vittimizzazione secondaria e stereotipi di genere nel processo, in Questione Giustizia del 11 giugno 2021.  

    [23] Il GREVIO è un organismo indipendente di controllo, con il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, composto da un Gruppo di esperti ed esperte.

    Per un’analisi più approfondita e generale dell’interessante documento, si rimanda a M. Brancaccio, Atti persecutori (profili sostanziali), in Diritto penale della famiglia, a cura di G. Fidelbo, Giappichelli, 2021, p. 657 e ss. e, più specificamente sul tema delle criticità nel processo, a M. Dell’Utri, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, op. cit., par. 5.    

    [24] M. Brancaccio, Atti persecutori, op. cit. p. 663  

    [25] Per una rapida ed approfondita analisi della sentenza della Corte EDU e di alcune pronunce della giurisprudenza italiana in tema, cfr. ancora M. Dell’Utri, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, op. cit.; cfr. anche R. Sanlorenzo La vittima ed il suo Giudice, in Questione Giustizia del 2 giugno 2021.  

    [26] Tra i particolari “inutili” e “dannosi” secondo la Corte EDU: gli indumenti intimi di colore rosso indossati dalla ragazza, la sua bisessualità, i rapporti sessuali occasionali da lei intrattenuti con alcuni coetanei, la scelta di prendere parte a un cortometraggio nel quale impersonava una prostituta vittima di violenza sessuale; tra i “pregiudizi” riferiti al suo stile di vita: la definizione del suo orientamento sessuale  come «ambiguo» e la definizione della sua condotta di vita precedente alla scelta di denunciare come «non lineare».  

    [27] Esigenza scolpita, oramai, dall’arresto indiscusso di Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte, Rv. 253214, che ha sancito le condizioni di equilibrio tra la necessità di tutela della vittima di un reato che denunci e quelle di garanzia processuale dell’imputato, evidenziando la necessità di un’attenzione massima da parte del giudice nella valutazione delle dichiarazioni del teste “interessato”, pur senza che si ricorra al canone dei “riscontri” ex art. 192, comma 3, c.p.p.  

    [28] Può essere letta in un’ottica “di genere” la questione della considerazione della gelosia uomo-donna, se sussumibile o meno, ed a quali condizioni, nell’aggravante dei futili motivi. In proposito, Sez. 5, n. 44319 del 21/5/2019, M., Rv. 276962 ha auspicato il superamento di logiche interpretative, frutto di retaggi culturali e pregiudizi, sulla base delle quali la gelosia veniva considerata ragione e movente dell’agire, incompatibile con l’aggravante dei futili motivi poiché manifestazione di uno stato passionale frequentemente alla base di delitti (Sez. 1, n. 1574 del 1/12/1969, dep. 1970, Portelli, Rv. 114590), quasi fosse questa una “giustificazione” comprensibile della determinazione delittuosa.  

    [29] Viene da citare, in proposito, Michele Apicella, il protagonista del film Palombella Rossa, che Nanni Moretti rende autore del celebrato monologo sull’importanza delle parole: “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti” ammonisce il regista.     

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